Il lavoro nero uccide alla Mecnavi di Ravenna

Archivio – Fronte del porto: quando erano già morti l’azienda titolare del cantiere anziché collaborare con i pompieri nel tentativo di salvataggio, si affrettò ad inviare una segretaria a ritirare i libretti di lavoro nelle abitazioni delle vittime per tentare in extremis una surrettizia messa in regola

Morti come topi soffocati nella stiva durante i lavori di manutenzione di una nave cisterna per il trasporto di gas gpl, la Elisabetta Montanari. Tredici operai, la gran parte dei quali assunti al nero, provenienti da ditte diverse. Il più giovane aveva diciotto anni, il più anziano sessanta. Quando erano già morti l’azienda titolare del cantiere, la Mecnavi srl., anziché collaborare con i pompieri al tentativo di salvataggio, si affrettò ad inviare una segretaria a ritirare i libretti di lavoro nelle abitazioni delle vittime per tentare in extremis una surrettizia messa in regola. Ravenna era una specie di fronte del porto. Si lavorava sdraiati all’interno di un reticolo di cunicoli che traversava le stive per ripulire le pareti incrostate di catrame e ruggine. Alcune lamiere del doppiofondo, destinato a ospitare il combustibile presentavano un avanzato stato di corrosione e dovevano essere sostituite. I doppifondi dovevano essere bonificati, eliminando il materiale infiammabile, prima di procedere al taglio delle lamiere usurate e alla loro sostituzione. Un lavoro faticoso, ingrato, sporco, pericoloso, poco qualificato. Sdraiati al buio per 10 ore con stracci, solventi, spatole, raschietti, spazzole di ferro. All’interno della stiva numero 2, alle 7,30 del mattino iniziarono il proprio turno di lavoro diciotto lavoratori. Dipendevano da sei aziende diverse e nessun gruppo di lavoratori, era informato della presenza degli altri. Si trattava di sei carpentieri-saldatori e dodici “picchettini”. I saldatori non sapevano della della presenza di chi era in stiva, iniziarono a tagliare delle lastre d’acciaio con la fiamma ossidrica. Residui di gas innescano una fiammata che venuta a contatto con il catrame incrostato nelle pareti della stiva provocò un incendio. Non era la prima volta, alcuni scampati racconteranno che era già accaduto la settimana precedente. Stavolta però le esalazioni prodotte dalla nube tossica non lasciano scampo. La tragedia mise in luce la disapplicazione delle più elementari misure di sicurezza sul lavoro, come la disponibilità di estintori e presìdi antincendio, la previsione di vie di fuga da seguire in caso di pericolo. Evidenziò anche le durissime condizioni a cui era sottoposta la manodopera impiegata nei cantieri di manutenzione. Emerse, inoltre, il diffuso sistema di caporalato che si muoveva per il reclutamento della manodopera nella realtà industriale della manutenzione navale, attingendo spesso alle fasce più marginalizzate e indifese della società, come tossicodipendenti ed extracomunitari. Fu rilevata, inoltre, la disorganizzazione del cantiere, con squadre operaie che lavoravano in simultanea, talmente prive di coordinazione che ciascuna ignorava perfino la presenza delle altre maestranze. Uno dei fratelli Arienti, responsabili della Mecnavi, si presentò il giorno successivo ai giornalisti che seguivano la vicenda «sorridente ed elegante», ribadendo quanto detto l’hanno precedente in un intervista: «I sindacati non li voglio. In questa azienda non li ho voluti e spero che non ci siano nemmeno per il futuro». Nemmeno dopo i tredici morti? – gli chiede Jenner Meletti, cronista dell’Unità – «No, perché tanto con i sindacati non cambia nulla. E poi penso – dice papale papale – che è umano che una persona voglia evitare controlli. Questi sindacati sono poi cosi fastidiosi…». Secondo lui, sulla nave era tutto in regola. C’erano ventilatori ed estintori, tutto a posto. Lascia intendere che la colpa di quanto accaduto ricadrebbe su quei lavoratori che davanti all’incendio si sono lasciati prendere dal panico. Il ritratto che ne fa il cronista è agghiacciante: Sorride spesso, fa battute, sgrida i giornalisti per cronache «un po’ cattivelle». Questo imprenditore d’assalto ha 34 anni, un fatturato di 22 miliardi nel 1986, con previsione di 40 per l’anno in corso. «A cosa serve il sindacato?» – si chiede – «Tanto chi entra qui sa cosa lo aspetta». Cosa? «Le regole, come le otto ore di lavoro al giorno, qui non si possono rispettare. Una settimana abbiamo una nave in cantiere, quella dopo magari ne abbiamo sette. I lavori li facciamo contemporaneamente, perché si fa così. Sennò l’armatore, che con la nave ferma perde i soldi, si serve dalla concorrenza». «Voglio essere chiaro: io non ho il potere di vietare la costituzione di una commissione interna, purtroppo. Nei miei cantieri il sindacato non è entrato. Le tutele? Sono convinto che chi vale, chi sa lavorare, sa tutelarsi da solo. Io sono un imprenditore, non un samaritano». Siamo nella seconda parte degli anni 80 del Novecento, l’economia neoliberale aveva imposto le sue regole, anzi l’assenza di regole, la giungla del mercato, lo sfruttamento intensivo della forza lavoro, i bassi costi salariali, la scomparsa di tutele e contratti nazionali, il regime dei subappalti e delle esternalizzazioni selvagge. La strage della Elisabetta Montanari rappresentò l’esempio più vivido dell’arretramento sociale che aveva investito la «modernizzazione italiana». Le indagini e il successivo processo condussero ad una condanna a 7 anni e mezzo per Enzo Arienti, pena che fu poi ridotta a 4 anni nel 1994.

In quel budello senza difese
Natalia Ginzburg, l’Unità 15 marzo 1987 p.1

Uso ascoltare alla radio il bollettino del Gr3, alle 7,20, e pochi minuti dopo «Prima pagina». Della tragedia di Ravenna il bollettino di stamattina 14 marzo non ha pronunciato sillaba. Ne ha parlato invece poco dopo, immediatamente e a lungo, la giornalista di «Prima pagina», che è, questa settimana, Mariella Gramaglia. Come mal il bollettino abbia taciuto di questa atroce disgrazia, gli ascoltatori della mattina se lo sono chiesto e se lo chiedono con enorme stupore. Evidentemente a quelli che curavano il bollettino la notizia era apparsa irrilevante. Strano, perché essa è in testa a tutti i giornali. Si tratta, dicono i giornali, d’una delle più gravi tragedie del lavoro avvenute in questi ultimi anni. Ma vi sono qui alcuni particolari agghiaccianti. Gli operai morti a Ravenna erano tutti molto giovani, e per due di essi era 11 primo giorno di lavoro. Tutti erano disoccupati da tempo, o lavoravano in modo precario, e avevano accettato quel lavoro ad alto rischio, mal pagato, senza pensarci due volte. Dovevano stara sdraiati sulla schiena o sul ventre, ore e ore, con stracci e detersivi, a ripulire le pareti del cunicolo d’una nave. Il cunicolo era un budello scuro e gelato e nonc’erano là per loro difese di nessuna specie, né ventilatori, né maschere antigas. Quando è scoppiato l’incendio, chi lavorava nella parte alta della nave ha visto le fiamme e si è salvato. Ma loro, nel budello, le fiamme non potevano vederle e quando li ha investiti il fumo hanno cercato invano, per qualche attimo, una via di salvezza. D’Altronde, da quel budello, era difficile uscire anche insinuazioni normali. «Incuria, lavoro nero, caporalato, sono all’origine della tragedia» dicevano i volantini che venivano distribuiti dai sindacati per le strade di Ravenna, durante la manifestazione che ha avuto luogo nel pomeriggio del venerdì, appena la città ha avuto notizia della sventura. E’ un avventura che dovrebbe indurci a riflettere. Vorremmo che ne fossero individuate e punite le responsabilità. E inoltre vorremmo che fosse risolutamente affrontato, nel nostro paese, il dramma della disoccupazione.

«Dov’è Placido Rizzotto?», il dirigente della camera del lavoro di Corleone rapito dalla mafia

Archivio – Quando l’antimafia era sociale e dal basso. Contro le lotte contadine nella Sicilia del dopoguerra si abbattè una doppia repressione: quella giudiziaria e poliziesca e quella del blocco agrario-mafioso appoggiato dalla Democrazia cristiana. Migliaia di braccianti furono arrestati, processati e condannati, decine e decine di sindacalisti rapiti e uccisi dalla mafia

«“Dov’è Rizzotto?” Questo grido, scandito a pieni polmoni dal segretario della Cgil Giuseppe Di Vittorio a Palermo, in Piazza Politeama gremita, me lo ricordo con un brivido. Gridava scandendo “Do-vè Ri-zzo-tto” tante e tante volte, come se aspettasse risposta, e l’eco rimbombava passava girava si perdeva nella piazza raggelata, con decine di migliaia di persone che trattenevano il fiato e le lacrime», racconta un testimone a Giuliana Saladino nel suo libro Terra di rapina, uscito nel 1977 e che tanto fece discutere.
Il paesaggio agrario della Sicilia nel secondo dopoguerra era ancora dominato dalla presenza del grande latifondo. Il movimento contadino, incentivato dal decreto del 19 ottobre 1944 varato dal ministro dell’agricoltura, il comunista Fausto Gullo, che distribuiva i terreni incolti a cooperative di contadini, si oppose a questo sistema attraverso l’occupazione dei latifondi. Sulle lotte contadine si abbatté una fortissima repressione giudiziaria e poliziesca. Oltre tremila furono i braccianti denunciati, solo 386 quelli assolti. In tutto furono processati 2.323 contadini, condannati complessivamente a 293 anni e 36 mesi di reclusione. Alla durissima repressione contro le lotte bracciantili contribuì la saldatura di un blocco agrario-mafioso appoggiato dalla Democrazia cristiana. Il ruolo giocato nello sbarco angloamericano in Sicilia diede nuova linfa alle famiglie mafiose incaricate dagli agrari di gestire e proteggere i latifondi, vessando la manodopera bracciantile col «gabellotto», l’imposta mafiosa, e il caporalato. Sui dirigenti del movimento contadino si abbatté la rappresaglia mafiosa. Le sparizioni e le uccisioni seguiranno nei decenni successivi, anche quando la vecchia mafia agraria divenne metropolitana arricchendosi con il traffico dell’eroina, il racket e gli appalti pubblici, fino all’omicidio, nell’aprile del 1982, del segretario regionale del partito comunista Pio La Torre, e del suo autista, Rosario Di Salvo, passando per quello di Peppino Impastato. Nel corso della campagna elettorale del 1948 nella provincia di Palermo furono compiuti alcuni dei più efferati delitti: Placido Rizzotto a Corleone, Epifanio Li Puma a Petralia e Cangelosi a Camporeale. Non a caso tutti e tre socialisti. Nonostante la scissione della componente socialdemocratica in Sicilia i socialisti erano rimasti uniti. Il blocco agrario-mafioso non colpiva solo per difendere i propri interessi economici ma ragionava anche di politica. Placido Rizzotto aveva ventisei anni, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 lasciò la sua unità militare e si unì alle Brigate partigiane Garibaldi. Tornato in Sicilia fu eletto presidente dell’Anpi di Palermo e segretario della Camera del lavoro di Corleone, dove prese la direzione delle lotte per l’occupazione delle terre che permise alla cooperativa “Bernardino Verro” di Corleone la gestione di un intero feudo. Una sfida diretta al potere mafioso locale tenuto da Michele Navarra e dal boss emergente Luciano Liggio, autore materiale del delitto, insieme a Vincenzo Collura e Pasquale Criscione. Tutti e tre vennero poi assolti per insufficienza di prove, dopo aver ritrattato la loro confessione in sede processuale.
Rizzotto fu rapito la sera 10 marzo 1948, ucciso e gettato in una “ciacca” (fenditura) profonda cinquanta metri alle doline di Rocca Busambra. Diversi testimoni assistettero al rapimento e un giovane pastore di 10 anni, Giuseppe Letizia, al riparo di una roccia vide la sua esecuzione, per questo venne ucciso dal Michele Navarra.
Nel 2009 vennero finalmente ritrovati nella fenditura della Rossa alcuni resti ossei, oltre ad una cintura e una moneta in corso di validità nel 1948, ma solamente nel marzo 2012 grazie all’esame del dna giunse la conferma che quelle ossa appartenevano a Rizzotto. Il 24 marzo del 2012 si tennero i funerali di Stato in sua memoria. «Non si nasce schiavi o padroni, chi ci vuole diventare ci diventa. Noi dobbiamo restare uniti, compagni, perché da soli non si cambiano le cose» (Placido Rizzotto).

Il trentacinquesimo assassinio
Girolamo Li Causi, l’Unità, p.1, mercoledì dì 17 marzo 1948

Il 2 marzo a petrali a Soprana in provincia di Palermo, comune al centro di una decina di borghi contadini, disseminati in una zona in cui impera sovrano il latifondo, mentre zappava il suo spezzone di terra, presente il figlio undicenne, veniva trucidato il vecchio compagno Epifanio Li Puma capo contadino che da 30 anni lottava contro i baroni, contro gli Sgadari, i Mocciari, i Pottino. Il delitto, per ammissione stessa delle autorità, è politico; tutti sanno chi lo ha premeditato, organizzato ed eseguito. Anche la polizia lo sa. Li Puma veniva freddamente atterrato da due briganti della banda di Dino, banda che vive grazie alla complicità dei baroni che le assicurano ospitalità, sussistenza, protezione. Niente giustifica l’efferato delitto. Li Puma, padre di nove figli, contadino poverissimo, aveva trascorso tutta la sua esistenza lavorando la terra, dirigendo la lega contadina di Petralia, organizzando la cooperativa “La madre terra” che da tre anni è in lotta con i signori feudali per il possesso meno precario della terra, per più umane condizioni di esistenza. Dal Marchese proprietario, al campiere che indica ai banditi la vittima perché non sbaglino, ai sicari rotti ad ogni delitto, la catena è limpida. Ma la polizia come già per altre decine di contadini capilega trucidati in questi ultimi mesi archivia le pratiche. Lo spaventoso è che le autorità hanno rinunziato persino a scoprire chi sono stati gli assassini dell’avv. Campo, vice segretario regionale della Democrazia cristiana ucciso mentre in macchina si recava da Alcamo in provincia di Trapani ad Agrigento. Scelba ha mandato già un suo ispettore centrale; ma questi dopo poche ore di permanenza a Palermo, ha fatto ritorno a Roma senza aver concluso nulla. La Democrazia cristiana non ha interesse a scoprire gli assassini dell’avv. Campo, perché, come si ammette dall’opinione pubblica siciliana, specialmente da quegli strati che più sono qualificati per esprimere opinioni e giudizi su tali misfatti, dovrebbe scoprire i suoi legami con quelle organizzazioni criminose che vanno sotto il generico nome di mafia. Non erano ancora trascorsi sette giorni dall’assassinio di Li Puma ed ecco che a Corleone, altro grossissimo borgo al centro anch’esso di una delle più caratteristiche zone del latifondo, in provincia di Palermo, sparisce il segretario di quella Camera del Lavoro e presidente di quella sezione reduci e combattenti. Placido Rizzotto, partigiano garibaldino. Fino a questo momento nulla si sa della sua sorte. Centinaia di contadini divisi in squadre battono la campagna, esasperati, trepidanti, seguiti dall’ansia di tutto un popolo che non sa darsi pace della efferatezza del delitto. Ma si sa che l’ultima persona che il Rizzotto incontrò la sera del mercoledì 10 marzo fu il gabelletto del feudo “Drago” proprietà del barone Alù e della baronessa Cammarata: feudo dal quale, dopo due anni di vana richiesta da parte della cooperativa “Bernardino Verro”, solo nel dicembre scorso i contadini erano riusciti a strappar 50 ettari di terra. Ebbene fino ad avanti ieri mattina Pacciardi, vice-presidente del consiglio per l’ordine pubblico, ignorava che in Sicilia era stato assassinato Li Puma ed era scomparso Rizzotto. E Scelba? Non sappiamo se anche lui lo ignorasse: però sappiamo che egli si sta dando un gran da fare per occultare le prove della complicità di agenti dello spionaggio americano con il banditismo siciliano. Precisamente egli intima ai suoi organi periferici di consegnargli le copie eventualmente esistenti della lettera del bandito Giuliano al giornalista americano Stern, nella quale il bandito chiede armi. Pesanti per la lotta contro il bolscevismo e da indicazioni pratiche per migliorare i suoi collegamenti con gli agenti americani. A Palermo il governo regionale ricostituitosi con la presidenza dell’avvocato Alessi, ma con la partecipazione dei gruppi di destra che lo avevano prima gettato nel fango per poi averlo più prono ai loro voleri, venerdì scorso si è rifiutato di rispondere ad una interrogazione urgente del Blocco del Popolo che gli chiedeva conto della fine del Rizzo e delle gravissime condizioni della pubblica sicurezza in Sicilia. […]

Susanna di Gianni Rodari

Archivio – La prima filastrocca scritta da Gianni Rodari apparsa sulla edizione milanese dell’Unità, il 30 giugno 1949

Racconta Quinto Bonazzola, giornalista, amico e compagno di partito di Gianni Rodari nella redazione milanese dell’Unità, in una testimonianza scritta sempre per l’Unita in occasione della sua scomparsa, il 14 aprile 1980, che una sera quasi per scherzo Rodari compose la sua prima filastrocca per una bambina che conosceva: «Sempre quasi per caso venne pubblicata su L’Unità del 30 giugno 1949 nell’“angolo del bambino” della “pagina della donna”, di cui si stava ancora definendo la struttura. Una mamma allora scrisse al giornale perché anche al suo bambino malato venisse dedicata una filastrocca. Poi ne scrisse un’altra con un altro pretesto. E Rodari fu quasi costretto a continuare per quella strada. Non avevamo saputo quella sera – chiosa Bonazzola – noi lì presenti e neanche lui, di avere assistito all’inizio di un cammino che avrebbe arricchito la cultura di tutti i ragazzi del mondo».
Rodari era nato a Omegna, in Piemonte, nel 1920. A nove anni, dopo la morte del padre, si era trasferito con la famiglia in un paesino sulle sponde del lago Maggiore. Abbandonato presto il seminario cattolico dove la madre lo aveva iscritto prosegue gli studi nelle magistrali. Nel 1935 frequenta l’Azione cattolica dove scrive i suoi primi racconti per il settimanale confessionale, L’Azione giovanile. Nel 1941 supera il concorso per maestro e incomincia a insegnare nelle scuole elementari. Per sopravvivere si iscrive al Partito fascista. Nel dicembre del 1943 viene chiamato alle armi dalla Repubblica sociale e assegnato all’ospedale milanese di Baggio. Dopo l’internamento del fratello in un campo di concentramento in Germania getta l’uniforme per raggiungere la Resistenza. Il primo maggio del 1944 si iscrive al partito comunista. Inizia così la sua feconda e poliedrica attività nella stampa comunista, prima all’Unità come cronista poi in tante altre testate e periodici, ma soprattutto di scrittore e pedagogista. A partire dal 1949 comincia a rivolgersi al pubblico dei più giovani con la rubrica La domenica dei piccoli. La breve militanza cattolica gli costa negli anni 50 la scomunica perché «ex-seminarista cristiano diventato diabolico», quando insieme a Dina Rinaldi dirigeva, Il Pioniere, supplemento dell’Unità dedicato ai ragazzi (boy scout laici e comunisti) che dal 1950 al 1962 usciva nella edizione del giovedì con le storie di Cipollino, Chiodino, Pif Aquila Bianca, il Gabbiano Rosso. In una lettera del 1973, fu lui stesso a ricordare «le settarie e furibonde campagne da Guerra Santa che accolsero l’uscita del settimanale il Pioniere bruciato sulla pubblica piazza di….. Meglio non dirlo. Fiamme passate, acqua passata». Come ha scritto Vanessa Roghi, Rodari sperimenta i giochi linguistici, violando alcune convenzioni base del suo tempo: prima fra tutte, che la letteratura rivolta ai ragazzi debba avere una morale impartita dall’alto in basso. Per Rodari, adulto e bambino hanno «una parte di mondo in comune, perciò possono parlare la stessa lingua e intendersi». Una complicità sul terreno della fantasia.
Nel 1953 fonda Avanguardia, giornale nazionale della Federazione giovanile comunista. Successivamente torna a lavorare all’Unità, dove è responsabile delle pagine culturali, e poi a Paese sera. Nel 1951 esce la sua prima raccolta di filastrocche e le Avventure di Cipollino, ambientato in una città abitata da vegetali e da frutti antropomorfi dove regole insensate opprimono la popolazione che, guidata da Cipollino, si ribella alle ingiustizie subite da parte di Principe Limone e dell’aristocrazia locale. Nello stesso anno esce il suo primo libro pedagogico, Il manuale del Pioniere. A seguire appaiono il libro dei perché, nel 1960 le Filastrocche in cielo e in terra illustrate da Bruno Munari e ancora la raccolta di fiabe Favole al telefono e Il pianeta degli alberi di Natale. Nel 1964 pubblica uno dei suoi testi più belli, Il libro degli errori, dove con una grazia incredibile ironizza e gioca con le regole ortografiche inventando storie e personaggi poco avvezzi con la grammatica, convinto che «gli errori non stanno nelle parole, ma nelle cose; bisogna correggere i dettati, ma bisogna soprattutto correggere il mondo». Nel 1973 pubblica la Grammatica della fantasia testo che raccoglie la sua pedagogia, improntata ad un laicismo assoluto, alla centralità della libertà di espressione del bambino, che deve avere la possibilità di trarre le proprie conclusioni: « Bambini, imparate / a fare le cose difficili: / dare la mano al cieco, /cantare per il sordo, / liberare gli schiavi / che si credono liberi».Attivo collaboratore di associazioni di genitori e insegnanti, ha lavorato in modo originale con le amministrazioni provinciali e comunali, autentico motore di sviluppo libertario e democratico del paese tra gli anni sessanta e gli anni settanta, Gianni Rodari è stato senza dubbio il più grande scrittore di favole e filastrocche del Novecento italiano.

L’Unità
30 giugno 1949
Gianni Rodari

Filastrocca per Susanna,
Le piace il latte con la panna,
Le piace lo zucchero nel caffè
Tale e quale come me,
Le piace andare in bicicletta:
Quando va piano non va in fretta;
Quando va in fretta pare un gattino,
Non le manca che il codino.
Di ordini lei ne ha
Uno di qua e l’altro di là:
Se li porta sempre in testa
Con due nastri per la festa.
Sono due nastri rossi e blu.
Chi è Susanna? Sei tu, sei tu!

Sono profonde le radici del «ghetto», Franco Basaglia commenta il film «Matti da slegare»

Archivi – Il rifiuto dell’internamento e della segregazione erano per Basaglia il presupposto del riconoscimento che il «matto» non era un deviante, un soggetto da cui la società doveva difendersi e che per questo andava internato e nascosto, ma una persona la cui sofferenza mentale doveva essere tutelata, ascoltata, compresa, accompagnata, requisiti fondamentali della cura. Questa nuova consapevolezza procedeva di pari passo con il rifiuto globale dell’internamento e della segregazione, ovunque si manifestasse, in tutti i luoghi e forme di istituzione totale e concentrazionaria, in primis il carcere e la fabbrica disciplinare.

Il 13 maggio 1978 il parlamento italiano aboliva i manicomi psichiatrici. Primo paese al mondo a prendere una decisione del genere. La legge 180 arrivò dopo un complesso dibattito culturale e parlamentare dove il movimento antipsichiatrico era cresciuto intrecciandosi con le rivendicazioni degli altri movimenti sociali animati da forti spinte innovatrici e liberatrici. La decisione fu accelerata dall’incombere del referendum promosso dal partito radicale e venne integrata nel dicembre successivo all’interno della legge che istituiva il sistema sanitario nazionale. Conosciuta anche come legge Basaglia dal nome dello psichiatra Franco Basaglia, nonostante questi fosse contrario alla presenza del trattamento sanitario obbligatorio previsto dalla nuova normativa, è forse l’istituto più rivoluzionario varato nella storia della repubblica italiana per la portata concreta che ebbe sulla realtà del Paese e il significato gravido di potenza simbolica che conteneva.
Gli asili psichiatrici erano dei veri e propri lager, luoghi di sofferenza, emarginazione, violenza, torture, sevizie, come avevano testimoniato nel 1969 Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin nella loro inchiesta fotografica, Morire di classe. La condizione manicomiale. Il rifiuto dell’internamento e della segregazione erano per Basaglia il presupposto del riconoscimento che il «matto» non era un deviante, un soggetto da cui la società doveva difendersi e che per questo andava internato e nascosto, ma una persona la cui sofferenza mentale doveva essere tutelata, ascoltata, compresa, accompagnata, requisiti fondamentali della cura. Questa nuova consapevolezza procedeva di pari passo con il rifiuto globale dell’internamento e della segregazione, ovunque si manifestasse, in tutti i luoghi e forme di istituzione totale e concentrazionaria, in primis il carcere e la fabbrica disciplinare. Forse non è un caso se a metà di quel decennio, il 1975, si raggiunge in Italia il più basso numero di detenuti rinchiusi nelle prigioni. Basaglia aveva già sperimentato con alcuni anni di anticipo, prima a Gorizia e poi a Trieste, la chiusura degli asili manicomiali. I reparti erano stati aperti, ai pazienti erano stati restituiti i loro diritti fondamentali, le rigide divisioni di genere abolite (portando i pazienti a vivere in intimità). L’ospedale diviso in settori (corrispondenti a diverse zone della città e provincia), soprattutto furono create delle cooperative per consentire ai pazienti di vivere una vita autonoma, di costruire la propria indipendenza e socialità. All’abolizione del manicomio dovevano subentrare delle vere e proprie comunità terapeutiche. Con il raffreddamento delle spinte di cambiamento, la riproposizione dei vecchi modelli di società disciplinare, anche la legge 180 ha subito un freno, soprattutto il carcere ha ripreso il posto dei vecchi asili psichiatrici. Nonostante ciò, l’antipsichiatria è stato il movimento che più di ogni altro è riuscito a incrinare i dispositivi di stigmatizzazione sociale, lasciando dietro di sé una eredità feconda su cui è potuta crescere la cultura della inclusività, la rivendicazione delle differenze, quel diritto di vivere ognuno a modo suo che ha animato i movimenti di liberazione delle donne, omosessuali, lgbt, queer, disabili e oggi la cultura della intersezionalità.

«Matti da slegare»
Sono profonde le radici del «ghetto»
Franco Basaglia
L’Unità 26 giugno 1977
Pagina 3

Sabato scorso è apparso e ieri sera si è concluso alla Televisione italiana il documentario che Bellocchio, Agosti Petraglia e Rulli hanno realizzato raccontando una esperienza che si è maturata alla fine degli anni ’60 nel campo dell’assistenza psichiatrica in provincia di Parma.
«Matti da slegare – Tutti o Nessuno» è il documento nel quale si riconoscono quegli operatori che in Italia, negli ultimi 15 anni, sulla spinta delle grandi lotte operaie e studentesche hanno lavorato per «aprire» le arcaiche strutture psichiatriche.
Il film va ben oltre le vicende personali che narra. In un medesimo atto di denuncia vengono coinvolti, nelle loro reciproche connessioni, da un lato lo spazio concreto dell’internamento del malato di mente – come nella puntata che abbiamo visto ieri – dall’altro la funzione di un sapere astratto, ritagliato nella teoria medica, intimamente dissociato, fin dalle sue origini, quanto alle sue finalità non mediche.
La dissociazione profonda, costitutiva della psichiatria, eroicamente risospinta verso riaggiustamenti interni delle «istituzioni» o del «sapere» non è viceversa spiegabile se non si coinvolge nell’analisi e nella denuncia la società, sia come organizzazione, sia come norma e valori dominanti, sia come società divisa in classi.
Limitarsi ad umanizzare la condizione di chi soffre con la creazione di luoghi «alternativi» e «comunitari», ma pur sempre appartati, dove trascorrere il tempo, breve o indefinito, della propria rottura con la norma, non muta la qualità della risposte se si accettano le finalità di una organizzazione «sociale» che tende ad espellere da sé la sofferenza separando i suoi portatori fra le mura di una istituzione.
Al contrario occorre tendere alla distruzione di questi luoghi dove miseria e sofferenza si occultano e si confondono reciprocamente, omologando dentro un mondo di marginali l’identità ed i bisogni di ciascuno.
Alle contraddizioni di una sofferenza che si mostra, nel suo ambiente, irriducibile, si risponde col servizio: quale che sia il destino della domanda, quale che sia la normalizzazione ottenuta o la soddisfazione del bisogno o la possibilità stessa di esprimerlo, il rapporto col servizio realizza l’omologazione necessaria affinché il conflitto apertosi non resti senza norma, non resti «fuori», «altro», polo critico ed illegale, pericoloso, spazio non controllabile.

Una doppia resistenza
Questa nuova totalizzazione, apparentemente opposta a quella asilare in quanto diffusa, destigmatizzante, pulita quanto l’altra appariva concentrata, definitoria, violenta, ha il vantaggio così di poter estendere il controllo medico-istituzionale ad aree di conflitto molto più larghe.
Il lavoro di questi anni è partito da questa consapevolezza.
Non si aveva di fronte solo una fortezza da attaccare, il manicomio, ma una «istituzione diffusa» modellata sulla sua logica, assai più duttile della rigida struttura asilare, capace di diffondersi, trasformarsi e riciclarsi.
Si è trattato dunque di innescare un processo del tutto nuovo, in cui gli ostacoli, affrontati giorno per giorno, non concernevano più solo le resistenze – istituzionali del dentro, ma, insieme a queste, incrociate e sovrapposte, le resistenze del «fuori», cioè della organizzazione sociale generale.
L’esperienza si è dislocata così su piani molto più complessi, per i quali si sono dovute inventare strategie «assistenziali» capaci di mediare contemporaneamente più fronti di intervento.
Obiettivo prioritario diventava la ricostituzione della singolarità della persona: sottrarla definitivamente al rapporto di tutela e riportarla, attraverso un percorso a ritroso, nel circuito degli scambi sociali.
Il processo tendenziale, così enunciato può suonare ancora una volta equivoco, dacché la psichiatria europea, da molti anni a questa parte, ha declamato proclami del genere, di reinserimento nel sociale, attraverso il riapprendimento delle regole; mettendo in atto per far questo nuovi codici e nuove terapeutiche.
La differenza che ci separa è lo spessore delle mura manicomiali.
Non si è trattato per noi di liberare la istituzione per riconvertirla ad un nuovo progetto «interno», costellandola, allo «esterno», di nuovi servizi assistenziali, selettivi di una nuova utenza, bensì di creare una nuova organizzazione transitoria capace di adeguarsi allo scopo che ritenevamo – essenziale: spezzare tutte le norme che regolamentavano la dipendenza dell’internato, ricostruire concretamente la sua identità di persona giuridica; porre le basi irreversibili del suo essere dentro il corpo sociale.
In altre parole sostituire al rapporto di «tutela» un rapporto di «contratto».
In nessun momento abbiamo nutrito l’illusione di trasformare lo spazio dell’internamento in uno spazio «clinico» o «multidisciplinare», per la consapevolezza profonda di due ordini di problemi: da un lato la «malattia» si costituisce nel sociale come processi di sanzioni, di restrizioni, di scambi, di resistenze accumulate – che rafforzano il «germe»; dall’altro l’Ospedale Psichiatrico non è mai stato altro che la sanzione definitiva della esistenza del «contagio», il luogo che con la sua esistenza, determinava ed organizzava la presenza minacciosa dei germi e l’inevitabilità, a certe condizioni, di andarveli a depositare.
Assumere il manicomio in tutta la sua consistenza di focolaio di infezione significa trovare una coerenza in facce opposte di una stessa realtà: comunità terapeutiche, manicomi, servizi territoriali, ospedali giudiziari si intrecciano costantemente capaci di convivere grazie, non solo all’inerzia del sistema, ma alla logica di un piano che non rischia su spazi vuoti di controllo.
La denuncia di Terzian sul racket italo-argentino della lobotomia, la condanna del direttore dell’ospedale giudiziario di Aversa, le difficoltà quotidiane a rompere la reazione a catena della psichiatrizzazione rappresentano in modo chiaro le contraddizioni in cui si muove la situazione italiana.
Da un lato la capacità di lotta espressa in questi anni dal movimento operaio e delle dorme sui temi della salute e della medicina, dall’altro la rigidezza e l’inerzia di una classe dirigente che resiste al cambio, sono fattori che acuiscono la durezza dello scontro in atto e la impotenza dei programmatori.
[…]

Violante al congresso di Md, «basta con il garantismo»

Archivi – L’ex pm Luciano Violante da poco eletto parlamentare nelle liste del Pci chiede a Magistratura democratica di mettere da parte il garantismo. «Non preoccupa – sosteneva – l’uso strumentale delle garanzie processuali, ma il richiamo al garantismo come formadi rafforzamento delle organizzazioni terroristiche». Intervento apparso sull’Unità del 27 settembre 1979

Mentre volgeva al termine l’intensa stagione di conflittualità che aveva favorito importanti conquiste sociali, miglioramenti economici, nuove tutele, spazi di democrazia reale nei luoghi di lavoro, migliori condizioni di vita per le classi lavoratrici, allargando la platea dei diritti e dei bisogni rivendicati e fatto emergere nuovi soggetti sociali e nuovi movimenti, si apriva ad Urbino, alle fine del settembre 1979 il quarto congresso di Magistratura democratica, i giudici di sinistra per intenderci. Suddivisi in diverse correnti animate da un dibattito che aveva traversato le passioni dei due precedenti decenni, i magistrati erano davanti ad un bivio: la penetrazione del diritto nei processi sociali ed economici, il ruolo di supplenza affidato loro dalla politica per reprimere la stagione della sovversione sociale e della lotta armata, avevano attribuito alla magistratura una funzione sempre più centrale. Cosa dovevano farsene? Quale erano i nuovi campiti per la nuova stagione che la retata del 7 aprile di pochi mesi prima aveva annunciato con forza?
Luciano Violante, ex pm alla procura di Torino poi agli uffici legislativi del ministero della giustizia, dove si era occupato delle attività di contrasto giuridico al terrorismo, divenuto parlamentare del Pci da pochi messi, spiegava sulle pagine dell’Unità, senza tanti giri di parole, che il garantismo aveva fatto ormai il suo tempo. Era alle porte la stagione della «repressione disciplinare», come la definirà Giovanni Palombarini, ma soprattutto il Pci, convinto dell’attualità della propria candidatura alla guida del Paese, riteneva ormai d’intralcio il garantismo e l’uso alternativo del diritto. Il mutamento di rotta era drastico e il dibattito sul significato del garantismo che aveva visto confrontarsi in passato tre linee, cambiava di segno. Alla precedente scuola della “creazione giuridica”, che attraverso un uso dell’interpretazione e delle fonti mirava al reintegro del dettato costituzionale di fronte all’inerzia o al sabotaggio legislativo della politica conservatrice e restauratrice, attività che trasformava la magistratura da vecchio organo burocratico asservito alle gerarchie dello Stato-apparato a «soggetto istituzionale indipendente, operante come momento di raccordo fra lo Stato e la società civile», si opponeva un ritorno alla certezza del diritto, inteso come ruolo conservativo della funzione giurisdizionale di fronte alle modificazioni della società o all’emergere di equilibri più avanzati o nuove domande e bisogni sociali. Le altre due linee, quella che riteneva il garantismo uno baluardo per difendersi dallo Stato, e la terza, minoritaria, che vi vedeva uno strumento per l’organizzazione della lotta di classe, soccombevano davanti ad una rivalutazione della funzione coercitiva dello Stato, posizione che apprezzava la nuova legislazione d’emergenza purché ricondotta «nell’alveo della solidarietà e della mobilitazione democratica». Si stavano lentamente creando i presupposti che, confermando l’iperattivismo giudiziario, vedranno alla fine del decennio ottanta il passaggio dalla figura del giudice «guardiano della costituzione» al «giudice sceriffo», investito di un ruolo di supplenza «del potere giudiziario, in caso di assenza o di carenze del legislativo», che rivendicherà per sé un ruolo politico decisivo e una competenza illimitata che minerà i parametri classici della tripartizione dei poteri.
Si chiudeva così la parabola avviata decenni prima. Di fronte al richiamo della statualità l’originario impianto della teoria dell’interferenza escogitato con iniziali intenti progressisti si risolveva nel suo contrario: un efficiente apparato concettuale impiegato per definire modelli di regolazione disciplinare della società.

La giustizia è in crisi che fanno i giudici?

Luciano Violante
L’Unità, 27 settembre 1979

Il quarto congresso di Magistratura Democratica che inizia domani ad Urbino. può costituire un’occasione di particolare importanza per avviare in termini nuovi una riflessione sullo stato della giustizia, sui compiti e sulle responsabilità dei giudici.
[…]
La difficoltà di costruire una nuova egemonia ha frenato la cultura delle riforme istituzionali proprio quando si trattava di tradurre la progettualità teorica della prima metà degli anni settanta in quei meccanismi di spostamento di potere che sono tipici di un effettivo processo riformatore; l’impasse ha favorito la produzione di leggine settoriali ed ha prodotto nelle leggi più organiche elementi di ambiguità o addirittura silenzi su questioni di particolare rilievo: ciò è avvenuto ad esempio, per la legge sull’equo canone e per quella sull’aborto. Contemporaneamente l’attuazione di alcuni fondamentali principi della Costituzione, la novità dei processi sociali, l’emergere di nuovi soggetti politici hanno prodotto radicali mutamenti nella struttura stessa del partito. Appaiono sempre più superate le tradizionali distinzioni tra diritto pubblico e diritto privato. L’attuazione della riforma regionale e lo svilupparsi delle autonomie locali hanno dato vita ad un diritto amministrativo assai diverso da quello precedente, non più rotante attorno ad un rapporto di particolare prevalenza dello Stato nei confronti del cittadino, ma ancora privo di stabili coordinate. Gli studiosi del diritto privato hanno constatato lo sgretolamento dell’impianto concettuale del codice civile a causa del moltiplicarsi delle sedi di produzione legislativa (da quella comunitaria a quelle regionali) e perché la tutela degli interessi privati richiede sempre più spesso, oltre all’azione dei soggetti privati, l’intervento di organi pubblici: è un sistema di reciproci impegni tra interi pubblici e soggetti privati assai diverso dai vecchi capisaldi dell’autorizzazione e della concessione amministrativa, ma con linee di evoluzione ambigue, come dimostra la storia dell’intervento pubblico nell’economia.
[…]
Il diritto è uno strumento di tutela, di partecipazione e di governo ed incide profondamente nella vita sociale e nel costume politico; la crisi del diritto può aprire la strada ad importanti trasformazioni sociali se si ha la forza e la volontà di dirigerla. Ma spesso in questi momenti, attorno alla vecchia scienza giuridica si accorpano interessi potenti, che puntano alla riscoperta delle tranquillizzanti mitologie della neutralità del diritto e del giurista per servirsene come mezzo per la ricomposizione delle proprie contraddizioni e di superamento della propria crisi. Non è impossibile che forze conservatrici si muovano in questa direzione per ricondurre la crisi del vecchio sistema alla non-controllabilità dei giudici, denunciando la loro indipendenza e proponendone limitazioni. Gli approcci, per ora indiretti, alla questione della responsabilità politica, della responsabilità cioè delle scelte discrezionali del giudice, indicano questo come il terreno sul quale potranno avvenire i primi a fondo. Magistratura Democratica è consapevole di questi problemi? Ha colto che è in atto una durissima lotta tra vecchio e nuovo Stato, e che la giustizia può essere uno dei terreni privilegiati per questo scontro? Con quali idee e con quali analisi va al suo congresso? I punti fermi della relazione del segretario Salvatore Senese restano la giurisprudenza alternativa e il garantismo. D’accordo: ma bisogna entrare più nel merito delle questioni perché si tratta di politiche istituzionali alle quali occorre dare un obiettivo per non farne pure e semplici etichette. La giurisprudenza alternativa, non come giurisprudenza di colore, ma come interpretazione del diritto alla luce dei fondamentali diritti costituzionali, poteva avere di per sé un significato di rottura dieci anni fa, quando dall’altra parte c’era il monolitismo della Cassazione, l’ideologia della neutralità del diritto e del giudice; ma oggi? Anche quei magistrati che andando ben oltre le proprie prerogative, hanno sindacato atti di pura discrezionalità politica, potrebbero rivendicare l’alternatività della loro giurisprudenza e forse con qualche ardimento linguistico riuscirebbero a trovare nella costituzione perfino un puntello formale. Il garantismo è insieme una filosofia dei rapporti tra i cittadini e tra cittadini e stato, una politica istituzionale e una tecnica interpretativa delle leggi: ma in un sistema a maglie così larghe come il nostro può essere usato per le finalità più diverse. Non preoccupa certo l’uso strumentale delle garanzie processuali che fanno alcuni imputati, è un loro diritto. Preoccupa invece il richiamo al garantismo come forma di rafforzamento delle organizzazioni terroristiche cui fanno riferimento alcuni documenti dell’Autonomia organizzata (vedi «Lotta Continua» del 25 luglio). […]

Pavese racconta il mito americano

Archivi – Cesare Pavese spiega il «mito americano» in un articolo apparso sulla edizione piemontese dell’Unità del 3 agosto 1947

Paolo Persichetti, l’Unità 18 maggio 2023

Nell’immediato dopoguerra non esisteva una redazione centrale dell’Unità. Il 2 gennaio del 1945 apparve a Roma la prima edizione non clandestina per l’Italia meridionale liberata dai Angloamericani. Dopo il 25 aprile escono dalla clandestinità le altre redazioni settentrionali, l’edizione genovese, torinese e milanese. Sul numero dell’edizione piemontese del 28 aprile 1945, Ludovico Geymonat, redattore capo, scrive: «Il giornale è stato redatto nella notte, mentre infuriava l’ultima battaglia. In Torino liberata passiamo dalla nostra tipografia clandestina alla nuova sede, conservata dal valore dei combattenti che l’hanno strappata al nemico. Mentre in città gli ultimi criminali sono ridotti alla ragione, l’Unità, edizione piemontese, inizia una nuova vita». Solo nel 1957 si fondono le edizioni di Genova, Torino e Milano, dando vita ad un’unica redazione settentrionale ed è nel marzo del 1962 che vengono unificate le direzioni di Milano e Roma sotto la guida di Mario Alicata, con Aldo Tortorella responsabile dell’edizione settentrionale e Luigi Pintor di quella centro-meridionale.
L’edizione piemontese viene ricordata per il particolare prestigio dei suoi collaboratori, oltre a Geymonat, Andrea Ugolini che ne fu direttore, esule già direttore in Francia della Voce degli italiani, arrestato dalla Gestapo e scarcerato dopo la liberazione, Davide Lajolo, Ada Gobetti, Cesare Pavese, Italo Calvino, Elio Vittorini, Paolo Spriano, Raf Vallone e altri ancora.
Iscrittosi nell’aprile del 1945, dopo aver visto morire nella lotta antifascista i suoi amici Leone Ginzburg, Gaime Pintor e Gaspare Pajetta, Cesare Pavese inizia a collaborare con l’Unità. Nell’articolo che vi proponiamo ricostruisce il clima culturale che aveva dato vita al «mito americano», sorto negli anni del provincialismo asfissiante, autoreferenziale e autoritario del regime fascista. Il realismo vitale della letteratura americana, il linguaggio innovativo, l’uso dello slang, la lingua reale, apparivano un modello di anticonformismo, un antidoto a un’accademia controllata da un potere intriso di roboante retorica. Inevitabilmente tutto questo si era subito trasformato in una passione sovversiva che aveva permesso a una generazione di giovani intellettuali di sopravvivere e sognare il newdeal americano. Tuttavia negli ultimi anni della sua vita, prima del suicidio, che coincisero con la non facile militanza nel Pci trascinata dalle polemiche mosse dai cultori dello zadnovismo, iniziò a guardare la società e la cultura americana con grande disincanto. La cortina di ferro e l’avvio della Guerra fredda avevano mutato drasticamente il contesto, gli Stati Uniti apparivano ormai il centro della modernizzazione capitalistica e di pulsioni reazionarie, i grandi della letteratura americana brillavano ormai nel cielo dei classici, ma quella società non appariva più l’eden. Per Pavese la fine della grande cultura americana coincideva con la fine della lotta antifascista, poiché «senza un fascismo a cui opporsi, senza cioè un pensiero storicamente progressivo da incarnare, anche l’America, per quanti grattacieli e automobili e soldati produca, non sarà più all’avanguardia di nessuna cultura».

In giro per l’America
Cesare Pavese, l’Unità 3 agosto 1947

Verso il 1930, quando il fascismo cominciava a essere «la speranza del mondo», accadde ad alcuni giovani italiani di scoprire nei suoi libri l’America, una America pensosa e barbarica, felice e rissosa, dissoluta, feconda, greve di tutto il passato del mondo, e insieme giovane, innocente.
Per qualche anno questi giovani lessero tradussero e scrissero con una gioia di scoperta e di rivolta che indignò la cultura ufficiale, ma il successo fu tanto che costrinse il regime a tollerare, per salvare la faccia.

[…]

Per molta gente l’incontro con Caldwell, Steinbeck, Saroyan, e perfino col vecchio Lewis, aperse il primo spiraglio di libertà, il primo sospetto che non tutto nella cultura del mondo finisse coi fasci. Va da sé che, per chi seppe, la vera lezione fu più profonda. Chi non si limitò a sfogliare la dozzina o poco più di libri sorprendenti che uscirono oltreoceano in quegli anni ma scosse la pianta per farne cadere anche i frutti nascosti e la frugò intorno per scoprirne le radici, si capacitò presto che la ricchezza espressiva di quel popolo nasceva non tanto dalla vistosa ricerca di assunti sociali scandalosi e in fondo facili, ma da un’ispirazione severa e già antica di un secolo a costringere senza residui la vita quotidiana nella parola.

[…]

A questo punto la cultura americana divenne una sorta di grande laboratorio dove con altra libertà e altri mezzi si perseguiva lo stesso compito di creare un gusto uno stile un mondo moderni che, forse con minore immediatezza ma con altrettanta caparbia volontà, i migliori tra noi perseguivano.
Quella cultura ci apparve insomma un luogo ideale di lavoro e di ricerca, di sudata e combattuta ricerca, e non soltanto la Babele di clamorosa efficienza, di crudele ottimismo al neon che assordava e abbacinava gli ingenui e, condita di qualche romana ipocrisia, non sarebbe stata per dispiacere neanche ai provinciali gerarchi nostrani.
Ci si accorse, durante quegli anni di studio, che l’America non era un altro paese, un nuovo inizio della storia, ma soltanto il gigantesco teatro dove con maggiore franchezza che altrove veniva recitato il dramma di tutti. E se per un momento c’era apparso che valesse la pena di rinnegare noi stessi e il nostro passato per affidarci corpo e anima a quel libero mondo, ciò era stato per l’assurda e tragicomica situazione di morte civile in cui la storia ci aveva per il momento cacciati.
La cultura americana ci permise in quegli anni di vedere svolgersi come su uno schermo gigante il nostro stesso dramma. Ci mostrò una lotta accanita, consapevole, incessante, per dare un senso un nome un ordine alle nuove realtà e ai nuovi istinti della vita individuale e associata, per adeguare ad un mondo vertiginosamente trasformato gli antichi sensi e le antiche parole dell’uomo. Com’era naturale in tempi di ristagno politico, noi tutti ci limitammo allora a studiare come quegli intellettuali d’oltremare avessero espresso questo dramma, come fossero giunti a parlare questo linguaggio, a narrare, a cantare questa favola. Parteggiare nel dramma, nella favola, nel problema non potevamo apertamente, e così studiammo la cultura americana un po’ come si studiano i secoli del passato, i drammi elisabettiani o la poesia del dolce stil novo. Ora, il tempo è mutato e ogni cosa si può dirla, anzi è più o meno stata detta. E succede che passano gli anni e dall’America ci vengono più libri che una volta, ma noi oggi li apriamo e chiudiamo senza nessuna agitazione. Una volta anche un libro minore che venisse di là, anche un povero film, ci commoveva e poneva problemi vivaci, ci strappava un consenso. Siamo noi che invecchiamo o è bastata questa poca libertà per distaccarci ? Le conquiste espressive e narrative del ‘900 americano resteranno – un Lee Masters, un Anderson, un Hemingway, un Faulkner vivono ormai dentro il cielo dei classici, – ma quanto a noialtri nemmeno il digiuno degli anni di guerra è bastato a farci amare d’amore quel che di nuovo ora ci giunge di laggiù. Succede talvolta che leggiamo un libro vivo che ci scuote la fantasia e fa appello alla nostra coscienza, poi guardiamo la data: anteguerra. A esser sinceri insomma ci pare che la cultura americana abbia perduto il magistero, quel suo ingenuo e sagace furore che la metteva all’avanguardia del nostro mondo intellettuale. Né si può non notare che ciò coincide con la fine, o sospensione, della sua lotta antifascista.

Sequestro Gancia, dopo mezzo secolo l’ex Br Azzolini torna alla sbarra

Forzatura dopo forzatura va avanti l’inchiesta della procura della Dda Torino sulla sparatoria alla cascina Spiotta, nella quale trovarono la morte quarantotto anni fa l’appuntato dei carabinieri Giovanni D’Alfonso e la brigatista Mara Cagol. La vicenda, ormai prescritta dal punto di vista giuridico ma tenuta proceduralmente in vita dalla procura torinese grazie ad un espediente: l’uso di una aggravante (l’aver commesso un nuovo reato per sottrarsi ad uno precedente) che l’ex legge Cirielli non consente più di riequilibrare nel calcolo tra aggravanti e attenuanti, rendendo di fatto automatuica la pena dell’ergastolo e dunque l’imprescrittibilità. A questa prima circostanza se ne è aggiunta una seconda, «abnorme»: Lauro Azzolini, prosciolto con formula piena dal giudice istruttore di Alessandria che condusse la prima indagine, quando vigeva il vecchio codice di procedura penale Rocco, è tornato indagabile grazie alla revoca da parte del Gip di Torino della vecchia ordinanza-sentenza nel frattempo scomparsa nella alluvione del fiume Tanaro che nel 1994 colpì Alessandria e gli archivi del tribunale e che, per questo motivo, nessuno, l’accusa, la difesa e il Gip stesso, hanno mai potuto leggere. Una revoca alla cieca, insomma. In Alice nel paese delle meraviglie la regina di cuori sovvertendo le regole pronunciava la fatidica frase: «prima la sentenza poi il processo», ora è molto peggio, si processa e si vorrebbe condannare senza nemmeno la sentenza.

Tiziana Maiolo – L’Unità 17 Maggio 2023

Riscrivere la storia di cinquant’anni fa in un’aula giudiziaria. È il senso della decisione di una giudice di Torino di annullare una sentenza con cui un esponente delle Br, Lauro Azzolini, era stato assolto dall’accusa di aver sparato e ucciso un carabiniere e poi di essere scappato. La sentenza è sparita, forse annegata in un’alluvione. Ma va comunque revocata e l’ottantenne ex brigatista va riportato alla sbarra.

E poi, che cosa ve ne fate? Così disse Adriano Sofri di fronte alla possibilità che la terra di Francia “restituisse” all’Italia i suoi figli ex trasgressori e ora pacificati settantenni e ottantenni. Cosa che non avvenne perché diversi giudici, fino alla cassazione, presero le distanze dai procuratori allineati con il governo Macron e anche con quelli di Draghi e di Meloni. E quei giudici parlarono, tra l’altro, del diritto-dovere di considerare il tempo che passa e i cambiamenti delle persone. Senza questa naturale forma di oblio, lasciando la memoria agli storici più che ai giudici, esiste solo la vendetta. Che non è pane per lo Stato di diritto.

Una lezione che ha le radici nella “dottrina Mitterrand”, ma anche, per restare in terra italiana, nel diritto romano. Corpi estranei per certe procure e per certi organi antiterrorismo. Diversamente non avrebbe (non ha) senso il fatto che alla procura di Torino si stia cercando di resuscitare la preistoria del terrorismo italiano. Coinvolgendo in un tragico sequestro di persona di cinquanta anni fa l’ottantenne fondatore delle Brigate Rosse, Renato Curcio, con la formuletta, che credevamo solo craxiana, del “non poteva non sapere”. E poi, addirittura con un’accusa di omicidio, l’ottantenne ex brigatista Lauro Azzolini. Eppure sta succedendo.

Una pm della Dda, Diana de Martino, e due colleghi della procura di Torino, Emilio Gatti e Ciro Santoriello, stanno indagando da un anno e mezzo, hanno convocato un bel gruppo di ottantenni ex brigatisti, poi hanno emesso un’informazione di garanzia a carico di Renato Curcio per un sequestro di persona, nella sua veste di fondatore delle Brigate Rosse. E lui ha risposto, per nulla intimidito, fatemi sapere piuttosto come è morta mia moglie Margherita. Così ha squarciato il velo sulla storia di quel che accadde quarantotto anni fa in una cascina del Monferrato dove le Brigate Rosse avevano per la prima volta tenuto prigioniero, dopo averlo sequestrato vicino a casa, un imprenditore, il “re dello spumante” Vittorio Vallarino Gancia, morto novantenne pochi mesi fa.

E’ paradossale, il paradosso della giustizia italiana, che stiamo raccontando una storia che pare quasi ambientata in una casa di riposo. Perché questa generazione di procuratori-storiografi pare non accontentarsi più delle indagini sulla mafia di trent’anni fa, ma ha la pretesa di fare una “nuova giustizia” anche sul terrorismo di cinquant’anni fa. Così, dal momento che la giudice delle indagini preliminari di Torino, Anna Mascolo, ha deciso ieri di accogliere la richiesta dei procuratori, si riapriranno ufficialmente le indagini su un tragico fatto del 5 giugno 1975, quando alla cascina Spiotta, tra le colline dell’alessandrino, dove le Br tenevano segregato Vittorio Vallarino Gancia, in un conflitto a fuoco con i carabinieri, furono uccisi l’appuntato Giovanni D’Alfonso e la brigatista Margherita Cagol, nome di battaglia “Mara”. Un secondo esponente delle Br era riuscito a fuggire. Non è stato mai identificato in tutti questi anni, nonostante le indagini abbiano tentato di portare alla sbarra in particolare Lauro Azzolini, che però fu assolto da un giudice istruttore, con il vecchio rito, per non aver commesso il fatto.

Ora l’ex capo della colonna torinese delle Br è iscritto nel registro degli indagati per omicidio, sulla base di due labilissimi indizi tra loro collegati. Il primo: le perizie dei Ris avrebbero rilevato 11 impronte digitali di Azzolini sui fogli dattiloscritti di una relazione che su quei fatti avrebbe stilato una fonte interna al gruppo terroristico e che è stata ritrovata in una base logistica di Milano. Quelle impronte, sostengono gli investigatori, sembravano intrise di sudore, sintomo di uno stato emotivo, come se chi aveva tenuto quei fogli in mano fosse stato la stessa persona che li aveva scritti. E chi, se non il protagonista stesso di quella tragica giornata? Il secondo indizio l’avrebbe fornito lo stesso Renato Curcio, il quale, in un suo libro, ha sostenuto che quella relazione, che era girata tra diverse mani, dava la versione esatta dei fatti per come erano accaduti, perché era stata scritta dall’esponente delle Br che era stato presente. Ma che cosa dimostra che fosse proprio Azzolini e non uno dei tanti che quei fogli avevano avuto in mano?

Nell’udienza che si è svolta il 9 maggio nell’ufficio della gip di Torino, naturalmente l’avvocato Davide Steccanella, difensore di Azzolini, ha potuto con una certa facilità dare battaglia proprio a partire dalla fragilità degli elementi indiziari raccolti dall’accusa. Il primo è addirittura paradossale, perché l’atto istruttorio che il 3 novembre 1987 ha assolto Lauro Azzolini per non aver commesso il fatto è sparito. Ma è sul merito dell’inchiesta che si mostra la debolezza di questa nuova pretesa punitiva. Intanto le date. Il fatto tragico della cascina Spiotta è del 5 giugno 1975, il ritrovamento del memoriale è di oltre sette mesi dopo, il 18 gennaio 1976 nell’appartamento milanese di via Maderno, quando i fogli sono già passati di mano in mano e non si sa chi li abbia consegnati a Renato Curcio. Lui nel libro, scritto nel 1993, quindi a quasi vent’anni di distanza, ricorda che quel testo era stato scritto da un militante che era stato presente ai fatti tragici di quel giorno. E avanza molti dubbi sulla dinamica di quella sparatoria e sull’uccisione di Mara Cagol, che potrebbe esser stata colpita mentre era con le braccia alzate in segno di resa.

Ma c’è un punto centrale: la descrizione che del brigatista fuggitivo avevano fatto tutti coloro che erano presenti quel giorno alla cascina Spiotta, cioè i tre carabinieri sopravvissuti, il maresciallo Cattafi, l’appuntato Barberis e il tenente Rocca, oltre al sequestrato Vallarino Gancia. Descrivono l’esponente delle Br come alto tra un metro settanta e uno e settantacinque, centimetro più centimetro meno. Ora va detto che Lauro Azzolini era alto oltre uno e novanta, statura rarissima negli anni settanta. Sarebbe stato descritto come un omone e sarebbe stato notato per questa sua particolarità, se fosse stato lui a essere presente e a sparare. Ma ha senso tutto ciò? Che giustizia è -lo diciamo anche ai figli dell’appuntato Giovanni D’Alfonso, ucciso in quel conflitto- quella che arriva cinquant’anni dopo? E che poi magari non arriva perché, ammesso che si giunga a un rinvio a giudizio e poi al primo e secondo e terzo grado di processo, sarà poi inevitabile arrivare a una dichiarazione di prescrizione. E all’ennesimo fallimento dello Stato di diritto.

Sullo stesso tema

Ai Partigiani senza medaglie e riconoscimenti

Il fratello di mia nonna, zio Antonio, è stato partigiano. A sedici anni si arruolò nella Brigata Maiella. La Brigata era nata nel suo paese, Torricella Peligna e in quello accanto, Gessopalena, situati entrambi sulla linea Gustav. Prese parte agli scontri più duri di Pizzoferrato e Gamberale. Mia madre racconta sempre la scena del suo ritorno a casa sui camion aperti dei partigiani e il lancio del berretto che lei ragazzina raccolse felice.
Terminata la guerra partigiana, zio Antonio, come molti del suo paese, è migrato all’estero, in Belgio prima, poi in Australia. Un suo fratello maggiore, zio Pasquale, durante la leva militare si era ritrovato coinvolto nella guerra d’Albania. Fatto prigioniero finì nei campi d’internamento inglesi e poi a lavorare in una colonia agricola in Grecia. Tornò in Italia dopo il 1950. La moglie era morta e la figlia, zia Angela, era cresciuta con mia nonna insieme a mia madre. La casa di famiglia non c’era più, centrata da un aereo, non ho mai capito se tedesco o alleato. Oggi al suo posto c’è la posta.
I nazifascisti si vendicarono contro i due paesi che avevano dato vita alla Brigata, dopo aver sfollato la popolazione e fatto razzia grazie alle spie fasciste, minarono e distrussero Gessopalena. Fecero lo stesso con Torricella ma dovettero fuggire prima di accendere le mine, riuscirono ad abbattere solo poche case. La guerriglia partigiana colpiva ai fianchi le truppe speciali alpine tedesche che per rappresaglia massacrarono alcune famiglie sfollate riparate in una masseria, in località Sant’Agata, vicino Gessopalena. Mia zia Angela si salvò perché un suo zio la venne a prendere la sera prima per portarla in un’altra masseria. Perse in quel posto un pezzo della sua famiglia.
Ogni volta che torno sotto la Maiella passo sempre a Sant’Agata a vedere quei ruderi rimasti così dal giorno del massacro.
Zio Antonio era lontano, non sapeva scrivere, le storie della Brigata me le ha raccontate un suo coetaneo che abitava al Calacroce, il rione più povero del paese, accanto alla casa dove era nata mia madre, nelle estati che trascorrevo a Torricella quando ero ragazzino. Franchino Di Luzio si chiamava, anche lui partigiano, e i suoi figli erano i miei amici.
Zio Antonio, il partigiano, non voleva morire in Australia e fece di tutto per rientrare in Italia. Visse un anno da mia madre. In quel periodo ero in carcere a Viterbo.
Chiesi l’autorizzazione per poterlo incontrare. Il vicedirettore, Francesco Ruello, me la negò con compiaciuto sadismo. Zio Antonio che non aveva nemmeno la pensione da partigiano nei suoi lunghi anni da migrante, era stato anche a Marceline, aveva perso la cittadinanza italiana.
Quando sono uscito dal carcere era ritornato in Australia. È morto lì, senza che lo abbia mai più rivisto.
Questi sono i miei partigiani, senza medaglie, senza riconoscimenti!

Il retroscena della cattura di Cesare Battisti, l’inchiesta sporca che nessuno vi racconterà mai

Pubblichiamno alcuni estratti del libro “La polizia della storia, la fabbrica delle false notizie nell’affaire Moro”, all’interno del quale si raccontano i retroscena della cattura di Cesare Battisti in Bolivia, la clonazione del telefono del suo avvocato e l’intercettazione dell’intera attività difensiva, condotta dalla digos su mandato della procura milanese, una volta incarcerato in Italia

«L’attività che ha condotto alla cattura di Cesare Battisti – scriveva la Digos in un rapporto del 24 gennaio 2019 – ha avuto inizio il 16 ottobre 2018 con la richiesta di delega alla Procura generale per l’espletamento dell’attività tecnica»(1). Dodici giorni prima della elezione del leader della destra Jair Bolsonaro alla Presidenza della repubblica brasiliana si erano attivate le intercettazioni sulle linee telefoniche in uso a Battisti ma dopo il 31 ottobre queste risultavano silenti. L’irreperibilità ufficiale di Battisti veniva accertata il 13 dicembre 2018, quando funzionari della Polizia italiana si erano recati a San Paolo per prenderlo in consegna dopo che Bolsonaro aveva revocato l’asilo concesso dall’ex Presidente Lula, incarcerato nel frattempo a seguito di una sorta di «golpe giudiziario».

L’informatore
Secondo la Polizia Battisti si era allontanato nel mese di novembre. Ricorrendo a servizi tecnici «esterni» – è scritto sempre nel rapporto – veniva ricostruito il percorso effettuato dall’ultimo telefono cellulare di Battisti. L’informazione decisiva perveniva però attraverso un metodo classico, la delazione: da un account di posta elettronica dal nome estremamente evocativo, «judas3636@gmail.com», martedì 4 dicembre 2018, alle ore 16.32, giungeva all’ufficio visti delle sede diplomatica italiana di La Paz il seguente messaggio: «Buon giorno, potremmo fornire informazioni preziose su una persona che state cercando da molto tempo, ciò che vorremmo sapere è cosa potrebbe guadagnare la persona che prende il rischio di fornire informazioni sulla sua posizione esatta. Stiamo parlando di Cesare Battisti. Buona giornata». Il giorno successivo l’autore del messaggio veniva identificato: viveva a Santa Cruz de la Sierra, dove immediatamente si concentrarono le indagini. Il rapporto citava il nome di un altro cittadino boliviano che pare avesse preso in consegna Battisti al suo ingresso nel paese. Le verifiche accertarono che «Judas» e questo secondo uomo erano in contatto e che insieme avevano raccolto Battisti dalla frontiera brasiliana per condurlo in un hotel di Santa Cruz, dove aveva soggiornato dal 16 novembre al 21 dicembre. «Il 7 gennaio perveniva una segnalazione della Digos di Milano concernente la possibile presenza del ricercato nella città di La Paz», a scriverlo in un secondo rapporto erano la Dcpp e lo Scip(2). Le indagini si spostarono nella capitale boliviana, dove Battisti cercava di ottenere protezione da parte delle autorità attraverso contati con settori politici. Appariva chiaro che il suo ingresso in Bolivia era avvenuto in modo precipitoso senza un’adeguata preparazione con contatti politici di livello. Grazie al controllo di una serie di telefoni intestati a prestanome, l’uso d’informazioni d’intelligence che utilizzavano fonti molto informate e servizi di appostamento in settori precisi della città, la trappola attorno al ricercato si chiudeva inesorabilmente, finché nel pomeriggio del 12 gennaio 2019 veniva riconosciuto in strada da agenti della polizia locale e tratto in arresto.

La Digos clona il telefono dell’avvocato
Nel mese di gennaio, mentre si stringeva il cerchio attorno al latitante, la Digos milanese lavorava sul telefono di un suo familiare italiano da lui più volte contattato. Dopo l’iniziale intercettazione della linea telefonica, come da prassi erano stati chiesti al gestore i tabulati con il traffico pregresso. Infine il telefonino era stato clonato, una tecnica che consente di poter leggere da remoto tutte le conversazioni via social che sfuggono alle normali intercettazioni della linea telefonica. Dall’analisi del traffico degli ultimi due anni, trattenuti per legge, emergevano dei contatti tra me e il familiare risalenti all’ottobre del 2017, quando Battisti era stato fermato vicino alla frontiera boliviana e arrestato con l’accusa di esportazione della valuta che aveva con sé. Avevo sentito questa persona per consigliarle di prendere un avvocato ed essere pronta al peggio, nel caso Battisti fosse stato ricondotto in Italia, come sembrava in quel momento. Quando mi chiese aiuto per trovare un legale la misi in contatto con l’avvocato Davide Steccanella, mio amico, che si era reso disponibile a prenderne la difesa nella malaugurata ipotesi di una sua estradizione. Le passai anche il numero del Garante nazionale dei detenuti, perché immaginavo – vista la mia personale esperienza dopo la riconsegna all’Italia nel 2002 – che il trattamento penitenziario riservatogli sarebbe stato dei peggiori. Non avevo tutti i torti, visto quel che poi è accaduto una volta ricondotto in Italia. Avevo conosciuto Battisti a Parigi, anche se non c’era tra noi una frequentazione personale. Ci incontravamo con altri rifugiati più che altro in situazioni di «crisi», quando c’erano discussioni politiche sul da farsi. Avevo invece seguito tutte le vertenze estradizionali, la sua e quella di Marina Petrella, perché ne scrivevo, sia quando ero in carcere che in semilibertà, in particolare quando iniziai a lavorare presso il quotidiano «Liberazione». Al giornale mi avevano affidato anche questo incarico: ho scritto più di settanta articoli sulle vicende dell’esilio, delle estradizioni e della cosiddetta dottrina Mitterrand. Sono stato il primo a intervistare in Italia Tarso Genro, il Ministro della Giustizia brasiliano che aveva concesso la prima forma di asilo a Battisti, e che tutti denigravano senza nemmeno ascoltare le sue argomentazioni(3). Sono bastati questi pochi contatti telefonici con alcuni familiari di Battisti per indurre la Digos ambrosiana a ritenere che io fossi a capo di un «rete» che forniva sostegno ai latitanti sparpagliati in mezzo mondo, una sorta di nuovo «Soccorso rosso internazionale», e l’avvocato Steccanella gestisse dall’Italia la latitanza di Battisti fornendogli contatti in loco. Nella richiesta di acquisizione del traffico telefonico pregresso e delle tracce lasciate dai cellulari e schede trovate addosso a Battisti, datata 28 gennaio 2019, venivamo descritti in questo modo: «si tratta di soggetti che almeno dall’ottobre 2018 avevano costantemente seguito e coadiuvato la latitanza di Battisti con informazioni logistiche, consentendogli di trovare ospitalità e mezzi di trasporto, tramite conoscenti, in terra sudamericana ovvero reperire e utilizzare strumenti di comunicazione idonei a mantenere la rete di contatti in una sorta di “cordone sanitario” della propria latitanza». Il 10 gennaio 2019 la Procura generale dispose la clonazione del telefono dell’avvocato Steccanella con l’obiettivo di poter «reperire ulteriori e più circostanziati elementi utili alla esatta localizzazione del latitante», avvalendosi di una giovane società del settore, la BitCorp, che nel preventivo di spesa (500 euro al giorno) forniva chiarimenti sulle modalità di clonazione, ottenuta effettuando: «una serie di “interrogazioni” ai webservice che servono le applicazioni all’interno del sistema che prendiamo come obiettivo. […] In tale modo si è in grado di ricevere in tempo reale ogni flusso di traffico dati generato o transitato attraverso il dispositivo target, in quanto gli stessi webservice ci riconoscono quali legittimi destinatari del flusso»(4). Di questa clonazione l’avvocato Steccanella è venuto a sapere soltanto nel 2021 quando, dopo aver esaminato il fascicolo, l’ho informato personalmente. La clonazione del cellulare dell’avvocato Steccanella è uno – non il solo – degli episodi più sconcertanti e paradossali di questa inchiesta, poiché era avvenuta quando le stesse indagini avevano accertato che Battisti si era avvalso di contatti locali, dimostratisi del tutto inaffidabili, persino estranei a circoli politici. Molto probabilmente la scelta di indirizzare l’inchiesta verso «complici italiani» rispondeva a input politico-ministeriali e a una sorta di effetto doping che la cattura di Battisti aveva suscitato negli apparati di polizia e nella Procura milanese. Una sorta di rottura dei freni inibitori che aveva lasciato via libera alle pulsioni più paranoiche e alla voglia di regolare i conti con quei pochi che in Italia avevano sempre sostenuto pubblicamente le battaglie contro le estradizioni degli esuli degli anni Settanta.

«L’intercettazione dell’attività difensiva»
Quando, il 14 gennaio, Battisti nominò come suo legale di fiducia l’avvocato Steccanella, che da quattro giorni aveva il telefono clonato, nella Procura di Milano deve esserci stato grande imbarazzo e forse anche qualcosa di più. Con il passaggio formale dell’inchiesta dalla Procura generale, che aveva esaurito la propria competenza con la cattura del latitante e la notifica del provvedimento di esecuzione pena, la direzione delle indagini perveniva nelle mani del Coordinatore della sezione distrettuale antiterrorismo, Alberto Nobili, che apriva una inchiesta per identificare i «complici italiani della latitanza di Battisti», ipotizzando il reato di «assistenza ad appartenenti ad associazione sovversiva» (270 ter). Evaso dal carcere di Frosinone il 4 ottobre del 1981, Cesare Battisti era stato lontano dall’Italia trentotto anni: approdato inizialmente in Francia, si era trasferito in Messico per ritornare a Parigi nel 1990, nel 2004 fuggire di nuovo in Brasile e infine nel 2018 approdare per pochi settimane in Bolivia. Nonostante avesse vissuto buona parte della propria esistenza tra Nord Europa e Centro-Sud America, secondo la Digos e la Procura di Milano i complici della sua libertà, quelli che lo avrebbero appoggiato per decenni, stavano in Italia, anzi stavano nelle carceri italiane. Mentre Battisti era in Francia e in Brasile, dal 2002 al 2014 mi trovavo in un cella italiana a da lì – secondo la Digos milanese – l’avrei appoggiato, senza aver mai conosciuto altri paesi fuorché l’Italia e la Francia, senza parlare una parola di portoghese e spagnolo e saper nulla del Sud America, trovandogli rifugio e contati in Brasile e Bolivia. Appena la Procura prese in mano le redini della nuova inchiesta fece «omissare» dall’indagine i risultati della clonazione effettuata sul telefono dell’avvocato Steccanella e il 24 gennaio 2019 dispose «con precedenza assoluta» l’intercettazione e localizzazione delle utenze del mio intero nucleo familiare e dei familiari di Battisti, che si protrarrà fino al maggio successivo. L’ avvocato Steccanella si era gettato anima e corpo in questa nuova impresa, nel frattempo Battisti era stato rinchiuso nel carcere di Oristano dove, col pretesto dei sei mesi di isolamento diurno previsti nella sentenza di condanna (una pena accessoria eredità dell’epoca fascista), era stata aperta un’ala solo per lui. Di fatto gli era stata costruita attorno una piccola sezione di 41 bis abusivo, nonostante l’ordinamento non consentisse questo regime detentivo per la sua fascia di reato. Non ero per nulla stupito di questo trattamento: nel corso delle conversazioni telefoniche che scambiavo col mio amico avvocato spiegavo che ai rifugiati ricondotti in Italia veniva fatta scontare una pena supplementare, che non stava scritta da nessuna parte, il «reato di esilio». Gli raccontavo la mia esperienza, la condizione di «trofeo della repubblica» sul quale si erano sfogati decenni di frustrazioni suscitate nei vertici delle forze di polizia e della magistratura dal rifiuto delle estradizioni e dalla politica di Mitterrand. Gli ricordavo quel povero magistrato bolognese che durante un interrogatorio mi disse che la Francia da decenni tramava contro la democrazia italiana fornendo riparo agli esuli degli anni Settanta e per questo aveva trasformato Parigi in un «santuario della lotta armata». Era la fine del 2002, e mentre in Parlamento si legiferava sulla stabilizzazione normativa del 41 bis, mi avevano già condotto in isolamento a Marino del Tronto, penitenziario di massima sicurezza dove era presente un importante reparto con regime 41 bis. Se non fosse stato per l’ostinata battaglia di una pattuglia di parlamentari garantisti le nuove norme mi avrebbero spedito sotto quel regime detentivo per il resto della pena.
Il rientro di Battisti in Italia era avvolto da un vuoto giuridico: la Bolivia non lo aveva estradato e la procedura di espulsione non era stata rispettata. E siccome il vuoto in diritto non può esistere, l’unico titolo giuridico che faceva testo era il provvedimento di estradizione brasiliano a cui si ancorava l’accordo bilaterale sulla commutazione della pena dall’ergastolo a trent’anni, concluso dal Ministro della Giustizia Andrea Orlando con l’omologo brasiliano il 7 ottobre 2017. Accordo che aveva sbloccato l’estradizione. Intanto Digos e Polizia di prevenzione ascoltavano le nostre conversazioni telefoniche che riferivano al Pm. Per tutti quei mesi l’intera strategia difensiva costruita dall’avvocato Steccanella è stata intercettata permettendo alla Procura di conoscerla in anticipo ed entrare nei segreti della difesa. Ricorrendo agli strumenti dell’indagine difensiva, l’avvocato Steccanella ottenne dal Ministero della Giustizia copia dell’accordo di commutazione della pena pubblicato dall’«Adnkronos» il 7 maggio 2019, ma le sue richieste davanti alla Corte d’appello di Milano non ottennero successo anche se i giudici sottolinearono che i reati di Battisti non impedivano l’accesso ai benefici di legge.

Note
1/ Questura di Milano, Digos, «Riepilogo attività delegata che ha condotto alla cattura del latitante Battisti Cesare» a firma Vice Ispettore Ivan Pavesi, Vice Questore Cristina Villa, 24 gennaio 2019.
2/ Direzione centrale della Polizia di prevenzione e Servizio per la cooperazione internazionale della polizia, «Relazione di servizio», a firma Giuseppe Codispoti, Emilio Russo, Sandro Chiatto, 23 gennaio 2019.
3/ P. Persichetti, Caso Battisti, parla Tarso Genro: «Anni Settanta in Italia, giustizia d’eccezione non fascismo», «Liberazione», 11 ottobre 2009, anche in, https://insorgenze.net/2009/11/12/caso-battisti-parla-tarso-genro-%c2%abanni-70-in-italia-giustizia-d%e2%80%99eccezione-non-fascismo%c2%bb/; e ancora in, P. Persichetti, «Battisti, Genro: L’italia si è dimostrata autoritaria e arrogante», «Liberazione», 14 novembre 2009, in https://insorgenze.net/2009/11/14/battisti-genro-litalia-e-stata-autoritaria-e-arrogante/.
4/ BitCorp, «Offerta per servizio di intercettazione telematica ibrida e localizzazione su dispositivi mobili», Milano, 8 gennaio 2019.

I mal di pancia dell’ex procuratore Giancarlo Caselli

Per l’ex procuratore capo di Torino Giancarlo Caselli, oggi in pensione, la decisione della corte di Cassazione francese, che ha confermato il rigetto delle domande di estradizione pronunciato in precedenza dalla corte di Appello di Parigi dei dieci rifugiati italiani, ex militanti delle formazioni della sinistra armata degli anni 70, sarebbe solo un gesto di «arrogante intolleranza», figlio della irresistibile tentazione francese di «insegnare a tutti gli altri (gli italiani in particolare modo) come si sta al mondo».
I contenuti giuridici della decisione – sempre secondo l’ex pm – oscillerebbero tra «il paradossale e l’incredibile». In particolare Caselli non sembra digerire l’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti umani, richiamato dai giudici parigini per tutelare i diritti acquisiti nel corso della pluridecennale permanenza sul suolo francese dei dieci esuli italiani, sulla scorta di decisioni giudiziarie, politiche e amministrative, pronunciate nel tempo dalla autorità del posto. Tutto ciò – a detta dell’ex procuratore – non avrebbe alcun valore. Per il diritto interno francese tutte le pene sono prescritte dopo un periodo massimo di venti anni, ciò vale anche per l’ergastolo, che nel nostro ordinamento è diventato invece imprescrittibile, al pari di un crimine contro l’umanità. Nell’ordinamento italiano, il periodo massimo oltre il quale scatta la prescrizione delle pene temporali è pari a trent’anni. Regola che l’autorità giudiziaria ha aggirato in tutti i modi mettendo in campo una serie di sotterfugi e artifici vergognosi pur di impedire che la prescrizione venisse riconosciuta a due dei dieci ex militanti richiesti. In un caso si è addirittura ricorsi ad una fraudolenta dichiarazione di pericolosità sociale, a quaranta anni dai fatti-reato, nei confronti di una persona ormai ultrasettantenne e che nel frattempo ha mantenuto una condotta penalmente irreprensibile sul suolo francese, pur di scongiurare l’applicazione della prescrizione.
Nella dottrina classica del diritto, il decorso del tempo faceva venire meno l’interesse punitivo dello Stato nei confronti del reo. Questo assunto traeva il suo fondamento penalistico dalla convinzione che fuori dal contesto sociale che lo aveva generato, il reato attenuava se non perdeva la sua portata lesiva dell’ordine sociale e politico infranto, perdeva la carica di allarme sociale in esso contenuta e il reo vedeva inevitabilmente modificarsi la sua personalità a distanza di trenta anni dai fatti. A questa concezione Caselli antepone la «punizione infinita», per altro strettamente limitata ai reati di natura politica e di contestazione sociale, secondo una visione etica dello Stato molto vicina ai presupposti culturali dell’attuale maggioranza di governo, a cui senza dubbio può dare molte lezioni.
Ai giudici francesi non è sfuggito questo atteggiamento generale della autorità politiche e giudiziarie italiane, nonché della grande stampa, tanto da aver ritenuto che il via libera alle estradizioni, a fronte dei ripetuti propositi meramente vendicativi enunciati e praticati da parte italiana, avrebbe comportato per gli estradandi un trattamento sproporzionato e iniquo, una violazione insanabile della vita familiare e privata acquista da molti decenni in Francia, infrangendo il percorso di recupero sociale realizzato.
A rendere ancora più furibondo Caselli è stato poi il richiamo al giusto processo, sancito dall’articolo 6 della Cedu. Norma finalizzata a garantire che la persona a rischio di estradizione non sia esposta, nello Stato richiedente, a un flagrante diniego di giustizia che può derivare, in particolare, dall’impossibilità di ottenere una nuova pronuncia giudiziaria sul merito dell’accusa nonostante la condanna sia stata pronunciata in sua assenza. Diverse richieste di estradizione riguardavano, infatti, persone processate e condannate in contumacia. Chi ha seguito tutte le udienze davanti alla corte di appello di Parigi sa bene che i giudici hanno ripetutamente chiesto chiarimenti e garanzie alla parte italiana affinché una volta riconsegnate, le persone condannate in contumacia potessero avere garantito il diritto a un nuovo processo. Per tutta risposta le autorità italiane hanno balbettato, tergiversato a lungo perché incapaci di fornire delle garanzie inesistenti nel nostro ordinamento processuale. Atteggiamento che ha definitivamente convinto la corte francese a rifiutare le domande di estradizione.
Per Caselli tutto ciò sarebbe solo una prova della supponenza d’Oltralpe e non una manifesta deficienza italiana, una incapacità a comprendere che la cultura della eccezione giudiziaria che ha dominato la fase repressiva della lotta armata non è sovrapponibile alle altre culture giuridiche europee a cui sfugge questa eterna riproposizione di logiche d’eccezione originate da contesti non più attuali, conclusi da oltre trent’anni.
Alla ricerca disperata di argomenti per puntellare le proprie tesi, Caselli ricorre ad un esempio surreale, il processo di Torino al nucleo storico delle Brigate rosse, definito un modello del rispetto dei diritti degli imputati. Oggi sappiamo che fu la federazione del Pci torinese a reclutare i giudici popolari di quel processo, come ha raccontato Giuliano Ferrara che quella operazione gestì in prima persona. Sono noti anche i rapporti stretti che Caselli teneva con la federazione torinese del partito comunista, in nome di quella concezione schierata e combattente del ruolo della magistratura che contrasta con la pretesa di dare lezioni morali al mondo, soprattutto se poi è la sua ex procura, in linea con le autorità di governo francesi (cosa c’entra la magistratura di Parigi che per altro nel dossier estradizioni non si è piegata ai diktat dell’Eliseo), a perseguire con uno zelo facinoroso quegli attivisti che sostengono i migranti alla frontiera tra i due paesi.