Occupazione militare dello spazio semantico: Saviano e il suo dispositivo

Il dispositivo Saviano ha la leggerezza claustrofobica di una occupazione militare. Quando le parole assumono il volto arcigno della forza statale. Leggete questa testimonianza ripresa dal blog di Luca Bianchini

 

 

«Vi giro innanzi tutto la mail che ho ricevuto prima di partecipare a “Quello che non ho”, che ho visto ieri dal vivo alle OGR di Torino.

Alcune importanti raccomandazioni:

Non sarà in nessun modo possibile sostituire i nominativi all’ingresso: l’accesso sarà garantito solo a coloro che si trovano in lista.

Sarà indispensabile portare con sè un documento d’identità valido, senza il quale, non sarà possibile accedere agli studi (il documento identificativo dovrà essere lo stesso di quello fornito).

Tutto il pubblico sarà soggetto a controlli da parte della sicurezza con il passaggio sotto un metal detector prima dell’accesso in studio. Per agevolare le operazioni di passaggio preghiamo gentilmente di portare con sè il minor numero possibile di oggetti metallici (in particolare gioielli e orologi) ed indumenti con parti metalliche (scarpe, borchie, fibbie di cinture). Le persone che sono esentate per motivi di salute (by-pass, etc.) dovranno presentare obbligatoriamente il certificato medico.

Non sarà possibile accedere agli studi con la borsa: sarà presente un guardaroba gratuito e custodito.

Preghiamo inoltre di non accedere agli studi con telefonini, videocamere o macchine fotografiche che non saranno utilizzabili.

L’abbigliamento è libero: da evitare il colore viola e loghi o marche sugli abiti».

Fonte – http://popup.vanityfair.it/2012/05/16/quello-che-non-ha-roberto-saviano/


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Arriva il partito della legalità
Sotto le parole niente: il nuovo libro cuore di Fazio e Saviano

Sotto le parole niente. Il nuovo libro cuore di Fazio e Saviano

«Saviano vive di parole», scrive il critico televisivo Aldo Grasso sul Corriere della sera. Mai definizione si è rivelata più corretta dopo la querela milionaria presentata nei confronti del Corriere del Mezzogiorno, della storica Marta Herling nipote di Benedetto Croce e del vice direttore di Rai Uno.
La recensione di Grasso mette l’accento sul «catechismo morale» che emana dalle prediche di Saviano novello maestro Manzi. E’ l’idea della «democrazia del pubblico», di cui scriveva quasi 20 anni fa Bernard Manin nel suo Principes du gouvernement représentatif (Flammarion 1995), tradotto in Italia solo nel 2010 per il Mulino.
Il popolo ridotto a spettatore catodico indottrinato dai nuovi ciarlatani del potere, in questo caso i sacerdoti della legalità che con le loro omelie scritte da illustri «parolieri», come Francesco Piccolo e Michele Serra, vorrebbero «educarci e redimerci».
Fazio e Saviano, insieme ai loro ghost, si riempieranno pure le tasche piene di soldi,  nascerà forse il partito della legalità ma alla fine non è detto che funzioni. Per fortuna ci sono ancora tanti Franti in giro.

Rito da maestro Manzi nel clima di redenzione
La debolezza di questo «reading» è che tutti fanno venire il senso di colpa

Aldo Grasso
Il Corriere della sera 15 maggio 2012

Il destino delle parole è che invecchiano e si usurano con gli uomini che le usano. Un po’ martire, un po’ rockstar Roberto Saviano vive di parole, ha costruito il suo successo con le parole e, nonostante la giovane età, viene già osannato come un venerato maestro. Così, con l’aiuto di Fabio Fazio e di illustri «parolieri» come Francesco Piccolo e Michele Serra (seduti in prima fila), ha trovato ospitalità su La7 per ripensare le parole che usiamo (idea non nuovissima). Se un tempo le Officine Grandi riparazioni di Torino servivano a riparare i treni, adesso, come location, riparano parole. Una sfilata di ospiti illustri o meno prende una parola e la spolvera. Annotava nei suoi diari Lev Tolstoj: «Se tutta la complessa vita di molti passa inconsciamente, allora è come se non ci fosse mai stata». Questo è il destino delle parole: a furia di ripeterle, di sentirle nella quotidianità diventano gusci vuoti. Solo i veri scrittori sanno restituire loro il senso della vita, sanno restituircele come «visione» non come «riconoscimento». Fazio e Saviano vogliono educarci, redimerci, farci sentire migliori. Senza gioia, con pedanteria.

Le loro trasmissioni sono le sole eredi del maestro Manzi, le sole dove la noia viene scambiata per insegnamento, la demagogia per redenzione, la retorica per vaticinio. E, ovviamente, hanno successo perché la tv del dolore conosce tante forme, anche quella di predicare sui suicidi o sui bambini di Beslan. Il clima è sempre quello del rito, della celebrazione: una sorta di consacrazione laica della parola, una necessaria penitenza perché lo sproloquio si offra a noi come eloquio. Sotto le parole, niente. Solo un po’ di omelia televisiva, dove quello che non ho si confonde volentieri con quello che non so.

La debolezza di questo reading è che tutti ti fanno venire il senso di colpa, persino Pupi Avati con i suoi ricordi felliniani al borotalco, persino il duo Travaglio-Lerner: se non sei impegnato, sei non vuoi cambiare il mondo con noi, se non usi le parole come arma di difesa civile, insomma sei poco propenso alla bacchettoneria, che tu sia dannato in eterno.
Fra i tanti luoghi comuni, ci sono anche le parole che il ceto medio riflessivo non dovrebbe mai pronunciare perché fanno cafone: sbaglio o la parola marketta non c’era?

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Occupazione militare dello spazio semantico: Saviano e il suo dispositivo
Arriva il partito della legalità
Qualcuno deve pur dirlo ora basta con Saviano

Qualcuno deve pur dirlo, ora basta con Saviano

Pubblichiamo l’articolo che l’elefantino ha dedicato al ritorno di Saviano in tv: uno «che non ha un’idea in croce», scrive Giuliano Ferrara alludendo al fatto che della testa, quella sorta di contenitore nel quale madre natura ha riposto il cervello, Saviano non sa proprio che farsene se non spazzolarla a lucido. «Macchinetta sputasentenze, che brancola nel buio di un generico civismo», prosegue senza un briciolo di pietà il direttore del Foglio, ricordandoci che per tre giorni vi dovrete sorbettare “l’eroe di carta” su La7 con «l’auricolare di Serra» a soccorrerlo.
Io per fortuna no. Da quando il digitale terreste è entrato in funzione anche nella casa di reclusione di Rebibbia, i Philips 14 pollici che abbiamo nelle celle sono sintonizzati solo su 10 canali: Rai 1, 2, 3 e 4; i tre canali Mediaset, Iris, Italia sport e una locale partenopea.
Mi guarderò un film, a voi invece toccherà «il nulla intorno alle parole, ridotte barbaramente al nulla dell’ideologia, e tutt’intorno un uso cinico della condiscendenza verso il piccolo talento dell’ordinario». Come vi compatisco. Una volta tanto, devo riconoscerlo, l’Amministrazione penitenziaria ha fatto le cose giuste.

Solo una domanda: questo Saviano «di un grigiore penoso, che non sa fare niente e va su tutto», come lo riassume Ferrara nell’epitaffio finale, avrà la coerenza di sporgere querela, oppure si genufletterà ancora una volta, striscerà sui tappeti del potere, si accuccerà “tomo, tomo, quatto, quatto” – come diceva Totò – sui sedili posteriori della comoda auto della sua scorta?

Giuliano Ferarra
Il Foglio 13 maggio 2012

Saviano al posto di Bocca. Uno che non ha mai detto nulla di interessante, che non ha un’idea in croce, che scrive male e banale, che parla come una macchinetta sputasentenze, che brancola nel buio di un generico civismo, che è stato assemblato come una zuppa di pesce retorico a partire da un romanzo di successo, si prende la rubrica di un tipo tosto che di cose da dire ne aveva fin troppe. Saviano a La7 per tre giorni con l’auricolare di Serra e la bonomia un po’ spenta di Fazio, un rimasuglio di tv dell’indignazione, una celebrazione di quella cazzata che è l’evento, il tutto destinato a sicuro successo di critica e di pubblico: il nulla intorno alle parole, ridotte barbaramente al nulla dell’ideologia, e tutt’intorno un uso cinico della condiscendenza verso il piccolo talento dell’ordinario. Saviano a New York, come un brand scassato alla ricerca della mafia già scoperta da Puzo, Coppola e Scorsese, una specie di Lapo in cerca di marketing sulle orme di Zuccotti Park, tranne che Lapo fa il suo mestieraccio. Saviano in ogni appello, dalla lotta al traffico di cocaina ai diritti dei gay a chissà cos’altro ancora. Saviano sul giornale stylish del mio amico Christian Rocca, perfino. Ma che palle. L’ho ascoltato al Palasharp, un anno e mezzo fa, via web. Un disastro incolore. Uno fuori posto perfino in un luogo in cui si faceva mercimonio delle idee peggiori della società italiana. Non riusciva ad aderire, malgrado la buona volontà, nemmeno alla semplificazione moralista della politica nella sua forma estrema di faziosità e di odio teologico-politico. Saviano non sa fare niente e va su tutto, è di un grigiore penoso, e i madonnari che lo portano in processione dalla mattina alla sera gli hanno fatto un danno umano, civile, culturale e professionale quasi bestiale. Credo che le premesse fossero genuine, è l’esplosione che si è rivelata di un’atroce fumosità. Già non è dotato, ma poi mettergli in mano una specie di scettro da maghetto della popolarità e della significatività di sinistra o de sinistra, insignirlo di una strana laurea da rive gauche all’italiana, il caffè intellettuale dei mentecatti, chiedergli di pronunciarsi su tutto e su tutti come l’oracolo, di fungere da uomo-simbolo, lui che del simbolico ha appena la scorta, questo è veramente troppo.
I Moccia e i Fabio Volo hanno scritto anche loro libri di successo. E’ un guaio che ti può capitare, una brutta malattia come il premio Nobel e altre scemenze. Un giorno o l’altro qualcuno te le commina, se sei veramente sfortunato, e c’è chi sbava nell’attesa. Ma nessuno li ha trasformati in totem, non si prestavano, non erano all’altezza. Saviano invece è all’altezza di questa mondializzazione del banale, di questa spaventosa irriverenza verso l’allegria e l’eccentricità dell’intelletto come nutrimento della società e della vita, di questa orgia del progressismo finto sexy, il torello triste che combatte la sua corrida in compagnia di milioni di consumatori culturali e di utenti dell’indicibilmente e sinistramente comune, medio. Siamo il paese di Wilcock, di Flaiano, di Cesaretto, di Manganelli e a parte lo spirito d’avanguardia e di letizia della scrittura, abbondano grandi maestri, filologi, scrittori anche civili che qualcosa da dire ce l’hanno, in trattoria e sui giornali e in tv, e siamo stati trasformati nel paese dei balocchi dei festival e delle seriali conferenze culturali dedicate al libro, al bestseller che ti cambia la vita come una nuova religione e ti immette nel mainstream più compiacente e belinaro. Ma via. Qualcuno deve pur dirlo. Facciamo un comitato, qualcosa di sapido e di cattivo, qualcosa di rivoltoso e di ribaldo. Basta con Saviano.

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