Il capo della Mobile di Napoli: controproducente la figura dell’eroe solitario
Vittorio Zincone
Corriere del Mezzogiorno 14 ottobre 2009
Vittorio Pisani, 42 anni, capo della Squadra Mobile di Napoli, mi accoglie nella sua stanza sommersa dai modellini di auto della polizia. (…) Nell’era di Roberto Saviano, scrittore anticamorra, star dei teatri, sotto scorta, osannato dalle piazze e dai lettori, appena cito Gomorra, Pisani sbuffa: «Già… questo Gomorra». Lui non ce l’ha con Saviano, ma brechtianamente col savianismo. Ricordate la riga arcinota di Brecht nella Vita di Galileo? «Beati i popoli che non hanno bisogno di eroi».
Partiamo da qui. Pisani, che cosa c’è che non va con Gomorra?
«Il libro ha avuto un peso mediatico eccessivo rispetto al valore che ha per noi addetti ai lavori».
Saviano ha permesso ai non addetti ai lavori di conoscere una realtà criminale mostruosa.
«E questo è un merito. Ma nel libro ci sono inesattezze».
È un romanzo. E ora Saviano vive sotto scorta, in una caserma. È amatissimo, ma fa una vita infame.
«A noi della Mobile fu data la delega per riscontrare quel che Saviano aveva raccontato a proposito delle minacce ricevute. Dopo gli accertamenti demmo parere negativo sull’assegnazione della scorta».
Saviano è stato minacciato pubblicamente durante un’udienza del processo Spartacus.
«Io faccio anticamorra dal 1991. Ho arrestato centinaia di delinquenti. Ho scritto, testimoniato… Beh, giro per la città con mia moglie e con i miei figli, senza scorta. Resto perplesso quando vedo scortate persone che hanno fatto meno di tantissimi poliziotti, carabinieri, magistrati e giornalisti che combattono la camorra da anni. Non ho mai chiesto una scorta. Anche perché non sono mai stato minacciato. Anzi, quando vado a testimoniare gli imputati mi salutano dalle celle».
Ripeto: Saviano le minacce le ha ricevute.
«Bisognerebbe avere il coraggio di andare a cercare la giusta causa della minaccia».
E quale sarebbe secondo lei?
«Non lo so. Ma nel rapportarsi con la criminalità organizzata ci sono regole deontologiche, come il rispetto della dignità umana, che vanno rispettate».
Potrebbe essere più chiaro? Un esempio?
«Quando ho bussato alla porta di un superlatitante per arrestarlo, lui mi ha chiesto di aspettare un minuto perché la moglie era svestita. Io gli ho proposto di far entrare due agenti donne. Lui ha acconsentito e ringraziato».
Ammetterà che l’arresto di un super latitante e la denuncia giornalistica di un crimine, sono un po’ più importanti del bon ton con cui li si effettua.
«Certo. Ma ci sono modi e modi. E poi, a proposito della vita sotto scorta, dare un’immagine eroica della lotta alla criminalità rischia di essere controproducente».
L’eroe anticamorra dà speranza. E aiuta a sensibilizzare i cittadini sui fenomeni criminali.
«Ma rischia di allontanarli da una collaborazione reale con lo Stato. Noi dobbiamo trasmettere sicurezza. Se un cittadino vede che chi combatte la criminalità per professione ha bisogno di vivere blindato sotto scorta, pensa: “Io, che sono indifeso, non posso fare nulla”».
Ora è da cinque anni a capo della Squadra Mobile di Napoli. Dopo la guerra di Scampia…
«La città è più pacificata. Quasi tutti i capi clan sono detenuti e non c’è più la sensazione di impunità di un tempo. Si è passati da 250 a 70 omicidi l’anno».
Un numero mostruoso di morti.
«Se si pensa che a Napoli ci sono circa 70 clan, non sono nemmeno troppi».
In alcune zone lo Stato non ha nessun controllo. A Secondigliano gli spacciatori fanno quello che vogliono.
«Siamo poco incisivi anche perché il costo del delitto, e cioè la possibilità di finire in carcere per molto tempo, è ridicolo rispetto alla facilità con cui si crea profitto».
Il primo crimine di cui si è occupato?
«Una rapina al centro tecnografico delle Poste. I ladri scapparono, ma recuperammo i 52 miliardi di refurtiva. Dopo quattro mesi sulle volanti, passai alla Squadra Mobile».
Lì, di che cosa si occupava?
«Ho cominciato con la sezione Omicidi. Per strada. Poi la sezione Catturandi, quella che dà la caccia ai latitanti, e la Sezione reati economici. Nel ’97, a trent’anni, ero capo della Omicidi. Sono stato promosso per merito straordinario ».
Quale era questo merito?
«Ricostruimmo la cosiddetta “Alleanza” di Secondigliano. Arrestammo i latitanti Giuseppe Lo Russo, Pietro Licciardi, Gaetano Bocchetti ed Egidio Annunziata. Subito dopo venni indagato ».
Lei? E perché?
«Omissione di atti di ufficio. Ero in contatto telefonico con il latitante Guglielmo Giuliano».
Super esponente di un clan camorrista.
«Era un confidente, leale. Ora è collaboratore di giustizia. Il questore Arnaldo La Barbera mi disse: “Nel nostro mestiere l’accusa che ti fanno vale più di un encomio”».
Come ne uscì?
«Pulito. Ma lasciai Napoli. Andai al Servizio Centrale Operativo (Sco) di Roma. Mi diedero l’incarico di cercare il contrabbandiere pugliese Francesco Prudentino. Lo arrestammo nel dicembre del 2000, dopo sei mesi di caccia, in Grecia. Tre anni dopo feci il concorso per diventare primo dirigente. E arrivai primo». (…)
Qual è l’arma più importante in mano a un investigatore?
«Dipende dal delitto. Ma penso che i confidenti siano l’arma in più».
Per l’eccessiva vicinanza di alcuni agenti ai confidenti dei clan, la Mobile di Napoli è stata “chiacchierata”. (…)
«Falsi moralismi».
Lei gira con la pistola?
«Certo».
Ha mai sparato?
«Una volta. Per avvertimento».
Le hanno mai sparato?
«Sì. Senza colpirmi. Eravamo intervenuti su segnalazione di un confidente per sventare l’incendio di un negozio di bibite. Cominciarono a partire colpi nella nostra direzione. Non riuscendo a individuare chi ci sparava, non rispondemmo al fuoco».
Qual è l’arresto che le ha dato più soddisfazione?
«Quello degli assassini di Silvia Ruotolo e di altre persone uccise per errore. Beccare i colpevoli di un delitto in cui la vittima è una persona per bene è il top».
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