Altro che vergogna, il problema principale dei caregiver sono le competenze non riconosciute

Paolo Persichetti, Domani 26 giugno 2022

Sono caregiver di uno dei miei due figli, un bimbo di quasi 9 anni, ora tetraplegico a seguito di un arresto cardiaco arrivato alcune settimane dopo la nascita. Oggi Sirio è portatore di tracheostomia, si alimenta attraverso la peg, utilizza varie protesi per camminare e sentire, comunica con la Caa e la lingua dei segni, riesce persino a fonetizzare attraverso la tracheo frasi intere.
Va a scuola dove ha appena terminato la terza elementare. Adora guidare la sua macchinina elettrica e qualunque altro mezzo su ruote, sfreccia con un triciclo adattato, ama viaggiare, impara a memoria tutti gli itinerari che ripercorre sul tablet.
Ha bisogno di una assistenza costante, va aspirato, alimentato, vestito, medicato, accompagnato al bagno, chiede attenzione, affetto, vuole giocare, parlare, richiede un rapporto simbiotico.
In questi ultimi giorni un’accesa polemica si è sviluppata attorno al questionario diffuso dalla Regione Lazio per misurare lo stress dei caregiver.
Dopo la decisione del comune di Roma di ritirare il modulo e le precisazioni della Regione che nella sostanza ne hanno ridimensionato l’uso, su Domani Selvaggia Lucarelli ne ha sorprendentemente difeso le ragioni sulla base delle propria personale esperienza di caregiving geriatrico.

Vite intere di assitenza
L’aumento della speranza di vita nelle società occidentali ha accresciuto la popolazione anziana con uno sviluppo senza precedenti della medicina e dell’assistenza geriatrica.
Occorre tuttavia distinguere tra il caregiving geriatrico, che inevitabilmente occuperà alcuni anni della nostra vita, e la presa in cura di persone disabili ad alta intensità fin dall’età neonatale e pediatrica, o perché colpite da sindromi degenerative, o gravi incidenti anche in età adulta. In quest’ultimo caso parliamo di vite intere e lunghissimi tratti della propria esistenza interamente occupati dall’assistenza totalizzante della persona disabile.
Il questionario oggetto delle polemiche era rivolto proprio a questo secondo tipo di caregiver.
Sono tra quelli che ne hanno criticato i quesiti quando lo scorso mese di marzo il Comune di Roma me li ha inviati per posta elettronica attraverso i servizi sociali del municipio.
Le domande, tratte da un protocollo datato, appaiono scollate dalla società attuale, al punto da essere declinate unicamente al femminile come se non esistessero caregiver uomini.

La gabbia familiare
Il tentativo di acquisire una mappatura del livello di stress e usura dei caregiver potrebbe avere anche un intento lodevole ma arriva dopo anni di abbandono e riduzione delle prestazioni economiche erogate negli ultimi anni.
Nel questionario era possibile variare unicamente l’intensità di fatica e stress proposto (da 0 a quattro): le domande sono tutte incentrate nel chiuso della dimensione familiare come se l’universo della persona con disabilità e del suo caregiver si limitasse alle mura domestiche.
Nessuna attenzione viene posta sulle interazioni esterne e che buona logica porterebbe a ritenere uno degli amplificatori del disagio e dello stress che può esplodere nell’ambito familiare.
Nessuna domanda sulla qualità dei servizi forniti dalle Asl, le prestazioni, sulla presenza di incentivi alle autonomie, la presenza di terapie e ausili moderni, l’accesso scolastico e nel mondo del lavoro o nella vita sociale.

Competenze non vergogna
L’unico momento esterno alla famiglia indagato dal questionario viene posto in termini di «vergogna sociale» eventualmente provata dal caregiver per la persona di cui si occupa. La vergogna è una emozione sociale, cioè indotta nella persona dalla relazione con gli altri. C’è vergogna se si subisce uno stigma o non ci si sente all’altezza di parametri estetici e performativi socialmente percepiti come la normalità.
Un sentimento che trova sempre meno spazio in un’epoca dove anche i corpi non conformi rivendicano il loro pride, l’orgoglio di essere quello che sono. Ok Ci saremmo aspettati altre domande, una ricerca più pertinente degli ostacoli, delle difficoltà e dei limiti quotidiani che logorano la vita del caregiver oggi.
Per esempio: quante volte nell’ultimo anno il caregiver è riuscito ad andare al cinema, al teatro, ad un concerto o a un evento sportivo?
Se per andare in vacanza viene sospesa o si rischia di perdere l’assistenza infermieristica perché le ferie per la persona disabile e il caregiver non sono ritenute un diritto e nemmeno una cura.
Non si domanda se gli ausili forniti per facilitare la mobilità e le attività della persona disabile siano adeguati, quale sia il peso del carico burocratico, del ruolo di interfaccia continua con tutte le amministrazioni e servizi ospedalieri: gare d’appalto, a volte trimestrali, per forniture e ausili, file in Asl ogni mese per ritirare medicinali e nutrizione enterale, rendicontazione delle spese.
Oppure, per esempio, quante volte si è trovato occupato il posto disabili assegnato o è stata danneggiata la macchina perché quel parcheggio sotto l’abitazione viene percepito da alcuni come un privilegio.
Lo stress del caregiver, la sua fatica, dipendono anche da questi fattori. Il questionario proposto non tocca nessuno di questi punti, al contrario appare intriso di cultura moralista e colpevolizzante e mostra di guardare al caregiver come a un potenziale malato da sottoporre a tutela psicoclinica. Un approccio minorizzante che non vede in chi si prende cura di persone che necessitano un’assistenza continuativa ad alta intensità la presenza di professionalità e competenze acquisite nel tempo. Un valore aggiunto di cui si ignora la preziosità sociale. Un genitore caregiver è in grado di svolgere manovre salvavita e medicazioni, diluizioni di farmaci e gestione di parametri clinici. Siamo noi caregiver che formiamo gli infermieri forniti dalle cooperative, insegniamo loro le aspirazioni endotracheali, il cambio delle cannule tracheo, le medicazioni quotidiane, la sostituzione della peg. Siamo noi che interveniamo durante le emergenze notturne e diurne, apprendiamo nuove lingue e forme alternative di comunicazione. Tutto ciò non trova riconoscimento, resta un sapere opaco, il caregiver rimane un fantasma, al massimo un paziente da curare non una persona a cui si devono riconosce diritti, bisogni, retribuzione, tutele legislative e pensionistiche.


Il Caregiver e la vergogna degli altri

Continua la polemica innescata dal questionario della regione Lazio sui Caregiver. Sono tra quelli che ne hanno criticato il testo quando lo scorso mese di marzo il comune di Roma lo aveva inviato attraverso i servizi sociali dei municipi. Dopo l’articolo di Valentina sull’edizione romana di Repubblica (https://roma.repubblica.it/…/valentina_perniciaro…/) di venerdì scorso e la decisione del comune di ritirare il questionario e le precisazioni della Regione Lazio che in sostanza ne ridimensiona l’uso è intervenuta sulle pagine di “Domani” Selvaggia Lucarelli con un pezzo avventato che difende le ragioni del questionario attaccandone le critiche.
In realtà l’irrecivibilità dei quesiti nelle parti che riguardano lo «stress percepito» è più che fondata: si tratta di domande tratte da un vecchio protocollo datato e completamente scollato dalla società attuale, al punto da essere declinato la femminile, come se non esistessero caregiver maschi. Aspetto rivelatore degli schemi preconcetti di chi lo ha redatto e degli indicatori di riferimento ormai antidiluviani in un’epoca dove l’attenzione al linguaggio inclusivo ha assunto aspetti avvolte persino parossistici.
Le domande sono a risposta chiusa, varia solo l’intensità (da 0 a quattro), il che delinea un orizzonte già predefinito, le questioni sono tutte incentrate nel chiuso della dimensione familiare: non vi è nessuna attenzione alle problematiche che il caregiver vive all’esterno della famiglia, nella società e che buona logica porterebbe a vedere come uno degli amplificatori del disagio e dello stress che esplode nell’ambito familiare. Nessuna domanda sui servizi forniti dalle Asl, sull’eventuale assistenza domiciliare, sulle prestazioni, sull’accesso scolastico (se per esempio si è dovuto ricorrere alla consueta causa davanti al tribunale per ottenere le ore di sostegno previste) e nel mondo del lavoro o nella vita sociale. Perché se la persona con disabilità non può uscire di casa perché troppe sono le barriere architettoniche o quelle sociali è chiaro che la dimensione familiare diventa una forma di reclusione con tutto ciò che ne consegue per il disabile, il caregiver e la famiglia intera.
L’unico momento esterno alla famiglia proposto dal questionario è posto in termini di «vergogna sociale» eventualmente provata. La reazione indignata che questa domanda ha sollevato dovrebbe far riflettere su come, per fortuna, la società stia mutando e i disabili e i loro caregiver abbiano cominciato a liberarsi delle etichette stigmatizzanti e colpevolizzanti. La vergogna è una emozione sociale, cioè indotta nella persona dalla relazione con gli altri. C’è vergogna se si subisce uno stigma o non ci si sente all’altezza di parametri estetici e performativi socialmente percepiti come la normalità. Un sentimento che trova sempre meno spazio in un’epoca dove anche i corpi non conformi rivendicano il loro pride.
Il questionario proposto è un ferravecchio intriso di cultura moralista e colpevolizzante, che minorizza il caregiver e lo guarda come un potenziale malato clinicizzabile, per questo inaccettabile.

Ognuno ride a modo suo, storia di un bambino irriverente e sbilenco

«Mi chiamo Sirio e per parlare uso un tablet e i segni delle mani, per ascoltare due protesi acustiche, per respirare una tracheostomia, per mangiare una gastrostomia, per camminare una sedia a rotelle e due bei tutori colorati.
Mi chiamo Sirio, è questo il nome che non mi chiedete mai, che fate fatica a domandare, identico a quello di una stella.
Mi chiamo Sirio e quando lo pronuncio mi capisco solo io, perché la mia bocca aperta che osservate interdetti non mi fa parlare come vorrei, come parla la mia testa.
Però mi presento lo stesso e il mio nome lo dico indicandomi, mostrandovi che son qui, sono proprio questo bimbo buffo che avete davanti, così diverso da tutti quelli che avete sempre visto, così diverso da tutti quelli a cui sorridete e fate le vocine cretine.
Sono quello che guardate ammutoliti, quello che fa calare il silenzio quando passa, quello che vi fa un po’ impressione, un po’ senso, un po’ ribrezzo, e magari anche simpatia, chissà.
Sono quello a cui non sapete come dire le cose, non sapete se potete, non sapete se è il caso: e allora vengo a rompere il ghiaccio da solo, mi vengo a presentare senza badare al vostro stupore, tantomeno alla compassione, che ha smesso di scalfirmi. Vengo davanti a voi, con la mia irriverenza, a presentarmi ai vostri sguardi fatti di filo spinato, ai vostri sguardi confine, i vostri sguardi muro. Vengo a divertirmi con le vostre reazioni, a provocarvi, a vedere se siete capaci di capire che vi sto prendendo in giro, che in me e nel mio corpo sbilenco non c’è niente di drammatico, niente di serio o di abominevole, che la mia bava non può farvi nulla, è solo mia.
Non posso mica perturbarvi solo perché esisto, perché ho osato resistere alla morte e ho deciso di innamorarmi della vita e di voler attraversare il mondo, presentandovi la diversità e la mia voglia di divertirmi e ridere in faccia alla sfiga.
E allora eccomi qui, sono Sirio, il re sbilenco dei Tetrabondi, tetraplegico e vagabondo, bavoso e felice, che vuole riaprire le porte della città per far entrare tutti quelli lasciati fuori: il meraviglioso e storto esercito di corpi non adeguati e non conformi, di corpi esclusi, rinchiusi, declassati, innominabili, che vogliono raccontare tutto quello che non hanno potuto mai.
Eccomi qui ad aprire questa porta pesantissima per attraversare strade che sentite solo vostre e invece son di tutti, strade che sembrano essere state disegnate solo per voi e invece son dei corpi che volano leggeri, come di quelli che san solo strisciare.
Lasciate lontano la paura, lasciate lontano l’orrore della deformazione, della malattia, della disabilità, della pazzia, della diversità e venite a giocare con me, a parlare con me, a ballare.