La rivolta in fabbrica, rapporti di lavoro e lotte operaie alla Fiat Mirafiori dal 1962 al 1973

Esce in Germania il libro più completo sulle lotte operaie a Mirafiori tra ’62 e ’73, scritto dallo storico Dietmar Lange. La recensione di Sergio Bologna

Sergio Bologna, il manifesto 21 aprile 2021

È uscito in Germania presso il grande e prestigioso gruppo editoriale Vandenhoeck & Ruprecht il libro di Dietmar Lange, Aufstand in der Fabrik. Arbeitsverhältnisse und Arbeitskämpfe bei Fiat Mirafiori 1962 bis 1973 (Rivolta in fabbrica. Condizione operaia e lotte operaie alla Fiat Mirafiori 1962-1973), pp. 421, euro 63. Messo a paragone con le numerose rievocazioni di quella stagione che la ricorrenza dell’autunno caldo ha stimolato prima e dopo la pandemia, il lavoro di Lange mostra un respiro storico che nulla ha a che vedere con l’«aria di famiglia» che traspira dalla produzione pubblicistica italiana. Lange colloca la vicenda Fiat in un quadro che la iscrive nelle «onde lunghe» dei cicli di lotta che partono dalla Comune di Parigi e, attraverso i moti rivoluzionari del 1917-23, giungono agli anni Sessanta del secolo scorso.
Sembra di avvertire qui la lezione di Marcel van den Linden e della sua Global Labour History, che se da un lato ha cercato di rovesciare l’eurocentrismo della storia del lavoro come l’abbiamo praticata durante tutto il Novecento, dall’altro lato ci ha messo in guardia da un eccessivo uso della microstoria nell’analisi delle lotte dei lavoratori, spingendoci a innalzare lo sguardo sui grandi snodi della storia mondiale. Per altro verso Lange si richiama esplicitamente al Labour Process Debate lanciato da Harry Bravermann agli inizi degli anni Settanta, che sollecitò gli storici ad occuparsi del controllo sociale sulla forza lavoro esercitato attraverso dinamiche e strumenti ben diversi da quelli dell’ingegneria taylorista in fabbrica. Un controllo che provoca nella classe operaia una reazione alla stessa altezza e che i sociologi tedeschi chiamarono di proletarische Öffentlichkeit o di Gegen-Öffentlichkeit.

Da questo intinerario metodologico Lange arriva all’operaismo italiano, del tutto correttamente, a nostro avviso, perché il punto di contatto è rappresentato proprio da quella netta distinzione tra la sfera della «composizione tecnica di classe» e la sfera della «composizione politica di classe». L’operaismo non aveva mai concepito un «dentro» e un «fuori» la fabbrica, come due spazi fisici dove all’interno del primo si lottava per il salario e l’orario e all’interno del secondo per la casa, i trasporti, la scuola, l’informazione ecc. (le cosiddette «lotte per le riforme» post-69). Le due sfere erano concepite come due gradi di maturità antagonista, quindi come un percorso lungo il quale la forma della cooperazione nella e per la produzione si rovescia in forma di conflitto collettivo.
Le prime diciotto pagine in cui l’autore si sofferma su questi aspetti metodologici meritano una particolare attenzione perché identificano chiaramente un punto di vista molto diverso da quello di molta letteratura e memorialistica italiana sulla vicenda Fiat, prigioniera certe volte di una visione «localistica», pur con la forte passione politica della scrittura. Lange colloca la vicenda Fiat al centro di quella «frattura strutturale» (Strukturbruch) verificatasi nella società capitalistica, che noi abbiamo chiamato «passaggio dal fordismo al postfordismo».
L’anno in cui questa frattura ha cominciato ad apparire in tutta la sua dimensione planetaria è il 1973, più precisamente ottobre 1973 con lo scoppio della «crisi petrolifera». Ma è anche l’anno in cui il ciclo che si era aperto agli inizi degli anni Sessanta ed era culminato nell’autunno caldo comincia una discesa non lineare, anzi, costellata di sussulti e di riposizionamenti strategici (si pensi al movimento del ’77), prima della sconfitta bruciante dell’ottobre 1980 proprio alla Fiat.
E qui si pone un altro problema di carattere metodologico. Un problema di periodizzazione. Quando e dove inizia il ciclo? Alla Fiat sicuramente nel 1962 e quindi Lange ha fatto benissimo a iniziare la sua narrazione da lì, riprendendo la periodizzazione classica dei Quaderni Rossi. Se fosse partito dal 1967 avrebbe probabilmente commesso lo stesso errore in cui sono incorsi molti di noi attribuendo funzione di «detonatore» alle lotte studentesche.

Ma oggi sappiamo cheche non è corretto isolare Torino dal resto d’Italia e Lange, se proprio avesse voluto mantenere estrema coerenza alla sua posizione, non avrebbe dovuto ignorarlo. Lo scontro alla Fiat che si sarebbe concluso nell’ottobre 1980 non s’identifica con il grande ciclo, perché la data d’inizio di quel ciclo è il 1960, Milano, sciopero dei 70 mila elettromeccanici, una lotta «che resiste un minuto più del padrone» per quasi un anno e vince. Questo vizio «torinocentrico» che ci siamo portati dietro per decenni evidentemente è contagioso.
Lange trova nella produzione storiografica che lo ha preceduto un’insufficiente capacità di cogliere tutta la complessità delle interrelazioni tra sfera dello sviluppo economico, sfera dei mutamenti tecnologici, comportamenti soggettivi di classe, rappresentanza sindacale e configurazione del sociale e dichiara che il suo intento è stato proprio quello di affrontare di petto questa complessità nello sforzo di realizzarne una sintesi. Se ci sia riuscito o meno dovremmo poterlo giudicare analizzando in dettaglio i vari capitoli del libro, compito che richiederebbe uno spazio ben maggiore di questa che non è una recensione ma una semplice segnalazione.
Ci limitiamo pertanto a elencare gli argomenti dei diversi capitoli: l’Italia del miracolo economico, la formazione di un pensiero della «nuova sinistra», l’epoca della catena di montaggio, piazza Statuto e le sue conseguenze, l’ombra della congiuntura (1963-66), il «maggio strisciante» alla Fiat, crisi e mutamento nell’Italia inizi anni Settanta, un nuovo modello di gestione alla Fiat, la stagione contrattuale del 1972/73. I capitoli dedicati al nuovo modello di gestione costituiscono la sezione più corposa del volume e riguardano il confronto classe-direzione di fabbrica sull’organizzazione del lavoro, sui cottimi, l’inquadramento unico, i ritmi, il potere dei capi, la fase cioè in cui l’egualitarismo dell’autunno caldo si deve tradurre in articolazione di reparto, contestando l’ingegneria taylorista. È qui che Lange dà maggiore spazio al ruolo della sinistra radicale, in particolare a Lotta Continua e al potere d’interdizione che un solo reparto chiave (ad esempio, la verniciatura) può esercitare sull’intero flusso produttivo.

Nella ventina di pagine di Zusammenfassung Lange cambia completamente tono e punto di vista rispetto alle pagine introduttive sulla metodologia. La lunga narrazione precedente lo ha costretto a rimettersi sul terreno della microstoria, dell’indagine sociologica, dell’ascolto della soggettività operaia. È un riconoscimento che i limiti da lui individuati all’inizio nella storiografia che lo ha preceduto non sono limiti della visione d’insieme ma il portato di una «parzialità» che la storiografia militante ha sempre rivendicato.
Gli va riconosciuto comunque non solo di aver lavorato su gran parte delle fonti primarie disponibili ma di aver mantenuto un grande equilibrio nel giudizio sul ruolo di determinati attori, per esempio sul ruolo della sinistra radicale, che non ha certo esercitato una leadership ma sicuramente ha avuto un ruolo importante nel mettere in comunicazione i diversi segmenti della classe operaia Fiat oltre ad aver saputo certe volte interpretare la soggettività degli operai comuni (scritto sempre in italiano e in corsivo nel testo) meglio del sindacato. A questo proposito va notato che avrebbe potuto andare più in profondità sulla differenziazione di atteggiamenti e di pratica tra militanti Fiom e Fim di fabbrica e apparati di partito e di sindacato. Ma questo non inficia un valutazione molto positiva del lavoro svolto da Lange, in effetti un libro così completo mancava, la vicenda Fiat con questa ricerca entra nella «grande storia».
Un solo dubbio va sollevato. Acquisterebbe una valenza del tutto diversa la vicenda Fiat, se non la esaminassimo isolatamente ma nel contesto generale della conflittualità operaia in Italia, se accanto a Torino mettessimo Genova, Milano e la Lombardia, il Veneto, Napoli e via via i tanti territori dove l’antagonismo operaio si è manifestato nella sua interezza. Forse verrebbe esaltata la sua esemplarità ma forse verrebbe anche relativizzato il suo ruolo.

Cronache operaie

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Mappa delle resistenze operaie: le altre Innse d’Italia

10, 100, 1000 Innse… La salvezza viene solo dalla lotta

Giorgio Ferri
Liberazione 12 agosto 2009

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L’Innse presse di Lambrate è solo la punta dell’iceberg. Il sommerso della crisi riveste dimensioni e geografie inaspettate. Anche solo prendendo in esame i primi mesi del 2009, ci accorgiamo che casi analoghi alla vicenda della ex Innocenti si sono riscontrati un po’ ovunque. Molti di questi sono concentrati nell’area milanese, come il centro di ricerche della Nokia-Siemens a Vimercate, che ha ceduto l’attività alla Jabil CM srl mettendo a rischio 600 posti di lavoro. Viene poi l’episodio della Elco di Inzago, multinazionale americana che produce motori per refrigeratori con 287 lavoratori in cassa integrazione straordinaria. Alla Saes Getter di Lainate, azienda che produce componenti elettronici, la situazione non è migliore: 100 posti in pericolo. Due anni di cassa integrazione straordinaria e una procedura di mobilità per 55 lavoratori non sono serviti a nulla. Il nuovo piano industriale prevede lo spostamento di parte della produzione. All’Eutelia di Pregnana Milanese 500 lavoratori vedono traballare l’impiego perché il gruppo dismette l’intero settore della Information Technology. Un settore con 2 mila dipendenti. L’Aluminium di Rozzano, invece, è in procinto di rimandare a casa 170 operai. Non stanno meglio quelli della Lames 2 di Melfi, con 174 licenziati. L’azienda pare che debba trasferirsi a Chiavari in Liguria dove si trova la sede centrale della holding. A rischio anche l’Ercole Marelli di Sesto san Giovanni che negli anni 50 impiegava 7 mila lavoratori e oggi è ridotta ad una lite di condominio con la Alstom Power diventata proprietaria dei luoghi. Dal 24 luglio, i 26 dipendenti vivono giorno e notte nell’azienda. C’è poi il rischio di chiusura dell’Ideal Standard di Brescia; ci sono problemi alla Omnia Network di Sesto S. Giovanni, società che ha rilevato il call center della Wind, e ancora la situazione della Lares e Metalli Preziosi di Paderno Dugnano. Nei giorni scorsi i lavoratori di questa azienda hanno portato la loro solidarietà davanti ai cancelli dell’Innse. In attesa di una cassa integrazione che non arriva, in 130 presidiano i cancelli della fabbrica dal mese di gennaio e sopravvivono grazie al Fondo lavoro messo a disposizione dalla diocesi di Milano su indicazione del cardinale Tettamanzi. È di ieri, poi, la notizia dello sciopero della sete avviato da 8 operai che protestano contro i licenziamenti «senza alcun motivo» decisi dalla Elettra energia, azienda appaltatrice impegnata presso il termovalorizzatore di Acerra. 33 lavoratori hanno ricevuto le lettere il 1 agosto.
Quello che si delinea, dunque, è uno scenario molto preoccupante spiegava giorni fa l’economista Andrea Fumagalli in un’analisi apparsa sulle pagine del manifesto. Ad essere colpite sono situazioni produttive a medio-alto contenuto tecnologico. Realtà molto più avanzate della normale media manifatturiera. Il rullo compressore della crisi sta schiacciando in modo particolare il settore della «subfornitura specializzata», che mantiene ancora in vita quel che resta della nostra presenza industriale ormai tagliata fuori dalle traiettorie tecnologiche che segneranno in futuro le filiere produttive internazionali. La crisi travolge quel poco di buono che restava. Disfatta di quel capitalismo miope, familistico, tribale, legato a calcoli sul breve periodo, sottolineava Fumagalli. Non è un caso se i capitani d’industria della Lega sono i rottamai alla Silvano Genta. Smantellatori e vampiri.

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L’Innse, un modello di lotta da seguire

A coloquio con i protagonisti dell’occupazione:
«Rotta l’invisibilità operaia»

Paolo Persichetti
Liberazione
9 agosto 2009

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«E se l’Innse diventasse un esempio?». La domanda apparsa alcuni giorni fa sul Sole 24 ore agita i palazzi del potere economico e politico. E si perché la lotta che stanno portando avanti da 15 mesi le operaie e gli operai della fabbrica di Lambrate racchiude un doppio significato: il primo economico e sindacale, il secondo politico. Accanto alla salvaguardia di un’azienda e dei suoi posti di lavoro, capitale fisso e capitale variabile che serbano intatte le loro potenzialità produttive; accanto a macchinari e maestranze che mantengono l’integra capacità di stare sul mercato, solo a volergliene dare fiducia, solo se ci fosse ancora un capitalismo produttivo e non la voracità necrofila di uno “sfasciacarrozze”, c’è «l’effetto contagio».Temuto da chi ormai fa profitto solo speculando; auspicato da chi per campare deve vendere la propria forza lavoro e vede i luoghi del lavoro saccheggiati, vampirizzati. Tra gli operai che presidiano l’ingresso della fabbrica è forte la consapevolezza che col passar dei giorni, da quando la lotta cocciuta di chi non ha voluto mollare lo stabilimento che un tempo costruiva la mitica Lambretta, questa battaglia non è soltanto una difesa strenua della possibilità di mantenere lavoro nella propria città, conservare un sapere prezioso, ma è speranza, segno di rinnovata vitalità politica, di riacquisita visibilità sociale per una condizione operaia svanita nelle nebbie della fabbrichetta diffusa, dei capannoni che si perdono a vista d’occhio nella valle padana.

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Il modello Insee, una lotta vera, fuori dai riti strettamente irrigimentati, fatta di azioni impreviste, fantasia e tenacia, coraggio di mettersi in gioco. L’Insee come gli operai francesi? «Ecco perché quei 5 sul carro ponte fanno paura», spiega Gino, che la storia di questo stabilimento sembra conoscerla tutta, fin da quella lapide che sta dentro i cancelli e «ricorda i nomi di 15 operai deportati dai Nazisti nel 1944. Tornarono solo in due e uno di loro morì subito dopo. C’è un legame forte con questa memoria. Anche se nella società si è un po’ appannata». Alla domanda su come stanno i 5 dentro la fabbrica, risponde che d’averli sentiti telegraficamente in mattinata, «La situazione sembra bloccata. C’è stato un irrigidimento, ieri è entrato Rinaldini per parlare e accertarsi delle loro condizioni, oggi invece non hanno fatto passare nessuno. La fabbrica è completamente circondata, somiglia a un presidio militare. È stata tolta l’elettricità sotto la gru per impedire ai 5 di ricaricare i telefonini e isolarli dal resto del mondo». Tra gli operai che animano il presidio serpeggia il timore di un’azione delle forze dell’ordine per tirarli giù con la forza, «altrimenti, perché isolarli? Impedire di vedere le loro mogli e i figli? Neppure in carcere si negano le visite dei parenti. Come potranno spiegare un giorno ai loro figlioli che hanno subito questo trattamento solo perché stavano difendendo il posto di lavoro? Sono lì a 22 metri di altezza, immediatamente sotto il tetto dove l’aria è rarefatta. Non è una situazione facile. Il carro ponte è una gru grossissima che si muove per tutta la campata del capannone. È come quelle enormi gru che campeggiano nei cantieri navali. E poi il tetto è fatto di materiali trasparenti che fanno passare la luce. I raggi del sole producono un effetto serra. Una situazione estrema».
Mentre Gino parla ancora non sono arrivati i lanci d’agenzia che annunciano una possibile schiarita, forse addirittura la firma di un accordo di vendita con uno degli acquirenti. Ma una eventualità del genere non farebbe che confermare la volontà profetica che gli operai dell’Innse attribuiscono alla loro lotta: «l’aver dimostrato ai padroni che è possibile resistere. Questi lunghi mesi di resistenza sono una prova inequivocabile. Molti di quelli che ci seguono dall’inizio l’hanno capito, altri che ci hanno scoperto strada facendo ora si chiedono come abbiamo fatto, ci chiedono dei documenti su quello che abbiamo prodotto in questi mesi. Ci auguriamo che questo esempio non sia solo una cosa da mettere in cornice, ma che anche gli altri lo seguano nella pratica della loro fabbrica, della loro condizione materiale».

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Sergio, più giovane, ricorda come il prefetto aveva sempre detto che serviva un acquirente per sbloccare la situazione. «Adesso ce ne sono addirittura due e la situazione non si sblocca. Non è un paradosso? Prima dicevano che la fabbrica non era più produttiva, che eravamo dei pazzi, e ora che ci sono degli acquirenti la fabbrica non si apre? Forse ci temono perché siamo diventati un modello di lotta per quello che potrà succedere a settembre, alla riapertura della fabbriche».
Mentre ci salutiamo, Gino e gli altri si accingono a fare un altro tentativo per far entrare una delegazione che possa sincerarsi delle condizioni dei loro compagni. Di tanto in tanto possono ricevere solo dell’acqua e degli alimenti. «Questo non posso impedircelo. Qui la condizione umana degli operai non viene più tenuta in considerazione». Alla fine, comunque vada, la lotta degli operai dell’Innse ha rotto l’invisibilità caduta sulla condizione operaia.

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Bossnapping

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Bruxelles, manager Fiat trattenuti dagli operai in una filiale per 5 ore

Si diffonde il bossnapping contro i licenziamenti

Paolo Persichetti
Liberazione 10 aprile 2009

Bossnapping è il neologismo appena coniato per indicare il sequestro dei capi d’impresa, manager, dirigenti e padroni d’azienda. La parola è nuova ma il mezzo fa parte del repertorio di lotta inventato nel corso della sua storia dal movimento operaio, molto diffuso nell’Italia degli anni 70, e tornato d’attualità in Francia negli ultimi mesi. Ieri è toccato anche alla Fiat (che di questa pratica non serba un buon ricordo). Non ancora in Italia, però, ma in una filiale commerciale di Bruxelles, l’Italian automotive center. Tre dirigenti, tra cui Andrea Farinazzo proveniente direttamente dalla casa madre di Torino, sono stati trattenuti per cinque ore da un gruppo di lavoratori che protestavano contro il piano di licenziamenti annunciato dall’azienda. I tre sono stati bloccati all’interno degli uffici della sede di Chaussée de Louvain intorno alle 13.45, per poi uscire verso le 18.30 a bordo di un’autovettura con autista senza rilasciare dichiarazioni.
Sembra che sia stato trovato un accordo sul proseguimento della trattativa che prevede l’intervento conciliatore del ministero del lavoro belga. Le modalità dell’episodio hanno seguito un modus operandi abbastanza consolidato, senza particolari tensioni, tant’è che uno dei rappresentanti della Fiat, avvicinato dai giornalisti arrivati sul posto, ha spiegato che tutti i contatti erano tenuti direttamente dal Lingotto.
«Stiamo negoziando dal 12 dicembre e non è successo nulla. Non si esce dalla stanza finché non si trova una soluzione», ha spiegato ai cronisti Abel Gonzales, sindacalista dei metalmeccanici della Fgtb. In effetti, dal dicembre scorso è aperta una trattativa con l’azienda sulla riduzione del personale. Obiettivo della Fiat è il licenziamento di 24 dei 90 dipendenti del centro vendita di Bruxelles, per questo i tre manager si erano recati sul posto per concludere il negoziato.
«Nel corso dell’ultima riunione – ha spiegato l’ufficio stampa della Fiat – è venuta fuori l’idea di chiudere il nostro personale in una stanza, seguendo l’esempio francese. Ma non lo definirei comunque un sequestro vero e proprio». Dietro i toni rassicuranti dell’azienda torinese si cela, in realtà, la vecchia abitudine autoritaria della Fiat. 12 dei 24 lavoratori sottoposti a procedura di licenziamento, ha precisato Abel Gonzales, sono dei delegati sindacali. La crisi economica, come sempre, diventa un buon pretesto per liberarsi dei lavoratori più impegnati.
«La gente sta male per la crisi: è un fatto giusto e sacrosanto che i lavoratori Fiat si arrabbino se l’azienda non cambia». Così il segretario nazionale della Fiom, Giorgio Cremaschi, ha commentato la notizia del sequestro. «Ci sono segnali di rilancio – ha aggiunto – ma solo per il gruppo e gli azionisti, non per i dipendenti. C’è ancora tanta cassa integrazione, e lo stabilimento di Pomigliano è ancora fermo». Scontata, invece, la presa di distanza espressa dal responsabile auto della Uilm, Eros Panicali, e dell’Ugl, Giovanni Centrella.
Ma gli operai che lottano fuori dall’Italia sono pragmatici, non si curano di questi giudizi. Le loro azioni “non ortodosse”, seppur concepite all’interno di una strategia ancora difensiva, riscontrano consensi e successi. Una lezione utile.

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«Rabbia populista» o «nuova lotta di classe»?

Francia, fabbriche in rivolta: bloccati i premi per i manager. Si apre la discussione di fronte alla crisi economica

Paolo Persichetti
Liberazione 27 marzo 2009

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«Rabbia populista» o nuova «lotta di classe»? Ieri sulle pagine dei più grandi quotidiani nazionali campeggiava questa domanda: un nuovo spettro si sta aggirando per il globo?
Commenti preoccupati e cronache inquiete s’interrogavano sul reale significato delle notizie provenienti dagli Stati uniti, dalla Francia e dalla Gran Bretagna. A New York, dopo l’arresto del magnate della speculazione finanziaria Maddof e la minaccia del Congresso di tassare con un’aliquota del 90% i bonus padronali, i dieci manager più pagati del colosso delle assicurazioni mondiali Aig, tra i più coinvolti nel crack delle Borse, hanno restituito i bonus milionari ricevuti come premi per i loro disastri. Per farli rinunciare a un po’ della loro famelica ingordigia è bastato un fine settima di picchetti organizzati da manifestanti davanti alle loro megaville blindate e con l’immancabile piscina.
A Edinburgo, in piena notte, il villone di Sir Fred Goodwin, l’amministratore delegato che ha portato al collasso la Royal bank of Scotland, per poi andarsene serenamente in pensione con un bonus di 16,9 milioni di sterline, alla faccia di migliaia correntisti ridotti al lastrico per aver creduto nei portafogli azionari offerti dai servizi finanziari dell’istituto di credito, è stato assalito da un gruppo di attivisti che hanno rivendicato l’azione con la sigla Bank bosses are criminals, «I banchieri sono dei criminali». Motto che riecheggia quello delle curve da stadio di mezza Europa, All corps are bastards, «Tutte le guardie sono bastarde».
Nel centro della Francia, a Pithiviers, Luc Rousselet, amministratore delegato della 3M, società farmaceutica americana in procinto di licenziare 110 dei suoi 235 dipendenti, è stato “trattenuto” negli uffici dell’azienda per oltre 30 ore dagli operai che era venuto ad incontrare. I lavoratori esigevano dei negoziati con l’azienda sulle modalità del piano di crisi che dovrà accompagnare la brusca riduzione di personale.
Ovviamente per gli operai non si è trattato di un «sequestro», com’è stato scritto sposando il punto di vista “padronale”, ma di un imprevisto prolungamento d’orario della giornata di lavoro del loro capo. Uno straordinario giustificato dall’eccezionalità della situazione venuta a crearsi. I 2700 lavoratori della 3M France, società ripartita su 11 siti, conosciuta per la produzione di “post-it” e del nastro adesivo “Scotch”, sono in sciopero illimitato dal 20 marzo. Un episodio analogo era già accaduto il 12 marzo scorso, quando il presidente-direttore generale di Sony France, Serge Foucher, era stato anche lui costretto a uno “straordinario notturno” in compagnia delle sue maestranze in lotta. Lo stabilimento di Pontonx-sur-l’Adour, nelle Lande, impiega 311 persone e la sua chiusura è fissata per il 17 aprile prossimo. Al direttore della Continental, invece, è toccato in sorte un fitto lancio di uova da parte dei 1120 addetti dell’impianto di Claroix, che proprio ieri sono stati ricevuti in delegazione da un consigliere di Sarkozy all’Eliseo.
Questa volta gli operai non sono isolati, hanno alle spalle il sostegno dell’opinione pubblica indignata di fronte alla notizia dei mega compensi attribuiti ai manager d’imprese che licenziano o di banche in deficit dopo aver sperperato il denaro dei clienti.
La rabbia è montata di fronte alle parole di Laurence Parisot, presidente della confindustria francese, che si era detta indisponibile di fronte alla richiesta del presidente della repubblica d’intervenire sui consigli d’amministrazione affinché i manager rinunciassero ai premi elargiti sotto varie forme (stock options, ovvero azioni con remunerazioni privilegiate, liquidazioni d’oro o pensioni stratosferiche). Il primo ministro ha dovuto annunciare il varo di un decreto per vietare l’attribuzione di questi bonus e stock options per le aziende che ricevono aiuti dallo Stato. A questo punto, dopo le resistenze iniziali, Gerard Mastellet e Jean-Francois Cirelli, presidente e vice presidente di Gdf-Suez, il gigante francese dell’energia, hanno dovuto rinunciare ai loro compensi supplementari piegandosi – hanno detto con malcelata ipocrisia – al «senso di responsabilità».
I titoli tossici immessi nei circuiti finanziari stanno forse scatenando la reazione di sani anticorpi sociali? All’estero, certo non in Italia, l’ira popolare sta cambiando bersaglio: dalla «Casta» alla «Borsa», dai «politici» ai «padroni»; che la barba di Marx stia di nuovo spuntando?
Quel che sta accadendo, in particolare al di là delle Alpi, dimostra quanto devastante sia stata da noi la prolungata stagione del giustizialismo, con il suo corollario d’ideologia penale e vittimismo seguiti alle ripetute emergenze giudiziarie. Il decennio 90 si è accanito contro i corrotti della politica assolvendo i corruttori dell’economia, aprendo la strada non solo alla vittoria politica del partito azienda ma alla sua egemonia politico-culturale sulla società.
Vedremo più in là se ha ragione L’Economist quando descrive, un po’ alla Ballard, l’albeggiare di una rivoluzione del ceto medio proletarizzato; o se invece ci sarà un’irruzione di protagonismo del nuovo precariato sociale. Una cosa è certa: oltreconfine hanno individuato la contraddizione da attaccare. È tutta la differenza che passa tra allearsi contro i padroni o fare le ronde contro i romeni. Ma quel che resta della sinistra italiana l’avrà capito?

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Anni 70: L’odiosa rivoluzione

Libri – da Il Nemico inconfessabile, Paolo Persichetti e Oreste Scalzone, Odradek 1999


L’odiosa rivoluzione – Capitolo primo

Nuove generazioni in rivolta, figlie di epoche curiose, ritroveranno la traccia delle rivoluzioni sconfitte, dimenticate, estradate dalla storia. Ai loro occhi la potenza del passaggio rivoluzionario ritroverà il suo vigore, la sua energia, i suoi saperi. Quest’oblio è un destino migliore della sorte riservata a quelle rivoluzioni vittoriose, trasfigurate in icone di Stato, disseccate in vuoti simboli paradossali e derisorii del «movimento reale che trasforma le cose presenti».9788886973083g Nondimeno, le rivoluzioni sconfitte subiscono a lungo l’insulto della denigrazione e della criminalizzazione. Ogni strumento è utile per trascinarle nel fango e sottoporle al linciaggio. L’obiettivo è sempre lo stesso: minarne la potenza e stroncare non solo il diritto, ma l’idea stessa della possibilià della rivolta. La dimensione e la profondità sociale, l’estensione temporale e geografica, l’intensità politica della rivolta che ha traversato l’Italia nel corso degli anni Settanta, fino agli echi giunti ben oltre la metà degli anni Ottanta, ne hanno fatto l’episodio rivoluzionario più significativo dell’Europa occidentale dal ’45 a oggi. Ciò spiega anche le ragioni dell’implacabile offensiva denigratrice, potente e sistematica, cui è ancora sottoposta. Il Sessantotto fu «la bella rivoluzione, la rivoluzione della simpatia generale, perché gli antagonismi che si erano manifestati non erano ancora sviluppati, si limitavano all’esistenza della frase, del verbo». Gli anni Settanta furono quelli della «rivoluzione odiosa e ripugnante» perché al posto della «frase subentrò la cosa»(1).  Il Segretario generale del Pci, Enrico Berlinguer, in risposta alla cacciata al grido di «via, via, la nuova polizia!» del Segretario generale della Cgil, Luciano Lama, e del suo servizio d’ordine dall’Università di Roma, definì «untorelli» i protagonisti di quel movimento(2). Fu quello il segnale dello scontro aperto, dichiarato, tra il sommovimento sociale e il partito della classe operaia dentro lo Stato, trasformatosi in partito dello Stato dentro la classe operaia, alla stregua dei suoi fratelli dell’est, al potere nei paesi del «socialismo reale». Allora il più grande Partito comunista d’Occidente dismise l’azione di recupero attraverso il sindacato delle forme di autorganizzazione autonoma delle lotte operaie dei primi anni Settanta, e ostentò l’intenzione di sedare la rivolta a tutti i costi e con ogni mezzo. La strategia del «compromesso storico» – presentato come alleanza tra le masse popolari d’ispirazione comunista, socialista e cattolica, e sul quale il Paese avrebbe dovuto risorgere dalla crisi economica – da mesi aveva partorito una funesta alleanza di governo con gli “avversari” della Democrazia cristiana, annunciandosi come «politica dei sacrifici e dell’austerità», cioè di sistematica concertazione subalterna al padronato. L’atteggiamento di apertura, di mediazione e recupero, verso la contestazione del Sessantotto politico e culturale era finito. Il nuovo ceto politico dei gruppi extraparlamentari era chiamato a entrare per la porta di servizio, nell’area istituzionale, confinato al ruolo di satellite del Pci, oppure sciogliersi o essere criminalizzato. Si apriva una competizione frontale che estendeva ora a ogni angolo della società la contesa che fino ad allora sembrava riguardare solo i luoghi alti del conflitto capitalistico, le fabbriche, dove la si voleva contenere. La «politica dei sacrifici» trovava ostacoli e nemici su tutto il territorio e vedeva di fronte a sé, incontenibile, una pluralità di movimenti sociali ammutinati, autorganizzati (disoccupati, precari, donne, studenti, senza casa, prigionieri) cresciuti attorno all’esempio delle lotte operaie.  Il compromesso storico – strategia che rispondeva al regime di «democrazia a sovranità limitata» attribuito all’Italia – con le sue politiche accomodanti e supine, di contenimento del protagonismo sociale di fronte alle compatibilità economiche, apparve inaccettabile. L’urto tra la situazione dinamica della realtà sociale e le soluzioni statiche messe in piedi dall’alto del sistema politico divenne inevitabile. La risposta alla rivolta sociale fu l’edificazione del sistema dell’emergenza. La nozione di «emergenza»3, concepita inizialmente come esigenza economica, divenne una categoria dello spirito, per poi estendersi al campo giuridico, sociale e politico. Si trasformò in uno strumento per governare il conflitto all’interno di una nuova concezione della democrazia come spazio blindato composto da territori recintati oltre i quali non era consentito fuoriuscire. La legalità era il nuovo filo spinato che designava in modo assolutamente rigido lo spazio dell’agire legittimo. Il conflitto veniva messo a nudo, spogliato di ogni rappresentanza che ne tentasse un recupero in termini di dialettica sociale e politica, per divenire una questione di ordine pubblico, di codice penale. Per avere legittimità i movimenti sociali dovevano rientrare nel recinto stabilito dalle rappresentanze istituzionali, oppure subire la criminalizzazione. Il Pci elaborò la linea di attacco ideologico contro il sommovimento sociale di opposizione facendosi propugnatore di uno «Stato democratico forte» e fu la punta di diamante della risposta statale cercando di costruire il consenso sociale attorno all’azione repressiva delle forze di polizia e magistratura. Una nuova disciplina, la «dietrologia»(4), designò nella figura dell’agente provocatore il profilo di un nemico – particolarmente criminale e pericoloso per la democrazia – attore di un «complotto di destabilizzazione»(5) del processo di ulteriore democratizzazione dell’Italia, cioè l’arrivo al potere del Pci(6). L’assalto sociale armato al cielo della politica, la «critica delle armi», divenne allora la forma espressiva progressivamente dominante della moltitudine del rifiuto e della rivolta, che non volle restare rinchiusa nel recinto della marginalità politica. Nel caso dell’Italia, la contro-insurrezione è andata ben oltre la congiuntura connessa alla necessità di delegittimare l’avversario, attraverso l’uso di menzogne, distorsioni e intossicazioni della realtà, per combatterlo con maggiore efficacia. Si è trattato di una offensiva “totale” che ha raggiunto una dimensione molto più inquietante fino a diventare una specie di “auto-illusione”, di “auto-accecamento”, una catastrofe del mentale, un indizio dell’alienazione del politico che ha colpito nel profondo il pensiero critico. L’ossessione di voler nascondere il carattere politico del nemico interno è uno degli aspetti maggiori delle politiche controrivoluzionarie moderne, recepito in modo unanime oramai in tutti i codici, accordi internazionali e convenzioni sulle estradizioni(7). L’Italia ha dato prova di notevole capacità nell’esercizio di questa ipocrisia. Una lunga serie di norme e leggi speciali, aggravanti e nuove figure di reato, reati associativi, modificazioni procedurali, uso speciale di leggi normali, procedure in deroga, introduzione di un diritto differenziato che premia comportamenti processuali favorevoli alle tesi accusatorie (pentimento e dissociazione), la moltiplicazione dei trattamenti differenziati su base tipologica, a livello penitenziario e giudiziario, hanno di fatto costituito l’edificio di una giustizia reale di eccezione contro i comportamenti di sovversione, e per estensione, di opposizione politica e sociale. Ciò che è definito il sistema delle garanzie – le libertà civili, alcune libertà costituzionali – ha subito molte limitazioni dando luogo a un vero stato d’eccezione opportunamente camuffato. Fin dall’inizio il movimento italiano degli anni Settanta è stato protagonista di una rivoluzione negata, una rivoluzione occultata, e le figure sociali che vi presero parte – gli operai, le donne, i giovani, i disoccupati – apparvero da subito come il nemico inconfessabile.

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Nei capitoli che seguono verranno affrontate alcune matrici, sovradeterminazioni e macrocontesti che hanno caratterizzato lo spazio di azione e di espressione politica delle figure sociali che hanno costituito il nemico inconfessabile. Ne saranno descritte le molteplici originalità, la ricchezza e la potenza del discorso sovversivo, la modernità delle rivendicazioni, l’intuizione di tematiche e contraddizioni che s’imporranno nei decenni successivi. In modo particolare saranno tratteggiati quegli aspetti specifici che hanno contraddistinto i limiti cronici e al tempo stesso le capacità di sviluppo della società italiana, al punto da essere considerati da alcuni come una «anomalia» nel quadro europeo.

Ben al di là di ventimila furono le persone denunciate, oltre quattromila quelle condannate per una cifra globale dell’area sociale sovversiva che il ministero degli Interni stimava oltre le centomila. L’evidenza delle cifre della rivolta toglie sostanza a ogni tentativo di riduzionismo storico. Un’analisi veloce delle cartografie che descrivono la nascita e il rapido sviluppo delle formazioni politiche, classificate dalla giustizia come sovversive, mostra come la violenza politica fosse un elemento endogeno di questa rivolta in un contesto sociale, politico e statale, che già largamente ricorreva al suo impiego. Di fronte all’offensiva sociale, la società politica, in difficoltà, ha risposto severamente a ciò che le sembrava essere (non a torto) la premessa di una catastrofica destabilizzazione. La sua azione si Ë posta all’insegna di una emergenza nata sotto la forma di una eccezione mascherata. L’ipertrofia dell’azione giudiziaria sovraccaricata di compiti morali e politici, la rottura degli equilibri costituzionali tra poteri e contro-poteri, dovuta all’apparizione di un modello di democrazia giudiziaria, ha dato luogo a uno stato d’eccezione permanente. Vero paradigma inconfessato, esso si è imposto come un modello di governo della società, la cui esportazione ha aperto la strada al rischio di una deriva europea. La crescente giudiziarizzazione” della società solleva un dibattito che ormai oltrepassa i confini italiani e le stesse ragioni storiche della sua origine.

La sconfitta, il riflusso e la repressione dei movimenti sociali degli anni 70 hanno suscitato reazioni divergenti. La ricerca affannosa di differenziazioni, nell’intenzione di attenuare le proprie posizioni processuali, ha portato alcuni a esportare le proprie responsabilità politiche. Atteggiamento che sotto l’offensiva inesorabile della giustizia d’eccezione si è trasformato in uno slittamento della colpa giuridica verso altri. La “dissociazione politica dal terrorismo” ha avuto ripercussioni culturali, politiche e giudiziarie ben pi profonde del fenomeno dei “pentiti”. La capacità di critica e di autonomia rispetto all’ordine costituito sono state indebolite da questa stagione del rinnegamento. Il giudizio penale ha mutato natura non rivolgendosi pi all’identificazione delle responsabilità personali ma alla verifica e al sanzionamento delle opinioni della persona giudicata.

Prima di concludere affronteremo le ragioni talvolta sorprendenti, molteplici e complesse, che hanno ostacolato, finora, la realizzazione di una amnistia per tutte le condanne legate alla sovversione sociale e politica che ha attraversato l’Italia tra gli anni 70 e 80. Gli effetti perversi dell’emergenza hanno avuto un ruolo fondamentale nella strutturazione di un blocco sociale trasversale oggettivamente nemico della chiusura di questa epoca. Dagli apparati dello Stato, attori della macchina della giustizia d’eccezione, a certi settori integralisti dell’antagonismo sociale, dalle divisioni dei prigionieri politici all’inconsistenza del ceto politico-istituzionale, dal protagonismo di una magistratura travestita nei panni di cavalieri post-moderni garanti della morale e dell’etica, a certi gruppi editorial-finanziari che fabbricano il mentale e strutturano l’opinione pubblica; tutti da sinistra a destra, sulla base di motivazioni ideologiche e politiche diverse, convergono sulla stessa posizione di boicottagio o di timore dell’amnistia.


Note

1 Il riferimento è a Marx: “La rivoluzione di febbraio era stata la bella rivoluzione, la rivoluzione della simpatia generale, perché gli antagonismi che erano scoppiati in essa contro la monarchia, sonnecchiavano tranquilli l’uno accanto all’altro, non ancora sviluppati; perché la lotta sociale che formava il loro sostrato aveva soltanto raggiunto una esistenza vaporosa, l’esistenza della frase, della parola. La rivoluzione di giugno è la rivoluzione brutta, la rivoluzione repugnante, perché al posto della frase è subentrata la cosa”, Karl Marx Lotte di classe in Francia dal1848 al 1850, Opere, vol. X, Roma, Editori Riuniti, 1977, p. 65.

2

3 Il termine emergenza designa il ricorso a pratiche di eccezione in campo giuridico e politico che si differenziano dalla forma classica dello stato di eccezione. Il termine emergenza, inteso come “stato d’emergenza”, “modello” o “sistema dell’emergenza”, “politica dell’emergenza”, “giustizia dell’emergenza”, “post-emergenza” si è affermato in Italia all’interno del linguaggio politico e giuridico a partire dalla metà degli anni Settanta. Secondo alcuni autori la nozione di emergenza ha costituito una vera e propria ideologia di sostegno al processo di modernizzazione autoritaria della giustizia penale. L’intenzione di perseguire i movimenti armati ha accompagnato la volontà di normalizzare la conflittualità sociale. L’emergenza ha contribuito alla legittimazione degli equilibri politici e del sistema penale.

4

5 Secondo questa logica, la storia d’Italia, dal dopoguerra fino alla vittoria elettorale, nel 1996, del Pds, oggi Ds ed ex Pci, è interpretata come la trama di un “doppio Stato”: l’uno corrotto e con propaggini occulte, che ha criminalmente detenuto il potere nella prima Repubblica; l’altro leale e legale che avrebbe fatto da baluardo al sovversivismo atavico delle classi dominanti. Inutile precisare che il Pci-Pds-Ds ne sarebbe sempre stato il pilastro essenziale. Sulla natura del complotto si sono confrontate due “dottrine”: la prima, anche in ordine di tempo, che ha ipotizzato il “ruolo consapevole e diretto” giocato dai movimenti sociali e in particolare dalla lotta armata, il “partito armato”, contro il Pci; la seconda che ha ipotizzato “l’eterodirezione”, la “complicità inconsapevole”, delle Brigate rosse in particolare, come se esse fossero state nient’altro che delle pedine manovrate da potenze occulte. Per chi voglia documentarsi sugli stati modificati della coscienza, suscitati dalla frequentazione eccessiva con queste flatulenze cerebrali, suggeriamo come testo esemplare, per comprendere gli effetti devastanti a cui possono condurre alcune forme irreparabili di psicopatologia della menzogna storica: Sergio Flamign, La tela del ragno. Il delitto Moro, Roma, Edizioni Associate, 1988. Sospinto da oscuri mandanti Sergio Flamigni replica dieci anni dopo in Convergenze parallele, Milano, Kaos edizioni, 1998. Un altro testo che testimonia dei risultati suscitati da queste turbe legate alla sindrome maniacale da ossessione del complotto e metacomplotto è quello di Guy Debord, Préface à la quatrièmme édition italienne de la Société du spectacle, in Commentaires sur la société du spectacle, Gallimard folio, 1997, pp. 133-147; nonché Gianfranco Sanguinetti, Del terrorismo e dello Stato. La teoria e la pratica del terrorismo per la prima volta divulgate, Milano, 1979.

6 Berlinguer, riflettendo sui fatti del Cile, osservava che le sovradeterminazioni geopolitiche avrebbero impedito all’opposizione di governare anche se il Pci avesse da solo raggiunto il 50 % più uno dei suffragi. Lo scenario del golpe cileno, che aveva visto stroncato nel sangue il governo d’Unitad popular di Salvador Allende, era interpretato come l’anticipazione di un possibile scenario italiano che andava evitato. Il Pci, dunque, teorizzava autonomamente l’impossibilità di andare al governo, anche vincendo le elezioni, in assenza di un preventivo accordo con la Dc, di una alleanza con i ceti medi e di un patto col padronato. In realt?, appare evidente come l’ipotesi dello “scenario cileno” abbia favorito una lettura rovesciata (cioé, “mai più senza fucile”) di quella posta a fondamento del “compromesso storico”. Interpretazione che motivava ulteriormente la scelta della rottura rivoluzionaria di quel vuoto simulacro rappresentato da una democrazia a sovranit? limitata che era la Repubblica italiana. Per tutto questo si veda il famoso saggio berlingueriano: “Riflessioni sull’Italia dopo i fatti del Cile”, in Rinascita, 28 settembre, 5 e 9 ottobre 1973.

7 Convenzione europea per la repressione del terrorismo, Strasburgo, 1977, ratificata dalla Francia solo nel dicembre 1987; “Convenzione per le estradizioni dell’Unione Europea”, Dublino, settembre 1996.