
Cinquant’anni fa, il 5 giugno del 1975, una pattuglia dei carabinieri della tenenza di Acqui terme in perlustrazione bussa alla portone della cascina Spiotta, in località Arzello, situata sulla sommità di una collina che dominava la valle sottostante. I rumori della campagna vengono improvvisamente lacerati da colpi e le esplosioni di una rapida e intensa battaglia. Restano a terra una donna e due carabinieri feriti, uno dei quali morirà pochi giorni dopo in ospedale. La donna era Margherita Cagol, fondatrice delle Brigate rosse. I due carabinieri si chiamavano Umberto Rocca e Giovani D’Alfonso, un terzo Rosario Catafi rimase leggermente ferito. Il giorno prima la colonna torinese delle Brigate rosse aveva rapito il magnate dello spumante Vallarino Gancia, poi condotto alla Spiotta per essere custodito in attesa del riscatto richiesto. Era lacrima volta che le Brigate rosse ricorrevano ad un sequestro di persona per finanziare a loro attività politico-rivoluzionaria. Durante il conflitto a fuoco l’altro brigatista che era con Cagol riuscì a fuggire. La sua identità è rimasta ignota per cinquant’anni. In una memoria scritta per la sua organizzazione scrisse di aver lasciato la «compagna Mara» ancora in vita, ferita, seduta e con le mani alzate. La versione ufficiale diffusa dai carabinieri e recepita dalla magistratura recita che a provocarne la morte furono i colpi del quarto carabiniere rimasto di copertura, Pietro Barberis, che raccontò di averla colpita mortalmente mentre cercava di ripararsi da una bomba a mano lanciata dal brigatista fuggito. L’autopsia però non confermava questa dinamica dei fatti.
Cinquant’anni dopo, il 25 febbraio 2025, si è aperto davanti alla corte d’assise di Alessandria il processo per la sparatoria, imputati: Lauro Azzolini, Renato Curcio, Mario Moretti. Pierluigi Zuffada coinvolto nell’inchiesta è stato dichiarato prescritto dal Gip.
L’inchiesta e il processo sollevano numerose domanda per le modalità dell’inchiesta condotta dal Ros di Torino e per le imputazioni contestate agli imputati, in particolare contro Curcio Moretti. Nelle intenzioni della procura, stando alla lista dei testi chiamati a deporre, questo giudizio dovrebbe rappresentare un evento storico conclusivo, riedizione del processo al cosiddetto «nucleo storico» delle Br, che dovrebbe sancire in modo definitivo la chiusura del Novecento italiano sotto la mannaia della punizione permanente, oltre ogni tempo ed epoca, una damnatio memorie che però ha il sapore di un esorcismo e dietro il quale si cela un’ansia patogena, un timore angosciante verso il passato. Eppure sarebbe scontato chiedersi se a distanza di mezzo secolo ha ancora senso approcciare quella stagione così distante con gli strumenti dell’azione penale. Chi deve occuparsene: i pubblici ministeri o gli storici? Svuotare una stagione storica dei fatti sociali sostituendoli unicamente con la memoria penale, oltre ad essere fuorviante è davvero il modo più efficace per fare i conti col nostro passato? La domanda ovviamente non riguarda solo il metodo, gli strumenti di conoscenza dei fatti ma anche gli obiettivi: cosa serve veramente alla società che si è trasformata cinquant’anni dopo? Solo colpevoli da condannare ad ogni costo e che alla fine rischiano di essere solo dei capri espiatori?