«Saviano vive di parole», scrive il critico televisivo Aldo Grasso sul Corriere della sera. Mai definizione si è rivelata più corretta dopo la querela milionaria presentata nei confronti del Corriere del Mezzogiorno, della storica Marta Herling nipote di Benedetto Croce e del vice direttore di Rai Uno.
La recensione di Grasso mette l’accento sul «catechismo morale» che emana dalle prediche di Saviano novello maestro Manzi. E’ l’idea della «democrazia del pubblico», di cui scriveva quasi 20 anni fa Bernard Manin nel suo Principes du gouvernement représentatif (Flammarion 1995), tradotto in Italia solo nel 2010 per il Mulino.
Il popolo ridotto a spettatore catodico indottrinato dai nuovi ciarlatani del potere, in questo caso i sacerdoti della legalità che con le loro omelie scritte da illustri «parolieri», come Francesco Piccolo e Michele Serra, vorrebbero «educarci e redimerci».
Fazio e Saviano, insieme ai loro ghost, si riempieranno pure le tasche piene di soldi, nascerà forse il partito della legalità ma alla fine non è detto che funzioni. Per fortuna ci sono ancora tanti Franti in giro.
Rito da maestro Manzi nel clima di redenzione
La debolezza di questo «reading» è che tutti fanno venire il senso di colpa
Aldo Grasso
Il Corriere della sera 15 maggio 2012
Il destino delle parole è che invecchiano e si usurano con gli uomini che le usano. Un po’ martire, un po’ rockstar Roberto Saviano vive di parole, ha costruito il suo successo con le parole e, nonostante la giovane età, viene già osannato come un venerato maestro. Così, con l’aiuto di Fabio Fazio e di illustri «parolieri» come Francesco Piccolo e Michele Serra (seduti in prima fila), ha trovato ospitalità su La7 per ripensare le parole che usiamo (idea non nuovissima). Se un tempo le Officine Grandi riparazioni di Torino servivano a riparare i treni, adesso, come location, riparano parole. Una sfilata di ospiti illustri o meno prende una parola e la spolvera. Annotava nei suoi diari Lev Tolstoj: «Se tutta la complessa vita di molti passa inconsciamente, allora è come se non ci fosse mai stata». Questo è il destino delle parole: a furia di ripeterle, di sentirle nella quotidianità diventano gusci vuoti. Solo i veri scrittori sanno restituire loro il senso della vita, sanno restituircele come «visione» non come «riconoscimento». Fazio e Saviano vogliono educarci, redimerci, farci sentire migliori. Senza gioia, con pedanteria.
Le loro trasmissioni sono le sole eredi del maestro Manzi, le sole dove la noia viene scambiata per insegnamento, la demagogia per redenzione, la retorica per vaticinio. E, ovviamente, hanno successo perché la tv del dolore conosce tante forme, anche quella di predicare sui suicidi o sui bambini di Beslan. Il clima è sempre quello del rito, della celebrazione: una sorta di consacrazione laica della parola, una necessaria penitenza perché lo sproloquio si offra a noi come eloquio. Sotto le parole, niente. Solo un po’ di omelia televisiva, dove quello che non ho si confonde volentieri con quello che non so.
La debolezza di questo reading è che tutti ti fanno venire il senso di colpa, persino Pupi Avati con i suoi ricordi felliniani al borotalco, persino il duo Travaglio-Lerner: se non sei impegnato, sei non vuoi cambiare il mondo con noi, se non usi le parole come arma di difesa civile, insomma sei poco propenso alla bacchettoneria, che tu sia dannato in eterno.
Fra i tanti luoghi comuni, ci sono anche le parole che il ceto medio riflessivo non dovrebbe mai pronunciare perché fanno cafone: sbaglio o la parola marketta non c’era?
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