Chi ha ucciso Mara Cagol? Indagato nella nuova indagine sulla sparatoria alla cascina Spiotta di 48 anni fa, Curcio chiede verità sulla uccisione della moglie

«Prima uccidono la moglie poi vogliono indagarlo», si riassume in queste poche parole l’iscrizione nel registro degli indagati da parte della procura torinese di Renato Curcio, tra i fondatori della Brigate rosse: 82 anni, 25 passati in carcere di cui 12 nel circuito di massima sicurezza, per lunghi periodi in articolo 90, il regime antesignano dell’attuale 41 bis.
I magistrati torinesi hanno riaperto le indagini su una sparatoria avvenuta 48 anni fa davanti alla cascina Spiotta di Arzello, in provincia di Alessandria, dove la colonna torinese delle Brigate rosse aveva nascosto da appena 24 ore, dopo averlo rapito, l’industriale dello spumante Vallarino Gancia, scomparso lo scorso 14 novembre 2022.

La sparatoria
All’arrivo di una pattuglia dei carabinieri in perlustrazione nella zona si scatenò un conflitto a fuoco tra due brigatisti, un uomo e una donna, che custodivano l’ostaggio e i militi dell’arma. Nello scontro morì l’appuntato Giovanni D’Alfonso e rimase gravemente ferito il tenente Umberto Rocca e più leggermente il maresciallo Rosario Cattafi. La donna, Mara Cagol, ferita e seduta a terra ormai disarmata, venne uccisa in circostanze mai chiarite con un colpo sotto l’ascella. L’altro brigatista riuscì a fuggire in modo rocambolesco lanciandosi in un boschetto circostante e facendo perdere le proprie tracce. In una relazione, poi ritrovata all’interno della base di via Maderno a Milano, dove Curcio si nascondeva dopo l’evasione dal Carcere di Casale Monferrato, il brigatista fuggito e mai individuato raccontava la sua versione dei fatti spiegando di aver visto Mara Cagol ancora viva dopo essersi lanciato nel bosco. Nascosto nella boscaglia aveva scorto la donna seduta a terra con le mani alzate che si rivolgeva al quarto carabiniere, l’appuntato Pietro Barberis, rimasto di copertura in fondo al viottolo che portava alla cascina. Ecco il suo racconto:

«Urlai a M. Di svignare e corre verso il bosco. Mentre correvo zigzagando nel campo, sentii tre colpi attorno a me. Riuscii ad arrivare al bosco e con un tuffo mi buttai nella macchia piena di spini. Di sopra sentivo la M. che urlava imprecando contro i Cc. Presi l’altra Srcm dalla tasca e pensai di centrare il Cc. Mi affacciai dalla buca e vidi la M. seduta con le braccia alzate che imprecava contro il Cc. Nel vedere la M. Ancora seduta e la mia impossibilità di arrivare a tiro decisi di sganciarmi velocemente, pensando che i rinforzi sarebbero arrivati a minuti. Corsi giù per il pendio e quando stavo per arrivare dall’altra parte della collina, vicino ad un bosco sotto il castello (saranno passati cinque minuti dal momento della mia fuga), ho sentito uno, forse due colpi secchi, poi due raffiche di mitra. Per un attimo ho pensato che fosse stata la M. a sparare con il suo mitra, poi ebbi un brutto presentimento…».

Il confidente della Ferretto
In via Maderno i carabinieri erano arrivati grazie al ruolo di un confidente, un operaio interno all’Assemblea autonoma di Porto Marghera, un ex della Brigata Ferretto (antesignana della colonna veneta della Br) “gestito” dal Centro Sid di Padova tra il 1975 e il 1976. Il confidente fu all’origine di molti arresti: oltre a Nadia Mantovani e Renato Curcio, fece catturare lo stesso giorno Angelo Basone e Vincenzo Guagliardo. Le sue soffiate provocarono la caduta di diversi militanti Br di Porto Marghera; fu sempre lui a consegnare ai carabinieri Giorgio Semeria che dal Veneto rientrava a Milano. E probabilmente la necessità di coprire questa fonte molto importante per l’efficacia dimostrata giustificò il tentativo di omicidio di Semeria al momento della sua cattura sulla banchina della stazione centrale.

Quarantotto anni dopo
Le nuove indagini sono partite proprio dal testo del brigatista superstite, cercando di individuare impronte e tracce di dna presenti sui fogli dattiloscritti e sulla macchina da scrivere impiegata, ritrovata sempre nella base di via Maderno.
Sono stati ascoltati come testi informati dei fatti molti ex brigatisti della prima ora ma nessuno ha fornito elementi utili all’inchiesta: c’è chi si è avvalso della facoltà di non rispondere, chi ha richiamato la compartimentazione, chi era già in carcere o apparteneva ad altre colonne non coinvolte nel sequestro. In un primo momento anche Curcio è stato ascoltato come teste ma lo scorso 20 febbraio è stato convocato una seconda volta come indagato per il reato di concorso in omicidio, in ragione della sua «figura apicale» all’interno dell’organizzazione brigatista. Posizione che lo avrebbe reso responsabile delle direttive fornite ai militanti che hanno materialmente condotto il sequestro e gestito l’ostaggio, tra cui quella che prevedeva in caso di avvistamento del nemico di sganciarsi prima del suo arrivo e se colti di sorpresa «ingaggia[r]e un conflitto a fuoco per rompere l’accerchiamento». Passaggio ripreso da un numero del giornale Lotta armata per il comunismo del 1975, senza firma.

Premeditazione
Sulla base del principio giuridico del «dolo eventuale» e di una estensione iperbolica del concorso morale, i tre pubblici ministeri che conducono l’inchiesta hanno ritenuto Curcio responsabile dei fatti accaduti che egli in qualche modo avrebbe messo in conto, ivi compreso a questo punto non solo la morte dell’appuntato D’Alfonso e il ferimento degli altri carabinieri ma anche la morte della moglie. Circostanza che in passato aveva giustificato il mancato approfondimento della vicenda. Gli organi di polizia, infatti, avevano preferito glissare sull’identità mai accertata del brigatista fuggito per evitare di attirare l’attenzione sulla reale dinamica della morte della Cagol, episodio che all’epoca suscitava ancora dell’imbarazzo tra le fila dell’antiterrorismo.
Eravamo nel 1975, lontani da quel 1980 quando nella notte del 28 marzo i carabinieri non esitarono ad infliggere il colpo di grazia alla nuca ai quattro brigatisti presenti nella base di via Fracchia a Genova, dove avevano fatto irruzione sorprendendoli nel sonno. Tra di loro c’era anche la giovane proprietaria dell’appartamento, Anna Maria Ludman.

Una cattivo sempre utile per tutte le stagioni
La nuova indagine è scaturita da un esposto presentato da Bruno D’Alfonso, figlio dell’appuntato deceduto nello scontro a fuoco, anche lui carabiniere, dove si chiedeva di fare luce sulla identità del brigatista sfuggito alla cattura. L’esposto, realizzato dopo anni di ricerche personali sulla vicenda, ha ispirato la realizzazione di un volume, Brigate rosse – L’invisibile, scritto da Berardo Lupacchini e Simona Folegnani, edizioni Falsopiano. I due autori si dicono convinti di aver individuato con la loro ricerca l’identità dell’«invisibile» nella persona di Mario Moretti, azzardando sulla base di una ricostruzione alambiccata e l’uso del termine «presa» per indicare la cattura dell’industriale Gancia, utilizzato nel rapporto trovato nella base di via Maderno e «diciotto anni dopo nel libro firmato da Moretti», l’individuazione della prova che incastrerebbe quest’ultimo. Certi della solidità della loro prova i due autori ispirati dalle sirene franceschiniane si dilungano nel tratteggiare un presunto movente che avrebbe guidato il comportamento senza scrupoli del cattivissimo Moretti: ormai al riparo nella folta vegetazione un subitaneo pensiero, una preveggenza strategica, l’avrebbe indotto ad abbandonare Mara Cagol al suo destino per prendere così il suo posto alla guida dell’organizzazione. Una quadra della vicenda che ha entusiasmato il giudice Salvini nel corso din una presentazione del volume avvenuta su Fb.
I giudici torinesi non sembrano tuttavia aver apprezzato molto il suggerimento indirizzandosi verso altre strade.

La memoria difensiva
In una memoria molto dettagliata Curcio ha spiegato che in quel periodo, successivo all’evasione dal carcere di casale Monferrato, per ragioni di sicurezza non era più organico ad alcuna colonna e dunque all’oscuro delle singole operazioni che queste portavano avanti. Ha ricordato che nelle Brigate rosse non esistevano ruoli apicali e militanti subalterni. Ha chiesto poi che le nuove indagini facessero finalmente luce sulle circostanze della morte della moglie, Mara Cagol, facendo leva sul referto autoptico che riferiva del colpo mortale portato sotto l’ascella della donna.

Lo stratagemma per evitare la prescrizione
L’accusa così formulata a Curcio serve soprattutto a puntellare un fondamentale requisito giuridico necessario per scongiurare la prescrizione dei reati maturata da lungo tempo, e dunque l’improcedibilità: la premeditazione. L’invenzione della presenza di una direttiva generica tratta dalla citazione di un foglio d’area, la cui paternità viene attribuita a Curcio eletto “monarca assoluto” delle Brigate rosse in spregio alle conoscenze storiche sul funzionamento di quella organizzazione, serve a creare la presenza della premeditazione in una vicenda del tutto occasionale, dove è la stessa dinamica dei fatti e il racconto del superstite sfuggito a dimostrare che i brigatisti non si accorsero dell’arrivo della pattuglia e reagirono in modo del tutto impreparato e confusionario.

2 pensieri su “Chi ha ucciso Mara Cagol? Indagato nella nuova indagine sulla sparatoria alla cascina Spiotta di 48 anni fa, Curcio chiede verità sulla uccisione della moglie

  1. Si cerca sempre di dare un’interpretazione diversa di quello che è stato in quegli anni, cercando di screditare il sogno che abbiamo coltivato in tante “battaglie”. Ma non ci riusciranno neanche questa volta. Onore e rispetto per tutti i compagni caduti perseguendo questo ideale .
    Hasta la victoria, sempre!

  2. Sono il giornalista Berardo Lupacchini, vorrei intervenire per replicare a quanto scritto dal dottor Persichetti circa l’indagine che riguarda Renato Curcio sui fatti del sequestro Gancia. Insieme alla collega Simona Folegnani, ho scritto un libro (Br. L’invisibile. Dalla Spiotta a via Fani, dal sequestro Gancia al rapimento Moro. Edito da Falsopiano) centrato soprattutto su quella vicenda del ‘75. Ci preme in questa sede precisare quale è stato il nostro modo di lavorare nei quasi quattro anni di ricerche. Non siamo investigatori improvvisati, perché sappiamo di cosa scriviamo. Abbiamo considerato il fatto senza pregiudizi di sorta, pur avendo in Bruno D’ALFONSO, figlio del carabiniere ucciso nella sparatoria che segnò il tragico epilogo del rapimento, l’autore della prefazione. Senza pregiudizio alcuno dunque nei confronti dei brigatisti rossi del tempo tutti ascoltati: purtroppo ne’ Curcio a Firenze ne’ Moretti nel carcere di Opera hanno voluto offrirci il loro contributo. Ma questo non è stato un ostacolo. Entrambi hanno dato alle stampe molti anni fa dei testi autobiografici nei quali sono emersi importanti, per noi, elementi cui riferirsi. Basta leggerli. Per identificare chi fuggi’ dalla Spiotta, siamo partiti dalle dichiarazioni che il pentito Enrico Fenzi ha rilasciato alla commissione parlamentare Moro 2 nel 2017, individuando in Moretti colui che scappò riportando ciò che i suoi ex compagni sostenevano con rancore dalle celle di massima sicurezza. Fenzi ha confermato quelle dichiarazioni di persona a Genova e per mail. Gli altri elementi che sono emersi riguardano la nota dichiarazione trovata in via Maderno a Milano dove Curcio venne arrestato nel gennaio ‘76. Il passaggio chiave è legato al riferimento che chi la scrisse fece a Curcio sul punto di osservazione della Spiotta “ove l’altra volta”: si rimanda al sequestro Sossi del ‘74, la famosa operazione Girasole (citata nella relazione) che vide nei 35 giorni del rapimento Moretti e Curcio con Buonavita di stanza in quella cascina pronti a tutto se da Tortona il trio Franceschini-Cagol-Bertolazzi che segregava il magistrato avessero chiesto di intervenire. Andò proprio così perché alla Spiotta ci fu un vivace confronto sulla sorte di Sossi. È storia. Non solo. Anche su come è morta la Cagol abbiamo acceso le nostre luci raccontando senza censure la dinamica ed ascoltando i carabinieri che arrivarono sul posto fra i primi, mancati da alcuni mesi. Detto questo, abbiamo anche rivelato una circostanza fondamentale: la presenza di un infiltrato nelle Br nel ‘75 e all’epoca del sequestro. Ne facciamo nome e cognome e lo identifichiamo nella fonte Frillo.
    Grazie dell’attenzione

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    Dottor Lupacchini la ringrazio per le sue precisazioni in difesa del lavoro svolto nel volume scritto insieme alla sua collega Simona Folegnani. Conosco il vostro lavoro per questo mio sono permesso di muovere delle critiche. I suoi argomenti tuttavia non risolvono le fragilità e le lacune della vostra ricerca pre tre motivi (per ragioni di sintesi mi limito a questo).

    
1) La fonte, unica a cui attingete, ovvero Enrico Fenzi non ha alcuna cognizione diretta della vicenda. Non apparteneva alla colonna coinvolta e all’epoca del sequestro Gancia ancora non faceva parte delle Br, che a Genova si costituiscono come colonna solo nel 1976, dopo l’azione Coco. Fenzi riferisce dunque dei de relato raccolti in carcere, frutto di altri de relato. Insomma voci, sentito dire, maldicenze sarebbe più corretto affermare, legate a un giro di prigionieri vicini al gruppo Franceschini-Semeria, abituati a condurre battaglie politiche attraverso lo strumento della calunnia personale. Persone che nutrivano un profondo, quanto ingiustificato (la vicenda Frillo lo dimostra), risentimento contro Moretti. Insomma si tratta di affermazioni del tutto inattendibili che avreste dovuto valutare con maggiore attenzione.

    2) Quanto al passaggio presente nel testo che riprende le parole del militante superstite riuscito a fuggire, il passo da voi indicato, «ove l’altra volta», non prova nulla poiché la Spiotta non fu impiegata unicamente durante il sequestro Sossi ma venne usata in precedenza e successivamente per riunioni e per ospitare militanti. Molti passarono da quelle parti e il suo impiego per il sequestro Gancia fu un errore logistico importante alla base della tragedia poi avvenuta. I carabinieri che studiavano attentamente la logistica brigastista avevano capito che era una loro abitudine affittare cascine e, come ha spiegato Seno, la Spiotta era stata attenzionata proprio nell’ambito di questa attività di mappatura delle possibili basi brigatiste. Tanto ché dopo quell’episodio le Br compresero che la stagione delle cascine si era conclusa.

    3) Infine se aveste studiato meglio il funzionamento della logistica e dell’organizzazione interna brigatista non avreste commesso l’ingenuità di collocare una esponente della colonna milanese all’interno della Spiotta con il sequestro in corso, per altro un sequestro di autofinanziamento e non politico, ritenendolo addirittura uno dei custodi dell’ostaggio. Cioè vuol dire non aver compreso nulla del funzionamento organizzativo delle Br. Fatta eccezione per il sequestro Moro, gestito direttamente per la sua rilevanza dall’Esecutivo – da qui la presenza di Moretti in via Montalcini – nessun sequestro delle Br prevedeva scompartimentazioni di colonna. Ogni colonna aveva la sua autonomia d’azione e logistica.

    Infine, per quanto riguarda la vicenda del confidente Frillo di cui aveva scritto in origine il giudice Mastelloni nel suo libro, le mie ricerche mi avevano condotto ad un altro nome, quello fatto dal generale Bozzo, persona molto anziana e quindi soggetta a possibili errori o scambi di persona. Ritengo che sul punto la vostra ricostruzione è forse più plausibile. Non ho ancora avuto modo di consultare i documenti dove se ne parla, cosa che farò appena sarà possibile. In ogni caso non cambia nulla poiché si trattava in entrambi i casi di due persone interne all’assemblea autonoma di Porto Marghera, quella giusta proveniva – scrive Mastelloni – dalla Brigata Ferretto.

    Paolo Persichetti

    Ps: trasferirò questa discussione sotto il post che l’ha provocata. Mi sembra più corretto.

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