Continua la polemica innescata dal questionario della regione Lazio sui Caregiver. Sono tra quelli che ne hanno criticato il testo quando lo scorso mese di marzo il comune di Roma lo aveva inviato attraverso i servizi sociali dei municipi. Dopo l’articolo di Valentina sull’edizione romana di Repubblica (https://roma.repubblica.it/…/valentina_perniciaro…/) di venerdì scorso e la decisione del comune di ritirare il questionario e le precisazioni della Regione Lazio che in sostanza ne ridimensiona l’uso è intervenuta sulle pagine di “Domani” Selvaggia Lucarelli con un pezzo avventato che difende le ragioni del questionario attaccandone le critiche.
In realtà l’irrecivibilità dei quesiti nelle parti che riguardano lo «stress percepito» è più che fondata: si tratta di domande tratte da un vecchio protocollo datato e completamente scollato dalla società attuale, al punto da essere declinato la femminile, come se non esistessero caregiver maschi. Aspetto rivelatore degli schemi preconcetti di chi lo ha redatto e degli indicatori di riferimento ormai antidiluviani in un’epoca dove l’attenzione al linguaggio inclusivo ha assunto aspetti avvolte persino parossistici.
Le domande sono a risposta chiusa, varia solo l’intensità (da 0 a quattro), il che delinea un orizzonte già predefinito, le questioni sono tutte incentrate nel chiuso della dimensione familiare: non vi è nessuna attenzione alle problematiche che il caregiver vive all’esterno della famiglia, nella società e che buona logica porterebbe a vedere come uno degli amplificatori del disagio e dello stress che esplode nell’ambito familiare. Nessuna domanda sui servizi forniti dalle Asl, sull’eventuale assistenza domiciliare, sulle prestazioni, sull’accesso scolastico (se per esempio si è dovuto ricorrere alla consueta causa davanti al tribunale per ottenere le ore di sostegno previste) e nel mondo del lavoro o nella vita sociale. Perché se la persona con disabilità non può uscire di casa perché troppe sono le barriere architettoniche o quelle sociali è chiaro che la dimensione familiare diventa una forma di reclusione con tutto ciò che ne consegue per il disabile, il caregiver e la famiglia intera.
L’unico momento esterno alla famiglia proposto dal questionario è posto in termini di «vergogna sociale» eventualmente provata. La reazione indignata che questa domanda ha sollevato dovrebbe far riflettere su come, per fortuna, la società stia mutando e i disabili e i loro caregiver abbiano cominciato a liberarsi delle etichette stigmatizzanti e colpevolizzanti. La vergogna è una emozione sociale, cioè indotta nella persona dalla relazione con gli altri. C’è vergogna se si subisce uno stigma o non ci si sente all’altezza di parametri estetici e performativi socialmente percepiti come la normalità. Un sentimento che trova sempre meno spazio in un’epoca dove anche i corpi non conformi rivendicano il loro pride.
Il questionario proposto è un ferravecchio intriso di cultura moralista e colpevolizzante, che minorizza il caregiver e lo guarda come un potenziale malato clinicizzabile, per questo inaccettabile.