L’assurda vicenda giudiziaria di Giulio Petrilli morto questa notte a L’Aquila

Giulio Petrilli ci ha lasciato prematuramente questo notte a causa di una embolia polmonare. Ricoverato d’urgenza non ce l’ha fatta. Corpo possente da vero rugbista lo ricordiamo per la sua incredibile umanità, per la generosià debordante. Nonostante l’assoluzione finale, i sei anni di detenzione trascorsi nelle carceri speciali con l’accusa di partecipazione a banda armata l’avevano segnato. In prigione, nel 1984, era stato anche duramente picchiato dalla polizia penitenziaria dopo una fermata all’aria di protesta fatta con si suoi compagni per denunciare le condizioni di detenzione. Una volta uscito aveva speso tutte le sue energie nelle battaglie contro il carcere, la detenzione politica e per l’amministia, contro la cultura politica giustizialista che imperversava e imperversa in quel po’ che resta della sinistra, contro il populismo penale, pagando anche di persona, affrontando polemiche velenose e attacchi personali. Si è battuto fino all’ultimo contro il 41 bis, restando vicino e conducendo visite ispettive all’interno di queste sezioni speciali. Viveva come un tormento personale la reclusione di questi militanti, le loro condizioni di isolamento. Partendo dalla sua esperienza personale raccontata nell’articolo qui sotto, scritto il 3 ottobre del 2012, Giulio aveva avviato una lotta senza quartiere contro l’ingiusta detenzione. Nonostate l’assoluzione i giudici avevano rifiutato di risarcirgli i sei anni trascorsi nelle carceri speciali perché – avevano spiegato – il loro errore iniziale era stato indotto dalla sue pessime frequentazioni. Vicenda kafkiana che aveva acceso in lui un fuoco inesauribile che lo spingeva a battersi contro ogni forma di reclusione, di internamento, contro l’esilio, ma che al tempo stesso lo bruciava consumandolo. Ho conosciuto Giulio sulle strade intorno a L’Aquila quando mi recavo in Abruzzo durante i miei primi permessi. Ricordo la volta, poco dopo il terremoto, in cui mi portò nella zona rossa per farmi conoscere le ferite terribili inferte a quella città. E poi le tante telefonate, le discussioni, la sua voglia continua di riaprire battaglie come quella sull’amnistia. Giulio non si arrendeva mai. Ciao Giulio!

Dalla filosofia del diritto alla teologia giudiziaria. L’istituto del risarcimento per ingiusta detenzione è disatteso nella gran parte dei casi da una magistratura aggrappata al dogma della propria infallibilità

di Paolo Persichetti
3 ottobre 2012

Soltanto un terzo delle richieste di risarcimento per ingiusta detenzione trovano soddisfazione. E’ quanto emerge dagli ultimi dati forniti dall’Eurispes e dall’Unione delle camere penali italiane. Su una media di 2500 domande annuali (nel 2011 ne sono state presentate 2369) appena 800 vengono accolte. Il motivo è semplice e al tempo stesso sconcertante: l’Italia è l’unico paese in Europa dove l’istituto della riparazione per ingiusta detenzione è regolato da una clausola, inserita nel comma 1 dell’articolo 314 cpp, che esclude il risarcimento nei casi in cui il ricorrente «abbia dato o concorso a darvi causa per dolo o colpa grave».
Secondo la norma per avere diritto al risarcimento non è sufficiente avere dalla propria parte una sentenza d’assoluzione irrevocabile, secondo una delle formule previste dal codice: il fatto non sussiste, oppure non è stato commesso o non costituisce reato o non è previsto dalla legge come tale. Non basta nemmeno che la giustizia abbia riconosciuto l’illegittimità della misura cautelare.
Chi ha ingiustamente subito il carcere deve dimostrare di non aver tenuto un comportamento tale da aver tratto in inganno i magistrati con atteggiamenti omissivi o perché non si è avvalso delle funzioni difensive, che pure restano un diritto fondamentale della persona sottoposta a indagini o imputata, ma anche sotto il profilo delle proprie frequentazioni.
Ciò vuol dire che le sentenze assolutorie non sono valutate come tali ma sottoposte ad un nuovo processo che conduce ad esaminare e giudicare sotto il profilo morale la personalità di chi è stato assolto, introducendo un criterio discriminatorio che inanella una serie impressionante di violazioni: dal ne bis in idem, all’invenzione di una sorta di quarto grado di giudizio capace di resuscitare la colpa al di là di ogni assoluzione fino all’inversione dell’onere della prova.
Nel giugno scorso, la quinta sezione penale della corte d’appello di Milano ha rigettato l’istanza di risarcimento per ingiusta detenzione di una persona assolta in via definitiva dopo aver trascorso 6 anni nelle carceri speciali, sostenendo che «nessun diritto alla riparazione spetta a chi, frequentando terroristi, o comunque soggetti appartenenti all’antagonismo politico illegale, abbia colposamente creato l’apparenza di una situazione che non poteva procurare l’intervento dell’Autorità giudiziaria. Poco importa, ai fini che qui interessano, l’esito del giudizio penale. Occorre distinguere – prosegue il collegio – l’operazione logica compiuta dal giudice del processo penale da quella, diversa, del giudice della riparazione. La reciproca autonomia dei due giudizi comporta che una medesima condotta possa essere considerata, dal giudice della riparazione come contributo idoneo ad integrare la causa ostativa del riconoscimento del diritto alla riparazione e, dal giudice del processo penale, elemento non sufficiente ad affermare la responsabilità penale».
I magistrati hanno teorizzato un doppio criterio di giudizio: il primo sottoposto alle vigenti leggi processuali; il secondo che riabilita la colpa tipologica è non si cura degli effetti legali dell’assoluzione, che seppure elimina la colpa mantiene il sospetto e soprattutto conserva la responsabilità. Siamo di fronte ad un perenne “diritto del nemico” che trasforma in un accessorio a geometria variabile la presunzione d’innocenza recepita dall’art. 27 della costituzione.
Chi viene assolto per reati avvenuti in luoghi dove è presente la criminalità organizzata, diventa responsabile del fatto di aver frequentato contesti che brulicano di pregiudicati; chi è assolto da reati di eversione, se ha frequentato luoghi di conflitto, recepito culture antagoniste, anticonformiste e irregolari secondo la norma politico-morale dominante, è ritenuto responsabile di una corrività ambientale che ha indotto la coscienza del giudice a sbagliare. E’ una colpa di natura etico-morale quella che qui viene scovata e sanzionata con il mancato risarcimento.
Non sfugge che attraverso questo dogma dell’infallibilità assoluta del giudice, come fu per il concilio Vaticano I° che nel 1870 introdusse l’infallibilità ex cathedra del pontefice, si opera il passaggio dalla filosofia del diritto alla teologia giudiziaria. Un’arrogante pretesa che spiega l’errore ricorrendo all’alibi della “colpa apparente”, giustificata non da una cattiva valutazione degli elementi probabotori a carico o discarico ma dalla doppiezza e dall’ambiguità della persona sottoposta a indagine o giudizio, alla stregua del maligno che con le sue arti malefiche confonde e trae il mondo in inganno.
Sarebbe tempo di riportare la giustizia dalle sfere della santità celeste ad una più terrestre dimensione profana.

Sequestro Moro, dopo 44 anni continua ancora la caccia ai fantasmi

Pochi sanno che per il sequestro e l’esecuzione di Aldo Moro e dei cinque uomini della scorta sono state condannate 27 persone. La martellante propaganda complottista sulla permanenza di «misteri», «zone oscure», «verità negate», «patti di omertà», ha offuscato questo dato. Il sistema giudiziario ha concluso ben 5 inchieste e condotto a sentenza definitiva 4 processi. Oggi sappiamo, grazie alla critica storica, che solo 16 di queste 27 persone erano realmente coinvolte, a vario titolo, nel sequestro. Una fu assolta, perché all’epoca dei giudizi mancarono le conferme della sua partecipazione, ma venne comunque condannata all’ergastolo per altri fatti. Tutte le altre, ben 11 persone, non hanno partecipato né sapevano del sequestro. Due di loro addirittura non hanno mai messo piede a Roma. Il grosso delle condanne giunse nel primo processo Moro che riuniva le inchieste «Moro uno e bis». In Corte d’assise, il 24 gennaio 1983, il presidente Severino Santiapichi tra i 32 ergastoli pronunciati comminò 23 condanne per il coinvolgimento diretto nel rapimento Moro. Sanzioni confermate dalla Cassazione il 14 novembre 1985. Il 12 ottobre 1988 si concluse il secondo maxiprocesso alla colonna romana, denominato «Moro ter», con 153 condanne complessive, per un totale di 26 ergastoli, 1800 anni di reclusione e 20 assoluzioni. Il giudizio riguardava le azioni realizzate dal 1977 al 1982. Fu in questa circostanza che venne inflitta la ventiquattresima condanna per la partecipazione al sequestro, pronunciata contro Alessio Casimirri: sanzione confermata in via definitiva dalla Cassazione nel maggio del 1993. Le ultime tre condanne furono attribuite nel «Moro quater» (dicembre 1994, confermata dalla Cassazione nel 1997), dove vennero affrontate alcune vicende minori stralciate dal «Moro ter» e la partecipazione di Alvaro Loiacono all’azione di via Fani, e nel «Moro quinques», il cui iter si concluse nel 1999 con la condanna di Germano Maccari, che aveva gestito la prigione di Moro, e Raimondo Etro che aveva partecipato alle verifiche iniziali sulle abitudini del leader democristiano.Tra i 15 condannati che ebbero un ruolo nella vicenda – accertato anche storicamente – c’erano i 4 membri dell’Esecutivo nazionale che aveva gestito politicamente l’intera operazione: Mario Moretti, Franco Bonisoli, Lauro Azzolini e Rocco Micaletto; i primi due presenti in via Fani il 16 marzo. Furono poi condannati i membri dell’intero Esecutivo della colonna romana e la brigata che si occupava di colpire i settori della cosiddetta «controrivoluzione» (apparati dello Stato, obiettivi economici e politico-istituzionali): Prospero Gallinari, Barbara Balzerani, Bruno Seghetti, Valerio Morucci, tutti presenti in via Fani. Gallinari era anche nella base di via Montalcini. Adriana Faranda, che aveva preso parte alla fase organizzativa e il già citato Raimono Etro, che dopo un coinvolgimento iniziale venne estromesso. C’erano poi Raffaele Fiore, membro del Fronte logistico nazionale, sceso da Torino a dar man forte, Alessio Casimirri e Alvaro Loiacono, due irregolari (non clandestini) che parteciparono all’azione con un ruolo di copertura e Anna Laura Braghetti, prestanome dell’appartamento di via Montalcini. Era presente anche Rita Algranati, la ragazza col mazzo di fiori che si allontanò appena avvistato il convoglio di Moro e sfuggì alla condanna per il ruolo defilato avuto nell’azione.Tra gli 11 che non parteciparono al sequestro, ma furono comunque condannati, c’erano i membri della brigata universitaria: Antonio Savasta, Caterina Piunti, Emilia Libèra, Massimo Cianfanelli e Teodoro Spadaccini. I cinque avevano partecipato alla prima «inchiesta perlustrativa» condotta all’interno dell’università dove Moro insegnava. Appena i dirigenti della colonna si resero conto che non era pensabile agire all’interno dell’ateneo, i membri della brigata furono estromessi dal seguito della vicenda. La preparazione del sequestro subì ulteriori passaggi prima di prendere forma e divenire esecutiva. In altri processi la partecipazione all‘attività informativa su potenziali obiettivi, quando non era direttamente collegata alla fase esecutiva, veniva ritenuta un’attività che comprovava responsabilità organizzative all’interno del reato associativo, nel processo Moro venne invece ritenuta un forma di complicità morale nel sequestro. Furono condannati anche Enrico Triaca, Gabriella Mariani e Antonio Marini, membri della brigata che si occupava della propaganda e che gestiva la tipografia di via Pio Foà e la base di via Palombini, dove era stata battuta a macchina e stampata la risoluzione strategica del febbraio 1978. Tutti e tre all’oscuro del progetto di sequestro. Furono condannati anche due membri della brigata logistica della capitale, Francesco Piccioni e Giulio Cacciotti: il primo aveva preso parte, nel mese di aprile 1978, a un’azione dimostrativa contro la caserma Talamo da dove era fuggito insieme agli altri tre suoi compagni, con la Renault 4 rosso amaranto che il 9 maggio venne ritrovata in via Caetani con il cadavere di Moro nel bagagliaio. Gli ultimi due condannati furono Luca Nicolotti e Cristoforo Piancone, membri della colonna torinese mai scesi a Roma ma coinvolti – secondo le sentenze – perché avevano funzioni apicali in strutture nazionali delle Br, come il Fronte delle controrivoluzione.
Tra i 27 condannati, 25 furono ritenuti colpevoli anche del tentato omicidio dell’ingegner Alessandro Marini, il testimone di via Fani che dichiarò di essere stato raggiunto da colpi di arma da fuoco sparati da due motociclisti a bordo di una Honda. Spari che avrebbero distrutto il parabrezza del suo motorino. Marini ha cambiato versione per 12 volte nel corso delle inchieste e dei processi. Studi storici hanno recentemente accertato che ha sempre dichiarato il falso. In un verbale del 1994 – da me ritrovato negli archivi – ammetteva che il parabrezza si era rotto a causa di una caduta del motorino nei giorni precedenti il 16 marzo. La polizia scientifica ha recentemente confermato che non sono mai stati esplosi colpi verso Marini. Queste nuove acquisizioni storiche non hanno tuttavia spinto la giustizia ad avviare le procedure per una correzione della sentenza. Al contrario in Procura sono attualmente aperti nuovi filoni d’indagine, ereditati dalle attività della Commissione parlamentare d’inchiesta presieduta da Fioroni, per identificare altre persone che avrebbero preso parte al sequestro: i due fantomatici motociclisti, un ipotetico passeggero seduto accanto a Moretti nella Fiat 128 giardinetta che bloccò il convoglio di Moro all’incrocio con via Stresa, eventuali prestanome affittuari di garage o appartamenti situati nella zona dove vennero abbandonate le tre macchine utilizzate dai brigatisti in via Fani. Si cercano ancora 4, forse 5, colpevoli cui attribuire altri ergastoli. Non contenta di aver condannato 11 persone estranee al sequestro, la giustizia prosegue la sua caccia ai fantasmi di un passato che non passa.

Da dove ripartire… c’è bisogno di un movimento antipenale

La Costituzione italiana è stata scritta da fior fior di pregiudicati,
ex galeotti, ex latitanti ed ex sorvegliati speciali con tanto di confino.
Tra questi pregiudicati si contano ben due presidenti della Repubblica

 

L’estenuante richiamo al principio di legalità presente nel dibattito pubblico impone un bilancio ed una decostruzione del concetto. Da tangentopoli in poi, oltre a non aver impedito ma in qualche modo favorito l’ascesa del berlusconismo, la legalità è servita da legittimazione al passaggio brutale dallo stato sociale a quello penale. I suoi effetti nel campo politico-giudiziario sono stati gli stessi dell’ultraliberismo in materia economico-sociale: un contesto dove i forti sono diventati ancora più forti e i deboli più fragili. Cominciamo col dire che la violazione della legalità in determinati contesti storico-politici oltre ad essere un dovere, rappresenta un valore, una prassi da apprendere. Le lotte sociali e politiche, per esempio, hanno sempre marciato su un crinale sottile che anticipa legalità future e dunque impatta quelle presenti. La legalità è la risultante degli attriti tra costituzione legale e costituzione materiale, tra le fissità e i ritardi della prima e l’instabilità e il movimento della seconda. Non a caso quando ancora i regimi politici attuali non si percepivano come la «fine della storia», ed il conflitto era percepito come un fattore fisiologico con cui governi e le società in qualche modo dovevano misurarsi, le amnistie erano ritenute strumenti della politica penale necessari ad aggiornare i livelli di giuridicità: quella normale discordanza di tempi presente in ogni mutamento effettivo o tentato. Ragion per cui, sul versante opposto, le organizzazioni del movimento operaio, i movimenti sociali e i gruppi rivoluzionari hanno sempre fatto ricorso alla rivendicazione di amnistie per tutelare le proprie lotte, salvaguardare i propri militanti e le proprie componenti sociali salvaguardando la loro capacità di riprodurle in futuro.
Questa concezione storicamente relativa della legalità è andata persa negli ultimi decenni a vantaggio di una sua sacralizzazione che l’ha eletta a feticcio di una modello di giustizia e statualità profondamente ipocrita, ingiusto e spietato con gli ultimi.
Se vogliamo cominciare a capovolgere questa situazione è arrivato il momento di mettere in campo un movimento antipenale.

Il carattere esemplare dell’abolizione del 41 bis
Partiamo da un punto che recentemente è stato oggetto di accese discussioni: l’abolizione del 41 bis, ferro di lancia del pacchetto giustizia presente nel programma elettorale di una formazione politica, “Potere al popolo”, insieme all’abolizione dell’ergastolo, all’amnistia e indulto per i reati sociali e il sovraffollamento delle carceri, la radicale riforma del codice Rocco, l’abolizione della legislazione speciale e dei Daspo urbani (per una visone completa leggi il punto 15 del programma).
Formula, la cui nitidezza – va ricordato per completezza d’informazione – è stata attenuata nel corso della campagna elettorale con una postilla che prevede «al suo posto misure di controllo, per i reati di stampo mafioso, allo stesso tempo efficaci ed umane, che non permettano la continuità di rapporto con l’esterno». Una rettifica che spiega le molte difficoltà, reticenze e resistenze presenti nella cultura politica diffusa tra dirigenti, militanti, simpatizzanti e potenziali elettori della sinistra, per altro spesso ignari del fatto che il sistema carcerario prevede già, in automatico, regimi differenziali ristrettivi di Alta sicurezza per i reati di criminalità organizzata.
Il 41 bis, l’ergastolo, le norme ostative contenute nell’ordinamento penitenziario, che vanno ad aggiungersi alla vecchia legislazione speciale varata alla fine degli anni 70 e prima metà degli 80, sono un combinato disposto che serve a tenere in piedi un modello giudiziario e carcerario d’emergenza. O si ha il coraggio di prendere di petto questo dispositivo multiplo, senza se e senza ma, per farlo saltare e riaprire una nuova stagione, con tutte le implicazioni che ciò comporta a livello di cultura politica, di critica dell’ideologia malsana della legalità, del populismo penale, dell’emergenza giudiziaria, penitenziaria e poliziesca, oppure la partita nemmeno inizia. Questo deve essere chiaro. Non ci sono mezze misure.
Bisogna spiegare con chiarezza alcune verità: il 41 bis non serve a interrompere la comunicazione con l’esterno delle élites mafiose. I suoi compiti principali sono altri: legittimare la funzione del carcere come strumento per estorcere informazioni o indurre a comportamenti di abiura. La formulazione finale adottata nel 2003 stabilisce questo: se ne esce solo se si da prova di una totale acquiescenza con i voleri delle autorità, non certo se si dimostra che non sussistono più rischi di legami con l’esterno. Circostanza, quest’ultima, che ormai non è più demandata all’autorità giudiziaria proponente la misura restrittiva ma, con un paradossale capovolgimento dell’onere della prova, al detenuto ricorrente. Inevitabilmente questa filosofia ricade sull’intero sistema penitenziario, ispirando inevitabilmente tutti gli altri regimi detentivi, come la presenza dell’ergastolo serve da parametro per l’erogazione delle altre pene.
Altra funzione secondaria è quella di pena di morte differita, utilizzata come vendetta privata voluta dalla corporazione giudiziaria contro gli autori non collaboranti degli omicidi di Falcone e Borsellino.

Il mito dell’azione penale e la deriva giustizialista
La crisi terminale della sinistra italiana nasce, tra l’altro, dalla incapacità di ripensare il decennio 90 del secolo scorso (che a sua volta mette radici in quel che accadde negli anni 70, e nel modo in cui si conclusero). Eppure l’intera fisionomia di quel poco che resta della sinistra di oggi nasce da lì, da come il Pci reagì alla caduta del muro cambiando nome e dal quel che accadde subito dopo.
Merita di esser indagata meglio questa significativa rimozione perché gli anni 90 hanno forgiato in buona misura l’identità della sinistra attuale, nelle sue differenti versioni: riformista, radicale, antagonista, di classe, per usare definizioni e autodefinizioni.
L’illusione giustizialista ha cullato la sinistra nell’idea che il fenomeno berlusconiano fosse sorto dal mancato compimento della missione purificatrice di Tangentopoli e non sia stato invece una sua diretta conseguenza. Lo tsunami giudiziario, che ha investito il sistema politico-istituzionale nel corso della prima metà degli anni novanta non ha lavato la politica e ancora meno moralizzato la cosa pubblica. In realtà, travolgendo le figure tradizionali (i «corpi intermedi» come si usa dire) della mediazione, istituzionale e politica, fuoriusciti dal dopoguerra, ha semplificato le linee di comando, ridotto le zone intermedie, portando a compimento l’instaurazione del meccanismo maggioritario, marginalizzando i gruppi sociali più deboli e favorendo l’accesso diretto alla politica dei nuovi quadri direttamente espressi dal mercato, dalla società commerciale, dalle aziende, dai meetup.
La  rivoluzione conservatrice avviata negli anni 80 ha raggiunto tutti i suoi obiettivi e il partito impresa ha trovato la strada spianata verso la sua ascesa al governo. A questo risultato hanno contribuito l’ideologia della repressione emancipatrice, il mito dell’azione penale, la «teoria dell’interferenza», divenuta patrimonio di larghi settori della magistratura. Come era prevedibile fin dall’inizio «Mani pulite» non ha eliminato i meccanismi della corruzione, ha semplicemente liquidato per via giudiziaria una parte del vecchio ceto politico della Prima repubblica la cui attività regolatrice costituiva oramai un intralcio troppo costoso rispetto ai nuovi parametri della competitività internazionale. La sua funzione è stata eminentemente politica, un vero capolavoro: realizzare un Termidoro evitando la presa della Bastiglia. Reazione preventiva ad una rivoluzione mai avvenuta.
Così il giudiziario, da strumento di tutela reciproca tra classi dominanti, si è trasformato per un certo periodo in luogo di conflitto anche tra élites, ricorrendo a pratiche tradizionalmente riservate alle sole classi pericolose o ai nemici interni.

«Siamo tutti sbirri»
Lentamente l’oppio giudiziario ha contaminato buona parte delle culture presenti nella sinistra, mutandone profondamente l’universo simbolico, insieme a quello dei movimenti, ed ai vari repertori che giustificavano l’azione collettiva.
L’ambizioso progetto che un tempo animava i propositi di cambiare il mondo è reclinato verso la modesta pretesa di giudicarlo. Alla costruzione d’ideali carichi di prospettive e speranze si è opposto il culto della vendetta, del risentimento e del vittimismo, la furiosa libidine dell’azione penale. L’ideologia giudiziaria è apparsa come una risposta al disincanto di un mondo ormai percepito come decaduto e corrotto.
La politica ha mutato attori, tecniche e contenuto. Cacciata dai posti di lavoro, emarginata dalle piazze, sottratta agli stessi emicicli, è passata prima nelle corbeilles e poi nelle procure, infine nei meetup. Chi un tempo occupava le strade ha cominciato a sedersi sui banchi della parte civile e chi ha continuato a farlo ha finito per vestire i panni della nuova icona del male, il black bloc, il terrorista urbano.

Non c’è tema di classe che possa decollare senza critica del penale
L’abbassamento generale del livello di garanzie giuridiche ha portato unicamente pregiudizio alle classi più deboli che da sempre hanno minori mezzi e strumenti di difesa, riempiendo le carceri e contribuendo ad edificare una legislazione sempre più minacciosa.
La fonte della legittimità proviene dalla legalità o dal suffragio, arrivarono a chiedersi alcuni pasdaran della soluzione penale (Flores D’arcais su MicroMega).
Senza un radicale mutamento di paradigma politico che si liberi una volta per tutte dell’ideologia giudiziaria e penale non si riuscirà a ricostruire nulla, anche la ripresa di eventuali temi di classe avrebbe le ali piombate.

 

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Nadia Lioce a processo perché protestava per i libri e i quaderni sottratti

Il 41 bis contro il diritto di leggere e scrivere, per protesta la prigioniera politica batte sul blindo con una bottiglietta di plastica. Denunciata dal Reparto operativo mobile della penitenziaria per disturbo della quiete interna al carcere. Ora c’è da augurarsi che questo processo faccia rumore davvero!

Paolo Persichetti
Il Dubbio, 14 novembre 2017

Può sembrar strano ma anche da una cella d’isolamento del 41 bis è possibile fare molto rumore. E’ quanto sostengono i responsabili del Reparto operativo mobile della sezione 41 bis del carcere di l’Aquila in una denuncia presentata contro Nadia Lioce e da cui sono scaturite le accuse di «disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone e oltraggio a pubblico ufficiale». Il processo davanti tribunale del capoluogo abruzzese entrerà nel vivo il prossimo 24 novembre. Rinchiusa in regime di 41 bis ormai dal lontano 2005, dopo la condanna all’ergastolo ostativo per gli attentati mortali del 1999 e del 2002 contro i consulenti governativi Massimo D’Antona e Marco Biagi, rivendicati da un piccolo gruppo che aveva ripreso una vecchia sigla brigatista, le Br-pcc, Nadia Lioce ha assistito nel tempo ad una progressiva restrizione del regime detentivo a cui è sottoposta, in particolare per quanto attiene alla possibilità di aver con sé fogli, quaderni, libri e riviste. Nel 2011 è stato introdotto addirittura il divieto di ricevere libri e riviste dall’esterno, impedimento confermato anche nell’ultimo provvedimento del Dap: il «decalogo» che ha uniformato a livello nazionale il trattamento dei detenuti in 41 bis. Se negli ultimi tempi le condizioni materiali della sua detenzione hanno subito un adeguamento (cella singola di normale grandezza, sufficientemente luminosa, areata e riscaldata; un passeggio grande e attrezzato), le restrizioni hanno preso di mira la possibilità di leggere, studiare, pensare, scrivere, estrinsecare in modo adeguato quella che è la personalità di una detenuta politica accentuando fino al parossismo una condizione di isolamento totale e di lungo termine, dove emerge con forza la segregazione della parola e del pensiero. Un’ora di colloquio mensile con vetro e non più di 15-18 ore annue di confronto con i propri avvocati, sono il tempo di conversazione disponibile che la detenuta riesce a consumare nell’arco di quattro stagioni, poco più di 24 ore di parola per un silenzio lungo 364 giorni.

Nell’ultimo decennio – ha ricordato il senatore Luigi Manconi, in una interpellanza presentata il 10 giugno del 2015 – la sottrazione del materiale cartaceo conservabile nelle celle della sezione femminile 41 bis presso il carcere dell’Aquila, è passato da 30 a 3 riviste, da 20 a 3 quaderni, agli atti giudiziari dell’ultimo anno, a un solo dizionario. In ottemperanza a questo giro di vite, il 13 aprile 2015 Nadia Lioce – ha denunciato sempre Manconi – si è vista sottrarre l’immediata disponibilità del materiale cartaceo in suo possesso (atti giudiziari, lettere, un quaderno, una rivista e articoli di giornale) trasferito in locali adibiti a magazzino e accessibili solo a giorni alterni in giorni feriali. Nel corso della stessa giornata la detenuta indirizzava al direttore dell’Istituto un reclamo per la restituzione del materiale che le era stato sottratto. Copia veniva inviata anche al magistrato di sorveglianza e allo stesso senatore Manconi perché potesse effettuare l’azione di sindacato ispettivo. La sottrazione del materiale cartaceo era stata anticipata tempo prima dal sequestro dell’elastico di una normale cartellina porta-documenti e di buste di carta ricavate da fogli di quotidiani incollati, utilizzate per archiviare corrispondenza e atti giudiziari.

Circostanza confermata il 22 ottobre 2015 nella deposizione resa davanti al pm dal Commissario capo della Casa circondariale de l’Aquila: «Con la detenuta Lioce ha avuto inizio un attrito dovuto inizialmente al fatto che la stessa ha accumulato un notevole quantitativo di documenti all’interno della propria cella, fatto che rendeva difficoltoso effettuare le ordinarie perquisizioni». Da quel momento – ha aggiunto – ogni ulteriore oggetto ritirato alla detenuta è divenuto un motivo di contrasto e protesta, come è stato per una banale laccetto porta occhiali che la detenuta aveva ricavato con una striscia di tessuto. Manufatto non consentito dal regolamento e il cui sequestro ha provocato ulteriori tensioni con la reclusa. Un crescendo vessatorio che di volta in volta si è focalizzato su oggetti banali e insignificanti, ma attorno al quale si è messa in scena una contrapposizione tra il tentativo, da parte della detenuta, di preservare spazi residui di autonomia, significativi per poter mantenere il proprio senso della persona e della propria dignità, e la necessità dei corpi punitivi dello Stato di riaffermare la propria autorità simbolica e il proprio potere segregativo. In questo modo, in appena tre mesi sono stati elevati nei suoi confronti 70 provvedimenti disciplinari, come hanno denunciato in occasione della udienza del 15 settembre scorso i suoi legali, Caterina Calia, Ludovica Formoso e Carla Serra, che fanno anche notare come la permanenza di questo regime detentivo ultrarestrittivo non abbia più fondamento in assenza di quell’organizzazione esterna, smantellata nel 2003, in cui la Lioce militava.

Dopo aver constatato che le normali vie di ricorso legale non avevano sortito alcun effetto, Nadia Lioce ha inscenato, dal marzo al settembre 2015, la battitura della porta blindata al termine di ogni perquisizione, suscitando da sola tanto di quel baccano da essere trascinata a processo.

«Come ormai da tempo accade – scriveva in un rapporto del 4 settembre 2015 l’agente scelto del Reparto operativo mobile che assieme ad una collega aveva eseguito la perquisizione – in risposta a tali controlli, alle ore 8.45 circa, iniziava a protestare battendo una bottiglietta di plastica contro il cancello della propria camera detentiva fino alle ore 9.15 circa». Un atteggiamento ritenuto «strumentorio», dal vice Ispettore del Rom che in un altro rapporto ricorreva a questo inusitato neologismo per censurarne il comportamento chiedendo che la segnalazione venisse inviata alla locale autorità giudiziaria. Altrove le proteste della Lioce venivano qualificate come manifestazione «della sua indole rivoluzionaria», suscettibile di sanzioni disciplinari come l’applicazione della misura dell’isolamento punitivo (14 bis Op). Come se non bastasse, a rendere ancora più grottesca la pretesa punitiva messa in campo dall’autorità penitenziaria, in particolare dal responsabile del Rom del carcere di L’Aquila, è venuta la richiesta di disporre «previo accertamento e quantificazione del danno, da eseguirsi a cura dell’addetto alla m.o.f. (manutenzione ordinaria fabbricati)», un «provvedimento di addebito a titolo di risarcimento per i danni rilevabili sul cancello della camera detentiva di assegnazione», provocati dalla percussione di una bottiglietta di plastica sulle pesanti porte di ferro blindato.

Approfondimenti
Cronache carcerarie

41 bis
Dopo la legge Gozzini tocca al 41 bis, giro di vite sui detenuti
Carcere, gli spettri del 41 bis

 

 

 

 

 

 

«Non ho mai visto evasione più grande di un’amnistia»

Riflessioni sull’amnistia, intervista di Giulio Petrilli a Paolo Persichetti

pubblicato da http://www.osservatoriorepressione.info e http://www.ristretti.org

Foto di Baruda

Caro Paolo, penso tu abbia letto la mia lettera nella quale sollevo il tema della liberazione degli ultimi detenuti e detenute della storia della lotta armata in Italia! Ormai alcuni di loro hanno quasi raggiunto i quaranta anni di detenzione!

Sì ho letto! In effetti Nicolò De Maria è prigioniero dal 1980, sta entrando nel suo trentottesimo anno di detenzione; Mario Moretti è in esecuzione pena dal 1981, Susanna Berardi e Cesare Di Lenardo dal 1982, e poi via via vengono tutti gli altri. Se quelli incarcerati per gli episodi del 1999 e del 2002 sono rinchiusi già da una quindicina di anni, trascorsi per tre di loro in 41 bis, tutti gli altri hanno alle spalle un periodo di detenzione che raggiunge o supera i trenta anni effettivi. E non sono i soli, perché molti di quelli che in questi ultimi anni sono riusciti ad avere un fine pena, hanno terminato la loro detenzione dopo aver superato ampiamente i 30 anni di prigionia. A questi vanno aggiunti gli esiliati, ormai da più decenni. Vorrei poi attirare l’attenzione su una circostanza mai sufficientemente sottolineata: alcuni di questi prigionieri ancora rinchiusi al momento del loro arresto hanno subito torture. Per uno di loro, Cesare Di Lenardo, il fatto è stato riconosciuto dalla magistratura. Oggi sappiamo che diverse decine di persone arrestate per banda armata vennero torturate, per quanto ne so, oltre a Di Lenardo, tra chi è ancora detenuto ci sono due persone che subirono il “trattamento”. Vi è un’ampia letteratura clinica che spiega come il misconoscimento della tortura e la mancata cura dei suoi effetti nella psiche produca sofferenze e inevitabili conseguenze sulla personalità di chi le ha subite, inquadrate in quelle che vengono definite sindromi da stress post-traumatico. Già questa semplice situazione imporrebbe la necessità di una loro immediata scarcerazione.

Credo siano gli unici prigionieri politici ancora detenuti in Europa?

Se ti riferisci alle insorgenze sociali e lotte armate di sinistra che si svilupparono a partire dagli anni 70, certamente sì. Fatta eccezione per il caso di Georges Ibrahim Abdallah, membro delle Farl libanesi, detenuto in Francia anche lui da oltre trent’anni, non ci sono più detenuti politici dell’epoca. La Germania ha chiuso il capitolo carcerario della Raf e così la Francia con Action Directe. Blair con un’amnistia ha messo fine anche alla guerra civile irlandese ed in Spagna, dove l’Eta ha deposto le armi da poco, paradossalmente non mi risulta che si siano mai raggiunte le nostre vette detentive. E’ passato talmente tanto tempo che nel frattempo nelle carceri sono comparsi un nuovo tipo di detenuti politici: se mettiamo da parte quelli di fede islamista, la riscoperta del reato di devastazione e saccheggio, risalente addirittura al vecchio codice Zanardelli e travasato nel codice Rocco, ha condotto in carcere con pene pesanti semplici partecipanti a manifestazioni di piazza; ad essi si sono aggiunti militanti di fede anarchico-insurrezionalista, il più delle volte rastrellati ricorrendo all’imputazione associativa. Ma non vorrei dimenticare anche un altro tipo di raffronto, secondo me molto significativo.

Quale?

Con il nostro passato recente, mi riferisco alle radici della storia repubblicana. Dopo solo cinque anni dalla fondazione della Repubblica con un’amnistia-indulto vennero scarcerati tutti i prigionieri fascisti che si erano macchiati di crimini durante la guerra civile. Gli errori contenuti in quel dispositivo che avvantaggiò gli ex repubblichini a scapito dei combattenti della Resistenza furono sanati nel corso degli anni successivi con ripetute amnistie e provvedimenti di grazia presidenziale. Togliatti allora Guardasigilli, con una scelta premonitrice di quella che sarà la politica del Pci negli ani 70, aveva lasciato alla magistratura il compito di qualificare la natura politica dei reati da amnistiare e indultare. La magistratura inevitabilmente interpretò l’amnistia in chiave antipartigiana. L’ultimo provvedimento di clemenza riguardò la grazia concessa nel 1965 da Giuseppe Saragat a Francesco Moranino, riparato per alcuni decenni in Cecoslovacchia. Venti anni dopo la fine della guerra civile, gli strascichi penali della guerra partigiana si chiudevano definitivamente. Il prossimo anno invece si celebrerà il quarantennale del sequestro Moro e saremo a quasi 50 anni dalla nascita della lotta armata. Mezzo secolo è un periodo immenso che dovrebbe consentire di guardare agli anni delle grandi lotte sociali che giunsero anche alle armi come un oggetto di storia, di disputa storica. Se ciò non avviene è perché quella materia porta con sé dei significati che non rendono tranquilli i poteri costituiti e li obbligherebbero a scomodi bilanci. Accade così che quel periodo è ancora strumento di speculazione politica, sempre più becera, come dimostra la presenza di una ennesima commissione parlamentare d’inchiesta che si sta distinguendo per strumentalità, mistificazione e torsione dei fatti al servizio delle vulgate dietrologiche di ultima generazione.

Descrivi una situazione inaccettabile. Non pensi si debba fare qualcosa? Insieme a Oreste Scalzone ed altre/i siete sempre stati attenti alla liberazione di tutti. Sempre capaci di far vivere un tema, quello della libertà per tutti, senza logiche di schieramenti, di storie pregresse, di settarismi! Veramente una battaglia di libertà, ma poi anche voi vi siete fermati! Non credi sia venuto il momento di rilanciare insieme questa battaglia?

La battaglia per l’amnistia non ha avuto successo. Appartengo ad una scuola politica che degli insuccessi non ha paura ma sa prenderne atto. Ciò detto, per quanto mi riguarda non ho mai smesso di pensare a questo problema. Ho terminato la mia condanna solo tre anni fa, durante la semilibertà ho lavorato nella redazione di un quotidiano dove non ho perso occasione per affrontare il tema generale delle carceri e quello specifico della prigionia politica, dell’esilio, del 41 bis. Insomma, quando ho potuto, ho sempre cercato di tenere vivo l’argomento, al tempo stesso bisogna essere molto franchi e sapersi misurare con la realtà: sulla praticabilità attuale di una battaglia per l’amnistia sono molto perplesso. Certo, posso sbagliarmi, anzi questo è uno di quei casi dove sarei ben contento di essere smentito, ma non mi sembra proprio che esistano le condizioni oggettive e soggettive per avviare un percorso del genere. Come scriveva Victor Hugo, «amnistia» è una delle parole più belle, non vorrei che andasse sperperata, al di là delle buone intenzioni, per petizioni di principio o di bandiera. Non ho mai visto evasione più grande di un’amnistia. Vorrei che continuasse ad essere questo, un fatto reale, non un tema d’agitazione.

Per me rilanciare questa battaglia è un problema di pelle! Dopo che all’età di vent’anni hai attraversato tanti carceri speciali, non dimentichi più! Poi t’accorgi che la lotta armata è finita da più decenni e allora ti chiedi perché c’è ancora qualcuno dentro, come è possibile? Per me non è un tema d’agitazione ma rompere un silenzio decennale. Questi compagni non vanno dimenticati!

Capisco Giulio, ma la generosità non basta, le battaglie devono avere delle prospettive. Quando la questione dall’amnistia, o più in generale la questione della soluzione politica iniziò ad imporsi nella seconda metà degli anni 80, all’ordine del giorno c’era il superamento dell’emergenza giudiziaria. Dichiarato chiuso il ciclo politico della lotta armata che aveva avuto inizio negli anni 70 c’era l’idea, condivisa in diversi settori del ceto politico e della società, che bisognasse mettere fine anche alla stagione della legislazione speciale e ritornare ad una situazione di normalità giuridica. Questo voleva dire eliminare quei surplus di pena, introdotti con le leggi speciali, che erano stati inflitti nei maxi processi, ripristinare criteri erga omnes, validi per tutti e per ciascuno, mettendo fine alle pratiche differenziali e premiali istituite con le leggi sui pentiti e i dissociati. L’emergenza mafia e lo tzunami delle inchieste di “Mani pulite” che si abbatté sul sistema dei partiti della prima Repubblica chiuse bruscamente questa fase di apertura. Una nuova emergenza si sostituì alla prima e quei settori che nella fase emergenziale precedente si erano costruiti influenza e potere ripresero slancio. Quella funzione di supplenza che la magistratura si era vista delegare dal sistema politico per combattere la lotta armata aveva assunto sempre più autonomia. Le procure più forti arrivarono a teorizzare e mettere in pratica la supremazia della sfera giudiziaria su quella politica. Paradossalmente, in questa prima fase, si creò in un pezzo di ceto politico che vedeva rivolgersi contro il mostro emergenzialista a cui aveva dato vita la consapevolezza che forse lo strumento amnistiale avrebbe ripristinato un più corretto equilibrio dei poteri e delle sfere di competenza tipiche dei sistemi costituzionali moderni.

In commissione giustizia della Camera venne votato l’indulto che riduceva di un terzo le pene e portava gli ergastoli a 21 anni.

Poi tutto finì lì. La partita volse in favore degli imprenditori della nuova emergenza e di chi pensò, come l’ex Pci, di forzare la situazione arrivando al potere tramite la scorciatoia giudiziaria. Come andò a finire lo sappiamo: l’azione penale fece da trampolino di lancio alla discesa in campo e alla legittimazione elettorale e politica ultradecennale del Berlusconismo, oltre ad alimentare successive e ripetute ondate giustizialiste. In quella prima fase, la presenza ancora massiccia di prigionieri politici nelle carceri speciali divenne d’intralcio. La lotta armata era finita e le priorità repressive ormai erano altre, l’apparato penale e penitenziario andava riorientato. Sepolta l’ipotesi amnistiale si aprirono i rubinetti della Gozzini, senza tante complicazioni e senza chiedere abiure si aprì la strada al lavoro esterno e alla semilibertà, prima per piccoli gruppi e poi individualmente. I prigionieri soli e divisi al loro interno hanno affrontato disuniti questa situazione. Quel settore che aveva animato la battaglia per la soluzione politica e l’amnistia accettò la Gozzini, pensando che ciò avrebbe agevolato la possibilità di rinsaldare i rapporti con la società esterna, avere maggiore agibilità politica e rilanciare quindi l’ipotesi amnistiale. Una parte di quelli ostinatamente contrari all’amnistia poco più tardi approdò alla Gozzini. Un piccolo gruppo rimase chiuso a riccio. La situazione attuale non è altro che il sedimento residuale di quel che accadde negli anni 90. Nel frattempo la società è profondamente mutata, si è modificata l’antropologia sociale e politica del Paese, il giustizialismo ha cancellato la priorità dei temi sociali a vantaggio delle soluzioni penali, il populismo si è saldamente strutturato, l’iperlibersimo ha maciullato difese e tutele sociali del mondo del lavoro, è emersa la società del precariato, senza orizzonti emancipatori il razzismo alligna come soluzione offerta dall’alto per innescare una guerra tra poveri che non disturbi più i manovratori, il paradigma berlusconiano del partito azienda si è imposto come modello di riferimento, si è tornati a concezioni oligarchiche, plebiscitarie e cesariste della politica incarnate di volta in volta da tutte le nuove formazioni che si affacciano sulla scena, più sono nuove e più camuffano questa realtà dietro la loro demagogia, siamo approdati a quella che il filosofo Jacques Rancière ha per primo definito «democrazie senza popolo». Dulcis in fundo, all’interno di tutto questo abbiamo assistito alla fine di uno degli equivoci più grossi degli ultimi decenni: la morte della sinistra politica. Oggi non vedo sponde che potrebbero appoggiare un’amnistia.

Proviamo a fare da soli!

E’ il presupposto che nel 2013 ci ha spinto a lanciare l’amnistia per le lotte sociali. Di fronte alla massiccia ondata repressiva che si stava abbattendo sui movimenti che si erano distinti negli ultimi anni, da Genova, ai No Tav, alla lotta per la casa, alle condanne per devastazione e saccheggio durante le manifestazioni di piazza. Disinnescare quell’ondata repressiva, invertire la tendenza riaprendo le maglie dell’agibilità sociale, far riapprendere quella grammatica che ha sempre nutrito la sintassi delle lotte del movimento operaio: tutelare i cicli di lotta preservando la libertà dei militanti colpiti in modo da immagazzinare esperienza e sapere per quelli successivi. L’idea era quella di innescare un percorso virtuoso, che facesse da volano per riaprire a quel punto anche il tema della prigionia politica. L’iniziale accoglienza favorevole si è arenata quando i movimenti che in primis dovevano prendere sulle proprie spalle quella battaglia non hanno fatto nulla. Poi sono arrivate le condanne, le misure di polizia, i daspo, i decreti penali, le firme, le richieste di confino, quella gabbia di provvedimenti penali e amministrativi che stanno imbrigliando l’azione politica dei movimenti di lotta. Insomma il disastro attuale, l’accerchiamento politico, la criminalizzazione con accuse di racket, la strategia di depoliticizzazione di queste istanze sociali. Amnistia è una parola stregata!

Perché?

Penso che oltre ad un evidente problema d’analfabetismo politico e giuridico ci sia qualcosa di più profondo: l’immagine delle kefieh e delle bandiere rosse venute ad applaudire il pool guidato da Borelli davanti al tribunale di Milano negli anni ruggenti di “Mani pulite” dovrebbe far riflettere sulla sostanziale impreparazione e assenza di autonomia culturale di fronte ai temi del diritto e della giustizia. Non capire che l’amnistia sia una leva che può permettere di abbassare l’asticella della legalità, ovvero aumentare la liceità delle azioni possibili, cioè delle lotte, è come credere che il salario sia una mera concessione del padrone e non il risultato di diversi fattori tra cui il rapporto di forza prodotto dalle lotte. Insomma la strada è in salita.

Dal bilancio che fai sembra di capire che i prigionieri politici rimasti ancora in carcere hanno solo perso l’occasione per uscire?

La questione è più complessa, basti pensare che anche Mario Moretti, che pure fu tra quelli che nel marzo 1987 promosse la battaglia di libertà per una soluzione amnistiale, torna in carcere ogni sera a oltre settant’anni suonati. L’applicazione della Gozzini è diventata più tormentata dopo il 2000, proprio per quella sedimentazione del giustizialismo che accennavo in precedenza. Nel momento in cui viene meno una soluzione collettiva, uguale per tutti, i percorsi individuali sono soggetti a molteplici variabili e perturbazioni, fasi politiche, culture dei singoli magistrati, orientamenti dei diversi tribunali di sorveglianza che a parità di reato, pena scontata e percorso, possono applicare criteri di valutazioni diversi. Una specie di terno al lotto. Il vero nodo però è stata la liberazione finale dei prigionieri, quando si è posto il problema dell’ammissione alla liberazione condizionale degli ergastolani. Quando i giudici hanno capito che ormai, dopo decenni, i prigionieri erano arrivati alla soglia del fine pena sono stati introdotti progressivamente criteri sempre più restrittivi. Anche qui la solitudine dei prigionieri e la disunione non ha facilitato le cose ma alla fine, nel complesso, si è costituita una giurisprudenza favorevole: non premiale, non differenziale, che non chiede abiure. Sono state fatte battaglie, sollevate questioni giuridiche. Certo bisogna avere lo stomaco per affrontare in una sorta di corpo a corpo con i professionisti della punizione che stanno lì a misurati la coscienza, una sorta di judo. Tralascio la mia esperienza fatta dopo l’estradizione, in anni molto difficili. Quando ripenso allo scontro feroce che ho affrontato capisco quelli che non vogliono nemmeno iniziarlo. Ma io avevo comunque un fine pena, anche se lungo, prima o poi sarei uscito. Ciò detto, non va dimenticato, per esempio, che a Prospero Gallinari, morto in esecuzione pena ai domiciliari per i noti problemi cardiaci, non venne mai discussa la richiesta di liberazione condizionale che aveva presentato.

Sì, ma resta il nodo dei compagni ancora rinchiusi. Diversi obiettano che i detenuti/e rimasti in carcere non sono interessati all’amnistia!

Se non sbaglio i conti, fatta eccezione per due di loro, gli altri prigionieri hanno sempre mostrato indifferenza o un’opinione negativa verso l’amnistia. Posto che ogni posizione che mostra coerenza tra l’enunciato e il comportamento merita rispetto, questa situazione mi sembra essere un altro importante elemento di difficoltà che si aggiunge a quelli precedentemente citati. Che posso dirti? Ognuno sceglie sulla base della propria etica individuale, cultura, visione della politica, senso della propria esistenza. C’è chi ritiene doveroso per la propria storia rivoluzionaria cercare di non farla ammuffire in una cella e chi la pensa in altro modo. Gli unici che in questa vicenda non hanno titolo sono quelli che chiedono ad altri di sacrificarsi perché pensano che la rivoluzione abbia bisogno di un pantheon di martiri. Per il resto sono convinto che l’enormità degli anni di detenzione raggiunti costituisca un dato che esorbita le opinioni individuali, è un qualcosa di abnorme di per sé. Ciò detto resta difficile avviare una battaglia senza il consenso o il ruolo attivo di chi dovrebbe usufruirne, anche se l’amnistia ha una valenza politica che investe altri campi.

Puoi fare qualche esempio?

La legge Fornero sulle pensioni ha stabilito al comma 2 che ai condannati per mafia e terrorismo che hanno raggiunto l’età pensionabile e non abbiano un reddito sufficiente va sospesa l’erogazione dell’assegno sociale (la vecchia pensione sociale), o qualsiasi altra prestazione tipo la pensione di invalidità (intaccando così il diritto alla salute), durante l’esecuzione pena. Questa norma viola diversi articoli della costituzione ed estende lo stato di eccezione dal campo giudiziario (penale e carcerario) a quello amministrativo. Praticamente si istituzionalizza l’esistenza di una categoria di persone minus habens, si stabilisce un criterio di assegnazione tipologica delle prestazioni invece del vecchio criterio censitario. Nonostante ciò, nessuno ad oggi ha ancora sollevato il problema. Recentemente, dopo che l’Inps ha ricevuto dal ministero della Giustizia la lista delle persone condannate, sono state sospese le pensioni anche a chi aveva terminato la pena da diversi anni. Questo perché il ministero si è guardato bene dal segnalare quelli che avevano terminato nel frattempo di scontare le condanne, con un aggravio di burocrazia sulle altre amministrazioni (gli uffici esecuzione dei tribunali devo certificare il fine pena e l’Inps deve aprire delle procedure del tutto inutili dovendo prima sospendere e poi riattivare l’erogazione), mentre nel frattempo gli ex condannati restano senza quel misero reddito. In tutto questo ci sono persone che si sono viste comunque rifiutare l’erogazione dell’assegno nonostante avessero certificato il fine pena, perché ritenuta «illegittima». Se consideriamo che la conclusione della pena non mette fine nemmeno alle pene accessorie, come l’interdizione dai pubblici uffici, la perdita del diritto di voto attivo e passivo, sancendo in sostanza l’esclusione dalla cittadinanza piena, ci rendiamo conto come, in realtà, non vi sia mai stata nessuna conclusione vera di quella fase storica ma permangano forme di sanzione ed esclusione perenni, alle quali solo una logica amnistiale avrebbe potuto mettere fine.

Un ragione ulteriore per riaprirla questa battaglia!

Sì, ma il problema resta comunque. Per quel che può contare la mia opinione, penso che sarebbe un bene se i compagni incarcerati tornassero ad immergersi nella società attuale, invece che farsela raccontare in qualche lettera, facendo il passo della semilibertà. Quanto al che fare, bisogna agire secondo le priorità: la prima è il 41 bis. Si tratta di tortura. Anche con la normativa attuale, seppur restrittiva, esistono argomenti giuridici con cui motivare una uscita dal 41 bis senza abiura o collaborazione. C’è poi la questione dei prigionieri che hanno subito torture. Si può pensare ad una battaglia sull’articolo 176 cp, che preveda la liberazione condizionale in automatico per chi abbia raggiunto il trentesimo anno di detenzione effettivo e si ripristini l’originaria dizione che non prevedeva il «ravvedimento». L’amnistia richiede ancora la maggioranza qualificata a differenza di una normale modifica legislativa. Ci vogliono delle leve, anche piccole, da cui ripartire, poi…

Approfondimenti sul tema dell’amnistia per i reati politici degli anni 70-80
Amnistia per i militanti degli anni 70
Politici e amnistia, tecniche di rinuncia alla pena per i reati politici dall’Unita d’Italia ad oggi

L’amnistia Togliatti
Dalla-vendetta-giudiziaria-alla-soluzione-politica
Una storia politica dell’amnistia

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Serve un’amnistia sociale per difendere i movimenti e sconfiggere i giustizialismi

La lunga stagione berlusconiana, una guerra dei vent’anni che ha visto affiorare giustizialismi di opposte fazioni, berlusconiani e antiberlusconiani, è stata condotta a senso unico: dall’alto verso il basso, contro i movimenti sociali di opposizione, i migranti e i ceti sociali più deboli che affollano le carceri. Per questo è fondamentale porre oggi all’ordine del giorno quella che è stata chiamata “amnistia sociale”, per distinguere la sua politicità non istituzionale dalla sfera del ceto politico che alberga nelle istituzioni, distinzione necessaria in un’epoca di populismi e legalitarismi che hanno inquinato il linguaggio politico della sinistra. Solo un’amnistia politica generale può ristabilire il principio di uguaglianza:  pari trattamento per tutti e per ciascuno. Nessuno escluso

Francesco Romeo*
il manifesto 6 settembre 2013

In quest’ultimo scorcio d’estate i palazzi della politica istituzionale sono attraversati da un lavorìo incessante, un fervore votato al tentativo di salvare Silvio Berlusconi dalla decadenza del proprio mandato parlamentare dopo la condanna passata in giudicato.
L’intero discorso pubblico ruota attorno alla contesa tra chi vorrebbe salvarlo a qualunque costo e chi è disposto a tutto pur di vederlo rotolare nella polvere. In mezzo stanno quelli in cerca di un cavillo che possa salvare capra (governo) e cavoli (Silvio).
Sulle pagine del manifesto si è sviluppata una discussione sull’amnistia che, salvo un paio di eccezioni, non è sfuggita – come ha rilevato Marco Bascetta – a questa dannazione berlusconicentrica. Eppure, dal giugno scorso, è in campo una campagna per l’amnistia sociale (il cui “manifesto” è stato pubblicato su queste pagine). Iniziativa nata fuori dal circuito della politica istituzionale e che ha raccolto una larga adesione nei movimenti sociali. Sorprende che questa proposta sia rimasta fuori da un dibattito che non ha ritenuto di estendere l’amnistia anche agli effetti repressivi che si abbattono sulle lotte politiche e sociali, in un momento storico che vede l’emergenza giudiziaria colpire anche il semplice dissenso ricorrendo a teoremi e arsenali penali concepiti in altre epoche per rispondere a ben altro tipo di sfide. Sorprende, ma non stupisce, vista l’impostazione meramente politicista della discussione.
La rimozione è tale che persino Manconi ed Anastasia hanno commesso l’errore di affermare che in Italia vi è stata una sola amnistia politica, quella firmata da Togliatti nel lontano 1946. Bene ha fatto Livio Pepino a ricordare i provvedimenti di clemenza del 1968 e del 1970: amnistie “politiche” di particolare ampiezza estese anche ai reati di devastazione, blocco stradale o ferroviario e alla detenzione di armi da guerra etc. Amnistie votate mentre il ’68 e l’autunno caldo erano ancora in corso. Provvedimenti forti che grazie al loro nucleo politico specifico consentirono l’adozione di una clemenza più generale rivolta ad una vasta gamma di reati comuni che favorì lo sfollamento delle carceri. E se ancora non bastasse, durante gli anni 60 furono approvate altre tre amnistie-indulto per chiudere gli strascichi penali dell’epoca bellica e riequilibrare la repressione contro i moti cittadini e le lotte agrarie.
E’ sotto gli occhi di tutti che in questi anni i movimenti sociali, spesso da soli, hanno fatto opposizione nelle piazze d’Italia, pagando un prezzo molto alto in termini di violenza subita, di denunce per gli attivisti (in numero superiore alle 15.000) e di condanne riportate. Senza contare che denunce e condanne rappresentano un ostacolo non facilmente superabile per l’ingresso nel mondo del lavoro e costituiscono il presupposto per l’applicazione di misure odiose come l’avviso orale, il foglio di via, la sorveglianza speciale.
La lunga stagione berlusconiana, una guerra dei vent’anni che ha visto affiorare giustizialismi di opposte fazioni, berlusconiani e antiberlusconiani, è stata condotta a senso unico: dall’alto verso il basso, contro i movimenti sociali di opposizione, i migranti e i ceti sociali più deboli che affollano le carceri.
Per questo è fondamentale porre oggi all’ordine del giorno quella che è stata chiamata “amnistia sociale”, per distinguere la sua politicità non istituzionale dalla sfera del ceto politico che alberga nelle istituzioni, distinzione necessaria in un’epoca di populismi e legalitarismi che hanno inquinato il linguaggio politico della sinistra.
Occorre ripristinare un principio di giustizia di fronte ad condanne come quelle per i fatti di Genova del 2001, che hanno visto applicare ai manifestanti pene fino a 15 anni di reclusione per devastazione, mentre oltre 300 appartenenti alla polizia di Stato che hanno partecipato al massacro della Diaz sono rimasti ignoti per gli ostacoli frapposti alle indagini e i procedimenti per 222 episodi di violenza in strada, compiuti da appartenenti alle forze dell’ordine, sono stati archiviati per l’impossibilità d’identificare i colpevoli.
Bisogna metter fine all’ipertrofia emergenziale di magistrati e apparati che hanno in odio il dissenso, che adorano le democrazie senza popolo e le società silenziate. L’amnistia sociale è il primo passo per smantellare quell’arsenale giuridico speciale che ha permesso alla procura di Torino di ricorrere ad accuse abnormi, come il reato di attentato per finalità di terrorismo ed eversione dell’ordine democratico, anche contro chi non si propone rivolgimenti politici ma lotta per la difesa dei propri territori, come il movimento NoTav, ed al governo di arricchirlo con nuove disposizioni come quelle contenute nel cosiddetto decreto sul “femminicidio”. Norme che estendono l’impiego di contingenti dell’esercito, a disposizione dei prefetti, sul territorio nazionale non più solo a servizi di perlustrazione e pattuglia ma “anche”, ad esempio, ad un possibile uso come forza di ordine pubblico contro i manifestanti. Una dichiarazione di guerra dello Stato verso un nemico interno individuato nei movimenti sociali di protesta.
Oltre a tentare di arginare tutto ciò, la campagna per l’amnistia sociale può servire a ridare forza ad alcuni principi sanciti nella costituzione: se l’occupazione di case abbandonate è reato per il codice penale; il diritto all’abitazione è un diritto costituzionale; ancora, la Costituzione stabilisce che la proprietà privata non può contrastare l’utilità sociale o la dignità umana e può essere indirizzata a fini sociali.
La forte spinta verso la giustizia e l’eguaglianza contenuta nello spirito di questa campagna permette anche di contestare alla radice quel “principio di ostatività” contenuto nelle norme carcerarie (4bis e 41bis), che è alla base dei criteri di differenziazione dei trattamenti e della premialità recepiti ormai in tutte le misure di clemenza (indulto del 2006 e indultini vari) e pseudosfollamento carcerario varati negli ultimi anni e, acriticamente assorbiti negli stessi progetti di amnistia-indulto (Manconi) depositati in parlamento. Solo un’amnistia politica generale può ristabilire il principio di uguaglianza:  pari trattamento per tutti e per ciascuno. Nessuno escluso.

* Avvocato

Per saperne di più sull’amnistia sociale
– Amnistia-sociale
– L’amnistia per le lotte sociali, il manifesto dei movimenti e le adesioni aggiornate
– Livio Pepino, “serve un’amnistia anche per i reati politici che vada oltre i delitti bagatellari
– Un appello di resistenza alla repressione del conflitto sociale
– Vincenzo Guagliardo, “Siamo di fronte alla pervasivita di un sistema penale eretto contro ogni manifestazione del conflitto sociale”
– No Tav, No Muos, sindacati di base e centri sociali lanciano la campagna per l’amnistia sociale
Marco Bascetta, Chi ha paura dell’amnistia? L’antiberlusconismo che sacrifica tutto sull’altare del nemico

Amnistia sociale, «siamo di fronte alla pervasività di un sistema penale eretto contro ogni manifestazione del conflitto sociale»

L’intervento – «questa campagna segna l’esigenza sentita da più parti, anche molto diverse tra loro, di resistere a qualcosa di nuovo: la pervasività del sistema penale eretta contro ogni manifestazione del conflitto sociale. L’ondata repressiva al livello sociale non avviene come repressione “a valle” di episodi signicativi di lotta violenta, ma “a monte”, quale modello di controrivoluzione preventiva offerto come politica principale – per non dire unica – nei confronti del variegato e frammentatissimo proletariato attuale.
Diritto di manifestare, fine dell’ergastolo e no alla tortura saranno necessariamente la nuova cornice, accanto alle lotte sul lavoro e per il reddito. Sarà l’inizio di un lungo, nuovo e difficile processo storico e non il sereno suggello di un passato. Sarà il mezzo con cui costruire una grande unità oggi ancora lontana

di Vincenzo Guagliardo
il manifesto 6 agosto 2013

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Foto Baruda

E’ evidente che, già di per sé, “oggettivamente”, la proposta di indulto-amnistia “sociale” né potrebbe né – credo – voglia sancire la fine di un’epoca o l’oltrepassamento di un cosiddetto ciclo di lotte. E’ vero semmai l’esatto contrario: segna l’esigenza sentita da più parti, anche molto diverse tra loro, di resistere a qualcosa di nuovo: la pervasività del sistema penale eretta contro ogni manifestazione del conflitto sociale. Questa tendenza arriva ormai a delle esagerazioni caricaturali (ma pure inquietanti, e gravi per chi le deve subire), come quella savoiarda di voler accusare addirittura di terrorismo il movimento No Tav in Val di Susa.
Decenni fa il movimento operaio lottava per pane, lavoro e minor fatica. Alla lotta poteva seguire o meno la repressione secondo i rapporti di forza esistenti. Oggi invece ogni lotta trova a priori un ostacolo di possibile rilievo penale (e di tipo inquisitoriale). Deve fare i conti con una nuova realtà sapientemente (o ciecamente?) costruita negli ultimi tre decenni passo dopo passo, di emergenza in emergenza, da quella contro il “terrorista” a quella contro il lavavetri dichiarata da qualche sindaco-sceriffo.
Le democrazie occidentali rivelano una tendenza “totalitaria” che non può più essere ignorata: da un lato c’è gente in galera da oltre trent’anni e dall’altro c’è gente che è “illegale” per il fatto stesso di esistere grazie a leggi che la privano del permesso di soggiorno. In mezzo a questi due poli, e fra mille gradazioni diverse, può ormai ritrovarsi ognuno.
E ora vediamo in quale cornice stanno questi due poli estremi: nella sua specificità, il caso italiano suscita attenzione persino a livello europeo. Segnali simbolicamente forti sono arrivati dal Vaticano che ha abolito l’ergastolo e riconosciuto la tortura come reato, e dalla Corte europea dei diritti dell’uomo che ha dichiarato incostituzionale l’ergastolo.
E’ importante sottolineare di nuovo che l’ondata repressiva al livello sociale non avviene come repressione “a valle” di episodi signicativi di lotta violenta, ma “a monte”, quale modello di controrivoluzione preventiva offerto come politica principale – per non dire unica – nei confronti del variegato e frammentatissimo proletariato attuale. (Il “resto” è espropriazione di reddito dei poveri a favore dei ricchissimi). Perciò se prima eravamo nell’epoca del “pane e lavoro”, ora siamo in quella di “pane, lavoro e libertà”, da subito, e non “dopo”.
Diritto di manifestare, fine dell’ergastolo e no alla tortura saranno necessariamente la nuova cornice, accanto alle lotte sul lavoro e per il reddito, entro cui dovrà resistere il proletariato attuale contro la propria frammentazione e le drammatiche corporativizzazioni che possono derivarne. Sarà l’inizio di un lungo, nuovo e difficile processo storico e non il sereno suggello di un passato. Sarà il mezzo con cui costruire una grande unità oggi ancora lontana.
E non potrà essere solo una piattaforma rivendicativa: richiede ovviamente un impegno personale che vada al di là del manifestare per chiedere il diritto di manifestare.
La tendenza “totalitaria” infatti è tale perché cancella la differenza tra diritto privato e diritto pubblico. Vuole attentare alla stessa volontà dell’individuo, la vuole sostituire con la norma dell’autorità in ogni piega. Il premio ha sostituito il diritto. L’individuo non è più un “cittadino” ma un suddito o, meglio, un malato da curare da se stesso. E’ così che le aule di giustizia sono diventate un mercato (delle coscienze) attraverso nuovi riti come il “patteggiamento” e il “rito abbreviato” dove alcuni avvocati si prestano ormai a rinunciare al loro ruolo classico di difensori dell’imputato per ridursi a portaborse del pm Difficilmente la resistenza qui indicata andrà avanti se non saprà sottrarsi a questi riti e difendere invece le proprie ragioni dalla logica di mercato applicata alle idee.

Clicca qui per leggere il testo del manifesto che lancia la campagna per l’amnistia sociale e conoscere le adesioni
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Un’amnistia per i reati sociali

manifesto 20130721nazionale-1Biblioteca dell’amnistia
Amedeo Santosuosso e Floriana Colao, Politici e Amnistia, Tecniche di rinuncia alla pena per i reati politici dall’Unità ad oggi, Bertani editore, Verona 1986, pp. 278
Stéphan Gacon, L’Amnistie, Seuil, Paris 2002, pp. 424
L’Amnistia Togliatti, Mimmo Franzinelli, Mondadori, Milano 2006, pp. 392
Une histoire politique de l’amnistie, a cura di Sophie Wahnich Puf, Parigi, aprile 2007, pp. 263

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Processo alle torture, il “professor De Tormentis” chiamato a testimoniare. Il prossimo 18 giugno la decisione della magistratura

La richiesta di revisione della condanna per calunnia pronunciata contro Enrico Triaca dopo la denuncia delle torture subite nel 1978 è giunta ad un punto di svolta. Il prossimo martedì 18 giugno si terrà una prima udienza davanti alla corte d’appello di Perugia chiamata a pronunciarsi sulla legittimità delle nuove prove presentate. Se la corte dovesse accogliere l’istanza della difesa di Triaca si riaprirà il dibattimento. Forse vedremo per la prima volta il volto di Nicola Ciocia, alias professor De Tormentis, sapremo allora se l’ex funzionario dell’Ucigos avrà il coraggio di reggere lo sguardo dell’uomo che torturò con l’acqua e sale nel 1978.
Sarà chiamato a testimoniare anche Salvatore Genova, collega e compartecipe di Ciocia le cui rivelazioni hanno squarciato il muro di omertà durato decenni, insieme ad altri testi che hanno raccolto in questi anni rivelazioni e ammissioni

Libri – Dagli anni 70 a Bolzaneto, la continuità trentennale d’apparati, metodi e in certi casi anche di uomini nel ricorso alla tortura

th_1dd1d6fe940b0becc9a0299f6069644e_tortura_cop-1«Ciò che qualifica la tortura – scrive Patrizio Gonnella in, La tortura in Italia. Parole, luoghi e pratiche della violenza pubblica, DeriveApprodi – non è la crudeltà oggettiva del torturatore, ma lo scopo della violenza». Una violenza che può avere due obiettivi: uno giudiziario ed uno politico-simbolico. Nel primo caso si tratta di estorcere informazioni da utilizzare per lo sviluppo successivo delle indagini o da impiegare in sede processuale come dichiarazioni accusatorie; nel secondo il fine è quello di esaltare il potere punitivo dello Stato. I due scopi spesso si sovrappongono: la tortura giudiziaria contiene sempre quella punitiva, mentre la tortura punitiva non sempre contiene la ricerca d’informazioni.
Le torture praticate contro i militanti rivoluzionari accusati di appartenere a gruppi armati tra la fine degli anni 70 e i primi anni 80 erano un classico modello di tortura investigativa. Operate dalle forze di polizia, contenevano entrambi gli obiettivi: estorcere informazioni e disintegrare l’identità politico-personale del militante. La deprivazione sensoriale assoluta, introdotta negli anni 90 attraverso l’isolamento detentivo previsto con il regime carcerario del 41 bis, è invece la forma più avanzata di tortura giudiziaria. Congeniata per sostituire la tortura investigativa, ha rappresentato una ulteriore tappa del processo di maturazione dell’emergenza italiana che ha visto la progressiva giudiziarizzazione delle forme di stato di eccezione, non più controllate dall’esecutivo ma dalla magistratura.
I pestaggi che avvengono nelle carceri o nelle camere di sicurezza delle forze di polizia appartengono invece al genere della tortura punitiva, ispirata dal sopravanzare di visioni etico-morali dello Stato: correggere comportamenti ritenuti fuori norma riaffermando la gerarchia del comando. Così è avvenuto nel carcere di Asti tra il 2004 e il 2005, dove una sentenza della magistratura ha registrato le violenze imposte ai detenuti per ribadire e legittimare i rapporti di potere all’interno dell’istituto di pena.
Una situazione analoga si è verificata nella tragica vicenda che ha portato alla morte di Stefano Cucchi, anche se in questo caso sussistono fondati sospetti che la violenza punitiva ricevuta nelle camere di sicurezza del tribunale, gestite dalla polizia penitenziaria, sia stata preceduta da violenze subite nella fase investigativa prima dell’ingresso in carcere.
In linea generale le violenze poliziesche hanno un carattere «informe», non a caso Walter Benjamin ne coglieva l’aspetto «spettrale, inafferrabile e diffuso in ogni dove nella vita degli Stati civilizzati», al punto da costituire una delle tipicità proprie dell’antropologia statuale. Queste violenze variano d’intensità, d’episodicità ed estensione con il mutare dei rapporti sociali e il modificarsi della costituzione materiale di un Paese. Ci sono poi momenti storici in cui questa violenza si condensa, assumendo una forma sistematica che si avvale dell’azione d’apparati specializzati. Quella che è una caratteristica permanente degli Stati dittatoriali denota anche il funzionamento delle cosiddette democrazie quando entrano in situazioni d’eccezione. Nell’Italia repubblicana è avvenuto almeno due volte: nel 1982, quando il governo presieduto dal repubblicano Spadolini diede il via libera all’impiego della tortura per contrastare l’azione delle formazioni della sinistra armata e nel 2001, durante le giornate del G8 genovese.
Se nel primo caso si è fatto ampio ricorso alla tortura investigativa e ad un inasprimento del regime carcerario speciale, già in corso da tempo, con una estensione dell’articolo 90 e la sperimentazione di quel che sarà poi il regime del 41 bis, con i pestaggi dei manifestanti, il massacro all’interno della scuola Diaz e le sevizie praticate nella caserma di Bolzaneto durante il G8 genovese si è dato vita ad una gigantesca operazione di tortura punitiva e intimidatoria nei confronti di una intera generazione.
In entrambe le circostanze vi è stato un input centrale dell’esecutivo, la presenza di una decisione politica, la creazione di un apparato preposto alle torture e l’individuazione di luoghi appositi, di fatto extra jure, oltre all’atteggiamento connivente delle procure. Se nel 1982 – fatta eccezione per un solo caso – queste insabbiarono tutte le denunce, nel 2001 hanno facilitato la riuscita del dispositivo Bolzaneto, come dimostra il provvedimento fotocopia predisposto prima dei fermi in vista delle retate di massa. Adottato per ciascuna delle persone arrestate, prevedeva in palese contrasto con la legge il divieto di incontrare gli avvocati. Un modo per garantire l’impenetrabilità dei luoghi dove avvenivano le sevizie che restarono così protetti da occhi e orecchie indiscrete per diversi giorni.
Nonostante tanta familiarità con la storia del nostro Paese, la tortura non è un reato previsto dal codice penale e ciò in aperta violazione degli impegni internazionali assunti dall’Italia, l’ultimo nel 1984. Se la giuridicità ha un senso, il suo divieto andrebbe integrato nella costituzione al pari del rifiuto della pena di morte. La sua condanna, infatti, attiene alla sfera delle norme fondatrici, alla concezione dei rapporti sociali, ai limiti da imporre alla sfera statale. Non è una semplice questione di legalità, la cui asticella può essere innalzata o abbassata a seconda delle circostanze storiche.
In ogni caso introdurre questo capo d’imputazione ha senso solo se prefigurato come “reato proprio”. «La tortura – spiega Eligio Resta – è crimine di Stato, perpetrato odiosamente da funzionari pubblici: vive all’ombra dello Stato», come ha sancito la Convenzione Onu del 1984. Nella scorsa legislatura, invece, il Parlamento italiano aveva elaborato una bozza che qualificava la tortura come reato semplice, un espediente che lungi dal limitare l’uso abusivo della forza statale ne potenziava ulteriormente l’arsenale repressivo alimentando il senso d’impunità profondo dei suoi funzionari.
Ancora nel marzo del 2012, l’allora sottosegretario agli Interni, prefetto Carlo De Stefano, rispondendo ad una interpellanza parlamentare della deputata radicale Rita Bernardini era riuscito ad affermare che almeno fino al 1984 in alcuni trattati internazionali sottoscritti anche dall’Italia erano presenti «limitazioni» di «non di poco conto, (morale e in caso di ordine pubblico e di tutela del benessere generale di una società democratica)», al divieto di fare ricorso all’uso della tortura. Un modo per mettere le mani avanti e richiamare una inesistente protezione giuridica alle torture praticate in Italia fino a quel momento.
D’altronde fu lo stesso Presidente della Repubblica Sandro Pertini che nel 1982, per rimarcare la distanza che avrebbe separato l’Italia dalla feroce repressione che i generali golpisti stavano praticando in Argentina, affermò: «In Italia abbiamo sconfitto il terrorismo nelle aule di giustizia e non negli stadi». Di lui, ebbe a dire una volta lo storico dirigente della sinistra socialista Riccardo Lombardi, «ha un coraggio da leone e un cervello da gallina».
In Italia le torture c’erano, anche se in quei primi mesi del 1982 non vennero inferte negli spogliatoi degli stadi ma in un villino, un residence tra Cisano e Bardolino, vicino al lago di Garda, di proprietà del parente di un poliziotto (lo ha rivelato al quotidiano L’Arena l’ex ispettore capo della Digos di Verona, Giordano Fainelli e lo ha confermato anche Salvatore Genova, allora commissario Digos). Si torturava anche all’ultimo piano della questura di Verona, requisita dalla struttura speciale coordinata da Umberto Improta, diretta dall’allora capo dell’Ucigos Gaspare De Francisci su mandato del capo della Polizia Giovanni Coronas che rispondeva al ministro dell’Interno Virginio Rognoni.
Sulle gesta realizzate da questo apparato parallelo sono emersi negli ultimi tempi fatti nuovi, circostanze, testimonianze, ammissioni. Il prossimo 18 giugno la corte d’appello di Perugia si riunirà per decidere se riaprire uno dei pochi processi in cui l’imputato denunciò di avere subito torture. Il seviziatore di Enrico Triaca, conosciuto con lo pseudonimo di professor De Tormentis, ha ammesso in un libro di avergli praticato il waterboarding nel maggio del 1978, in quello che fu un assaggio di quanto avvenne quattro anni dopo. Il suo nome è Nicola Ciocia, oggi ex questore in pensione, ieri funzionario dell’Ucigos. Cosa farà la magistratura?
Vorrà ribadire ancora una volta che l’Italia ha sconfitto il terrorismo nelle aule di giustizia e non negli stadi?

Per saperne di più
Le torture della Repubblica

Non ci sono più diritti ma premi

L’intervento – il “premio” progressivamente sostituisce tutto ciò che fino a ieri intendevamo come “diritto”. Dove c’è premio, c’è punizione per chi non lo merita: il “pentito” esce, e spesso riprende a compiere reati, il non-pentito vive il carcere ostativo… Ma lo scopo di questa strategia non è quello di far diminuire i reati né quello di punire i rei… La premialità infatti instaura un regime totalitario che pretende il controllo sistematico e capillare degli individui al di là dei loro comportamenti, fino a colpire la loro realtà interiore. Non vuole cittadini “perbene” ma nuovi sudditi

di Vincenzo Guagliardo, maggio 2013

Nel nostro comune immaginario, la tortura si concentra in episodi eccezionali, in particolari circostanze, per una durata di tempo “relativamente” limitata al fine di estorcere una confessione, ma soprattutto – in realtà – per spezzare un individuo, annichilendo la sua volontà, distruggendo cioè gli animi prima ancora che i corpi. Oggi questi confini che abbiamo posto nella nostra mente si fanno sempre più labili. L’indifferenza con cui, per esempio, si continua ad accettare il “sovraffollamento” carcerario nasconde una realtà torturante, volta a distruggere l’individuo dal punto di vista psicofisico, ed è una realtà che sta diventando sistema: applicato a migliaia di persone come condizione di vita quotidiana prolungata. Ma c’è di più. Per esempio: i molti che scontano l’ergastolo con il cosiddetto reato “ostativo”. Costoro non possono usufruire di alcun beneficio previsto dall’ordinamento penitenziario e perciò, in teoria, possono solo aspettare la morte in carcere. In teoria, perché il “trucco” c’è: se “collaborano”, questa condanna a morte a secco e diluita nel tempo viene ritirata… In pratica, queste persone possono uscire da lì solo se accettano di mandare un’altra persona al loro posto!
Ebbene, molti di questi ergastolani non lo hanno fatto. Qualcuno ha detto che non lo fanno per non esporre i loro cari a rappresaglia. A prescindere dal fatto che preoccuparsi della sorte altrui è una scelta rispettabile che nulla toglie all’orrore del ricatto posto loro, c’è da dire che non è solo così perché non può essere solo così. E basta leggere i loro appelli, le loro lettere e testimonianze per rendersene conto. Il fatto stesso di accettare di morire in carcere se non cambia questa legge ricattatoria è oggi una delle più alte espressioni di una resistenza per la libertà di coscienza di tutti e per la dignità d’ognuno, offese da un sistema penale “impazzito” e accettato con il silenzio generale. Le condizioni estreme possono distruggere un individuo, ma possono anche suscitare una dolorosa presa di coscienza alla quale è prezioso rispondere, scoprendo gli orizzonti di una non-collaborazione che non avevamo preso in considerazione e rendendoci così i ciechi complici di una nuova Inquisizione.
Ma da dove viene questo “impazzimento”? Intanto – direbbe Shakespeare – bisogna notare che in questa follia c’è del metodo. Proviene dall’alto, a partire dallo stesso potere legislativo, e non dalla cattiveria del singolo che poi vi potrà trovare il suo spazio congeniale. C’è infatti sempre meno ipocrisia nella pioggia di provvedimenti vari e leggi che creano questo inferno delle anime, che investe, prima ancora del carcere, già il processo, per esempio con l’istituto del patteggiamento: cioè con la riduzione delle aule di giustizia a un mercato. Al centro di questa nuova logica che prima si nascondeva nel buio più profondo delle carceri, o nelle tecniche di tortura, nascoste dietro situazioni “particolari”, si affaccia come sappiamo dagli anni ’80, cambiando il volto delle stesse leggi, il “premio” che progressivamente sostituisce tutto ciò che fino a ieri intendevamo come “diritto”. E’ evidente in lingua italiana che se ti dico che una cosa può spettarti solo come premio, è perché non ti spetta più come diritto. E se non ci stai,… ti distruggo. Perché dove c’è premio, c’è punizione per chi non lo merita: il “pentito” esce, e spesso riprende a compiere reati, il non-pentito vive il carcere ostativo… Ma lo scopo di questa strategia, d’altronde, non è quello di far diminuire i reati né quello di punire i rei…
La premialità infatti instaura così facendo un regime totalitario che pretende il controllo sistematico e capillare degli individui al di là dei loro comportamenti, fino a colpire la loro realtà interiore. Non vuole cittadini “perbene” ma nuovi sudditi. Questa pretesa, perciò, crea inevitabilmente anche il suo contrario al momento della sua applicazione: l’arbitrio. Una prassi penale fuori dal diritto. Ed è qui che non possiamo più stupirci quando si affacciano personaggi come la defunta suicida direttrice di carcere Armida Miserere. Aveva fama tra i reclusi di non essere a posto. I reclusi avevano torto. Veniva persino mandata in missione quando c’era da mettere “a posto” qualche carcere e nella sua lettera di addio al mondo accenna di aver fatto parte di quella nuova struttura di intelligence (ossia di spionaggio) realizzata nelle… carceri (!) quand’era ministro della giustizia il “comunista” Diliberto. Miserere forse non ha più retto questo ruolo – in tal caso ciò vada a suo merito –, ma è stata lo stesso un’avanguardia che oggi è sempre meno sola.
Oggi hanno fatto un film con la Miserere come eroina, interpretata da Valeria Golino.
L’ipocrisia del potere, in fondo, era una mezza virtù. Quando fingi di onorare certi princìpi mentre vuoi fare l’opposto, sei comunque costretto a mascherarti, e quindi a limitarti. L’ipocrisia è un freno a quell’arbitrio totale che è il frutto inevitabile dei sogni di controllo totalitario. Oggi il “liberismo” penale non è più ipocrita. Ha finalmente portato alla luce del sole il nucleo da sempre nascosto del sistema penale nei suoi angoli più bui o nelle sale di tortura. Ora, chi ha occhi per vedere, può capire e riflettere.

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