«Fronte del porto», una recensione critica al libro di Sergio Luzzato sulla colonna genovese della Brigate rosse

L’imponente lavoro realizzato da Sergio Luzzato sull’insediamento delle Brigate rosse a Genova solleva un problema storiografico importante: l’arrivo della Brigate rosse è un parto degli intellettuali radicali della università di Balbi, come sostiene l’autore, oppure prende avvio all’Ansaldo e in porto, come riferiscono alcuni testimoni chiave, protagonisti di quella vicenda?

di Paolo Persichetti

Bisogna riconoscere grande coraggio a Sergio Luzzato per aver provato a ricostruire la storia della colonna genovese delle Brigate rosse fin dalla copertina che ha scelto per il suo volume, Dolore e furore, una storia delle Brigate rosse, appena uscito per Einaudi, titolo suggerito da una sferzante critica indirizzatagli da Rossana Rossanda nel 2010. L’immagine, molto bella, ripresa da una elaborazione grafica di una foto di Viktor Bulla, è stata realizzata da Carlo Rocchi, uno pseudonimo dietro al quale si celava Livio Baistrocchi, ex di Potere operaio, artista di formazione, divenuto uno dei brigatisti più importanti della colonna genovese, latitante da oltre 40 anni.

La «Legera»
Uno dei maggiori meriti di Luzzato è l’imponente mole documentale raccolta, una ricchezza che fornisce al lettore e allo studioso infiniti spunti e poi la dovizia descrittiva che lo ha portato a immergere – com’è giusto che sia – quella vicenda in una ancora più grande: la storia della città di Genova tra gli anni 60 e 70. Una impresa di oltre 700 pagine da cui è scaturito un affresco vivido di biografie, percorsi, colori, idee, immagini, situazioni, storie che sono al tempo stesso ritratto sociologico, culturale, politico, etnografico di Zena. Le duecento pagine iniziali sono senza dubbio, insieme al taglio letterario della prosa e all’intreccio dei percorsi biografici, la parte più riuscita del libro. Dal porto, cuore pulsante, alle sue fabbriche, a Balbi, l’università con i suoi intellettuali ultraradicali; dai marginali della Garaventa, nave di correzione minorile, alla nuova classe operaia che anche a Genova, come negli altri poli del triangolo industriale, si era popolata di giovani migranti meridionali insofferenti alla disciplina del partito e del sindacato che spesso si sovrapponeva a quella dell’impresa, fino a raccontarci del conflitto sulla «Legera». Uno scontro di culture, una distanza antropologica che aveva messo contro le vecchie maestranze super professionalizzate, impregnate di ideologia del lavoro, di «doverismo morale» e fedeltà al Pci e i nuovi arrivati che non volevano sentir parlare di etica del lavoro e mal sopportavano il controllo politico, morale e professionale dei primi. Nuove leve operaie insofferenti alla presenza opprimente dell’attivista sindacale: «che se non lavori come lui desidera, va dal capo e dice che sei una legera e gli chiede di prendere provvedimenti, che se vai sottomutua o se sei un estremista comincia ad odiarti e a farti dispetti. La possibilità di organizzare gli operai estremisti e leggere è dunque sistematicamente spezzata dalla presenza capillare degli operai super professionalizzati».
Luzzato non si ferma qui, ci descrive la presenza della chiesa reazionaria e anticonciliare del cardinale Siri e il suo contraltare: i preti di strada come don Gallo, allontanato dalla Garaventa perché inviso per la sua pedagogia radicale, la comunità del Molo, circoli come il clan della Tortilla che furono incredibili crogioli, le idee dei basagliani che si facevano strada, gli intellettuali non più organici come l’avvocato Edoardo Arnaldi, Sergio Adamoli, medico chirurgo al san Martino, che tanti brigatisti ha rappezzato, figlio di Gelasio sindaco partigiano della città nel secondo dopoguerra, membro del Pci al pari di Giovanni Nobile, dirigente della federazione che vide la figlia Marina tra gli effettivi della colonna genovese. Gianfranco Faina l’enfant prodige della Fgci genovese che rigetta la carriera già pronta nel Pci per costruire la sua via alla rivoluzione sulle tracce di un comunismo libertario, dietro di lui molto più defilato Enrico Fenzi, il suo amico Andrea Canevaro che intreccia la sua biografia con quella di Giovanni Senzani, di cui Luzzato segue ostinatamente le orme genovesi antidatandone erroneamente l’ingresso nelle Br. Lungo questo tragitto, l’autore incrocia di nuovo Guido Rossa a cui aveva già dedicato una monografia, per rivelarne senza reticenze il lavoro informativo condotto in fabbrica per conto di un apparato riservato di controllo e contrasto della lotta armata messo in piedi dal Pci.

Chi era Dura?
Luzzato racconta al lettore con un’apprezzabile trasparenza l’origine della sua curiosità per gli anni genovesi della lotta armata, quando nel 1985, giovane ricercatore, scorgeva chini sui tavoli dell’allora biblioteca nazionale Richelieu di Parigi alcuni fuoriusciti italiani degli anni ’70. Raffrontare le loro biografie di sconfitti con quelle dei rivoluzionari francesi fuggiti a Bruxelles l’intrigava, si domandava se anch’essi fossero «assediati dalla loro propria memoria», se «continuamente riabitassero il passato degli anni di piombo, per difendersi dal presente nel presente», per scoprire come i loro predecessori parigini: «quanto la posterità fatichi a essere imparziale». L’altro interrogativo dell’autore riguarda la figura di Riccardo Dura, narrato da sempre come un «fantasma». Chi era veramente? Da dove veniva? Il volume parte dall’unica traccia istituzionale conosciuta sul giovane: il fascicolo psichiatrico che racconta i suoi due internamenti nel manicomio di Genova Quarto e poi gli anni nella Garaventa, la nave correzione per minorenni in difficoltà. Le perizie mediche ritrovate e le interviste con i dottori che lo visitarono rendono giustizia della leggenda nera costruita dai criminologi del tribunale e da alcuni pentiti dopo la sua esecuzione a freddo del marzo 1980. Adolescente in difficoltà, in conflitto con una madre possessiva ma al tempo stesso anaffettiva, il ragazzo non aveva sopportato la separazione dei genitori. Gli scontri in casa erano sempre più accesi e la madre non trovava di meglio che chiamare i carabinieri col risultato di farlo internare. Inizia così, in una società dove ancora non si era affermata la rivoluzione basagliana, l’infelice tragitto di questo adolescente con il mondo contro. Il racconto di Luzzato in questa prima parte è empatico, tifa palesemente per il ragazzo che studia anche con profitto, sperando che alla fine riesca a venirne fuori. E Riccardo ce la fa, uscito dalla Garaventa ormai diciottenne recide ogni legame materno e si imbarca come marittimo nella scala più bassa dei lavori del mare: mozzo o ragazzo da camera.

La colonna genovese è nata tra gli universitari di Balbi?
Sorge qui il primo problema storiografico posto dal libro di Luzzato: non riuscendo a trovare tracce significative di Dura al porto, salvo alcuni rollini con i suoi numerosi imbarchi, l’autore ricostruisce una genealogia della colonna genovese seguendo biografie intellettuali che invece hanno lasciato dietro di sé molta documentazione e anche auto-narrazioni. Dura riappare solo nel racconto di Andrea Marcenaro che l’accoglie in Lotta continua tra l’agosto del 72 e il settembre del 1973, quando preferisce andarsene perché non condivideva la distanza mostrata verso il gruppo XXII ottobre. Senza Dura e senza le fabbriche inevitabilmente l’università di Balbi si ritrova al centro della trama della futura colonna con le figure intellettuali di Faina e Fenzi, il primo importante, il secondo semplice gregario, e più in là Senzani che, contrariamente a quanto tenta di dimostrare Luzzato, entrerà nelle Br solo nel 1979 a Roma quando prenderà la responsabilità del Fronte carceri, oppure Adamoli e Arnaldi, certamente con un ruolo più significativo nello sviluppo della colonna. Un récit che ricalca la teoria dei «cattivi maestri», del ruolo nefasto degli intellettuali, del loro veleno ideologico senza il quale tutto non sarebbe potuto nascere, tanto caro al generale Dalla Chiesa. Per Luzzato se la storia delle Br era stata fatta, come gli aveva scritto Rossanda nella critica mossagli anni prima, «da persone un po’ qualsiasi», operai, tecnici, studenti, giovani delle periferie, a Genova le cose sono andate diversamente: «intorno a un chirurgo come Sergio Adamoli, a uno storico come Gianfranco Faina, a un filologo come Enrico Fenzi, le parole sono diventate pietre».

All’Ansaldo qualcuno già guardava alle Br
Il volume ruota attorno a questa convinzione nonostante Luzzato stesso dissemini alcuni indizi che mettono in dubbio la sua tesi: nel dicembre del 1973 nello stabilimento di Sampierdarena dell’Ansaldo Meccanico Nucleare viene distribuito un volantino identico a quello diffuso a Torino per il sequestro del capo del personale Fiat Amerio rapito dalle Br, salvo differire nel titolo: «Oggi Amerio, domani Casabona». Effettivamente Vincenzo Casabona, capo del personale dell’Ansaldo verrà rapito dalla colonna genovese delle Brigate rosse il 23 ottobre del 1975. Chi aveva diffuso quel volantino aveva già dei contatti con le Brigate rosse.
Nel 2012, Augusto Viel della XXII ottobre racconta nel libro di Donatella Alfonso di aver conosciuto Riccardo Dura nel 1967, quando questi era ancora diciassettenne, insieme a Giuliano Naria in un circolo marxista-leninista di Pegli, davanti a Porto, fondato dal partigiano Agostino Marchelli. Dopo il suo arresto Dura era sempre andato a trovare la madre, sfidando i controlli e quando fu massacrato questa lo pianse come un figlio.

La versione di Moretti: «No, le Br genovesi sono nate al Porto e all’Ansaldo»
Lo storico Davide Serafino nel suo saggio del 2016 sulla colonna genovese ha spiegato come Dura avesse seguito da vicino l’intera vicenda della cosiddetta XXII ottobre, che poi altro non era che il Gap genovese del gruppo Feltrinelli, e ricorda che Naria, dopo l’esperienza in Lotta continua, fece uscire con il collettivo operaio dell’Ansaldo un foglio che appoggiava il sequestro Sossi. A queste testimonianze preesistenti e che Luzzato incomprensibilmente sorvola si aggiunge la versione di Mario Moretti, da me raccolta nel corso dei diversi colloqui che ho avuto con lui nell’ultimo decennio: a chiamarlo a Genova furono Giuliano Naria, che aveva una sua rete all’Ansaldo, e Riccardo Dura dal porto. D’altronde i vasi erano comunicanti, come abbiamo visto i due già si conoscevano. Un copione consolidato che già si era svolto a Torino e poi si ripeterà a Roma con i militanti di alcune strutture politiche delle periferie, a Napoli con Bagnoli. La Brigate rosse sono arrivate a Balbi solo in un secondo momento – precisa Moretti – per incontrare Faina e il suo gruppo, a cui Dura si era legato. Entrarono così anche Fulvia Miglietta e Livio Baistrocchi. Figura incontornabile nella scena politica rivoluzionaria genovese, Faina non fu mai veramente integrato nella colonna, «non per ragioni ideologiche» ma per questioni pratiche: l’emergere di riserve e lamentele interne alla nascente colonna legate alla sua inadattabilità alla guerriglia urbana che ne provocarono l’esclusione, con suo grande rammarico e dolore. Determinante fu poi l’arrivo di Rocco Micaletto che con la sua esperienza strutturò la colonna mentre Moretti, chiamato nella Capitale, si spostò per costruire la colonna romana. Ma c’è un fatto che Moretti sottolinea con forza: «se le Br a Genova catturano per poche ore, processano e poi lasciano libero il Capo del Personale della fabbrica Ansaldo Meccanico Nucleare, come si può pensare che una cosa del genere sia stata possibile se non perché sei già lì, radicato nelle vertenze tra operai e padroni di quella fabbrica, perché ci vivi e lavori gran parte della tua vita, mica perché l’hai letto sui giornali. Guarda caso Giuliano Naria è un operaio dell’Ansaldo. Non è forse questo un buon punto di partenza per fare “storia” sulla genesi della colonna genovese delle Brigate Rosse? Tutti dimenticano che questi compagni erano dei ragazzi di ‘movimento’, che si erano formati in pochi mesi nel grande e vario movimento rivoluzionario di quegli anni».
Giovani operai molto lontani dall’idea di dolore e furore indicata nel titolo. Al pari di Giuliano Naria che venne espulso da Lotta continua perché fumava hascisc, anche Riccardo Dura fumava come tutti gli uomini di mare. Prima di entrare in clandestinità con le Br – racconta sempre Moretti – fece una chiusa di tre giorni fumando hashish in continuazione. Una specie di addio al celibato. Naria probabilmente non smise mai, Moretti ricorda la sua visione orgiastica della rivoluzione dove il proletariato avrebbe dovuto assumere i vizzi della borghesia abolendone solo le virtù. Schizzi di vite che sgretolano il cliché costruito attorno all’unica colonna che aveva arruolato un anarchico ma è stata dipinta come «stalinista, cubo d’acciaio, fantasma senza radici».

Chiaroscuri
Nella seconda parte del volume Luzzato scrive pagine che sconcertano il lettore, inspiegabili scivoloni metodologici che allontanano l’autore dal rigore storiografico dimostrato nel racconto della società genovese. Che senso storico ha rilanciare domande, senza approfondimenti personali e documentazione, ma solo sulla scorta della letteratura dietrologica, sulla reale prigione di Moro e sul numero e l’identità dei brigatisti in via Fani? Nonostante questi incidenti il lavoro di Luzzato è importante perché offre una lezione fondamentale: non può esserci storia degli insediamenti territoriali delle Brigate rosse senza un adeguato approfondimento della temperie sociale, culturale e politica che le ha viste nascere.

4 pensieri su “«Fronte del porto», una recensione critica al libro di Sergio Luzzato sulla colonna genovese della Brigate rosse

  1. Paolo credo tu sia sia uno dei pochi ad avere letto interamente un libro che tu stesso definisci “coraggioso” e “importante perché offre una lezione fondamentale: non può esserci storia degli insediamenti territoriali delle Brigate rosse senza un adeguato approfondimento della temperie sociale, culturale e politica che le ha viste nascere”.
    A differenza di altre frettolose stroncature da social che fanno nascere il sospetto di essere state scritte da chi invece quel libro non l’ha letto, anche perché, va detto, trattasi di un volume di oltre 700 pagine venduto al non modico prezzo di 38 euro e scritto non certo da un ex militante o anche solo “simpatizzante” di quella che allora era la cosiddetta sinistra extraparlamentare, ma da Sergio Luzzatto, un professore di storia moderna europea all’Università del Connecticut, genovese di nascita e figlio del professore di fisica Giunio Luzzatto, ai tempi chiamato quale testimone, unitamente al medico chirurgo Sergio Adamoli, dagli avvocati del giornale Lotta Continua, per confermare i trascorsi filofascisti del magistrato Mario Sossi, nel processo romano per diffamazione intentato dall’interessato che non aveva gradito tale appellativo.
    Ciò premesso, veniamo al merito di una critica che al termine della lettura della parte relativa alla nascita e formazione della colonna genovese delle BR non mi sento di condividere del tutto, perché non è quello che io ho trovato nelle pagine di Luzzatto.
    Scrivi all’inizio che “L’imponente lavoro realizzato da Sergio Luzzatto sull’insediamento delle Brigate rosse a Genova solleva un problema storiografico importante: l’arrivo della Brigate rosse è un parto degli intellettuali radicali della università di Balbi, come sostiene l’autore, oppure prende avvio all’Ansaldo e in porto, come riferiscono alcuni testimoni chiave, protagonisti di quella vicenda?”.
    “Problema” che individui nel fatto che: “non riuscendo a trovare tracce significative di Dura al porto, l’autore ricostruisce una genealogia della colonna genovese seguendo biografie intellettuali che invece hanno lasciato dietro di sé molta documentazione e anche auto-narrazioni”, di tal che: “Senza Dura e senza le fabbriche inevitabilmente l’università di Balbi si ritrova al centro della trama della futura colonna con le figure intellettuali di Faina e Fenzi, il primo importante, il secondo semplice gregario, e più in là Senzani che, contrariamente a quanto tenta di dimostrare Luzzato, entrerà nelle Br solo nel 1979 a Roma”, per cui il libro di Luzzatto “ricalca la teoria dei «cattivi maestri», del ruolo nefasto degli intellettuali, del loro veleno ideologico senza il quale tutto non sarebbe potuto nascere, tanto caro al generale Dalla Chiesa”.
    Conclude quindi, prendendo una singola frase contenuta nel libro («intorno a un chirurgo come Sergio Adamoli, a uno storico come Gianfranco Faina, a un filologo come Enrico Fenzi, le parole sono diventate pietre»), che “per Luzzatto, se la storia delle Br era stata fatta, come gli aveva scritto Rossanda nella critica mossagli anni prima, «da persone un po’ qualsiasi», operai, tecnici, studenti, giovani delle periferie, a Genova le cose sono andate diversamente”.
    In pratica, Luzzatto avrebbe individuato nell’università di Balbi l’origine della colonna genovese delle BR, prendendo così un “granchio” storico colossale.
    Accusa non da poco momento che rischia di distogliere futuri possibili lettori da un testo che ritengo, in questo al pari di te, fondamentale, e a suo modo unico rispetto alla bibliografia fino ad oggi disponibile sulla storia delle BR genovesi, perché, come riconosci tu stesso, si tratta di “un affresco vivido di biografie, percorsi, colori, idee, immagini, situazioni, storie che sono al tempo stesso ritratto sociologico, culturale, politico, etnografico di Zena. Dal porto, cuore pulsante, alle sue fabbriche, a Balbi, l’università con i suoi intellettuali ultraradicali; dai marginali della Garaventa, nave di correzione minorile, alla nuova classe operaia che come negli altri poli del triangolo industriale, si era popolata di giovani migranti meridionali insofferenti alla disciplina del partito e del sindacato che spesso si sovrapponeva a quella dell’impresa, fino a raccontarci del conflitto sulla «Legera», la presenza della chiesa reazionaria e anticonciliare del cardinale Siri e il suo contraltare: i preti di strada come don Gallo, allontanato dalla Garaventa perché inviso per la sua pedagogia radicale, la comunità del Molo, circoli come il clan della Tortilla, le idee dei basagliani che si facevano strada, gli intellettuali non più organici come l’avvocato Edoardo Arnaldi, Sergio Adamoli, medico chirurgo al san Martino, figlio di Gelasio sindaco partigiano della città nel primo dopoguerra, Gianfranco Faina l’enfant prodige della Fgci genovese che rigetta la carriera già pronta nel Pci per costruire la sua via alla rivoluzione sulle tracce di un comunismo libertario, Enrico Fenzi, il suo amico Andrea Canevaro che intreccia la sua biografia con quella di Giovanni Senzani. Lungo questo tragitto, l’autore incrocia di nuovo Guido Rossa a cui aveva già dedicato una monografia, per rivelarne senza reticenze il lavoro informativo condotto in fabbrica per conto di un apparato riservato di controllo e contrasto della lotta armata messo in piedi dal Pci”.
    A sostegno della tua tesi,riferisci di colloqui con Mario Moretti, secondo il quale “a chiamarlo a Genova furono Giuliano Naria, che aveva una sua rete all’Ansaldo, e Riccardo Dura dal porto. A Balbi le Brigate rosse sono arrivate solo in un secondo momento per incontrare Faina e il suo gruppo, a cui Dura si era legato. Entrarono così anche Fulvia Miglietta e Livio Baistrocchi” e, dopo avere specificato che: “Faina non fu mai veramente integrato nella colonna”, sottolinei il “determinante ruolo di Rocco Micaletto che con la sua esperienza strutturò la colonna mentre Moretti, chiamat nella Capitale, si spostò per costruire la colonna romana”, riportando in virgolettato un fatto “sottolineato con forza” dallo stesso Moretti: «se le Br a Genova catturano per poche ore, processano e poi lasciano libero il Capo del Personale della fabbrica Ansaldo Meccanico Nucleare, come si può pensare che una cosa del genere sia stata possibile se non perché sei già lì, radicato nelle vertenze tra operai e padroni di quella fabbrica, perché ci vivi e lavori gran parte della tua vita, mica perché l’hai letto sui giornali. Guarda caso Giuliano Naria è un operaio dell’Ansaldo. Non è forse questo un buon punto di partenza per fare “storia” sulla genesi della colonna genovese delle Brigate Rosse?».
    Tutto giusto, se non fosse che a mio modesto parere hai fatto una lettura un po’ travisata del libro di Luzzatto, perché l’autore non mette minimamente in dubbio la ricostruzione di Moretti, tanto è vero che proprio dopo avere affrontato il percorso dell’operaio Naria, scrive espressamente a pagina 284: “I veri contorni del progetto organizzato dovettero farsi più chiari per lui in quell’inverno 1974-75 quando a Genova fece ritorno Mario Moretti con l’intenzione di creare, dopo Milano e Torino, una colonna dell’organizzazione armata. E Moretti arrivò con tre o quattro persone in mente quali possibili artefici dell’impresa. Anzitutto, i titolari del ramo illegale della sezione genovese della Lega dei diritti dell’uomo: l’avvocato Arnaldi, il professor Faina, il dottor Adamoli e l’operaio dell’Ansaldo Giuliano Naria che non appena licenziato aveva bussato alla porta di Controinformazione, la rivista che valeva un po’ come portavoce legale delle Brigate rosse, i primi abboccamenti genovesi di Moretti furono con Faina che a breve gli avrebbe presentato Ricardo Dura”.
    Né trovo, contrariamente a quanto ritieni, che venga dato troppo risalto alla figura di Fenzi (che del resto nella propria biografia “Armi e bagagli” aveva raccontato di avere avuto un ruolo tardivo, breve e defilato nella colonna di Genova), se non per dire che era tra i docenti più “estremisti” di Balbi (fatto vero, ma mica scrive che era un brigatista), e se è vero che viene seguita pedissequamente la storia di Senzani, credo che questo venga fatto per segnalare la coincidenza del suo passaggio genovese in anni “caldi” ma ben prima della formazione della locale colonna, che in nessun punto del libro viene collegata al futuro fondatore del partito guerriglia.
    Qui scatta forse un problema cronologico (io sono fissato), perché le prime 300 pagina del libro riferiscono in modo documentato tutto quello che di sovversivo accadeva a Genova dal 1960 in avanti fino alla nascita della locale colonna che data 1975, visto che anche l’eclatante azione Sossi dell’anno prima fu gestita dalle colonne milanesi e tornesi, quindi è Moretti che arriva dopo quelle 300 pagine, e giustamente riferisce quello che trova lui quando si forma la colonna, ma il racconto di Balbi si riferisce al “prima”, ed è indubbio che anche Balbi, seppure unitamente alle tante altre realtà genovesi raccontate nel libro, ivi compreso il temporaneo sequestro del dirigente Ansaldo nel 73, ha avuto un suo ruolo, il che non significa escludere l’Ansaldo o altre fabbriche operaie, ma semplicemente riferire che a Genova andò così, c’erano operai, portuali, studenti, insegnanti, proletari, borghesi, cattolici e quant’altro di quegli anni che ruppero con il PCI, dando vita a tante realtà “sovversive”, creando quel clima politico e sociale che consentì la successiva creazione di una locale colonna destinata a rivelarsi dal 1976 in avanti tra le più resistenti.
    Si confondono a mio parere due cose diverse, la narrazione del percorso formativo dei tanti futuri brigatisti, diverso per ognuno di loro, come ebbe modo di ben specificare anche Prospero Gallinari nella sua autobiografia “Un contadino nella metropoli” di qualche anno fa, che scrisse in premessa che quella che aveva scritto era la “sua” storia e non quella di tutti i militanti delle BR, con l’effettiva nascita delle varie colonne, per cui, nel caso di Genova, è difficile storicamente individuare un luogo preciso (fabbriche o altro) che escluda tutti gli altri per quanto si legge nelle prime 300 pagine del libro.
    Peraltro, anche a Milano, dove, come egregiamente proprio tu (insieme a Clementi e Santalena) hai ricostruito nel libro pubblicato da DeriveApprodi, la nascita nelle fabbriche delle prime Brigate rosse, così come certa è la genesi di “sindacalismo armato” di tutte le azioni dei primi tre anni, la precedente storia personale dei fondatori era composita, perché Curcio e Cagol erano ex studenti di Trento, Morlacchi un proletario della periferia del Giambellino, Franceschini e altri reggiani provenivano dal gruppo dell’appartamento, e Moretti (e altri) invece dalle fabbriche, e del resto, anche la provenienza politica e sociale dei dieci brigatisti che molti anni dopo saranno in via Fani era varia, non erano tutti ex operai, neppure i tre che attendevano nelle due basi romane.
    E’ vero che i dati successivamente raccolti dimostreranno che la gran parte dei brigatisti effettivi era di provenienza operaia, ma questo è utile ribadirlo per smentire la vulgata fata circolare dal PCI e della CGIL che avevano tutto l’interesse “politico” a sostenere la tesi (falsa) che le BR non avessero mai fatto breccia tra gli operai, ma non ritengo storicamente corretto circoscrivere alla sola realtà di fabbrica l’intera storia delle BR.
    Né trovo corretta l’analogia con lo sciagurato blitz di Dalla Chiesa del ’79 che mise in carcere genovesi che non c’entravano nulla con le BR (a parte Fenzi e Pezzoli), come ben raccontato dal libro “Gli imprendibili” di Cavazza per DeriveApprodi, sol perché, nel raccontare tutti i protagonisti della sinistra extraparlamentare genovese di quegli anni, compaiono inevitabilmente anche molti di quei nomi che peraltro Luzzatto non si sogna minimamente di definire brigatisti.
    Tanto meno si trae dalla lettura del libro la convinzione della validità della teoria (folle) dei “cattivi maestri”, sol perché grande spazio viene dato a Faina che certamente in quel di Genova ebbe a rivestire, per quel che racconta Luzzatto, un ruolo non da poco, e che in seguito formerà a sua volta una nuova e diversa formazione armata (AR), e l’averne raccontato con dovizia di dettagli la sua storia dovrebbe trovare l’apprezzamento proprio dello stesso Moretti che giustamente lamentava nel carteggio con Persichetti “il cliché costruito attorno all’unica colonna che aveva arruolato un anarchico ma è stata dipinta come «stalinista, cubo d’acciaio, fantasma senza radici».
    Che poi Luzzatto, in cuor suo, possa credere ai “cattivi maestri” o ritenere che a Genova, a differenza che in altre città italiane, le BR abbiano avuto minor presa tra gli operai perché il PCI era più forte, mi interessa poco, perché nulla di quanto riporta il libro di Luzzatto è storicamente inesatto (né tu lo segnali), al più siamo in presenza di diverse considerazioni che ogni lettore può fare al termine della lettura di quei dati, ma queste, così come quelle che ogni tanto l’autore dissemina qua e là, e che non necessariamente debbono essere condivise, non inficiano la validità di questo libro, che ho trovato dal mio punto di vista utilissimo e prezioso
    Per cui il “problema storiografico” che sollevi a mio parere non si pone.

  2. Io lo sto leggendo. Per un libro del genere, pur condividendo l’impostazione di Steccanella, non esiste dire a qualcuno “tu sei uno dei pochi che lo ha letto”. Un libro del genere lo sia acquista se interessa; se lo si acquista lo si legge; se lo si legge si lascia metabolizzare ed eventualmente lo si rilegge; poi lo si analizza.

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