L’Innse, un modello di lotta da seguire

A coloquio con i protagonisti dell’occupazione:
«Rotta l’invisibilità operaia»

Paolo Persichetti
Liberazione
9 agosto 2009

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«E se l’Innse diventasse un esempio?». La domanda apparsa alcuni giorni fa sul Sole 24 ore agita i palazzi del potere economico e politico. E si perché la lotta che stanno portando avanti da 15 mesi le operaie e gli operai della fabbrica di Lambrate racchiude un doppio significato: il primo economico e sindacale, il secondo politico. Accanto alla salvaguardia di un’azienda e dei suoi posti di lavoro, capitale fisso e capitale variabile che serbano intatte le loro potenzialità produttive; accanto a macchinari e maestranze che mantengono l’integra capacità di stare sul mercato, solo a volergliene dare fiducia, solo se ci fosse ancora un capitalismo produttivo e non la voracità necrofila di uno “sfasciacarrozze”, c’è «l’effetto contagio».Temuto da chi ormai fa profitto solo speculando; auspicato da chi per campare deve vendere la propria forza lavoro e vede i luoghi del lavoro saccheggiati, vampirizzati. Tra gli operai che presidiano l’ingresso della fabbrica è forte la consapevolezza che col passar dei giorni, da quando la lotta cocciuta di chi non ha voluto mollare lo stabilimento che un tempo costruiva la mitica Lambretta, questa battaglia non è soltanto una difesa strenua della possibilità di mantenere lavoro nella propria città, conservare un sapere prezioso, ma è speranza, segno di rinnovata vitalità politica, di riacquisita visibilità sociale per una condizione operaia svanita nelle nebbie della fabbrichetta diffusa, dei capannoni che si perdono a vista d’occhio nella valle padana.

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Il modello Insee, una lotta vera, fuori dai riti strettamente irrigimentati, fatta di azioni impreviste, fantasia e tenacia, coraggio di mettersi in gioco. L’Insee come gli operai francesi? «Ecco perché quei 5 sul carro ponte fanno paura», spiega Gino, che la storia di questo stabilimento sembra conoscerla tutta, fin da quella lapide che sta dentro i cancelli e «ricorda i nomi di 15 operai deportati dai Nazisti nel 1944. Tornarono solo in due e uno di loro morì subito dopo. C’è un legame forte con questa memoria. Anche se nella società si è un po’ appannata». Alla domanda su come stanno i 5 dentro la fabbrica, risponde che d’averli sentiti telegraficamente in mattinata, «La situazione sembra bloccata. C’è stato un irrigidimento, ieri è entrato Rinaldini per parlare e accertarsi delle loro condizioni, oggi invece non hanno fatto passare nessuno. La fabbrica è completamente circondata, somiglia a un presidio militare. È stata tolta l’elettricità sotto la gru per impedire ai 5 di ricaricare i telefonini e isolarli dal resto del mondo». Tra gli operai che animano il presidio serpeggia il timore di un’azione delle forze dell’ordine per tirarli giù con la forza, «altrimenti, perché isolarli? Impedire di vedere le loro mogli e i figli? Neppure in carcere si negano le visite dei parenti. Come potranno spiegare un giorno ai loro figlioli che hanno subito questo trattamento solo perché stavano difendendo il posto di lavoro? Sono lì a 22 metri di altezza, immediatamente sotto il tetto dove l’aria è rarefatta. Non è una situazione facile. Il carro ponte è una gru grossissima che si muove per tutta la campata del capannone. È come quelle enormi gru che campeggiano nei cantieri navali. E poi il tetto è fatto di materiali trasparenti che fanno passare la luce. I raggi del sole producono un effetto serra. Una situazione estrema».
Mentre Gino parla ancora non sono arrivati i lanci d’agenzia che annunciano una possibile schiarita, forse addirittura la firma di un accordo di vendita con uno degli acquirenti. Ma una eventualità del genere non farebbe che confermare la volontà profetica che gli operai dell’Innse attribuiscono alla loro lotta: «l’aver dimostrato ai padroni che è possibile resistere. Questi lunghi mesi di resistenza sono una prova inequivocabile. Molti di quelli che ci seguono dall’inizio l’hanno capito, altri che ci hanno scoperto strada facendo ora si chiedono come abbiamo fatto, ci chiedono dei documenti su quello che abbiamo prodotto in questi mesi. Ci auguriamo che questo esempio non sia solo una cosa da mettere in cornice, ma che anche gli altri lo seguano nella pratica della loro fabbrica, della loro condizione materiale».

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Sergio, più giovane, ricorda come il prefetto aveva sempre detto che serviva un acquirente per sbloccare la situazione. «Adesso ce ne sono addirittura due e la situazione non si sblocca. Non è un paradosso? Prima dicevano che la fabbrica non era più produttiva, che eravamo dei pazzi, e ora che ci sono degli acquirenti la fabbrica non si apre? Forse ci temono perché siamo diventati un modello di lotta per quello che potrà succedere a settembre, alla riapertura della fabbriche».
Mentre ci salutiamo, Gino e gli altri si accingono a fare un altro tentativo per far entrare una delegazione che possa sincerarsi delle condizioni dei loro compagni. Di tanto in tanto possono ricevere solo dell’acqua e degli alimenti. «Questo non posso impedircelo. Qui la condizione umana degli operai non viene più tenuta in considerazione». Alla fine, comunque vada, la lotta degli operai dell’Innse ha rotto l’invisibilità caduta sulla condizione operaia.

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