I paradossi dell’antimafia: Ignazio Sbalanca colpevole di amicizia

Il caso di un giovane siciliano condannato per una “relazione pericolosa”. Il delitto si è consumato a Racalmuto, il paese di Leonardo Sciascia, e mette in evidenza i meccanismi perversi dell’antimafia. Depositato un ricorso alla corte europea di Strasburgo

Paolo Persichetti
Liberazione 30 settembre 2010

Nel lontano 1706 una legge inglese incoraggiava i ladri a denunciare i propri complici. In caso di condanna dei denunciati si prometteva a quei “collaboratori ante litteram”, che allora erano ancora chiamati delatori, un compenso di 40 sterline. L’intenzione era quella di smembrare i gruppi criminali facendo in modo che si tradissero reciprocamente. L’effetto in realtà fu un altro, apparve sulla scena una nuova classe d’informatori professionali, di spergiuri che rendevano false testimonianze e ricattavano le proprie vittime (Vincenzo Ruggiero, 2003).

L’eccesso di penalità crea ingiustizia
Quell’invenzione corruppe inevitabilmente il funzionamento della giustizia, conseguenza che al potere interessò ben poco poiché l’innovazione introdusse un vantaggio ben maggiore: l’utilizzo di un nuovo potente strumento di governo. Il binomio omertà-delazione nasce dunque all’esterno delle cinte carcerarie. Questa logica perversa ricevette in Italia un nuovo impulso quando, circa trent’anni fa, con la decretazione d’emergenza e la legislazione premiale antisovversione vennero introdotte le figure del “pentito-delatore” (il collaboratore di giustizia) e del “dissociato” (l’abiurante). Si aprì allora una lunga fase, ancora non conclusa, che legittimò l’avvento di una nuova filosofia pubblica dove l’etica civile si è inchinata alla ragion di Stato. Da quel momento una progressiva espansione del potere giudiziale ha dirottato buona parte dei conflitti – di ogni natura e grado – nei tribunali, trasformati a loro volta in arene giudiziarie. Di emergenza in emergenza, passando per il terrorismo, le mafie, la corruzione, i migranti, la sicurezza, ha preso corpo un populismo penale che ha pervaso trasversalmente la società collocandosi sia a destra che a sinistra degli schieramenti politici, anzi il più delle volte sovrapponendosi alle vecchie barriere ideologiche fino a farle scomparire. La sfera giudiziaria è diventata il perno attorno al quale ruotano tutti i contenziosi, si pensa e si parla solo attraverso le lenti del sistema penale. Una sovrabbondanza che alla fine non ha creato più giustizia. Come dicevano già i romani: summum ius, summa iniuria. Le vicende giudiziarie sono diventate una sorta di biografia della nazione, la filigrana attraverso la quale leggere la storia recente del Paese.

La storia di Ignazio
Una storia siffatta, trasformata in rullo compressore giudiziario, ha trasformato le nostre prigioni in discariche, depositi nei quali seppellire tutto il disagio e il malessere sociale. I ceti più deboli pagano il prezzo più alto, tra immigrati e tossicodipendenti, incapaci di portare a termine quei crimini che alla fine non si pagano mai. Ma questa moderna fabbrica del rito espiatorio miete vittime ovunque, anche tra chi per estrazione sociale mai penserebbe di dover valicare la porta carraia di una prigione. Come è accaduto ad Ignazio Sbalanca, 28 anni, studente di giurisprudenza, famiglia modello con un padre impiegato e una madre insegnante. Attualmente in carcere ad Agrigento, dove sta scontando una pena a due anni e otto mesi per un «favoreggiamento aggravato».

Una cosca d’infiltrati e pentiti
Tutto si svolge a Racalmuto, il paese di Leonardo Sciascia. Trama letteraria e iter giudiziario s’incrociano quasi inevitabilmente. Nel paese era attiva una cosca coinvolta in una sanguinosa faida. La vicenda è stata raccontata da Gaetano Savatteri in un libro, I ragazzi di Regalpetra, che fa il verso proprio al titolo di un libro di Sciascia. Originario del posto, Savatteri ha incontrato i mafiosi arrestati divenuti nel frattempo collaboratori di giustizia. Ma cosa c’entra Ignazio Sbalanca con tutto ciò? In questa brutta vicenda è tirato per i capelli da un pentito. Non ha mai fatto parte di famiglie mafiose. La circostanza è stata esclusa da quattro delle cinque corti che si sono occupate del caso: il Riesame, che lo scarcerò pochi giorni dopo l’arresto nel luglio 2007, la Cassazione e l’Appello, che derubricò in favoreggiamento la condanna a sei anni e otto mesi per associazione mafiosa inflitta in primo grado e il giudizio definitivo di Cassazione che ha confermato la sua «non intraneità» nel sodalizio mafioso. Ignazio non ha mai posseduto o impugnato armi, non ha mai trafficato sostanze illecite, non ha mai chiesto il pizzo a nessuno, non ha mai custodito o trasferito pizzini. Non ha proferito minacce o esercitato violenza ad alcuno. Non ha mai rubato, ricettato, attentato a cose o persone. Ignazio però ha avuto un amico, poco più grande di lui, conosciuto sui banchi del liceo. Il giovane, che è stato anche allievo della madre, finisce in carcere. Si chiama Luigi Gagliardo ma non confessa subito di essersi messo a disposizione della cosca di Racalmuto. Dopo il suo arresto Ignazio tronca ogni rapporto. Non risponde alle lettere e nemmeno alle sollecitazioni della madre. Vista dall’esterno, questa durezza può apparire persino eccessiva. In fondo tutti possono sbagliare e l’amicizia, che è cosa complessa, dovrebbe servire proprio in questi momenti di difficoltà. Ma Ignazio spiega di essersi sentito tradito dalla doppiezza del suo “ex amico” e non vuol saperne più nulla. Anzi, a suo dire, le accuse mossegli contro dal pentito Beniamino Di Gati sarebbero nate dalla cucina del risentimento covato da Gagliardo per questa drastica rottura.

Delitto d’amicizia
A chi gli rimprovera, come farà Gaetano Savatteri in un articolo apparso lo scorso aprile su S, che in un piccolo paese come Racalmuto «tutti sanno tutto di tutti», e dunque sarebbe stato impossibile non sapere delle frequentazioni mafiose del Gagliardo nonché di un suo fratello latitante per mafia, Sbalanca ha buon gioco nel rispondere che in quella stessa famiglia c’erano anche due poliziotti. Siamo in Sicilia terra dove tutto s’intreccia e al tempo stesso sembrano esserci solo due possibilità, o si sta col bianco o con il nero, o con lo Stato o con la mafia. Insomma Ignazio è arrestato perché il collaborante Beniamino Di Gati, custode del cimitero di Racalmuto, figura ambigua dell’inchiesta e su cui pesa il sospetto di aver iniziato a collaborare molto prima dell’arresto trasformandosi in confidente, fratello del capo cosca Maurizio, anche lui pentito, afferma che sarebbe un «avvicinato». Cosa voglia dire non è chiaro. Ma avvicinato perché? Gli chiedono gli inquirenti. E Di Gati risponde: «Dico avvicinato perché era molto amico di Luigi [Gagliardo] non perché ha avuto un ruolo». Con tutta evidenza questa è solo una supposizione. Vista la vicinanza tra i due, Di Gati ritiene (ma chi glielo avrebbe detto?) che la confidenza fosse tale da fare venire meno ogni segreto tra loro. Tutto ruota intorno ad alcuni «passaggi in macchina» che Beniamino Di Gati dice di aver ricevuto da Luigi Gagliardo in compagnia, ma solo alcune volte, di Ignazio Sbalanca. Tratti di strada molto brevi, avvenuti all’interno del paese senza mai oltrepassare la periferia di Racalmuto. Favori che dovevano permettergli di raggiungere in sicurezza il fratello Maurizio, nascosto – si fa per dire – in un paesino non lontano. Per avere un minimo di credibilità processuale queste accuse avrebbero dovuto trovare il conforto del latitante Maurizio Di Gati e di Luigi Gagliardo. Ma il fratello di Beniamino, che in qualità di capo zona sapeva ogni cosa della famiglia che comandava, esclude ripetutamente che Sbalanca potesse far parte della mafia: «Sbalanca non c’entra nulla con la mafia e non ha mai avuto comportamenti mafiosi». Luigi Gagliardo, tartassato dai magistrati perché confermasse le accuse, con una prosa titubante ammette invece i passaggi in macchina, «non più di 4-5 volte nell’arco di diversi anni», e la presenza occasionale dell’amico: «ogni tanto mi faceva compagnia Sbalanca». Alla domanda se questi sapesse dove stavano andando, Gagliardo risponde: «penso di sì, non lo posso sapere con certezza se era consapevole; perché come ero io era lui nel modo di sapere». Quando, come e dove avevano concordato il “modo di sapere”, non lo dice. In compenso precisa quale era: mimico, fatto per gesti e sottintesi. Quando Beniamino Di Gati gli chiedeva un passaggio non diceva mai dove sarebbe andato. Quella di Gagliardo era solo una «intuizione intima». “Accompagnante occasionale di un accompagnatore” nel viale centrale del paese, dove tutti incrociano tutti, è il comportamento criminale imputato a Sbalanca. Chiunque sarebbe potuto finire al suo posto. E’ proprio il caso di dire che tutto ciò lascia senza parole.

Professionisti dell’antimafia
«Possiamo essere amici di tutti?», gli ha rimproverato ancora una volta Gaetano Savatteri cogliendo la vera essenza della colpa censurata dai giudici: il “delitto d’amicizia” motivato dalle sue incaute frequentazioni. Un giudizio che, se fosse fondato, avrebbe dovuto attenersi alla sola sfera morale si è invece trasformato in sanzione penale. Nel frattempo Savatteri dimentica le proprie amicizie, come tanti padrini dell’antimafia abituati a prendere le distanze solo da quelle degli altri. Questa storia porta alla luce la faccia nascosta del professionismo antimafioso, il purismo inquisitorio che scende a patti con i pentiti e contemporaneamente si erge a cattedra morale per tutti. «L’omertà è un’ignobile legge di sopraffazione, intimidazione e avvilimento: ma le pensioni e l’onore resi alla delazione non sono migliori, e venendo dalle autorità legali, rischiano di essere peggiori», scriveva Adriano Sofri nel lontano 1997 al suo rientro in carcere.

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2 pensieri su “I paradossi dell’antimafia: Ignazio Sbalanca colpevole di amicizia

  1. Pingback: I paradossi dell’antimafia: Ignazio Sbalanca colpevole di amicizia (via Insorgenze) « Polvere da sparo

  2. Ignazio è un ragazzo buono e generoso,caduto in un girone infernale per colpa di una creduta “amicizia”,vittima di pregiudizi e di chi ha voluto vendicarsi perchè ha “osato” non avere più rapporti con una persona mostratasi falsa,”mafiosa” e vendicativa,vittima anche di un codice penale,applicato senza approfondimenti. Posso affermare con sicurezza, tutto ciò,conoscendo Ignazio fin dalla sua tenera età,negli anni formativi del liceo.Sono stato suo insegnante per tre anni e l’ho visto crescere,maturare,diventare uomo.E sempre è stato contro la mafia e i mafiosi.Esaltava sempre la Legge con la L maiuscola,si è scritto in legge,sempre per amore della Giustizia.Ed ora è la stessa Giustizia che lo ha condannato a scontare in carcere quel suo amore.Spero che uno di questi giorni,qualche persona di buon senso , che ne abbia il potere, esamini il fascicolo di Ignazio e si renda veramente conto dell’assurdità di questa sentenza

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