Oreste Scalzone, «Cara Rossanda sbagli, serve una radicale critica neogarantista»

All’intervento di Rossana Rossana, «Perché non sono più garantista» del 17 luglio 1979, che abbiamo pubblicato nei giorni scorsi (leggi qui), replicò l’8 e 9 agosto successivo Oreste Scalzone, rinchiuso da quattro mesi a seguito della retata del 7 aprile 1979 nel carcere romano di Rebibbia

 

«Cara Rossanda, a proposito del tuo corsivo Perché non sono più garantista, alcune obiezioni.
La tua conoscenza del movimento comunista ‘storico’ è troppo qualificata perché possa sfuggirti il fatto che – soprattutto in quella tradizione – la “veridicità” del merito degli argomenti viene il più delle volte sopraffatta dalla logica dello schieramento. Ora sottrarsi a questa ‘legge’ ogniqualvolta sia possibile è senz’altro doveroso anzi, è il fondamento della possibilità stessa di quella cultura “eretica” che è una delle radici della critica radicale […]
A me pare che nel tuo corsivo si perda la distinzione – anzi, la contrapposizione – fra critica (di parte comunista) del diritto e soppressione del diritto stesso. La critica del ‘diritto uguale’ mette capo infatti a un discorso sulla estinzione del diritto entro la fine delle forme economiche e statuali, dentro la fine di ogni forzosa omologazione dei soggetti diversi in
una astratta eguaglianza definita dal tempo di lavoro, dal valore, dal denaro, dal suffragio, dalla rappresentanza.
Dal punto di vista della trasformazione sociale, una critica del diritto che non sia articolazione della critica della forma “Stato” (e, per meglio dire, del rapporto di capitale, della sintesi sociale, realizzata dal mercato, delle forme statuali), non ha senso né fondamento. Così come una critica delle ‘garanzie’ separata da una critica del potere può mettere capo solo a delle conseguenze regressive, reazionarie: può solo trasformarsi in un’ideologia e/o tecnologia del dominio.
Dal punto di vista della liberazione, una critica del carattere formale, non neutro delle libertà (come parzialissimi e ambigui vincoli, limiti, correttivi del potere) non ha seno se separata da una critica radicale dei poteri.
Mi pare che, nel tuo pezzo non si faccia la distinzione fra ineguaglianza e differenze. Ci si limita a riproporre la critica ‘classica’ – perfettamente valida, ma inefficiente – per cui il “diritto uguale” (formale) si fonda sulla ineguaglianza (reale) dei soggetti. Ma questo è solo il punto di partenza, e solo tale può essere. Andando oltre, oggi possiamo ben dire che – al livello della maturità del comunismo – il problema della rivoluzione non è certo quello di stabilire una sorta di “diritto ineguale” (formale) che rovesci ‘per decreto’ questo stato di cose. In questo senso, il cammino possibile della liberazione, della rivoluzione, è ormai irrevocabilmente oltre l’orizzonte della dittatura del proletariato come perfetta democrazia […]
In questo senso, nessun passo in avanti del discorso è possibile, senza una critica radicale – fondata peraltro su una serie di categorie di matrice marxiana – della democrazia e del socialismo. Si tratta di una critica specificatamente rivolta alla “democrazia socialista”, a quel nesso democrazia/socialismo che, coniugando l’eguaglianza dei soggetti sotto l’indifferenziato dominio della legge del valore con la rappresentanza della “volontà generale” dei cittadini-lavoratori, inevitabilmente abolisce una serie di ‘libertà’, senza perÚ che esse trascorrano nella libertà comunista […]
Dentro questa tematica che si autodefinisce “neogarantista” c’è qualcosa di più di una possibile tattica difensiva; ed è qualcosa che merita di essere approfondito e – se del caso – assunto. E dico questo non solo tenendo conto delle lucide precisazioni di Ferrajoli (la radicale differenza tra questo ‘neogarantismo’ e il vetero-garantismo classico; il suo porsi come necessariamente e dichiaratamente complementare a un’effettiva costituzione di processo di contropotere che continuamente determinino una dinamica squilibrante, una rimessa in discussione permanente della “costituzione materiale”); dico questo soprattutto perché ritengo che questa tematica possa essere assunta come elemento significativo di un rapporto tra costituzione del soggetto comunista di massa e forme dell’antagonismo […]
Si tratta di considerare i dal punto di vista di questo potente, ampio, ricco processo di costituzione del soggetto, del soggetto sociale, di massa, della trasformazione comunista […] Si tratta, per esempio, intanto, di affrontare il tema – appena abbozzato – dell’autodifesa delle comunità (che elettivamente su questo terreno di socializzazione indipendente – strategicamente offensiva nel suo stesso emergere e volgersi – si vengono costituendo) dal potere, dalle materiali operazioni di contenimento, di interdizione, di coazione che esso esercita. In questo senso, in ordine a questa prospettiva, il “neogarantismo” – come coerente e intransigente critica del potere, come sistematica proiezione del conflitto sui livelli e sugli equilibri della “costituzione materiale” – può diventare teoria specifica […] di una potente dinamica conflittuale tra contropotere o componenti critiche e ‘conflittuali’ che si muovono e agiscono nel limite della legalità.
Mi interessa in particolare l’articolazione giuridico-processuale di una linea di intransigente radicalità “neo-garantista”.
Consentimi di fare l’esempio del “processo 7 aprile”, che è stato peraltro il “caus belli” di questo dibattito. Ecco, io credo che tutti dovrebbero fare la fatica di leggersi le 174 pagine del documento-monstre firmato dal consigliere istruttore Gallucci. Di questo documento, davvero si può dire che il mandato di cattura è niente, l’ordinanza è tutto. In essa si tenta una formidabile innovazione del diritto, consistente nella sua pratica dissoluzione e soppressione a favore dell’assunzione, da parte dello Stato, di una logica di guerra. Inversione dell'”onere della prova” […] legittimazione del sospetto, della “verosimiglianza” di un’ipotesi accusatoria agli occhi del potere, come sufficiente motivo per tenerti in galera: questi sono i capisaldi della “filosofia repressiva” di Gallucci. Col 7 aprile si apre in forma stabile – sufficientemente esplicita e clamorosa da poter costituire un corposo precedente -, la lista dei “prigionieri di guerra” in questo paese […]
Ecco: io credo che contro questa “filosofia” della soppressione del diritto da parte dello Stato, la prima trincea, la più radicale e avanzata in questo momento – per quanto riguarda la linea di condotta dei compagni prigionieri – sia un intransigente e animoso “neo-garantismo”.
Anche per questo mi ostino (anche in polemica con parecchi compagni) a rifiutare il ricorso a una tematica politica “innocentista”. Non foss’altro per il fatto che una impostazione innocentista finisce implicitamente per accettare o perlomeno subire l'”inversione dell’onere della prova”. In altre parole: se io accetto di fornire di me un ritratto, un identikit in positivo, vuol dire che abbandono il campo di una pregiudiziale e intransigente battaglia “garantista”.
Sono convinto che una posizione intransigentemente garantista dovrebbe rifiutarsi di accettare la farsa di interrogatori che non hanno più neanche le caratteristiche previste nello stesso codice di procedura e porterebbe a rifiutare il confronto con giudici che sono per loro stessa esplicita teorizzazione veri e propri componenti di un “braccio secolare” e che, come cinghia di trasmissione della ragion di Stato, si consentono ogni arbitrio. CosÏì stando le cose, ho deciso di rifiutarmi di “rispondere” non solo perché questo processo é già pubblico, ma perché credo di far funzionare i verbali di interrogatorio come strumenti di agitazione, di denuncia, di controinformazione. Ritengo comunque che, nella prossima fase, noi non abbiamo da “difenderci”, ma da mettere sotto accusa i nostri inquisitori.
E qui si tratta cara Rossanda, non già di rilevare l’astratto formalismo di questo metodo garantista. Si tratta semmai di lottare perché le “libertà” funzionino come libertà della lotta, come spazi di espressione utilizzati da quei nuovi soggetti – multiformi e concreti – che compongono il movimento della trasformazione sociale.
E’ per questo che l'”innocentismo” non mi convince. Perché mi sembra che equivalga a una mezza sconfitta. Insomma: se uno pretende di tenerti in galera perché, a dire della ragion di Stato, è “verosimile” che tu sia “terrorista”, nel momento in cui ti metti a proclamarti innocente hai già perso a metà. Perché hai avallato la loro decisione di legittimare il sospetto come elemento di accusa. Garantismo intransigente, radicale sul terreno processuale vuol dire invece che – quand’anche uno fosse un “combattente comunista” (o che so, il rapinatore del secolo o il mostro di Londra), non può essere tenuto in galera senza prove specifiche contro di lui. Sarà formalistico, sarà un criterio che può essere utilizzato anche dai Rauti e dai Sindona, come dici tu, ma – fintantoché viviamo sotto il dominio del capitale, fintantoché ci sarà uno Stato, un potere – questo è senz’altro il criterio pi “progressivo”. Anche perché – per un Rauti o un Sindona che, nel regime sociale vigente, fossero eventualmente condannati sulla base di una lacerazione di questo criterio -, senz’altro ci sarebbe un numero cento, mille volte superiore di proletari, di compagni, che finirebbero sotto la stessa mannaia. Converrai infatti, cara Rossanda, che la corporazione della magistratura è ancora meno “neutrale” delle “garanzie”, e che non ci sono dubbi su come userebbe – e già usa – ogni margine di discrezionalità concessole. Sappiamo bene quanto bisogna diffidare dei “tribunali del popolo” e della “giustizia rivoluzionaria” (cioè degli effetti di una critica pratica della “giustizia borghese” che si arresta a metà, che non va “fino al fondo delle cose”, che non è radicale); figurarsi se si può pensare di far funzionare i “tribunali borghesi” in modo (non formale e non neutrale) coevo agli interessi proletari, ai processi di trasformazione sociale. Non v’è dubbio alcuno che – se la verosimiglianza del sospetto agli occhi del potere diviene sufficiente a “legittimare” carcerazioni e condanne – la macchina penale si fa strumento ancor pi organico non solo al “sistema sociale”, ma anche al “regime politico” (e, più in particolare, alle direttive dell’Esecutivo in carica).
Anche per questo – e non certo per astratto moralismo – ritengo che vada respinta ogni sollecitazione ad “abiure” e “patteggiamenti” anche parziali. Ogniqualvolta sia necessario entrare nel merito dei fatti e delle questioni contestate si deve insistere sulla “rivendicazione” di una identità e di una storia di militanti comunisti che hanno operato all’interno della sovversione sociale. E questo non per motivi “di bandiera”, per moralistico ideologismo, per amor di “coerenza”; ma per il fatto che sono oggi in gioco elementi che vanno a configurare un corposo precedente […]
Last, but not least, io ritengo che sia necessario a tutti i costi di evitare di frammischiare elementi di un discorso e di una battaglia politica come la critica delle teorie del partito – guerriglia o delle ideologie militariste” – critica che ha una sua autonoma e antecedente ragion d’essere – con lo sviluppo di una “linea di difesa”. Si tratta infatti di cose ben distinte, che Ë opportuno e utile (oltreché corretto) tenere distinte […]
Insomma, per dirla in altre parole, se un giorno le teorie di Lucio Magri venissero messe sotto processo, l’adesione al Pdup venisse dichiarata reato, e qualcuno venisse ad arrestarmi per via del convegno sotto il tendone del circo Medini di 10 anni prima, non credo proprio che sfodererei il repertorio delle radicali divergenze che mi dividono dal pensiero e dalla prassi di Magri, né il mio primo pensiero sarebbe presentare ai giudici il “dossier” con tutti gli articoli che ho scritto contro di lui.
Anche per queste ragioni non ho condiviso “in radice” la presa di posizione che la più parte dei gruppi dell’Autonomia operaia organizzata ha effettuato, rispetto al discorso sull’amnistia.
Ritengo infatti che – dietro le giaculatorie di rito (formalmente “di sinistra”) tipo “niente trattativa”, “la lotta di classe non può conoscere tregua” et similia – si elude, anzi si rimuove, il problema reale. Affannarsi a dichiarare – in quelle prese di posizione – infondato ogni discorso sulla “trattativa”, dal momento che non esiste una “guerra”, vuol dire chiamarsi elegantemente fuori dagli enormi problemi sollevati, qui e ora, da un nodo – quello dei prigionieri “politici” e “sociali” – che c’é e che incomberà inevitabilmente sulla teoria di questo paese nei prossimi anni. Non foss’altro perché riguarda ormai – direttamente o indirettamente – migliaia e migliaia di persone […]
D’altra parte, c’è da chiedersi davvero – non per far retorica, demagogia e proclami – con quale improntitudine tanta gente possa pubblicamente dichiarare “sopportabile” dalla comunità sociale il quotidiano tributo di morti pagato alla “civiltà del lavoro”, e poi affermare che – se nel magma dei processi di trasformazione sociale ci sono anche “voci” che si esprimono con le armi -, questo deve necessariamente metter capo alla necessità di schierarsi con la “violenza legittima”, e con la scelta da parte dello Stato della “guerra totale” e della “soluzione finale”.
Che il potere faccia mostra di pensarla così, è normale: e il diffondere questa idea, la falsa coscienza di questa “necessità”, nel “senso comune sociale” fa parte delle “tecnologie del potere”. Ma lavorare a una sana critica “disfattista” di questo Stato che scopre il “valore della vita” solo davanti ai feretri dei suoi funzionari è compito di ogni componente “progressiva”.»

Fonte, Il nemico inconfessabile. Sovversione sociale, lotta armata e stato di emergenza in Italia dagli anni Settanta a oggi, Odradek 1999, ristampa 2007, pp. 123-136 Appendice 1

Francesco Cossiga: “Vous étiez des ennemis politiques pas des criminels”

“La soi-disant justice qui s’est exercée et qui s’exerce encore à votre encontre, même si elle est légalement justifiable, tient politiquement soit de la vengeance, soit de la peur”

Sénat de la République
Francesco Cossiga

à M. Paolo Persichetti
Casa Circondariale Marino del Tronto
Frazione Navicella, 218
63100 Ascoli Piceno

Rome, 27 septembre 2002

Cher monsieur Persichetti,

J’ai lu l’entretien que vous avez accordé à La Stampa (25 septembre 2002), et je vous remercie pour l’attention que vous et vos camarades réservez à mes analyses et à mes jugements.
J’ai combattu durement le terrorisme, mais j’ai toujours estimé que, s’il s’agit bien entendu d’un phénomène politique gravissime et blâmable, il n’en plonge pas moins ses racines dans la situation sociale et politique particulière du pays et non dans un “humus propre à la délinquance”.
Le terrorisme de gauche – qui était aussi le fruit de ceux qui, au sein des partis et de la Cgil, n’avaient pas le courage d’aller jusqu’au bout de leurs opinions ou de leurs actes, qui professaient la “violence” au Parlement et dans “la rue”, mais qui, ensuite, n’ont pas assumé, c’est le moins qu’on puisse dire, la responsabilité des conséquences pratiques de leurs enseignements – naît à mon avis d’une lecture “non historique” du marxisme-léninisme et d’une “mythification” de la Résistance et de la Libération qui, dans le contenu social et politique de la gauche, a échoué parce qu’elle a conduit à la reconstitution d’un “régime des libertés bourgeoises”.
J’estime que l’extrémisme de gauche, qui n’était pas un terrorisme au sens propre (en effet, [les militants] ne croyaient pas qu’on ne pouvait changer la situation politique que par des actes terroristes), mais plutôt une “subversion de gauche”, comme l’avait été à ses débuts le bolchevisme russe, c’est-à-dire un mouvement politique qui, se trouvant dans la situation de combattre un appareil d’État, usait de méthodes terroristes comme l’ont toujours fait tous les mouvements de libération, y compris la Résistance (l’assassinat d’un grand philosophe comme Giovanni Gentile – bien qu’il fût fasciste – alors qu’il marchait tranquillement dans la rue par des résistants des Gap [NdT : Groupes d’actions patriotique, d’orientation communiste] florentins peut être jugé favorablement ou négativement, mais, d’un point de vue théorique, il n’en reste pas moins un acte de terrorisme), en croyant amorcer – et c’est là qu’était l’erreur, ne serait-ce que sur un plan formel – un mouvement véritablement révolutionnaire.
Vous avez été battus par l’unité politique entre la Démocratie chrétienne et le Parti Communiste Italien, et parce que vous n’avez pas su entraîner derrière vous les masses dans une véritable révolution. Mais tout ceci fait partie d’une période historique de l’Italie qui est achevée. Et, dorénavant, la soi-disant “justice” qui s’est exercée et qui s’exerce encore à votre encontre, même si elle est légalement justifiable, tient politiquement soit de la “vengeance”, soit de la “peur”. Ce sont précisément ces mêmes sentiments qui animent nombre de communistes de cette période. Quelle légitimité républicaine croient-ils détenir, quand ils l’ont conquise non par un suffrage populaire ni par des luttes des masses, mais à la faveur de leur collaboration avec les forces de police et de sécurité de l’État ? C’est pour cela que moi, qui ai été pour beaucoup d’entre vous “KoSSiga” [NdT: les deux S sont écrits à la main en calligraphie runique pour évoquer le sigle nazi], voire carrément “le chef d’une bande d’assassins responsable d’avoir ordonné des homicides”, je suis aujourd’hui partisan de clore ce chapitre douloureux de l’histoire civile et politique du pays, ne serait-ce que pour éviter qu’une poignée d’irréductibles ne deviennent de funestes maîtres à penser pour de nouveaux terroristes, ceux qui ont tué d’Antona et Biagi, que, pour les forces de police et pour la Justice, il est commode de chercher parmi vous, parce que vous avez été vaincus politiquement et militairement avec l’aide de la gauche : il serait peut-être plus embarrassant d’aller les chercher ailleurs…
Malheureusement, toutes les tentatives, de ma part ou de la part de certains de mes collègues, de droite ou de gauche, de faire approuver une loi d’amnistie ou d’indulto [NdT: allègement de la peine d’emprisonnement] se sont heurtées surtout à l’opposition de la sphère politique de l’ex-Parti communiste.
J’ai lu qu’on vous a refusé l’usage d’un ordinateur. Honnêtement, j’ignorais qu’un tel appareil pouvait être une arme de guerre ! Au cas où vous en feriez de nouveau la demande et que celle-ci serait de nouveau rejetée, faites-le-moi savoir et je veillerai personnellement à vous le faire parvenir.
Ne perdez jamais votre dignité d’homme, même en prison, lieu qui n’est pas fait ni organisé pour “racheter” les hommes ! Et ne perdez jamais espoir.

Cordialement,
Francesco Cossiga

Link
Anni Settanta
Francesco Cossiga, “Eravate dei nemici politici, non dei criminali”
Solo Cossiga ha detto la verità sugli anni 70
Erri De Luca, lettre à un detenu politique flambant neuf

Una banda armata chiamata polizia

Ciò che legittima il preteso monopolio dello Stato nel ricorso a mezzi coercitivi (vedi la nota definizione di Max Weber) e lo distingue da una qualunque banda, cosca, ‘ndrina, clan, branco è il principio di autolimitazione e automoderazione. Più l’uso della forza è normato, più la violenza è regolamentata, ridotta ai minimi termini, ai momenti più estremi, maggiore è il grado di legittimazione che la forza pubblica acquisisce. Ma nel momento in cui la violenza istituzionale abbandona questi requisiti, lo Stato ed i suoi appparati tornano ad essere una banda come le altre, non la banda legittima ma soltanto la banda più forte… finché dura.


Libri – autorecensione. Rabbia, odio, spirito di corpo. Nel libro di Carlo Bonini, Acab, Einaudi, i duri delle forze dell’ordine raccontati a partire dalle loro discussioni segrete sul Web. Quello che i celerini non dicono ma fanno

di Carlo Bonini
Repubblica
16 gennaio 2009

“Le violenze alla Diaz dopo il G8 di Genova? Non mi vergogno di nulla. L’Italia non è uno stivale. È un anfibio di celerino”.
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“Cari colleghi, riteniamo giusto rammentare, per senso di responsabilità, che DoppiaVela è uno spazio per i poliziotti messo a disposizione dalla polizia di Stato. Le critiche, le lamentele, le segnalazioni di disservizi, anche se esternate in modo aspro ma corretto, fanno parte delle normali dinamiche di dialogo tra l’amministrazione centrale e i singoli dipendenti. Trovano dunque una sede naturale all’interno del portale che non può, però, garantire spazi che la normativa vigente attribuisce ad altri soggettii”.
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Ogni volta che entrava in quella benedetta chat intranet, Drago ne gustava la dimensione perversa. A cominciare da quel nome un po’ ingessato – DoppiaVela, la sigla della centrale operativa nelle comunicazioni radio – e dal post politicamente corretto che metteva sull’avviso i naviganti. Perché la verità era che lì dentro si poteva finalmente essere un po’ guardoni e un po’ scorpioni. Masturbarsi dietro un avatar, leggendo l’illeggibile o scrivendo l’inconfessabile. Divorarsi a vicenda – sì, proprio come scorpioni in bottiglia – soltanto per scoprirsi più soli nella propria rabbia. Finita sulle prime pagine dei giornali con sei rotondi anni di ritardo, la “macelleria messicana” del dottor Fournier era stato un potente lassativo. Il forum era impazzito. Genova, troppo lontana e spaventosa per sembrare ancora vera, era diventata solo l’occasione per un outing collettivo. La prova, ammesso ce ne fosse bisogno, che il tempo era stato una pessima medicina. Che odio chiama odio.
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G. DA ROMA Ecco che spunta fuori un nostro bel funzionario, che da buon samaritano riaccende fiamme polemiche e propositi dinamitardi. Che, sicuramente, nelle prossime manifestazioni gli antiglobal metteranno in atto perché più autorizzati che mai. Ma quando la finiremo di fare sempre queste mere figure e inizieremo a tenere la bocca chiusa?
Per Aspera ad astra.
N. DA ANZIO Fournier poteva e doveva risparmiarsi la frase a effetto, “macelleria messicana”. Adesso, per i colleghi ci sarà la solita Santa Inquisizione mediatico-politica.
Unus sed leo.
I. DA GENOVA Ma questo Fournier dov’era durante gli scontri? Ancora non l’ho capito. Era fra i manifestanti? Ha respirato lacrimogeni? O aveva una mascherina? Secondo me si è messo a cantare perché non gli hanno dato nessuna promozione.
P. DA BARI È ancora in polizia o ha chiesto di passare alla politica?
Sono pronto a mostrare il petto e non voglio essere bendato. Ma tu hai il coraggio di guardarmi negli occhi? E che cazzo, mostra ai più di essere uomo. Barcollo ma non mollo.
D. DA LA SPEZIA Colleghi, basta di parlare di questo soggetto. È penoso e noi lo stiamo aiutando nella sua viscida campagna elettorale.
A. DA CAGLIARI Genova, presente con orgoglio e senza nulla da nascondere. Posso testimoniare di Bolzaneto! Non si tratta di essere grandi e non è veramente falsa modestia è solo servizio! Ero al VI reparto mobile di Genova.
L. DA SALUZZO Io c’ero. VI reparto mobile. Tanto orgoglio, tanta rabbia!
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(…)
C. DA ROMA Non capisco perché non vogliate parlare degli errori commessi. Qui si tratta di dire chiaramente:
I colleghi che gridavano Sieg Heil ci fanno vergognare, o no?
I colleghi che avrebbero minacciato di stupro le signorine antagoniste meritano la nostra esecrazione, o no?
I colleghi che si accanivano con trenta manganellate sul primo che passava senza sapere se era solo un povero illuso pacifista o un violento vero, hanno sbagliato, o no?
La collega che al telefono con il 118 di Genova, riferendosi alla Diaz, parla di “Uno a zero” dimostra di essere intelligente?
Su queste cose non ci può essere ambiguità!!!
L’esistenza è battaglia e sosta in terra straniera.
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E bravo il nostro C., pensò Drago. Stai a vedere che ora gli vanno addosso i padovani. Se ne stanno zitti da troppo tempo. Ma è più forte di loro. Se c’è da far vedere chi ce l’ha più duro, loro non sanno resistere. Rinfrescò la chat. Solo per vincere una scommessa troppo facile.
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E. DA PADOVA Caro C., rispondo alle tue domande:
“I colleghi che gridavano Sieg Heil ci fanno vergognare, o no?”
No. Non mi vergogno del fatto che in polizia ci siano dei coglioni. Non più del fatto che ci siano in Italia. Sono fiero di essere celerino e italiano, nonostante loro!
“I colleghi che avrebbero minacciato di stupro le signorine antagoniste meritano la nostra esecrazione, o no?”
No. Per questa domanda, oltre a valere la risposta sopra, concedimi anche il beneficio del dubbio. Chi prenderebbe seriamente un tentativo di violenza a una capra malata? Il popolo antagonista non brilla certo per l’attaccamento all’igiene! Non credo a quello che, sicuramente in malafede, sostengono questi personaggi!
“I colleghi che si accanivano con trenta manganellate sul primo che passava senza sapere se era solo un povero illuso pacifista o un violento vero, hanno sbagliato, o no?”
No. Pur essendo convinto assertore della totale inutilità di infierire su un manifestante inerme (questo è l’unico sbaglio, sprecare le forze su uno solo), sappi che è impossibile farsi rivelare dal manifestante durante la carica, se è un “povero illuso pacifista” o meno. È inoltre abbastanza difficile, dopo ore di sassaiole subite, magari con fratelli feriti anche gravemente, beccare uno dei personaggi che ti stanno avanti e picchiarli solo un pochettino. Quello che dico è che il povero illuso, visti gli stronzi che stavano con lui, poteva tornarsene a casa invece di manifestarci insieme! Se gli è andato bene fare da scudo per questi delinquenti, allora non si può lamentare di subirne le conseguenze! Che poi qualche collega si sia comportato come un qualsiasi essere umano sotto stress non mi sembra né incomprensibile né disdicevole. Sicuramente qualcuno avrà commesso sbagli. Sai quanti poliziotti c’erano a Genova? Di sicuro non mi vergogno per i loro errori!
“La collega che al telefono con il 118 di Genova, riferendosi alla Diaz, parla di “Uno a zero” dimostra di essere intelligente?” No. Ma come si dice a Roma, sti cazzi! Hanno messo a ferro e a fuoco una città, rischiando di farci fare una figura di merda a livello internazionale, provocando danni, feriti, spese enormi e si preoccupano della frase di una telefonista? Non mi vergogno per quello che ha detto. Mi vergogno perché oggi la madre di un teppista imbecille, dimostrando una mancanza di scrupoli e un cinismo degni di una Kapò, è riuscita a farsi eleggere senatrice della Repubblica; perché un partito italiano ha fatto intitolare un’aula all’imbecille!
Non voglio i soldi di questi politici. Non voglio i soldi da questo governo (e da un altro come questo). A difendermi ci penso da me, con l’aiuto di Dio e dei fratelli celerini, che mi stanno accanto e non mi tradiscono nel momento del bisogno.
Once in the Celere, always in the Celere.
C. DA ROMA Quindi, per te, avere al fianco un cretino non è un problema?
Lo dico serenamente: due che tengono e uno che mena non mi sembra da eroi. E poi ti rispondo da romano: “sti cazzi un par di palle”. Tu non lavori nel Cile di Pinochet e non ti pagano con lo stipendio in pesos messicani (forse è di cattivo gusto visto il titolo del thread di discussione, “macelleria messicana”, e me ne scuso con quanti si sentono feriti). Il giuramento che hai prestato parla di far rispettare le leggi, non di fartene di tue. In quanto al rischio della “figura”, mi pare che l’abbiamo fatta e basta. E le responsabilità, lo dico da mesi, non sono di chi stava in strada, ma di chi ha permesso che si arrivasse a questo. Siamo stati mandati lì, sapendo quello che ci avrebbero fatto e sapendo come avremmo reagito. Ti piace questo? Ti piace essere una pedina e poi pagarti l’avvocato? Io questo vorrei evitare. Vorrei capire come si può evitare che un collega mandato a fare il proprio dovere si ritrovi indagato in due processi e, dopo la Maddalena, forse anche nel terzo. Scusate la lunghezza.
L’esistenza è battaglia e sosta in terra straniera.
P. DA BARI Scusate, il Sig. Dott. Funz. Uff. Fournier quando lo faranno santo?
Sono pronto a mostrare il petto e non voglio essere bendato. Ma tu hai il coraggio di guardarmi negli occhi? E che cazzo, mostra ai più di essere uomo. Barcollo ma non mollo.
E. DA FIUMICINO Io penso che questi degni eredi di quei cattivi maestri che dicevano in piazza “Uccidere uno sbirro non è reato” ci considererebbero picchiatori fascisti anche se andassimo in servizio di Op vestiti di rosa e con un mazzo di fiori in mano.
B. DA PADOVA Quando alcune centinaia di ultras o di autonomi sono schierati a cinquanta metri da te con spranghe, catene, bombe carta e coltelli, io ritengo opportuno fargli così tanto schifo e paura che non devono pensare di poterci attaccare senza lasciarci le ossa!
L’Italia non è uno stivale. È un anfibio di celerino.
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Violenza di Stato non suona nuova
G8 massacro alla Diaz, per i giudici d’appello il blitz fu ordinato da Ge Gennaro

Stato d’eccezione carcerario, strada aperta alla speculazione

I responsabili del sistema penitenziario chiedono poteri speciali

Paolo Persichetti
Liberazione 3 gennaio 2010 – speciale Cemento e castigo

Il capo del Dap Franco Ionta ha chiesto lo scorso novembre l’apertura dello stato d’emergenza per le carceri. Secondo l’ex pm antiterrorismo, salito ai vertici dell’amministrazione penitenziaria nel luglio 2008, i «poteri straordinari» conferitigli all’inizio del 2009, in qualità di «commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria», non sarebbero più sufficienti per fronteggiare la gravità della situazione carceraria. In una lettera inviata a Settembrino Nebbioso, attuale capo di gabinetto del ministro della Giustizia Angelino Alfano, il massimo responsabile del carceri ha chiesto poteri speciali da «commissario delegato». Un ampliamento delle competenze simile a quelle attribuite a Guido Bertolaso nel campo della protezione civile. Un potere d’eccezione che gli consentirebbe di aggirare le normali procedure in materia di edilizia penitenziaria prospettati, a più riprese, nel piano carceri annunciato dal governo. Ionta chiede di fare a meno delle gare pubbliche di appalto per l’attribuzione dei lavori alle ditte costruttrici e di avere in cambio la facoltà di affidare in via riservata, con modalità arbitrarie e discrezionali, i contratti per la costruzione di 47 nuovi padiglioni nei penitenziari già esistenti, e per i quali la finanziaria ha stanziato 500 milioni di euro (in buona parte presi dalla “cassa ammende”, circa 350 milioni, in precedenza utilizzati per finanziare programmi di trattamento e rieducazione che in questo modo verranno meno). Il piano indica anche la costruzione di 24 nuovi penitenziari a struttura modulare, di cui 9 «flessibili» (vale a dire carceri di “prima accoglienza” destinati a governare l’enorme flusso di ingressi/uscite rappresentato da quella fascia di persone arrestate, o detenute con pene lievi, che soggiornano in prigione per pochi giorni), da costruire nelle grandi aree metropolitane o in aree considerate “strategiche”, e di altre 7 strutture “pesanti”, a pianta architettonica tradizionale; progetti per i quali manca la copertura finanziaria. Il project financing si è infatti arenato di fronte all’indisponibilità dei costruttori privati ad anticipare il costo dei lavori in cambio di contratti di lising poco remunerativi a breve termine. Un emendamento alla finanziaria, che consentiva la permuta di aree demaniali e delle sedi di vecchie carceri situati nei centri storici urbani, molto appetiti dagli speculatori del cemento, in cambio di nuove carceri da costruire nelle periferie, è stato fortunatamente bocciato. La richiesta del capo del Dap ha un precedente pericoloso, estremamente evocativo delle mire speculative che si nascondono dietro il piano carceri. Si tratta dei poteri speciali attribuiti nel maggio del 1977 al generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa. Con un decreto interministeriale ripetutamente prorogato, il responsabile dei nuclei speciali antiterrorismo venne nominato Comandante dell’ufficio di coordinamento per la sicurezza esterna degli stabilimenti penitenziari. A Dalla Chiesa fu affidato il compito di individuare i penitenziari destinati alla creazione di un nuovo circuito di massima sicurezza: le famose “carceri speciali”. In soli due giorni, con l’ausilio anche di elicotteri bimotore, vennero trasferiti sulle isole e da un capo all’altro del Paese circa 600 detenuti. Ma i poteri eccezionali conferiti al generale non si limitavano solo a questo. Dalla Chiesa aveva assunto anche competenze di intelligence che gli consentivano di entrare senza problemi all’interno degli istituti ed esercitare un forte potere gerarchico sui direttori. Nell’ambito di questi poteri d’eccezione, il Parlamento approvò, sempre nel dicembre del 1977, una legge recante «disposizioni relative a procedure eccezionali per lavori urgenti ed indifferibili negli istituti penitenziari». Si tratta del precedente legislativo a cui si ispirano le pretese dell’attuale capo del Dap. Questa legge attribuiva al ministero della Giustizia ampi poteri discrezionali in materia di lavori pubblici e di appalti per la realizzazione di interventi che andavano ben oltre l’ordinaria manutenzione. Da quella operazione prese origine uno dei più importanti episodi di corruzione e truffa ai danni dello Stato. Scandalo scoperto nel febbraio 1988 e che travolse un ministro, il socialdemocratico Nicolazzi. La chiamata nominativa delle imprese di costruzione e l’opacizzazione dei protocolli, oltre all’avvio di un vasto programma di nuova edilizia penitenziaria basato su impressionanti colate di calcestruzzo e ferro in poco tempo divenute fatiscenti, diede origine allo scandalo delle carceri d’oro. Ogni “posto detenuto” venne a costare circa 250 milioni di lire, il prezzo di un appartamento in una grande città dell’epoca. Come allora, la banda del calcestruzzo, sponsor di questo governo, sarà il vero fruitore del piano carceri. Cemento e castigo, ecco l’Italia di Berlusconi.

Link
Antigone: “Piano carceri, unica novita i poteri speciali a Ionta”
Cronache carcerarie
Dietro al piano carceri i signori del calcestruzzo
Stato d’eccezione carcerario, strada aperta alla speculazione
Punizioni e premi, la funzione ambigua della rieducazione
Già piu di mille i ricorsi dei detenuti a Strasburgo contro il sovraffollamento
L’abolizionismo penale è possibile ora e qui




Genesi del populismo penale e nuova ideologia vittimaria

La democrazia coniugata in forma giudiziaria ha favorito la svolta a destra della socieità italiana

Paolo Persichetti
Liberazione
(supplemento Queer) 13 luglio 2008

Il tema della criminalità si è imposto ormai come una delle leve principali dell’azione politica. Vero e proprio strumento di «governo attraverso la paura», secondo la definizione che ci viene da alcuni studi sociologici nordamericani. All’origine di questa “innovazione” sembra esserci il consolidamento del sistema di produzione postfordista e del corrispondente modello politico neoliberale.
Da una forma di capitalismo che cercava d’ottimizzare le sue prestazioni attraverso politiche che incrementavano l’impiego e utilizzavano la capacità d’acquisto dei salari per accrescere la domanda, si è passati a un modello che ha fatto della precarizzazione della vita e della speculazione finanziaria la sua fondamentale fonte di profitto, ingenerando un nuovo tipo di società dominato dall’esclusione, dalla marginalizzazione sociale, dalla collocazione forzata nell’armata del precariato diffuso, dallo sfruttamento intensivo dei settori più marginali della forza lavoro. Una società dove l’umanità è percepita come un’eccedenza sociale, economica e politica. Sovranumeri da cui occorre liberarsi per alleggerire il ciclo produttivo, ripulire le città, rispedire nei luoghi di provenienza i migranti, fare piazza pulita di questuanti, posteggiatori e lavavetri, occupanti di case sfitte e writers. Il tutto declinato attraverso il linguaggio della messa al bando, della difesa della società e della neutralizzazione del male. Una società dove s’indeboliscono i legami sociali, viene meno ogni capacità inclusiva e prevale un dispositivo predatorio, una sorta di legge della giungla che conforma tutti i rapporti sociali ridisegnando una nuova dimensione ideologica che ha preso il nome di «populismo penale». Una “cultura del controllo” risultato della costante «tensione tra ideologia neoliberale del libero mercato e autoritarismo morale neoconservatore», dove il conflitto non trova più uno sbocco: privo di progettualità esprime solo rabbia, rivalsa, frustrazione, rancore. Una guerra dei forti contro i deboli, non solo dei primi contro gli ultimi ma dei penultimi contro chi viene subito dopo, di chi sta peggio col suo simile, di sopraffazione permanente, di scontro molecolare.
Dentro queste nuove contraddizioni mette radici un groviglio confuso di sentimenti che intrecciano la paura per l’avvenire, l’ossessione per il declino sociale, accentuando i processi d’identificazione vittimistica.

Vittime meritevoli e privatizzazione della giustizia
Figura centrale di questa grande svolta punitiva approdata in Europa dagli Usa è l’icona della vittima presentata come «autentica incarnazione dell’individuo meritevole: quasi un modello ideale di cittadino». Tuttavia l’investitura legittimante che offre l’acquisizione di questa posizione sociale è caratterizzata da un accesso fortemente limitato e diseguale. La postura dell’innocente è infatti riconosciuta sulla base di ben selezionati requisiti di ordine sociale, economico, culturale e etnico che variano secondo le latitudini. Per i gruppi stigmatizzati in partenza, nei confronti dei quali si presume una contiguità originaria con l’universo criminale o la genealogia del male, non vi è alcuna possibilità di accedere alla santità vittimaria.
In effetti più della vittima in se è la nozione di “vittima meritevole” che trova affermazione e legittimazione. Non basta aver subito un torto o un danno per poter essere riconosciuti come tali, occorre innanzitutto entrare a far parte della categoria legittimata ad esserlo. L’uso strumentale della figura della vittima ha innescato un processo regressivo di privatizzazione della giustizia. Ogni retorica riabilitativa è scomparsa dietro una pura logica di rappresaglia che i poteri pubblici delegano alla vendetta privata, costruita sulla spersonalizzazione e la disumanizzazione assoluta di chi viene immesso nel recinto dei colpevoli. Questo processo di privatizzazione del diritto di punire trae la sua origine dalla convinzione che la liturgia del processo penale possa svolgere una funzione terapeutica, favorendo la riparazione psicologica della vittima. La giustizia processuale perde in questo modo il suo ruolo peculiare di ricerca delle responsabilità per rivestire la funzione di ricostruzione clinica della persona offesa.
Un’interpretazione che non ha mancato di sollevare obiezioni poiché sancisce una connaturata fragilità dell’individuo moderno, ormai ritenuto incapace di reggere i conflitti. L’esaltazione narcisistica della sofferenza diventa così una risorsa che le parti in lotta introducono nella dimensione simbolica del conflitto, percependosi ciascuna non più come avversaria e combattente, ma l’una vittima dell’altra. La reciprocità agonistica sostituisce l’inconciliabilità vittimistica. Una competizione della sofferenza che mina ogni possibile terreno di soluzione, ogni pausa o riconciliazione civile. Alla fine la vittima genera solo altre vittime, ricordava Hannah Arendt.
Quest’ideologia presenta tuttavia sfaccettaure diverse tra la realtà nordamericana e quella europea. Differenze legate alla presenza di modelli sociali, istituzionali e giudiziari dissimili. Il tema della complicità dello Stato con il crimine, tacciato per questo d’elitismo e corruzione, appartiene – per esempio – al repertorio classico della critica neoconservatice e dei libertarians americani (i fautori dello Stato minimo) nei confronti di quello che viene ritenuto un eccessivo presenzialismo statale. Al contrario, da noi, i “professionisti dell’antimafia” denunciano il lassismo del governo nella lotta alla criminalità auspicando un sempre maggiore coinvolgimento dello Stato. Il sistema giudiziario di tipo accusatorio fa si che nel modello nordamericano si configura una contrapposizione politico-ideologica tra gli incarichi elettivi e quelli indipendenti che reggono il sistema della giustizia penale, definito da Simon il «complesso accusatorio». Lo sceriffo della contea insieme a l’attorney (il procuratore) sono ritenuti gli eroi della guerra senza quartiere al crimine. Mentre il giudice terzo, in quanto garante delle forme della legge, è percepito come un ostacolo se non addirittura una figura connivente con la delinquenza.
La tradizione inquisitoria che pervade ancora il sistema giudiziario italiano, via di mezzo tra rito istruttorio e “semiaccusatorio”, consente invece alla nostra magistratura di essere individuata come il perno centrale della lotta non solo alla criminalità ma più in generale all’ingiustizia. L’impegno profuso nel contrastare la sovversione sociale degli anni 70, la lunga stagione delle leggi penali speciali e dei maxiprocessi che ha traversato il decennio 80, e poi lo tsunami giudiziario che ha preso il nome di “tangentopoli”, hanno conferito alla magistratura, e in particolare ad alcune importanti procure, il ruolo di vero e proprio soggetto politico portatore di un disegno generale di società, di una filosofia pubblica capace di sostituirsi agli attori tradizionali della politica, partiti e movimenti.

L’ideologia vittimaria
Tuttavia l’ideologia vittimaria non ha ancora assunto una sua fisionomia codificata e stabile. In un’epoca in cui i fenomeni sociali prendono una conformazione sociale «liquida», anche il vittimismo diventa non solo pervasivo ma proteiforme, mutevole. E così nelle lande del settentrione leghista fanno breccia gli argomenti tipici della destra statunitense sul contribuente vittimizzato dalle tasse governative, sul costo eccessivo di un welfare per i poveri e le minoranze urbane, cioè le stesse comunità accusate di generare criminalità, che nella retorica leghista diventano i migranti e le regioni meridionali.
Nonostante sia evidente la matrice ultrareazionaria e il carattere ferocemente conservatore dei suoi esiti politici, al dilagare del populismo penale – almeno in Italia – non è estranea la cultura di buona parte della sinistra che ancora pochi giorni fa si è radunata in piazza Navona. Questo mito dell’azione penale intesa come strumento politico di sostituzione, grimaldello che in nome di una presunta società civile pura, inerme, innocente, vittima e onesta, scardina la “casta della politica”, si attaglia perfettamente a quella concezione strumentale dell’apparato giudiziario di radicata tradizione sostanzialista, riassunta nella tradizione giacobina e lasalliana, maggioritaria nelle correnti di pensiero presenti nel movimento operaio. Un processo d’autoinvestitura politica della magistratura emerso in pieno negli anni 90. Un atteggiamento che privilegia la concezione aggressiva della funzione del giudice e attribuisce all’azione penale una posizione centrale nella scena pubblica, fino ad avocare a se un ruolo politico decisivo e una competenza illimitata. I parametri classici della teoria della tripartizione dei poteri vengono in questo modo stravolti a vantaggio di un modello di governo giudiziario nel quale il suffragio e la tradizionale teoria liberale della rappresentanza sono sopraffatti da una kantiana repubblica di procuratori della repubblica che ambisce all’interpretazione dell’interesse generale.
La giudiziarizzazione crescente della politica e il trionfo del populismo penale hanno contribuito al declino ulteriore dei modelli di Stato sociale in favore dello ritorno dello Stato etico e penale. «La vera fonte della legittimità deriva dalle legalità o dal suffragio?» – è arrivata a chiedersi nel 2001 la rivista Micromega, organo ideologico dei pasdaran della soluzione penale. La democrazia coniugata nella sua forma giudiziaria ha favorito e accelerato la svolta a destra della società italiana.
Per questo il rilancio dell’azione politica alternativa e della critica sociale non può che passare per il rifiuto totale di ogni subalternità verso concezioni penali della politica, unico modo per liberare la società dagli effetti stupefacenti dell’oppio giudiziario.

Per approfondire
Populismo penale
Curare e punire
Il governo della paura
Genesi del populismo penale e nuova ideologia vittimaria
Populismo penale, una declinazione del neoliberismo
Ho paura dunque esisto
Dipietrismo: malattia senile del comunismo?
Giustizia o giustizialismo, dilemma nella sinistra
Il populismo penale una malattia democratica
Luigi Ferrajoli: Populismo penale ovvero la strategia della paura

Populismo penale, una declinazione del neoliberismo

«A uno Stato snello, che rinuncia alle tradizionali funzioni protettive, si chiede allora l’essenziale: la difesa del proprio corpo e dei propri possedimenti, anziché la difesa da un’economia che li minaccia. Il populismo penale è legato allo snellimento dello Stato e alla domanda crescente di difesa personale anziché sociale. Il termine populismo, d’altro canto, va riferito al risentimento di gruppi che si credono trascurati o abbandonati dall’autorità. Questo risentimento, però, si traduce in ostilità verso altri gruppi o individui ritenuti complici della condizione di abbandono»

 

Vincenzo Ruggiero
Liberazione
(supplemento Queer) 13 luglio 2008

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La questione criminale e quella penale sono ormai oggetto irrinunciabile della contesa tra i partiti politici. Destra e sinistra fanno a gara, negli Stati Uniti come in Danimarca, in paesi culturalmente simili o diversissimi, ad offrire sicurezza per i cittadini onesti e severità per chi viola le leggi. Si tratta di una tendenza generale, che tuttavia lascia intravedere delle differenze non secondarie quando si esaminano i paesi individualmente. Adottando una distinzione sommaria tra paesi a economia spiccatamente neo-liberista e paesi a economia relativamente controllata, i primi mostrano tassi più elevati di carcerazione, maggiore severità delle pene e minore tolleranza verso i reati di limitata gravità sociale. Una spiegazione provvisoria potrebbe essere la seguente. Nei paesi di intensa fede neo-liberista il successo individuale viene premiato tanto quanto l’insuccesso viene punito. Chi nel mercato mostra segni di fallimento, insomma, va espulso, castigato; si rischia altrimenti di lanciare un messaggio insidioso, vale a dire che la responsabilità per il fallimento non è da attribuire all’individuo, ma al mercato medesimo. I processi di globalizzazione fanno da sfondo a queste dinamiche. Mi riferisco, particolarmente, all’erosione del minimo di sussistenza per intere popolazioni, allo sradicamento provocato dalla deregolazione dei commerci, e alla creazione conseguente di eserciti di 883391268xg migranti e richiedenti asilo. D’altro canto, con la crescente interdipendenza tra paesi e popoli, e con la coabitazione ‘coatta’ tra questi ultimi, la presenza dell’altro si rende visibile e finisce per creare insicurezza. Ecco un paradosso. L’insicurezza creata dai mercati riguarda tutti, o per lo meno le maggioranze, in termini di paura rispetto al futuro, vulnerabilità nei confronti del datore di lavoro, impotenza verso i processi decisionali. Ma una simile paura, che Bakhtin definirebbe ‘cosmica’, rivolta com’è a un potere inafferrabile e debordante, viene tradotta in sgomento indirizzato a minoranze visibili. Se lo Stato non può più difenderci dall’economnia, se non è più in grado di guidarla ma solo di obberdirle, allora dovrà difenderci da altre fonti di insicurezza. A uno Stato snello, che rinuncia alle tradizionali funzioni protettive, si chiede allora l’essenziale: la difesa del proprio corpo e dei propri possedimenti, anziché la difesa da un’economia che li minaccia. Il populismo penale è legato allo snellimento dello Stato e alla domanda crescente di difesa personale anziché sociale. Il termine populismo, d’altro canto, va riferito al risentimento di gruppi che si credono trascurati o abbandonati dall’autorità. Questo risentimento, però, si traduce in ostilità verso altri gruppi o individui ritenuti complici della condizione di abbandono avvertita. Il populismo non aspira al sostegno dell’opinione pubblica in generale, ma solo di quel settore della società che si crede sfavorito e danneggiato dalla presenza e dalle attività di altri gruppi. Questi ultimi, ritenuti immeritevoli di quanto posseggono, vengono indicati come responsabli dell’emarginazione di chi non vuole far altro che condurre un’esistenza ordinaria e silenziosa. Michael Howard, ministro britannico conservatore, in una dichiarazione rilasciata nel 1993, espresse con chiarezza questo pensiero: la maggioranza silenziosa è diventata rumorosa, perché il sistema della giustizia criminale fa ormai troppo per i criminali e troppo poco per la protezione del pubblico. Secondo una definizione comune, sono populisti i politici che concepiscono politiche penali punitive le quali sembrano rispecchiare gli umori popolari. Il populismo penale che si diffonde oggi, in realtà, nasconde altro. Assistiamo allo spettacolo dell’affluenza privata e dello squallore pubblico. Avvertiamo che i legami sociali si indeboliscono e sappiamo che solo questi legami possono contribuire, almeno parzialmente, a ostacolare gli appetiti individuali 8833911454geccessivi. La paura dell’altro, in questo contesto, è paura del tipo di sistema che abbiamo creato, è consapevolezza che sappiamo rispondere al crimine, ma non siamo in grado di rispondere alle sue cause. In una situazione di ineguaglianza crescente, con una polarizzazione della ricchezza che torna a livelli ottocenteschi, si teme che il crimine sia destinato a diffondersi e ad assumere i connotati della disperazione. Si teme l’ineguaglianza, non il crimine. Il populismo penale, infine, può avere una propria funzione latente. Se la severità penale, nei primi decenni della rivoluzione industriale, intendeva disciplinare le orde di spossessati al lavoro di fabbrica, nell’epoca corrente una simile severità può educare chi conduce vita precaria ad accettare la propria insicurezza e interiorizzare il proprio scarso valore sociale e umano. La pena, allora, contribuirà alla riduzione delle aspettative, convincendo chi ne è colpito della propria inutilità. Il populismo penale, in breve, è il compagno ideale della crescita economica, basata spesso sulla produzione dell’inutile che rende alcuni gruppi di esseri umani inutili. Ho detto in apertura che, nell’esaminare i paesi individualmente, si notano differenze non secondarie. Guardando all’Italia, ad esempio, credo che il populismo penale si avvalga di uno sfondo culturale e politico davvero singolare. Con una vita pubblica ormai priva di qualsiasi missione etica, e un’élite che moltiplica le manifestazioni della propria illegalità, il populismo non è il trasferimento in politica del risentimento popolare o delle intuizioni che vengono dalla strada, ma è l’insulto, l’aggressione, la depredazione che alcuni temono di poter subire per strada.

Vincenzo Ruggiero è professore di Sociologia presso la Middlesex University di Londra.
Tra i suoi libri: Economie sporche, Delitti dei deboli e dei potenti, Movimenti nella citta, Crimini dell’immaginazione, La violenza politica, e in questi giorni nelle librerie inglesi Social Movements: A Reader

 

Approfondimenti
Populismo penale

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Dalla dottrina Mitterrand alla dottrina Pisanu

n. 20 anno V – ottobre-dicembre 2004

Paolo Persichetti
http://www.hortusmusicus.com/schede/scheda.php?numero_hm=20&art=601

Di fronte alla notizia della fuga di Cesare Battisti, il ministro degli Interni Beppe Pisanu si è augurato che questi «sia arrestato e consegnato alla giustizia il prima possibile, perché chiunque oggi in Italia avesse l’idea d’imboccare la via scellerata del terrorismo deve sapere che, prima o poi, sarà raggiunto dalla forza paziente dello Stato» . Un concetto coverhm20media-1ribadito più volte in occasione di alcune recenti estradizioni e da cui trasuda una singolare idea delle istituzioni. Non sorprende tanto l’ipocrita insistenza, pronunciata con studiata pacatezza, sulla supposta forza paziente ma inesorabile dello Stato. Qui Pisanu ha voluto distinguersi dal suo collega di governo, il guardasigilli Roberto Castelli, che ha affermato lo stesso pensiero digrignando rabbiosamente i denti: «pensavate d’averla fatta franca andando all’estero a godervi la vita… Noi vi cercheremo comunque, dovunque e per sempre». Differenze di stile non di sostanza. Paziente o meno, la forza dello Stato resta per essenza strabica ed eccelle nell’esercizio selettivo della memoria. Colpisce semmai la risonanza biblica presente nelle parole del ministro: quella confusione tra i requisiti formali di uno Stato laico e di diritto col Dio terribile della punizione, l’arbitro ultimo e inesorabile del giudizio universale, molto diverso per altro dal Dio misericordioso dei vangeli. Ma la dottrina giuridica positiva ritiene che la sanzione sia altra cosa dal giudizio divino. Essa ha senso solo all’interno di una temporalità storica ben definita, oltre la quale perderebbe significato fino a capovolgersi. Non più giustizia ma vendetta, abuso, persecuzione. Per questo il codice penale prevede la nozione di prescrizione non solo del reato ma anche della pena. L’idea d’imprescrittibilità che recentemente, sotto la spinta dell’euforia penale, nuovo oppio dei popoli, ha guadagnato terreno, è rimasta comunque confinata a crimini eccezionali come quelli contro l’umanità. Certo per le pene più lunghe la prescrizione interviene solo dopo trent’anni, una distanza immensa. Eppure buona parte dei fuoriusciti oramai hanno superato la soglia dei vent’anni dalla condanna, cioè sono più vicini alla tempo della prescrizione che a quello della sanzione. Chi aspira a riportarli nelle carceri vorrebbe invece fermare il tempo e ricondurre indietro le lancette della storia come quei giapponesi persi nelle isole del pacifico.
Le parole di Pisanu e Castelli, uomini della destra politica, vengono a compimento di un processo, paradossalmente governato dalla sinistra, che ha visto mutare profondamente la cultura giudiziaria. La giustizia si è in qualche modo privatizzata. Il processo penale, ispirato in passato alla difesa dell’interesse generale, oggi viene presentato come una escrescenza tribale, una fatwa talebana legittimata dalla retribuzione simbolica della figura della vittima. Fatti sociali ritmati da una periodicità storica che consentiva la possibilità di un loro riassorbimento, vengono ora inclusi in una metafisica nozione del Male che è al tempo stesso unico e perenne, e perciò irrecuperabile. Male, colpa, vittima divengono nuove categorie supreme che annullano ogni differenza di luogo, di spazio e di tempo. Destoricizzano e desocializzano gli eventi, sacralizzandoli. L’esaltazione narcisistica del dolore muta la stesa percezione dei fatti sociali, in questo modo la reciprocità agonistica è sostituita dall’inconciliabilità vittimistica, dando vita ad una competizione della sofferenza che mina ogni possibile terreno di riconciliazione civile e supplisce la fuga dalle responsabilità della politica.
Le dichiarazioni del ministro degli Interni sono apparse come un monito, un anatema, una sorta di teorema performativo a fini preventivi: arrestare i latitanti della lotta armata di trent’anni addietro, e tra questi in particolare i fuoriusciti riparati in Francia, per usare il loro tardivo castigo come un deterrente contro chi volesse di nuovo imbracciare le armi nel futuro. Un modo di regolare non tanto i conti di ieri quanto piuttosto quelli di domani e ciò attraverso l’uso dei corpi dei fuoriusciti, in questo modo spersonalizzati, disumanizzati, scarnificati e trasformati in figure cristiche. Crocifisse sulla scorta di un iperbolico principio transitivo che li ridurrebbe ad oggetto della “colpa” altrui, sacrificati a mo’ d’esempio. La colpa, o meglio, la responsabilità che il diritto penale concepisce solo come personale, soggettiva, intenzionale e cosciente, diverrebbe così un’essenza astratta trasposta nel tempo e nella storia. E pour cause direbbero i francesi che c’entrano molto in questo caso. Oggetto della controversia è, infatti, la riscoperta del peccato originale, che fuoriesce da una visione teologica della storia. pg_008Questa anacronistica disputa sul senso di colpa non
è altro che il tentativo d’esportare altrove le cause e le eventuali responsabilità che stanno dietro il ritorno un po’ farsesco della lotta armata alcuni decenni dopo la guerra civile degli anni 70. Creare un nesso morale tra la sovversione di quegli anni e gli spari di oggi, costruire una responsabilità monocasuale, retrocederla nel tempo, è l’ennesima prova di una cultura della rimozione eletta a norma di vita. Dietro c’è il terrore di dover riconoscere che quei nuovi colpi d’arma da fuoco tornati a risuonare siano anche responsabilità di chi ha cullato il paese nella rimozione, di chi ha teorizzato e incensato l’oblio del decennio insorgente, di chi in questo modo ha evitato imbarazzanti domande. Le parole di Pisanu nascondono un inaccettabile tentativo di spiegare gli attentati del 1999 e del 2002 come l’affiorare in superficie di una deriva carsica che rimonterebbe alla fine degli anni 80. Secondo il responsabile del Viminale non sarebbe mai intervenuta alcuna soluzione di continuità. Gli attentati D’Antona e Biagi esprimerebbero oltre a una lineare continuità politico-ideologica, anche un evidente nesso organizzativo diretto e soggettivo con i militanti degli anni 70-80. Si afferma: «sono la stessa cosa. Residui di un fenomeno mai veramente sopito, che ha covato sotto la cenere lungo tutti gli anni 90, complici un eccesso di clemenza e la sottovalutazione degli organi di polizia e di governo distolti da altre emergenze». L’eccesso di clemenza sarebbe dunque la causa di tutto. Di quale clemenza poi si stia parlando, non è dato sapere, i prigionieri stanno tutti scontando le loro condanne fino all’ultimo secondo stabilito. L’unica amnistia prevista è quella del tempo.
Probabilmente per clemenza s’intende allora quel centinaio circa di fuoriusciti residenti in Francia e quel pugno di fuggitivi sparsi in altri paesi del mondo. Latitanti, per forza di cose recidivi si è provato a dire all’inizio per poi doversi arrendere di fronte all’evidenza. Allora si è costruito un nuovo teorema e così la colpa originaria ha sostituito quello della centrale francese, legittimando una postura ultrarepressiva che schiaccia sotto il rullo compressore dell’intolleranza totale ogni differenza e diversità. È un approccio che potrebbe definirsi “quantitativo” e non “qualitativo”, animato da analisi rozze, ottuse e oscurantiste, una visione strumentale e superficiale, surrogata da un credo assoluto nella forza.
Questo tipo d’interpretazione, per nulla innocente, suggerisce l’idea che i fenomeni sovversivi non abbiano più un carattere storicamente ciclico ma siano divenuti endemici. Secondo questa tesi dovremmo abituarci a convivere con le ombre e i fantasmi di una concezione clandestina della politica, una minaccia che, a seguito del declino delle grandi spinte ideologiche e al riemergere delle narrazioni religiose, assumerebbe i connotati di un patchwork, un confuso assemblaggio antioccidentale nel quale confluirebbe di tutto. Tipica silhouette del male, che tanto piace alla vulgata neoconservatrice nordamericana, intrisa di un manicheismo biblico perfettamente simmetrico al peggior integralismo islamico. Uno spauracchio opportunamente agitato per giustificare quella “guerra civile dall’alto”, scaturita dal nuovo assetto geopolitico unipolare. img_270867_lrg «Chiediamo all’Unione europea l’inclusione delle Brigate rosse nella lista delle organizzazioni terroristiche», ha affermato il ministro degli Esteri, Franco Frattini, durante il vertice della Nato svoltosi a Bruxelles a inizio aprile 2004. Una richiesta paradossale, poiché rivolta nei confronti di un’organizzazione che non esiste più da ben oltre un decennio e che difficilmente può essere giustificata dall’apparizione di uno scarno numero di imitatori sgominati in breve tempo. Dietro questa richiesta del governo italiano, oltre all’intenzione di mettere in difficoltà la Francia per la venticinquennale ospitalità concessa ai fuoriusciti, vi è la piena adesione all’idea che chiunque abbia, in un modo o nell’altro, preso parte a vicende politiche rivoluzionarie rappresenti una minaccia permanente. Si tratta della palese ammissione che ad essere perseguita non è più l’infrazione eventuale ma l’identità, addirittura remota, delle persone oggetto di queste misure restrittive. Costoro verrebbero considerate, contro ogni buon senso, in possesso di un savoir faire rimasto intatto e aggiornato tecnicamente nei decenni. È questo il nuovo sigillo che le democrazie attuali pongono sulla figura del nemico politico interno, eletto a pericolo permanente e immutabile. Assistiamo in questo modo ad una sorprendente osmosi culturale, ad una micidiale simmetria d’atteggiamento tra le parole di Pisanu e quelle degli autori degli attentati D’Antona e Biagi. Entrambi fanno tabula rasa del decennio 90. Entrambi legittimano le proprie posizioni realizzando una curiosa rimozione storica che cancella l’oltrepassamento realizzato dalla quasi totalità dei prigionieri e dai fuoriusciti della lotta armata, riguardo a una vicenda storica considerata conclusa da oltre un quindicennio.
È quanto mai strumentale la posizione di chi cerca nelle figure di ieri dei responsabili per l’oggi, attribuendo al passato quella che è stata una surreale imitazione figlia del presente. Un paese distratto e annoiato, persino futile, oramai conquistato dall’avidità dell’oblio, impaurito dalla possibilità di sapere, è rimasto scosso dal frastuono di quegli spari improvvisi. Per questo, irritato dal brusco risveglio, ha rovistato furiosamente in un passato sconosciuto, preferendo cercare in spazi e tempi lontani i responsabili di quei colpi senza radici, piuttosto che cercarsi attorno e guardarsi allo specchio. L’Italia è sempre più un paese che non vuole conoscersi e cerca momentaneo sollievo dietro dei capri espiatori, dei simbolici responsabili di sostituzione. cortei_liberta1
Il diniego ostinato, oggi potremmo dire premeditato, dell’amnistia, mantenendo gli insorti simbolicamente emarginati nei recinti carcerari o nei limbi disciplinari di esistenze semipenitenziarie, ha congelato il tempo, cristallizzato le epoche, e impedito a quel sapere incarcerato, a quelle esperienze sotto chiave o esiliate, di affermare le ragioni della irriproducibilità e inattualità dei modelli di lotta armata trascorsi. Non anatemi morali o squallide dissociazioni, ma autonome valutazioni politiche udibili dalle componenti sociali antisistema. Tutto questo è mancato. L’Italia è rimasta fedelmente ancorata alle politiche dell’urgenza, allo stato d’eccezione, ai modelli dell’abiura che hanno facilitato il reistallarsi della coazione a ripetere. L’esilio e il carcere hanno alterato la coscienza del tempo, rafforzando nella società la tentazione di considerare immutabile il rimosso. Se la Francia di Mitterand si era posta il problema di trovare una soluzione alla violenza fuoriuscita dal conflitto politico degli anni 70, l’Italia di Pisanu (e di Violante) continua solo a mostrarsi capace di mettere in scena la dansa degli apprendisti stregoni.

Link
Agamben, Lo Stato d’eccezione
Tolleranza zero: estensione dell’infrazione di terrorismo e nuovo spazio giudiziario europeo
La giudiziarizzazione dell’eccezione 1
La giudiziarizzazione dell’eccezione 2
Il caso italiano, lo Stato di eccezione giudiziario
Storia della dottrina Mitterrand
Dalla dottrina Mitterrand alla dottrina Pisanu

La fine dell’asilo politico
Garapon, L’utopia moralizzatrice della giustizia internazionale
Tarso Gendro, “l’Italia è ancora chiusa negli anni di piombo”
Brasile, stralci della decisione del ministro della giustizia Tarso Gendro

Dalla vendetta giudiziaria alla soluzione politica

«Evocare l’amnistia sarebbe come ammettere l’esistenza di conflitti di fondo, di fratture che implicherebbero il riconoscimento di repressioni avvenute, della presenza di una palese disarmonia politica»

Paolo Persichetti
il manifesto
1 luglio 2004

Negli ultimi diciotto mesi le autorità italiane, ricorrendo ai mezzi più disparati, hanno ricondotto nelle patrie galere quattro ex militanti condannati per fatti di sovversione avvenuti nel corso degli anni 70 e 80: l’autore di questo testo, Nicola Bortone, Rita Algranati e Maurizio Falessi. Galvanizzato da questo piccolo successo il governo ha rilanciato le vertenze estradizionali nei sarkozy_casse-toiconfronti dei fuoriusciti riparati in Francia. Tra questi il primo a cadere nella rete è stato Cesare Battisti, attorno alla cui vicenda si è aperta un‘accesissima disputa giuridica e storica che ha chiamato in causa temi molto rilevanti: l’esercizio o meno della giustizia d’eccezione, il rapporto con il passato, il ruolo e l’uso politico della memoria; oppure questioni etiche come l’evocazione del male, il problema della colpa e dell’eventuale elaborazione sociale del lutto. Una discussione ampia e dai toni spesso crudi, a volte persino impropri e caricaturali, che dimostra come i passati rivoluzionari fatichino a diventare storia. Adagiati nel limbo della rimozione periodicamente vedono schiudersi le porte dell’inferno che risucchia brandelli di vita, trascina esistenze sospese. Lasciti, residui d’epoche finite che non diventano memoria, ma sono solo ostaggio di quel che riserverà la storia. Non un passato che torna ma un futuro che manca. Oltre trent’anni ci separano dall’inizio della lotta armata, almeno quindici dalla sua conclusione, riconosciuta con documenti politici e dichiarazioni ufficiali, tra il 1987 e il 1989, dagli  stessi protagonisti. L’80% dei prigionieri è in carcere da un periodo che oscilla tra i 21 e i 26 anni; i restanti almeno da 16. Poi ci sono i casi estremi, come quello di Paolo Maurizio Ferrari rinchiuso da trent’anni. Tutto ciò non appaga affatto i partigiani della certezza della pena. I fautori della legalità ritengono, infatti, che vi siano tuttora conti aperti, anche quando le indagini hanno dimostrato che i due attentati del 1999 e del 2002, venuti inaspettatatamente ad interrompere oltre un decennio di silenzio, nulla hanno a che vedere con il passato e tanto meno con un fantomatico “santuario francese”, inizialmente accreditato dalle autorità per giustificare le estradizioni. La coazione a ripetere vuoti gesti del passato, era solo l’opera di un piccolo gruppo che ha trovato conforto nei suoi propositi grazie alla rimozione degli anni 70, al rifiuto ostinato dell’amnistia che ha congelato il tempo e cristallizzato le epoche, tentando di impedire a quel sapere incarcerato, a quelle esperienze sotto chiave o esiliate, di far valere le ragioni dell’irriproducibilità e inattualità dei modelli di lotta armata trascorsi.
Su le Monde del 27 marzo, il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Edmomdo Bruti Liberati, ha spiegato che la giustizia italiana ha giudicato quella lunga stagione d’insorgenza politica in modo assolutamente sereno ed equilibrato, addirittura senza l’ausilio di misure eccezionali, rinunciando alla sospensione delle giurisdizioni ordinarie e mantenendo intatte le garanzie costituzionali. Eppure alcune sentenze della corte costituzionale dei primi anni ottanta hanno riconosciuto il ricorso all’eccezione, giustificando il diritto di governo e parlamento a adottare un’apposita legislazione svincolata dalle garanzie costituzionali. basta1bg7In realtà l’esperienza italiana ha innovato il repertorio classico dello stato d’eccezione, mettendo in pratica un modello molto diverso da quella situazione di “sospensione” o “vuoto” del diritto di cui ha recentemente scritto il filosofo Giorgio Agamben (Lo stato d’eccezione , Bollati Boringhieri 2003). L’Italia non ha affatto sospeso il diritto ordinario; non ha avuto bisogno di dotarsi di giurisdizioni speciali (troppo forte era il ricordo del tribunale speciale fascista). Al contrario ha stravolto, deformato, inquinato il diritto penale corrente, camuffando sapientemente l’eccezione e rendendola in questo modo permanente. L’Italia ha fatto a meno di giudici militari perché, sotto la toga, la magistratura ordinaria ha indossato l’uniforme dello Stato etico, sposando una vocazione purificatrice e combattente del proprio ruolo, dotandosi di un potentissimo arsenale penale speciale. Larghi settori della società italiana rimproverano i prigionieri e in rifugiati di non aver mai fatto atto di pubblico pentimento e per questo di aver eluso il senso di colpa, mantenendo per giunta un atteggiamento ambiguo nei confronti di una cultura politica che non esclude il ricorso alla  violenza. Il superamento del passato resta ancora un terreno di controversia. Ciò che per i prigionieri e i rifugiati è oramai storia, materia d’indagine e inchieste serrate, da discutere con le tecniche fredde e puntigliose delle scienze sociali; per i media, per la quasi totalità del ceto politico e per larghi settori della società civile è tuttora una ferita aperta, una piaga viva che non può e non deve cicatrizzarsi. Allo scandaglio del lavoro storico si contrappone la venerazione di una memoria trasfigurata nel culto di un dolore non riassorbibile. Al lavoro d’incorporazione del passato, doloroso e conflittuale, si sostituisce un atteggiamento di rifiuto che fa del passato una trincea su cui attestarsi. L’elaborazione del lutto diventa in questo modo, secondo una consolidata tradizione inquisitoriale, uno strumento di bonifica delle coscienze, che aggiunge alla sanzione sui corpi anche la correzione delle menti. Un percorso a senso unico che pretende di imporre i valori dei vincitori come l’orizzonte della maturità.
I vinti, se non altro per quella saggezza che fuoriesce dal disagio di chi deve confrontarsi con circostanze sfavorevoli, hanno dovuto misurarsi con la sconfitta esplorandone gli aspetti più reconditi, vivendola sui propri tragitti esistenziali, tra esili senza asilo e castighi. All’anatema hanno opposto la riflessione. Avrebbero potuto barricarsi nelle torri in cemento blindato delle carceri, trovare conforto nell’isolamento penitenziario che gli era destinato, arroccarsi nel dolore per le vittime della propria parte, sentirsi l’emblema sacrificale di un martirio metastorico, vivere di una mortifera nostalgia che come scrive Milan Kundera, «non intensifica l’attività della memoria, non risveglia ricordi, basta a se stessa, alla propria emozione, assorbita com’è dalla sofferenza». Invece hanno rifiutato tutto questo. Non si sono sottratti alla realtà mutata che rendeva obsolete le loro scelte passate. Hanno cercato, nonostante i muri e le sbarre, di andare oltre. Sono evasi dalla loro pena, sono fuggiti ai carcerieri rimasti a sorvegliare solo i fantasmi di una società attardata, ancora madida di rancore contro le immagini vuote di icone da odiare. I vincitori non hanno mai saputo cogliere questa opportunità. Un atteggiamento che ricorda un noto aforisma d’Oscar Wilde: «Ah, i vincitori! Non sanno quel che perdono». Non sorprende dunque se tuttora resta incompresa, o suscita addirittura scandalo, la scelta di François Mitterand d’offrire uno spazio d’asilo informale ai fuoriusciti italiani. Un atteggiamento che non cercava risposte a come si fosse scatenata la violenza politica ma a come se ne potesse uscire.
Per una sorta di contrappasso della storia, la Francia degli anni 80 restituiva l’aiuto ricevuto negli anni della guerra d’Algeria, quando l’Italia rifiutava sistematicamente l’estradizione dei militanti del Fln o dell’Oas, tra i quali anche uno degli autori dell’attentato del Petit-Clamart contro De Gaulle. Ma a differenza di allora, il declino attuale di quella politica che cercava risposte al problema della coabitazione sociale, e quindi tentava di riassorbire la violenza quando questa fuoriusciva dal conflitto, ha ceduto il posto a visioni etiche che mettono al centro della loro azione temi morali come il problema della colpa.
L’ombra lunga di Auschwitz ha portato con sé l’era dell’imperdonabile, dell’imprescrittibile, dell’indicibile e dell’inescusabile. Male, colpa, vittima, sono figure che assurgono a nuove categorie di una visione morale della storia che relega la politica in luoghi reconditi e infimi e annulla ogni differenza di luogo, di spazio e di tempo. Destoricizzati e desocializzati, gli eventi si colorano di un’aura sacrale. Muta la tessa percezione che i soggetti hanno di se e della loro collocazione all’interno di quei fatti. L’esaltazione narcisistica della sofferenza introduce una nuova dimensione simbolica degli avvenimenti. La reciprocità agonistica è sostituita dall’inconciliabilità vittimistica. Una competizione della sofferenza, tra vittima dominante e vittima soccombente, che mina ogni possibile terreno di riconciliazione civile. Per questo l’amnistia è divenuta una proposta indecente, amnistia__2qualcosa che racchiude il massimo d’irrealismo politico e d’immoralità etica. Strano destino quello di un istituto nato con la democrazia ateniese e divenuto
un tabù per le democrazie moderne. Forse una spiegazione si trova in quella finzione che presuppone il gioco democratico. L’amnistia si concepisce unicamente se si considera il corpo politico del paese come diviso o potenzialmente divisibile. Invece oggi i sistemi politici democratici hanno sempre più vocazione ad autorappresentarsi come modelli compiuti, assolutamente insuperabili se non attraverso processi regressivi, percorsi a ritroso che ristabiliscano forme autoritarie o oligarchiche. Una concezione che trova un’efficace sintesi nella abusata espressione di Fukuyama sulla “fine della storia”, che vede nelle democrazie occidentali il compimento politico del divenire umano. Il concetto è chiaro: al di fuori del sistema non può esserci un’altra sfera politica poiché l’ordinamento democratico è il compimento stesso della politica, il grado più elevato della sua capacità inclusiva. In questo modo la figura del nemico politico è ben lontana dall’essere superata. Subentra unicamente la pretesa di negarla, camuffandola attraverso espedienti di spoliticizzazione che la relegano ad una fattispecie criminale. Il ricorso a questa finzione, il rifiuto di concepire possibili divisioni della comunità, genera un dispositivo perverso totalmente autovincolante da impedire al sistema di autocorregersi. Le democrazie attuali sembrano, infatti, unicamente preoccupate di preservare un’immagine consensuale, dove l’esistenza sociale si dipana in una realtà che deve apparire senza rilievi. Evocare l’amnistia sarebbe come ammettere l’esistenza di conflitti di fondo, di fratture che implicherebbero il riconoscimento di repressioni avvenute, della presenza di una palese disarmonia politica. Ritrovare la consapevolezza di questa finzione può finalmente aiutare la ricerca di soluzioni realistiche che calino di nuovo l’idea di democrazia all’interno della storia, riconducendola a quel gesto inaugurale del politico che è il “riconoscimento del conflitto dentro la società”. Ciò consentirebbe di recuperare quegli strumenti di ripoliticizzazione delle controversie, capaci di permettere al sistema d’autocorregersi dopo aver affrontato traumatiche fasi di divisione e scontro. Sarebbe paradossale, infatti, voler ribadire la figura del nemico irriconciliabile nel momento in cui le democrazie intendono affermarsi come un modello di superamento dell’inimicizia politica.