Il cronologo della lotta armata

Il libro di oggi – Davide Steccanella, Gli anni della lotta armata, cronologia di una rivoluzione mancata, Bietti Milano, 2022, (quarta edizione) 563 pp.

Davide Steccanella è un avvocato molto conosciuto a Milano, un carattere esuberante, interessi culturali molteplici per il cinema e la lirica, il romanzo manzoniano e il decennio Settanta che nel corso del tempo è divenuto una vorace passione di conoscenza. Di quel periodo ha letto tutto il possibile, visto ogni film e documentario, incontrato i protagonisti, gli ex militanti, finendo per difenderne alcuni, ma non solo. La sua professione lo ha portato a conoscere e misurarsi anche con chi era dall’altra parte, magistrati, esponenti delle forze di polizia e familiari delle persone colpite. Un percorso di conoscenza spinto dal bisogno di riempire un vuoto, un momento mancato negli anni della sua gioventù, quando figlio della buona borghesia e dai buoni studi passò accanto a quelle storie, sfiorandole come ha raccontato nel suo romanzo autobiografico, Gli sfiorati (Bietti, 2019).
Nel 2013 dava alle stampe la prima versione de Gli anni della lotta armata, cronologia di una rivoluzione mancata (Bietti), ridando lustro ad un genere letterario dimenticato, la cronaca. Diffuso nel medioevo, la cronica rappresentava una forma di racconto storico che si dipanava lungo la linea del tempo come il filo dal rocchetto, tracciandone in sequenza dei punti. Quei punti erano episodi, eventi, narrati senza approfondire troppo cause e effetti. Non possiamo dimenticare le cronache fiorentine del 300 che ci restituiscono il racconto del conflitto tra guelfi bianchi e neri, in una Firenze traversata dalla guerra civile, dallo scontro politico e sociale che opponeva i ceti borghesi e mercantili emergenti alle famiglie aristocratiche, da una parte i fautori dell’autonomia politica della città, dall’altra chi sosteneva il potere temporale del papato.
Dal quel 2013 è trascorso un decennio e il racconto è cresciuto. Sono uscite altre due edizioni, nel giugno 2013 e nel febbraio 2018, interpolate da un volume di storie di donne rivoluzionarie, Le indomabili (Paginauno 2017) e Milano e la violenza politica, la mappa della città e i luoghi della memoria (1962-1986) (Milieu 2020).
Alla fine del 2022 è apparsa la quarta edizione aggiornata. La cronaca iniziale, di cui Steccanella è divenuto negli anni un maestro, è lievitata: ha preso un’altra forma, grazie ad un paziente lavoro di studio e ricerca le voci sono state integrate e accresciute, il volume conta 573 pagine, si è arricchito delle ultime vicende. L’ultima sezione del volume riguarda gli anni che vanno dal 1990 al 2022, è in queste pagine che troviamo il lavoro più innovativo, quasi del tutto assente nella saggistica che affronta questi temi, dai lavori della commissione Moro 2 alle ultime inchieste giudiziarie che tengono ancora viva l’attenzione su quegli anni. La cronologia degli ultimi venti anni ci aiuta a comprendere quel passato che non passa, la patologica difficoltà di storicizzare, l’uso politico che ancora se ne fa. Il volume presenta un solido apparato di note da leggere con accurata attenzione per la mole imponente di informazioni che vi sono contenute e che fa di questo lavoro non solo un libro che restituisce l’affresco dell’epoca, ma anche un utile strumento per il ricercatore.

La commissione d’inchiesta “privata” del giudice Salvini sul sequestro Moro

E’ stata diffusa ieri la relazione della commissione antimafia sul sequestro Moro. Consulente il giudice Guido Salvini. Un’orgia di dietrologia

E’ stata resa pubblica la relazione prodotta nella scorsa legislatura dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali, anche straniere, «sulla eventuale presenza di terze forze, riferibili ad organizzazioni criminali, nel compimento dell’eccidio di via Fani». A conclusione della legislatura la relazione non era ancora pronta, anche se alcune indiscrezioni erano filtrate verso giornalisti amici che ne avevano subito diffuso una velina il 6 maggio 2022 e le bozze preparatorie erano state sintetizzate nel settembre successivo (senza turbare minimamente la magistratura), sempre su The post internationale.

Una commissione omnibus
Presieduta dal 5stelle Nicola Morra, la commissione aveva suddiviso le sue attività d’inchiesta in 24 sezioni che si sono occupate degli argomenti più disparati, molti dei quali distanti anni luce dalle vicende mafiose o di criminalità organizzata: la morte del ciclista Marco Pantani, il massacro di due minori a Ponticelli nel 1983, l’omicidio di Simonetta Cesaroni in via Poma a Roma, i delitti del mostro di Firenze, la morte di Pasolini. Fatti di cronaca nera in parte rimasti irrisolti. Sulle attività mafiose invece si è lavorato sulla strage di via dei Georgofili, le infiltrazioni negli enti locali, massoneria, usura, strage di Alcamo marina, presenza e cultura mafiosa nelle università e nell’informazione. Infine, ciliegina sulla torta, non poteva mancare – come si è visto – via Fani e il rapimento Moro. Insomma una commissione omnibus, aperta a tutte le vicende giudiziarie e non, una sorta di supplemento politico dell’attività investigativa delle forze di polizia e della magistratura. Non solo, ma con ampio utilizzo discrezionale, quasi personale, dello strumento d’inchiesta, che sembra essere sfuggito al mandato e al controllo parlamentare.

Una indagine doppione
Nel caso della relazione sui fatti di via Fani appare evidente l’entrata a gamba tesa sulle inchieste in corso condotte della Procura della repubblica e dalla Procura generale di Roma che hanno ereditato dalla precedente Commissione Moro 2, presieduta da Giuseppe Fioroni, alcuni filoni d’indagine sulla vicenda Moro. Un doppione d’indagine che sembra quasi voler imporre la “giusta linea politica” all’inchiesta condotta dalla magistratura capitolina. Non solo, emergono ulteriori criticità sulla competenza territoriale: basti pensare al coinvolgimento come consulente del magistrato Guido Salvini, già collaboratore della precedente commissione Moro 2. Insoddisfatto del lavoro svolto nella precedente commissione – senza successo è bene sottolineare – Salvini si è ritrovato tra le mani una commissione tutta per sé, dando sfogo alla propria irrisolta libidine complottista che tormenta la sua esistenza. Questo magistrato, che svolge le proprie funzioni giudiziarie come Gip al settimo piano del tribunale di Milano, in questo modo è riuscito a dotarsi di una competenza sull’intero territorio nazionale per svolgere indagini, interrogatori e altro, senza possedere le dovute conoscenze e competenze sulla materia, e si vede dal risultato dei lavori. Un vero aggiramento politico delle norme e delle procedure giustificato da una sorta di stato d’eccezione complottista perseguito con fanatica voracità.

Il supermercato dei testimomi
A suscitare imbarazzo sono anche i metodi di indagine e le risorse impiegate: per esempio il tentativo di pilotare il ricordo di alcuni testimoni, trascelti perché ritenuti più comodi: tra questi Cristina Damiani che crede di vedere sei persone armate sulla scena, oltre all’agente Iozzino sceso dall’Alfetta di scorta, o ancora il ripescaggio dell’eterno ingegner Marini, uno che è riuscito a raccontare più bugie di Saviano, ricordatevi la storia del parabrezza del suo motorino. O ancora Luca Moschini che parla di una motocicletta vista prima dell’agguato cavalcata da uno dei quattro brigatisti in divisa da stewart dell’Alitalia, in contrasto con le dichiarazioni di tutti gli altri testimoni e con la moto descritta ad azione conclusa da altri due testi, Marini e Intrevado. Insomma la regola è quella del supermercato: mi scelgo i testi che meglio aggradano la mia teoria e ignoro quelli che la smentiscono e così diventa più facile far spuntare la presenza di un quinto sparatore in abiti civili, fuggito a piedi e in direzione opposta agli altri, nonostante sulla scena manchino i bossoli della sua arma, che poi sono l’unico dato obiettivo, e la sua fuga con un’arma lunga in mano (una canna di almeno 30 cm) non sia stata intercettata da nessun altro testimone che era sullo stesso lato del marciapiede nella parte alta di via Fani. E come si sarebbe allontanato dal luogo questo individuo, se non era salito in nessuna delle tre macchine del commando brigatista? Attendendo un mezzo pubblico ad una fermata dell’autobus di via Trionfale con un mitra in mano mentre vetture della polizia confluivano sul posto e l’intero quartiere si riversava in strada? Infine ci sono i soliti Pecorelli, De Vuono, Nirta, i calabresi, l’anello, persino lo stragista fascista Vinciguerra, uno dei cocchi adorati del giudice Salvini che non esita a metterlo dappertutto come il prezzemolo. Una specie di festival canoro di vecchie glorie del complottismo. Mentre chi c’era, i brigatisti, sono sempre dei bugiardi buoni a prendersi solo raffiche di ergastoli.

Il club dei dietrologi digitali
Ancora più problematico appare il ricorso ad alcune «consulenze esterne» del tutto prive di valenza scientifica: amichetti del quartierino complottista, dietrologi digitali, giornaliste da velina, amici della domenica che si dilettano del caso Moro come fosse un gioco di società. Insomma un circo Barnum, roba da avanspettacolo, un vero specchio del livello infimo della politica e delle istituzioni parlamentari attuali.

Se non sei complottista sei ancora un brigatista
Scorrendo le pagine della relazione ho scoperto persino di esser citato, il che devo dire mi suscita solo vergogna. A pagina 37 si richiama il mio ultimo libro, La polizia della storia, La fabbrica delle fake news nell’affaire Moro (Deriveaprodi 2021). Nel testo mi si attribuisce l’appartenenza alle Brigate rosse che rapirono Moro, di cui parlerei come un conoscitore interno, «facendo mostra di un’adesione ancora attuale al pensiero brigatista». Il 16 marzo 1978 non avevo ancora compiuto 16 anni, ero un ginnasiale e mi trovavo nel mio liceo sgarrupato di via Bonaventura Cerretti, quartiere Aurelio di Roma. Era un magazzino di un palazzo sotto il livello stradale, buio, alcune aule piene di scritte del ’77 e dei bagni da dove uscivano i topi. Non c’era altro. Mancavano laboratori, aula magna, palestra. Non era una scuola ma un cesso di periferia. L’avevamo occupato e facevamo autogestione. Eravamo a due passi da Valle Aurelia e il convoglio che portava Moro verso la prigione di via Montalcini al Portuense transitò a due passi da lì, in via Baldo degli Ubaldi. Per parlare della mia esperienza in una delle ultime branche che si separò da quel che restava delle Brigate rosse, a loro volta figlie della scissione in tre tronconi dei primi anni 80, bisogna attendere ancora otto anni. Altri tempi, altre storie.

Il secondo furgone e le parole ignorate di Moretti
Gli estensori mi citano per la presenza il giorno del sequestro di un secondo furgone, un Fiat 238 di colore chiaro, tenuto di riserva e parcheggiato lungo la via di fuga nella zona di Valle Aurelia. Mezzo da impiegare per un eventuale secondo trasbordo dell’ostaggio ma poi inutilizzato e spostato da uno dei brigatisti che parteciparono all’azione di via Fani. Di questa circostanza parlammo già nel libro uscito nel 2017, Brigate rosse, dalle fabbriche alla campagna di primavera (Deriveapprodi). Ne La Polizia della storia ho solo aggiunto il nome di chi realizzò quello spostamento. Aggiungono gli autori della relazione che «la circostanza della suo mancato utilizzo proviene solo, e anche in forma impersonale, dal racconto dei brigatisti in contatto con Persichetti», ciò – proseguono ancora gli esponenti della commissione – «E’ esempio, come in altri casi, di una logica di verità a rate».
A questo punto sarebbe il caso di sottolineare che a rate c’è solo il cervello a fette dei dietrologi, perché del secondo mezzo aveva parlato Mario Moretti nel libro con Rossanda e Mosca nel lontano 1994, «Oltrepassiamo senza fermarci il luogo dove avevamo messo una macchina per un cambio di emergenza qualora non fosse riuscita la prima operazione di trasbordo: è pericolosissima l’eventualità che sia stato notato il furgone col quale ci avviciniamo alla base, perché una segnalazione anche a distanza di giorni consentirebbe di circoscrivere la zona in cui ci troviamo. Ma non è necessario cambiare macchina», (Mario Moretti, Brigate rosse, una storia italiana, Anabasi 1994, p. 131).
Punto.

«Un contadino nella metropoli», esce una nuova edizione del libro di memorie di Prospero Gallinari

Anticipazione – Pubblichiamo la nuova introduzione al libro di memorie scritto da Prospero Gallinari, pubblicato dalle edizioni PGreco. Alla fine del volume sono presenti anche due documenti politici di bilancio storico scritti negli anni 90 che portano la sua firma insieme a quella di altri ex appartennenti alle Brigate rosse con cui Gallinari aveva condiviso impegno e discussione politica dentro le Br e poi negli anni che hanno seguito la chiusura di quella esperienza


Dieci anni fa, il 14 gennaio 2013, Prospero Gallinari moriva a Reggio Emilia. Colpito dall’ultimo e definitivo malore cardiaco, venne trovato nei pressi della sua abitazione, riverso al volante dell’automobile. Era agli arresti domiciliari per motivi di salute. Come ogni giorno, si apprestava a recarsi nella ditta dove aveva il permesso di lavorare svolgendo mansioni di operaio.
Ai suoi funerali presenziarono molte persone. Vecchi militanti delle Brigate Rosse, anziani esponenti del movimento rivoluzionario italiano, tanti emiliani che lo avevano conosciuto da giovane, e tanti giovani che avevano imparato a rispettarlo ascoltando le sue interviste, e leggendo il suo libro di ricordi intitolato Un contadino nella metropoli.
Sembrò e fu veramente un funerale di altri tempi. Una testimonianza di unione, e una occasione per legare insieme passato, presente e futuro, nel ricordo di un uomo la cui integrità era assolutamente incontestabile. La circostanza disturbò parecchio. Piovvero dichiarazioni di condanna e fioccarono persino denunce. Come si era potuto pensare di seppellire quel morto in quel modo? Ci sono cose, nel nostro paese, che non si devono fare. Scoperchiare l’infernale pentola della storia, come la chiamava Marx, può essere pericoloso.
Infatti la storia è un campo di battaglia. E lo è nel duplice senso di mostrarsi come terreno di lotta fra le classi tanto nel suo svolgimento, quanto nella sua ricostruzione postuma. Questo assunto, o se si vuole questa cruda verità, emerge nel modo più chiaro quando si parla degli anni Settanta italiani. A distanza di parecchi decenni, risulta evidente l’importanza politica e la vastità sociale del conflitto che vi si produsse fra il proletariato e la borghesia. Ma non per caso, dopo tutto questo tempo, le polemiche infuriano ancora senza esclusione di colpi, inscenando sempre lo stesso copione: il rifiuto, da parte della classe dominante, di ammettere che il proprio potere venne messo in discussione da una nuova generazione di comunisti, radicata nella società e intenzionata a dare senso concreto alla parola rivoluzione.
È senz’altro una coazione a ripetere. Una ossessione che talora (come nel caso della cosiddetta dietrologia) raggiunge i limiti del grottesco. Ma non dobbiamo stupirci. Corrisponde a un bisogno profondo della borghesia, concepire se stessa come classe universale e come ultima parola della storia. La miseria, le guerre e i fascismi che il suo sistema sociale ha prodotto e produce, non contano. La borghesia espone orgogliosa le sue costituzioni, indifferente alle palesi contraddizioni fra le parole e i fatti. Naturalmente, il gioco salta quando gli oppressi prendono coscienza della loro effettiva condizione, mettendo in discussione in modo razionale e organizzato il capitalismo. È successo molte volte e succederà ancora. Per questo è utile leggere Un contadino nella metropoli. Perché è la storia di un uomo che ha vissuto fino in fondo dentro la sua classe. Perché è un capitolo di storia di una classe che, sapendo annodare i propri fili, ha lanciato e sostenuto sfide temerarie, disposta a ricominciare sempre daccapo.

Qui ha senso dire qualcosa su Prospero Gallinari. Con lui, la natura era stata generosa. Gli aveva dato coraggio, pazienza, saggezza e volontà. In cambio, dopo i trent’anni, si era presa un po’ di salute. Ma gli infarti e le ischemie non avevano piegato l’emiliano della bassa. Conservava senza sforzo il suo istintivo buonumore. E la coerenza, in lui, mostrava qualcosa di semplice e concluso. Non era testarda ostinazione. Non era arrogante protervia. In Prospero Gallinari, la costanza dei modi e delle idee traeva il suo senso da una scelta fatta per sempre. Senza rimpianti. Senza leggerezze. Con il respiro lungo del contadino. E con la responsabilità asciutta del comunista.
Sono caratteristiche esemplari. Oggi è lecito sottolinearlo, davanti all’arco di una vita che si presenta incastonata nel largo mattonato della lotta di classe. Gallinari era nato in una famiglia povera e aveva iniziato molto presto a lavorare. Era stato educato alla fatica e alla soddisfazione del pane guadagnato con le proprie mani. Ma in questa casa, e nella sua Reggio degli anni Cinquanta, aveva anche appreso un orgoglio superiore. Quello del proletariato cosciente. Quello di una classe potenzialmente dirigente che, nel sistema togliattiano dell’Emilia Rossa, vedeva i primi frutti della battaglia anti-fascista, forgiando l’edificio della via italiana al socialismo.
Toccò in sorte a Gallinari, e a molti altri come lui, di dover ridiscutere tutto. Ci furono strappi, fratture, accuse e delusioni. Il Partito Comunista Italiano appariva attardato e titubante davanti alla rottura del 1968. Un intero mondo batteva alle porte del neocapitalismo europeo, chiedendo assai più dell’equità, chiedendo semplicemente la rivoluzione.
Fu davvero un taglio netto. Ed esso restò, insieme al bagaglio precedente, un patrimonio personale di Prospero, evidentissimo nel suo modo di essere. Si può detestare il burocrate senza predicare l’indisciplina. Si può contrastare l’ipocrisia senza cedere all’individualismo. La scuola del comunismo emiliano, con i suoi termometri ampi, non fu mai rinnegata da Gallo, che rifuggiva spontaneamente dai settarismi e dalle manie estremistiche della piccola borghesia. Ma la necessità delle rotture, del saper camminare anche in pochi, di andare controcorrente, rimase sempre vigile in lui, nutrendo una idea di avanguardia che aveva il gusto del destino accettato e compreso.
Non a caso, Prospero Gallinari portò tutta la sua determinazione nelle Brigate Rosse. In questa organizzazione riversò l’insieme delle sue convinzioni: il senso del partito, la mentalità guerrigliera, l’etica di una generazione che pensava in modo internazionale e non aveva paura di tagliare i ponti dietro sé. Le Brigate Rosse erano senz’altro, per lui, il duro strumento di una battaglia radicale. Ma costituivano anche una comunità di uomini e donne uniti da una scelta di vita, dove mettersi alla prova ogni giorno di nuovo. Cambiare la targa di una automobile rubata, partecipare al sequestro di Aldo Moro, stilare un documento politico, o pulire la cella di un carcere speciale, erano compiti che assolveva con la stessa anti-retorica, e spesso ironica, dedizione. Era in grado di imparare, e di ammetterlo senza alcuna difficoltà, dal compagno più inesperto di lui. Era in grado di aiutarlo con brusca delicatezza, indovinando il lato umano del problema.
Non stiamo esagerando. A Gallinari le esagerazioni non piacevano. Stiamo solo parlando dell’uomo, del militante, del brigatista. Alle Brigate Rosse egli diede interamente se stesso, con la naturalezza dei doveri elementari. Ne seguì per intero la parabola. Ricusò ogni compromesso. Scansò ogni facile presa di distanza.
Perché a lui, come a tanti altri rivoluzionari prima di lui, venne incontro la sconfitta. E proprio nella sconfitta Prospero ebbe virtù particolari, un atteggiamento che merita di essere ricordato. Non coltivò sdegnosi personalismi. Non si negò alla discussione con chi ignorava il particolare contesto degli anni Settanta. Il suo cruccio era la trasmissione autentica di un patrimonio di esperienze alle nuove generazioni. Per questo, alieno come risultava da ogni vittimismo, sollecitò fra i movimenti una battaglia a favore della liberazione dei prigionieri politici. E per questo, lontano come era da ogni protagonismo, spiegò ovunque gli fu possibile il senso di una vicenda che veniva calunniata a colpi di dietrologie, di deformazioni interessate, di chiassosi o più sottili schematismi.
Sì, Prospero Gallinari era un comunista che, volendo usare parole grosse, sapeva rispettare la superiorità immanente della storia. Ma sapeva anche che questo orizzonte non comporta un lieto fine assicurato, e tutta la sua vita si è spesa al servizio di una scommessa da impegnare ogni volta di nuovo, negli esperimenti sempre diversi dell’azione collettiva.

Parliamo infine del libro. Il lettore di Un contadino nella metropoli ha davanti a sé una successione ragionata di ricordi. Sono ricordi essenzialmente politici. Eppure non manca l’at- tenzione alle cose della vita, ai tanti significati dell’esistenza quotidiana. Non si tratta del semplice rimpianto del militante o del prigioniero per la privazione degli affetti privati, e dei colori e dei suoni del mondo. Si tratta del rapporto con la terra e con l’aria, della relazione con il susseguirsi delle stagioni, della misura ereditata dalla manualità collettiva del lavoro contadino. In Gallinari tutto questo era radicato nell’animo, e non si era affatto smarrito nel suo viaggio dentro la metropoli. Ne derivava una speciale schiettezza. Una schiettezza niente affatto ingenua che il lettore del libro incontrerà fra le pagine, dove l’uomo, il militante e il dirigente politico riescono a parlare senza orpelli e narcisismi, con una lingua netta e sincera, che rende il ricordo prezioso, consegnandolo alla storia.
Si parla infatti molto spesso, e anche con ragione, dei limiti e dei pericoli della memorialistica. Per le Brigate Rosse ce n’è stata tanta, forse troppa, anche perché l’interdetto scagliato dalla classe dominante sul dibattito storico-politico ha consegnato al racconto, al referto individuale, alla narrazione più o meno veritiera delle esperienze vissute, una funzione di supplenza non sempre positiva. Solo ora alcuni storici cominciano a mettersi in moto con le dosi minime di competenza. E in ogni caso si avverte la mancanza di uno sguardo generale, di uno sguardo complessivo capace di collocare la vicenda della lotta armata dentro l’ampio spazio delle lotte di classe italiane e europee degli anni Settanta, nonché dentro la vicenda più generale del comunismo storico, di cui le Brigate Rosse fanno parte a pieno titolo.
Ecco, forse questo è il contributo più importante che Un contadino nella metropoli fornisce sia al lettore curioso, sia a quello militante, sia infine allo studioso al lavoro sul materiale della storia. Le Brigate Rosse sono state una organizzazione rivoluzionaria e comunista. Sono nate nella classe operaia, con l’esplicito obiettivo di trovare una strada per la conquista del potere politico nelle nuove condizioni create dal capitalismo e dalla situazione mondiale del secondo dopoguerra. Hanno incontrato e provato a risolvere i problemi classici del marxismo rivoluzionario. Hanno dovuto inventare, ma lo hanno fatto dentro un solco più lungo e più ampio della loro esperienza. Hanno scritto e teorizzato, ma il loro pensiero si riallacciava a un dibattito internazionale che andava ben oltre i confini italiani, puntando a riattivare i temi del leninismo nel paese del Biennio rosso, della Resistenza antifascista, del Sessantotto studentesco e del Sessantanove operaio.
Non era un compito facile, e il libro di Prospero Gallinari offre molti spunti per comprendere sia i meriti sia i limiti delle Brigate Rosse. In ogni caso, il suo autore non cerca sconti. Non gioca a fare il duro. Nemmeno scarica colpe sull’epoca, sulle ideologie, sulla tenaglia del Novecento irretito dai doveri totalizzanti. Semplicemente, Gallinari restituisce l’orgoglio della forza e dell’unità, il dispiacere per le divisioni e le scissioni, le domande che una storia collettiva ha posto a se stessa, lasciandole in eredità alle generazioni successive.
Dopodiché non è lecito illudersi. Sentiremo ancora dire che Prospero è stato solamente un assassino, e non avremo risposte facili, perché certamente egli ha usato la violenza contro chi considerava nemico della sua gente. Leggeremo fino alla nausea che ha incarnato il prototipo del militante fanatico, e non potremo svicolare, perché senza dubbio egli aveva rinunciato alla comoda perfezione degli animi imparziali.
La verità è che in questo mondo fatto di oppressione e di dolore, Prospero Gallinari aveva preso in parola il comunismo fin da ragazzo, e ha lasciato almeno il morso dei suoi denti sulla mano che ci percuote da millenni. È un vanto del proletariato saper produrre individui simili, perché è su questi indispensabili, come li chiamava Brecht, che riposa la possibilità di oltrepassare un giorno i confini della società borghese.

Gennaio 2023

Le compagne e i compagni di Prospero

La polizia della Storia tra Kafka e l’angoscia della realtà

Recensioni – La Polizia della storia, la fabbrica delle fake news dall’affaire Moro, Paolo Persichetti, Deriveapprodi aprile 2022, pp. 281


Vincenzo Morvillo, 14 dicembre 2022 Contropiano

«Qualcuno doveva aver diffamato Josef K. perché, senza che avesse fatto nulla di male, una mattina venne arrestato». Si tratta, com’è noto, del celebre incipit de Il Processo di Franz Kafka.
E queste parole ci tornano alla mente sin dalle prime righe di La Polizia della Storia, il libro-denuncia scritto dal compagno ed amico Paolo Persichetti:

«La mattina dell’8 Giugno, dopo aver lasciato i miei figli a scuola,sono stato fermato per strada da una pattuglia della Digos e scortato nella mia abitazione, dove ad attendermi c’erano altri agenti appartenenti a tre diversi servizi della Polizia di Stato: Direzione Centrale della Polizia di Prevenzione, Digos e Polizia Postale».

Da quel momento, la vita di Paolo si è trasformata in una traslazione realistica e angosciante della vicenda di Josef K, narrata dallo scrittore praghese.
Accusato in prima istanza di “associazione sovversiva”, senza che abbia messo in atto alcuna azione tesa al sovvertimento dello Stato.
Poi, di aver divulgato fantomatico “materiale secretato” della Seconda Commissione Moro: materiale che secretato non era, considerato che le bozze delle diverse relazioni stese dalla Commissione circolavano tra le redazioni dei giornali e che tutta la documentazione dell’inchiesta era destinata alla divulgazione pubblica.
Infine, di “favoreggiamento” per aver tenuto contatti con ex brigatisti – nella fattispecie Alvaro Loiacono che a sua volta conversava con Alessio Casimirri – condannati per il sequestro Moro oltre quarant’anni fa.
Il primo ha scontato la pena in Svizzera in quanto cittadino elvetico. Il secondo è fuggito in Nicaragua fin dall’inizio degli anni ’80, dove vive  da uomo libero.
Il primo ha scontato la pena in Svizzera in quanto cittadino elvetico. Il secondo è fuggito in Nicaragua fin dall’inizio degli anni ’80, dove vive  da uomo libero.
Ex Br oramai settantenni, che Persichetti utilizza come “fonti vive” per il suo lavoro di ricercatore e storico. Ma che per la Polizia della Storia e per la Magistratura italiana altro non sarebbero che sovversivi “in servizio attivo” che Paolo starebbe “favorendo”, passando loro informazioni.
Ex Br oramai settantenni, che Persichetti utilizza come “fonti vive” per il suo lavoro di ricercatore e storico. Ma che per la Polizia della Storia e per la Magistratura italiana altro non sarebbero che sovversivi “in servizio attivo” che Paolo starebbe “favorendo”, passando loro informazioni.
Informazioni di cui, naturalmente, l’intera cittadinanza italiana può venire a conoscenza, semplicemente con un click su Google.
Una trama grottesca e surreale, come quella del kafkiano processo intentato ai danni di Josef K.
Ed infatti, a Persichetti, nel narrare la sua assurda vicenda – nella prima parte del libro – non difettano toni ironici e sarcastici, indirizzati agli organi repressivi e di prevenzione di uno Stato che, francamente, si fa fatica a definire “democratico”.
Organi inquirenti, repressivi e di prevenzione i quali, più che individuare una fattispecie di reato, sembrano andare all’astratta ricerca di una qualsivoglia colpa da addebitare a Paolo. Una colpa che andrebbe ricercata, ça va sans dire, tra le carte e i documenti del suo archivio.
Archivio nel quale, tenetevi forte, sarebbe celato l’ultimo dei misteri sul Caso Moro. La madre di tutte le cospirazioni. La Verità di tutte le Verità.
Difficile evitare un po’ di sarcasmo nei confronti dell’azione di Polizia e Magistratura, leggendo le pagine in cui Paolo racconta questa sua surreale vicenda.
Come quelle in cui scrive del modo in cui gli inquirenti siano addirittura arrivati a clonare il cellulare dell’avvocato Davide Steccanella. Importante penalista meneghino, scrittore, autore di un corposo volume sulla storia della lotta armata in Italia, difensore di Cesare Battisti, Steccanella si è trovato intercettato sol perché in contatto con Persichetti.
Come quelle in cui scrive del modo in cui gli inquirenti siano addirittura arrivati a clonare il cellulare dell’avvocato Davide Steccanella. Importante penalista meneghino, scrittore, autore di un corposo volume sulla storia della lotta armata in Italia, difensore di Cesare Battisti, Steccanella si è trovato intercettato sol perché in contatto con Persichetti.
Conclusione, come scrive lo stesso Paolo: «Digos e Polizia di Prevenzione ascoltavano le nostre conversazioni telefoniche che riferivano al Pm. Per tutti quei mesi, l’intera strategia difensiva costruita dall’avvocato Steccanella è stata intercettata permettendo alla Procura di conoscerla in anticipo ed entrare nei segreti della difesa».
Tecniche da Stato totalitario. Strategie da Stato di Polizia. Vietate espressamente da ogni codice di procedura, perché invalidano ogni possibile difesa giudiziaria; ossia legale.
Altro che Urss e Ddr, Le vite degli altri sono qui. Sono le nostre!

La seconda parte del libro, volutamente più rapsodica, discontinua, non sempre coerente sul piano formale, ma disseminata di notizie fondamentali, dettagli storiografici significativi ed essenziali spunti di riflessione, è interamente dedicata al cosiddetto Caso Moro.
Paolo sembra voler dar fondo a tutta la sua intensa attività di ricerca, sembra quasi grattare la crosta della memoria per riversare sul foglio ogni micro-frammento storiografico riguardante quella vicenda.
La sua ci appare un’opera di resistenza e di sfida democratica ad istituzioni totalitarie, che vorrebbero mettere il bavaglio a lui e alla Storia.
Istituzioni orwelliane che pretenderebbero di tacitare la libera espressione del pensiero, soprattutto se essa riguarda un passato che il Potere deve necessariamente porre nell’oblio dei tempi.
Pena il riconoscimento politico di una forza rivoluzionaria che mise in crisi le fondamenta stesse dello Stato borghese.
Ricercatore e Storico, Paolo è dunque vittima, dal giugno 2021, di un attacco concentrico e senza precedenti, portato da Polizia di Prevenzione, Digos e magistratura inquirente, contro la sua persona e la propria famiglia.
Il sequestro di tutto il materiale documentale, dell’archivio, delle fonti storiografiche, dei dispositivi elettronici e addirittura delle cartelle cliniche riguardanti Sirio, il figlio tetraplegico di Paolo e della compagna Valentina Perniciaro – anch’essa non risparmiata dal sequestro – costituiscono un intollerabile attentato alla libertà personale e alla ricerca storiografica, sciolta dai vincoli oppressivi imposti dal pensiero dominante.
Un attacco repressivo, il cui unico scopo “razionale” sembra quello di mettere il guinzaglio all’attività di ricostruzione della Verità storica – che Paolo conduce tenacemente da anni, insieme ad altri validi studiosi – incentrata sull’insorgenza degli anni ’70 e sul più clamoroso evento rivoluzionario, messo a segno da una organizzazione guerrigliera nel cuore dell’Occidente capitalista: il rapimento del Presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro, ad opera delle Brigate Rosse.
Un evento che, da quaranta e più anni, è diventato la pietra angolare per la costruzione di una narrazione artificiosa della Repubblica Italiana, da cui viene espunto il conflitto di classe e completamente cancellato il quindicennio che – dall’inizio degli anni ’70 alla prima metà degli anni ’80 – ha visto un’intera generazione sollevarsi, anche in armi, contro il regime democristiano, lo Stato, la cultura borghese e contro il modello produttivo del Capitale imperante.
Un attacco repressivo, insomma, per continuare ad imporre una narrazione mistificante, preda del senso di colpa e dei deliri auto-vittimizzanti escogitati, dopo la morte di Moro, dagli ex dirigenti di Pci e Dc.
Una narrazione costruita a tavolino, con il piglio ottuso dell’ossessione cospirazionista, da parte di politici di basso profilo ma con l’ambizione di apparire, come il senatore Sergio Flamigni, il presidente della Seconda e inutile Commissione Moro – Giuseppe Fioroni – il senatore Gero Grassi.
Narrazione perpetuata anche da parte di magistrati posseduti dall’ideologia del complotto.
Da parte di “storici” al servizio di un partito. E di una pletora infinita di giornalisti – un paio di generazioni almeno, con poche ma molto apprezzabili eccezioni – tutti attratti dai facili guadagni (le “consulenze” con la trentennale “commissione parlamentare di inchiesta”), nonché dalla notorietà che la stesura di un libro o un surreale docufilm, infarciti di dietrologia sull’affaire Moro, hanno fin qui garantito.
Una narrazione, infine, il cui vero obiettivo è di natura eminentemente politica: il controllo dalla memoria collettiva rispetto a quel passato rivoluzionario, allo scopo di ipotecare presente e futuro.
Un presente e un futuro che – il potere spera – non abbiano mai più a confrontarsi con genuine aspirazioni o istanze di sovversione e di conflitto, contro l’impero della merce e del profitto. Contro il conformismo dell’intelletto e dell’anima. Affinché sia il Capitale l’unico orizzonte di senso.
Il libro di Paolo, come dicevamo, è quindi un coraggioso atto di testimonianza e di resistenza personale contro tutto questo.
E contro la repressione storiografica preventiva messa in campo dallo Stato Italiano.

 * Il libro sarà presentato a Napoli, presso i locali del Civico7 Liberato, Giovedì 15 Dicembre, a partire dalle ore 18:30. Saranno presenti, con l’autore, il giornalista Fulvio Bufi (Corriere della Sera) e l’avvocato penalista Biagio Gino Borretti. Introduzione di Vincenzo Morvillo, della redazione di Contropiano

Esterno notte, l’ex Br Persichetti: «Bellocchio scrive il romanzo del potere Dc»

«Per il regista il brigatismo è una nevrosi»
15 novembre 2022 https://www.adnkronos.com

Bellocchio scrive «il romanzo del potere Dc», disegna «il ritratto di un interno di Regime» in una «introspezione del mondo democristiano abbastanza riuscita» mentre non comprende il brigatismo, raccontato come «una nevrosi» e vissuto come «una ingiustificata eresia del comunismo». Così l’ex Br Paolo Persichetti, autore di libri e inchieste sul caso Moro, commenta all’Adnkronos Esterno notte, la serie di Marco Bellocchio che sta andando in onda su Rai 1 (stasera la seconda puntata e il 17 l’ultima).

«La scelta iniziale di mostrare cosa sarebbe stato il piano Victor con Moro rinchiuso in una clinica che riceve la visita dei maggiorenti democristiani, Andreotti, Cossiga e Zaccagnini, e la voce fuoricampo che legge il brano contro la Dc mi è sembrata una scelta autoriale molto azzeccata – osserva Persichetti – Non è funambolica e sognatrice come il Moro che passeggia libero di ‘Buongiorno, notte’ ma intrisa di verità storica. Quel piano era stato predisposto e quelle parole Moro le ha scritte per davvero». L’ex Br è colpito anche dalla scena in cui Cossiga conversa con il professor Ferracuti, membro di spicco del comitato di crisi che al Viminale gestì la strategia del governo sul sequestro. «Bellocchio fa mostra di una perfidia sottile – sottolinea – nella scena Ferracuti spiega che alla notizia del sequestro i nevrotici esultano diversamente da paranoici e psicopatici. Se stiamo a queste categorie aggiungerei che gli psicopatici erano i fautori della linea della fermezza e i paranoici i complottisti».

Persichetti, da vero e proprio esegeta del caso Moro, di cui ha provato a ricostruire la dinamica in anni e anni di ricerche, riconosce nella fiction «alcune imprecisioni di dettaglio». Per esempio, spiega, «non è vera la descrizione del primo controllo di polizia in via Gradoli. Non era una ispezione di massa ma un controllo discreto, una verifica alla porta: i Br non erano in casa e mai seppero di quell’episodio altrimenti avrebbero subito smobilitato la base».

L’ex brigatista contesta anche «qualche sorvolo di troppo sulla figura di Berlinguer, poco approfondita, e del Pci in generale il cui ruolo fu decisivo per osteggiare la liberazione di Moro in quei 55 giorni». Anzi, sottolinea, «sarebbe ora che si raccontasse quello che loro si dicevano nelle riunioni di Direzione, e la reazione brutale davanti alla scelta di Moro di cambiare la lista dei ministri del nuovo governo cancellando i tre indicati dal Pci».

Al di là di queste osservazioni, tuttavia, «il giudizio su queste due prime puntate non è negativo – dice – Bisogna vedere il resto, anche se già si comprende che il racconto del movimento del 77, delle Br e delle figure militanti in generale resta sullo sfondo, fatto di figure caricaturali, sfocate, mai sapientemente approfondite. Non si capisce perché Moro viene rapito, chi erano i brigatisti, da dove venivano, come e perché sono arrivati a tanto? Il problema sta nella poca curiosità di Bellocchio, disattenzione e pregiudizio forse legati alle incrostazioni del suo passato dottrinario di militante maoista che percepiva le Brigate rosse come una ingiustificata eresia del comunismo». E poi, aggiunge, «le frequentazioni con lo psicoterapeuta Massimo Fagioli lo portano a categorizzare il brigatismo come una nevrosi».

«Al contrario i ritratti dei politici Dc sono efficaci, veritieri e penetranti sia nella dimensione politica che in quella personale e privata, molto triste. Una introspezione del mondo democristiano abbastanza riuscita. Fin qui è un romanzo del potere Dc, ritratto di un interno di Regime», sottolinea ancora Persichetti, che annota: «Micidiale la frase rivolta al Pci messa in bocca a Cossiga dopo l’arrivo della lettera che Moro gli aveva indirizzato: ‘Loro gli stanno già facendo il funerale e noi li seguiamo con i ceri accesi’. Che poi è il riassunto di quello che accadde nei 55 giorni».

Roma di piombo “diario di una lotta” (Sky TV)

Recensione – Un documentario di cinque puntate trasmesso da Sky ricostruisce l’attività di contrasto condotta dal giugno 1978 fino al 1989 da parte della Sezione speciale dei carabinieri della Capitale contro la colonna romana delle Brigate rosse

Davide Steccanella

Documentario in 5 puntate (ideato da Paolo Colangeli, scritto da Michele Cassiani con Egilde Verì e regia di Francesco Di Giorgio), tratto dal libro “Il lungo assedio” (Melampo editore) scritto dall’ex colonnello dei carabinieri Domenico Di Petrillo per ricostruire con interviste e immagini d’epoca come il Nucleo speciale, istituito dopo il sequestro Moro su indicazione del Generale Dalla Chiesa, riuscì ad arrestare la gran parte dei brigatisti rossi della colonna romana in un periodo che va dal 1980 al 1989.
Si apprende così, dalla viva voce dei protagonisti diretti di quella storia, che tutto partì a seguito dell’omicidio genovese di Guido Rossa del 24 gennaio 1979 allorché l’allora PCI di Berlinguer decise di collaborare attivamente con le forze dell’ordine per combattere più efficacemente quella che, visti i numeri e il senno di poi, può essere definita una vera e propria guerra in corso e che infatti ci vorranno altri dieci anni per poterla dichiarare storicamente chiusa con l’arresto (o la fuga all’estero) di tutte le migliaia di militanti armati di quegli anni.
Fu il Colonnello Bonaventura del Nucleo di Milano a fornire ai colleghi romani, che ai tempi – va detto – brancolavano nel buio più totale, una sorta di “infiltrato” sui generis, che verrà soprannominato “Fontanone”, il quale aveva contatti con alcuni militanti del movimento romano, e che venne fotografato da un furgone camuffato in vari incontri con diversi soggetti dell’estrema sinistra capitolina, fino a quello con un tizio corpulento che nella primavera del 1980 il noto pentito Patrizio Peci individuò come “un judoka della colonna romana”.
Ricercando negli elenchi delle varie palestre romane si arrivò ad identificarlo in Francesco Piccioni, seguendo il quale venne fotografato un incontro in un ristorante periferico con altri tre militanti importanti della colonna (Laura Braghetti, Salvatore Ricciardi e Renato Arreni). Nel maggio del 1980 scattò dunque un blitz in cui il 27 venero arrestati Braghetti e Ricciardi in un Bar nel centro di Roma (insieme a Gianantonio Zanetti, ex militante delle Formazioni Comuniste combattenti di Corrado Alunni) e il 10 giugno Piccioni nella base di via Silvani 7. Fra pedinamenti falliti e interventi talvolta intempestivi alternati ad arresti significativi che si protrarranno per poco meno di 10 anni – mentre nel frattempo l’intero Paese metteva da parte un periodo storico ventennale socialmente, prima ancora che politicamente, concluso ancora agli inizi degli Ottanta “da bere” – il documentario si sofferma in particolare su quattro importanti operazioni di polizia ripartite nel tempo. 1) l’arresto nel 1987 (fotografando Paolo Persichetti vicino a una cabina telefonica) di tutti i militanti che nel 1984/85 avevano formato un nuovo gruppo armato (Unione Comunisti Combattenti) che si era reso responsabile il 21 febbraio 1986 dell’attentato a Antonio Da Empoli – nel corso del quale era stata uccisa la militante Wilma Monaco -, nato in dissenso dalle BR del Partito Comunista combattente (a sua volta divisosi dal Partito Guerriglia fondato nel 1981 da Giovanni Senzani e che era stato interamente sgominato nel 1982), 2) l’arresto il 19 giugno del 1985 a Ostia di Barbara Balzerani (fotografata mentre si incontrava con il pedinato Gianni Pelosi), 3) l’arresto il 25 gennaio 1988 di Antonino Fosso, ritenuto uno dei principali dirigenti della colonna che aveva compiuto gli omicidi Tarantelli, Conti e la sanguinosa rapina del 14 febbraio 1987 in via Prati di papa in cui erano morti due agenti e infine 4) il blitz del 7 settembre del 1988 contro i militanti ritenuti responsabili dell’ultimo omicidio targato BR, quello del senatore democristiano Ruffilli a Forli del 12 maggio 1988, che determinerà una pubblica dichiarazione del 23 ottobre dei brigatisti in carcere in un documento a più firme (tra cui quelle di Gallinari, Piccioni e Seghetti), dove si afferma che le Brigate Rosse coincidono con i prigionieri politici delle Brigate Rosse, perché spiega nel documentario Piccioni: “Non potevamo lasciare, in un Paese abituato ai complotti e ai misteri, che altri che non c’entravano con la nostra storia usassero quel ‘marchio’”, anche se l’anno dopo verrà effettuata, il 5 settembre 1989, un’ultima operazione in Francia coordinata con la locale gendarmeria con l’arresto dei brigatisti residui.

I principali membri di quel nucleo speciale raccontano a distanza di 40 anni quel periodo vissuto, dicono, in clandestinità come i loro obiettivi, e i disagi familiari che tutto ciò ha comportato anche attraverso il ricordo delle loro mogli, e a mitigare la ricostruzione palesemente fatta da una parte sola delle due in contesa, il documentario offre lunghe interviste anche a due ex brigatisti, Francesco Piccioni e Paolo Persichetti, che hanno modo così di raccontare anche la loro storia dall’altra parte. La scelta dei due, probabilmente dettata anche dal fatto che altri si sono rifiutati di partecipare, si rivela azzeccata e in certo senso spiazzante, immagino, per chi dovesse vedere il documentario senza una adeguata preparazione storica su quel periodo oppure condizionato dalla “vulgata” che ce lo ha raccontato, perché i due ex sbaragliano ogni ritratto tipo che fino ad oggi ci era stato tramandato sul “terrorista, feroce assassino”. Piccioni è un interlocutore di rara empatia e arguzia romana che tutto sembra tranne che un mostro impunito e Persichetti ha una pacatezza da intellettuale e storico nel raccontare, e soprattutto spiegare, i fatti, che è impossibile non riflettere su quanto dice anche se non necessariamente condividerlo. Anche il finale è un po’ spiazzante, perché dopo avere decantato per 5 puntate i meriti di quei carabinieri oggi in pensione, comprensibilmente orgogliosi di quanto a suo tempo fatto “per servire il proprio paese”, si coglie in loro una certa amarezza di fondo nelle dichiarazioni conclusive su quanto poi è accaduto nei successivi 40 anni in Italia “Un Paese che oggi non mi rappresenta molto”, dice uno di loro e persino i coniugi Di Petrillo si lasciano andare a riflessioni tipo “era uno scontro generazionale anche noi avevamo la loro età ed eravamo come loro pieni di ideali”, dice lui, e “molti dei loro ideali li condividevo anche io”, dice lei.
Insomma, l’onore delle armi riconosciuto agli sconfitti al termine di una guerra vinta e questo credo sia il messaggio più importante di questo lavoro perché, come dice Piccioni “quando c’è una guerra il nemico o lo uccidi durante il conflitto o dopo che si è conclusa trovi una soluzione per i tanti prigionieri per dichiarare chiusa una fase di Storia”, e invece, come si è potuto vedere anche in casi recenti di assurde polemiche sul regime di cella di detenuti anziani per fatti commessi oltre 40 anni fa, l’Italia quella guerra non l’ha mai voluta chiudere, preferendo semplicemente negare che ci fosse stata.

«Da 12 mesi i miei archivi in mano alla polizia della Storia e al complottismo…»

Paolo Persichetti, ex militante delle Br-Ucc, oggi storico e ricercatore, è accusato di aver diffuso documenti riservati della Commissione Moro 2: se le perizie hanno smontato la tesi dei Pm perché il materiale delle sue ricerche rimane sotto sequestro?

Daniele Zaccaria, Il Dubbio 9 giugno 2022

Sono passati 12 mesi da quando la procura di Roma gli ha sequestrato archivi cartacei, computer, telefoni, tablet, pieni di email, foto, video in larga parte materiale privato di nessuna rilevanza che giace ancora nelle mani degli inquirenti. Paolo Persichetti, ex militante delle Br-Ucc, oggi apprezzato storico e ricercatore, avrebbe diffuso documenti riservati della Commisione Moro 2 allo scopo di favorire, non si sa in che modo, dei latitanti. Le indagini non hanno confermato nessuna delle accuse, al contrario le perizie dei file hanno escluso che si trattasse di materiale sottoposto a segreto, ma Persichetti non ha ancora avuto indietro i suoi file. Convincendosi che lo scopo del sequestro non sia accertare le accuse, ma ostacolare con ogni mezzo il suo lavoro storiografico sugli anni di piombo, la sua lotta incessante contro le dietrologie, contro le ricostruzioni fantasy e i complottismi sul sequestro Moro puntualmente smentite dai fatti ma che continuano a titillare ampi settori della politica, della magistratura e degli apparati di sicurezza dello Stato. Tesi ben illustrate nel suo ultimo, documentatissimo libro, La polizia della storia. La fabbrica delle fake news nell’affaire Moro, pubblicato da Derive e Approdi. «La polizia della Storia non è soltanto una metafora suggestiva, ma un fatto concreto: in Italia ci sono poliziotti che indagano in carne e ossa sugli archivi, che presidiano la memoria e decidono su cosa si possa o no fare della ricerca, è assurdo!».

Perché questo accanimento?
Credo che questo sia tutto un pretesto, il vero problema è che vogliono il mio archivio e tenerselo il più tempo possibile per bloccarmi e intralciare il mio lavoro di ricerca, magari nell’idea di non restituirmelo mai più per neutralizzarmi del tutto. Non vedo altra ragione: dopo un anno sono crollate tutte le accuse, la perizia, ripeto, ha stabilito che non c’è nulla di rilevante, il teorema come si capiva fin dall’inizio, era del tutto infondato.

Cosa sosteneva il “teorema”?
Che io avessi trasmesso ad altre persone del materiale riservato della Commissione Moro 2, in particolare la bozza della prima relazione annuale che non è un atto riservato nemmeno per i criteri interni della Commissione, ma un documento politico destinato ad essere pubblico che deve essere votato ed emendato. Siamo nel campo di interpretazioni infondate. La bozza è stata utilizzata come espediente per cercare nel mio archivio documenti davvero riservati ma non li hanno trovati perché semplicemente non ci sono, non li ho mai avuti e non ne ho accesso.

Quale sarebbe stata la finalità?
Siamo nel cuore del teorema : mi hanno accusato di favoreggiamento, ossia avrei svolto una sorta di attività di intelligence, appropriandomi di atti riservati e avrei condiviso il materiale con due latitanti, allo scopo di favorire la loro latitanza. Stiamo parlando di persone latitanti da oltre trent’anni, dai tempi in cui ero minorenne, peraltro uno di loro, Alvaro Lojacono ha già scontato la sua pena, mentre con l’altro, Alessio Casimirri, non ho mai avuto contatti, non ci ho mai parlato. E infatti non è stata agomentata nei miei confronti nessuna ipotesi accusatoria, ma solo un generico favoreggiamento. La cosa surreale è che tutto nasce dalle “recensioni” della polizia di prevenzione (l’ex Ucigos n.d.r) che ha letto le bozze del libro sulla storia delle Brigate rosse a cui ho partecipato, trovandole sospette.

In che senso “recensioni”?
Secondo i funzionari della polizia di prevenzione, che svolgono sia attività di intelligence che di polizia giudiziaria, nelle mie carte ci sarebbero tesi che non corrispondono agli esiti processuali. Inoltre sostengono che nelle mie mail sarebbero citati episodi e fatti che poi non ho inserito nel libro e questo giustificherebbe il presunto favoreggiamento. È ridicolo.

A quali fatti si riferiscono?
Alla via di fuga del commando brigatista che ha sequestrato Moro e al secondo furgone, che avrebbe dovuto entrare in scena nel caso le cose fossero andate male e di cui si occupò Lojacono, ma che non fu mai utilizzato. Se io scopro dei dettagli che non erano emersi nei processi ma lo faccio senza avere elementi tali da riempire una pagina di storia, a causa di testimonianze incongruenti e contrasti di memoria, è mia responsabilità di ricercatore non pubblicarli, è una questione di serietà. E stiamo parlando di un aspetto del tutto secondario di cui nessuno si è mai interessato fino ad ora. Coinvolgermi in questa vicenda fa parte della narrazione dietrologica sul caso Moro che circola da almeno trent’anni senza mai trovare riscontri nella realtà.

È molto difficile fare lavoro storiografico in queste condizioni?
Il problema principale è che c’è una sovrapposizione tra l’indagine della procura e le vecchie e mai dimostrate tesi dietrologiche e cospirazioniste sull’affaire Moro, trovo questo aspetto sconcertante. Soprattutto da quando, con le direttive Prodi e Renzi, sono stati resi pubblici gli archivi, un tempo monopolio della magistratura e dei consulenti delle commissioni, tutti personaggi lottizzati. È finita l’epoca in cui i documenti venivano citati a rovescio o a metà o con le sequenze sbagliate, oggi i ricercatori possono verificare tutto e questo ha prodotto un nuovo lavoro storiografico che smonta le narrazioni costruite fino ad oggi e questo fatto evidentemente dà fastidio. Al punto da creare il cortocircuito di cui parlavo.


E sembra ancora più difficile farlo sugli anni di piombo, ancora oggi un campo minato.
Se oggi qualcuno compie un lavoro di ricerca e di memorialistica sul ventennio fascista viene considerato uno storico, se invece lo fai sugli anni 70, sulla lotta armata, si parla di attività di propaganda se non addirittura peggio. Ho sentito persino l’incredibile definizione di “banda armata storiografica”.


C’è però anche un elemento personale, che riguarda la biografia dell’autore.
Certo, questo ahimé è un aspetto centrale: in sostanza non mi viene riconosciuto il fatto di aver scontato la pena e il diritto di poter svolgere ricerca storica su quegli anni. La conseguenza è che i miei studi non vengono considerati come una libera e disinteressata attività intellettuale, ma sarebbero un’ambigua opera di proselitismo, di favoreggiamento, di mantenimento di non si sa quali legami e quali vincoli associativi. Non avendo argomenti e non potendomi contestare sul merito subisco un attacco e una delegittimazione totale del mio lavoro di storico e della mia stessa persona. Non dovrei essere io a dirlo, ma trovo incredibile che in Italia non si parli di questa vicenda, di questa censura odiosa, del fatto che la polizia sequestri impunemente degli archivi e, pur non trovandoci dentro nulla, continui a tenerli sotto sequestro.

Analisi del complottismo intorno al «caso Moro»


Percorsi. «La polizia della storia» di Paolo Persichetti, per DeriveApprodi. Dal 5 maggio nelle librerie. Il volume è diviso in due parti: la prima ripercorre le varie tappe dell’inchiesta contro l’autore; la seconda raccoglie una serie di articoli riguardanti alcune delle molteplici “visioni” che accompagnano da più di quarant’anni il racconto delle vicende legate al rapimento e all’uccisione del presidente della Dc e della sua scorta

Marco Grispigni, il manifesto 3 maggio 2022

L’uscita in questi giorni del libro di Paolo Persichetti, La polizia della storia. La fabbrica delle fake news nell’affaire Moro (DeriveApprodi, pp. 277, euro 20), ci offre lo spunto per ritornare sulla vicenda giudiziaria di cui ci siamo già occupati sul manifesto. Il volume è diviso in due parti: la prima ripercorre le varie tappe dell’inchiesta contro Persichetti; la seconda raccoglie una serie di articoli pubblicati su giornali, riviste e siti web che smontano, con documenti e testimonianze, alcune delle molteplici fandonie che accompagnano da più di quarant’anni il racconto delle vicende legate al rapimento e all’uccisione di Aldo Moro e della sua scorta.

UN BREVE ACCENNO alla vicenda giudiziaria, ancora aperta dopo quasi un anno, è necessario. Il sequestro dell’archivio di studio e delle carte private di Paolo Persichetti viene giustificato con una accusa surreale: appartenenza a un’associazione sovversiva con finalità di terrorismo, formata nel 2015, di cui non si faceva il nome, non si conoscevano gli altri appartenenti, né tantomeno gli obiettivi. La roboante accusa si rivela solo un utile grimaldello per ottenere l’autorizzazione al sequestro dell’archivio e ben presto scompare, sostituita da quella di divulgazione di documenti riservati e di favoreggiamento.
Nel vero e proprio teatro dell’assurdo rappresentato da queste vicende emerge una novità inquietante per la quale si passa da Kafka a Orwell: l’esistenza di quella che Persichetti definisce come la «polizia della storia». Si scopre infatti che fra le tante attività di controllo del territorio degli apparati di sicurezza c’è anche quella di occuparsi delle interpretazioni storiografiche sui cosiddetti anni di piombo che si distinguono dalle versioni «ufficiali».
Nella Relazione sulla politica dell’informazione per la sicurezza per il 2019, infatti, nella parte che riguarda i «pericoli» interni si segnala che il Comparto intelligence ha rilevato «il proseguire dell’impegno divulgativo, specie attraverso la testimonianza di militanti storici e detenuti “irriducibili”, volto a tramandare la memoria degli anni di piombo» rivolto soprattutto a «un uditorio giovanile della composita area dell’antagonismo di sinistra». Non c’è che dire, una impeccabile interpretazione della ripetuta richiesta di una «storia condivisa». Versioni contrastanti si possono tollerare solo all’interno dell’accademia, siamo un Paese democratico; fuori solo «storia condivisa».

LE PAGINE SU DIFFERENTI aspetti della vicenda Moro vanno nella stessa direzione di quelle di altri studiosi, come Marco Clementi o Vladimiro Satta, a smontare l’incredibile mole di falsità che alimentano i cosiddetti «misteri» del caso Moro. Le interpretazioni complottistiche sulla drammatica vicenda Moro nascono già durante i 55 giorni del sequestro e poi divengono la lettura egemone di quegli avvenimenti. Dai libri di Flamigni fino ai lavori di Gotor una serie enorme di misteri si susseguono, puntualmente smentiti dalle carte processuali e dalle testimonianze, ma capaci di affermarsi ugualmente come un disperato rifiuto di accettare che un avvenimento enorme, il rapimento e l’uccisione del più importante uomo politico di quegli anni, possa essere spiegato esclusivamente all’interno delle vicende della lotta armata.
Negli ultimi anni la possibilità di accedere a numerosi documenti «desecretati» con le direttive Prodi e Renzi ha offerto nuovi e importanti fonti agli studiosi. Da questi archivi emergono documenti inquietanti sulle «frequentazioni» tra personaggi tristemente noti dell’eversione fascista, come Delle Chiaie o Zorzi, con i servizi e in particolare con l’Ufficio affari riservati guidato da Umberto D’Amato. Sempre a proposito dell’Uar ora sappiamo che fin dalla sera del 12 dicembre 1969 i suoi uomini presero nella Questura di Milano la guida delle indagini per la strage di piazza Fontana. C’erano loro in Questura anche la notte che Giuseppe Pinelli volò dalla finestra.

IN QUESTI STESSI ARCHIVI invece non emerge niente che possa sostenere i misteri del caso Moro, una direzione esterna delle Br, la presenza nell’organizzazione di infiltrati. Nonostante questo, la lettura complottistica del caso Moro persiste e continua a occupare le prime pagine dei giornali (ora con l’incredibile teoria dell’anagramma nelle lettere di Moro che avrebbe indicato l’indirizzo della sua prigione), mentre le notizie sulle stragi e l’uso dei fascisti restano confinate nei libri di storia «riservati» agli studiosi. Forse anche questa è l’idea di «storia condivisa».

Persichetti racconta la sua storia processuale in “La polizia della storia”

Recensioni – La storia del sequestro del suo archivio, la girandola di imputazioni, la caccia al reato inesistente, il tentativo di imbavagliare la ricerca storica indipendente, le ultime acquisizioni sul rapimento Moro, una critica serrata delle narrazioni dietrologiche, un bilancio spietato dei lavori della Commisssione parlamentare Moro 2, il tutto raccolto in un racconto avvincente e pieno di colpi di scena. Il 5 maggio nelle librerie, in prevendita su tutti gli store online

Frank Cimini, il Riformista 30 aprile 2022

La polizia della storia è il titolo di 281 pagine, editore Derive Approdi, 20 euro, in libreria dal 5 maggio con cui Paolo Persichetti racconta il suo caso che la dice lunga sulla qualità della nostra democrazia, dalla Prima Repubblica fino ai giorni nostri. Come se non fossero passati ben 44 anni dal sequestro e dall’omicidio di Aldo Moro, il fatto intorno al quale ruotano le parole del ricercatore che ormai quasi un anno fa subì i sigilli al suo archivio, il più pericoloso del mondo. E non ha ancora riavuto dall’8 giugno del 2021 “il maltolto” dove era compresa pure la certificazione medica di Sirio il figlio diversamente abile.
Paolo Persichetti combatte da anni la battaglia contro la dietrologia spiegando che il fenomeno non riguarda solo il passato ma il presente e il futuro di questo paese. Persichetti è coinvolto in una vicenda giudiziaria dove il capo di incolpazione ha subito cinque modifiche e visto l’eliminazione del reato più grave, l’associazione sovversiva finalizzata al terrorismo attraverso la violazione del segreto di carte della commissione parlamentare sul caso Moro che segrete non erano. L’inchiesta è coordinata dal pm Romano Eugenio Albamonte lo stesso che ha chiesto e ottenuto di prendere il Dna dei brigatisti condannati per via Fani e altre persone nell’ambito di una caccia a complici ulteriori veicolando il sospetto che servizi segreti nazionali e esteri avessero avuto un ruolo nella vicenda con cui la Prima Repubblica cominciò a morire.
“L’idea che la realtà sia qualcosa su cui si deve gettare luce perché dominata dall’ombra e dall’invisibile diventa il nuovo modo di giustificare una contronarrazione che si pretende autonoma libera e indipendente dai ‘poteri’ – scrive l’autore – È sconcertante questa idea di un passato fatto di misteri e segreti anziché di processi, rotture, trasformazioni, uno schema cognitivo che riporta ai tempi dell’Inquisizione…. L’idea che il mondo sia più comprensibile se visto dal buco della serratura di un ufficio dei servizi segreti piuttosto che dai tumulti che attraverso le strade e i luoghi di lavoro è il segno di una malattia della conoscenza. Attraverso la dietrologia si vuole veicolare l’idea che dietro ogni ribellione non c’è l’agire sociale e politico di gruppi umani ma solo un inganno, una forma di captazione, uno stratagemma del potere”.
Va ricordato che la dietrologia non è un fenomeno solo italiano. Basti pensare a quanto accaduto intorno all’11 settembre. Ma il nostro è per molti aspetti un paese almeno un po’ particolare perché il capo dei dietrologi sta al Quirinale fa pure il presidente del Csm che quasi ogni 16 marzo e 9 maggio insiste: “Bisogna cercare la verità”. Come se cinque processi non avessero accertato anche dalle deposizioni di “dissociati” e “pentiti” che dietro le Brigate Rosse c’erano solo le Brigate Rosse. “Esiste in questo paese un organismo che si chiama polizia di prevenzione il cui ruolo potrebbe finire pericolosamente per sorvegliare l’indagine storica se non addirittura per prevenirla segnando i paletti oltre i quali non è lecito inoltrarsi” scrive nella prefazione Donatella Di Cesare aggiungendo di “una gendarmeria della memoria che assenza una concezione poliziesca della storia narrata in bianco e nero, da una parte i buoni dall’altra i cattivi”.
“Il tratto di strada che il 16 marzo del 1978 vide alcuni operai scesi dalle fabbriche del nord insieme a dei giovani romani dare l’assalto al convoglio di auto che trasportavano l’onorevole Moro non trova pace. Questo fatto storico non è accettato ancora dai cultori del complotto, anzi dei ripetuti complotti di diversa natura e colore, tutti assolutamente reversibili che nei decenni si sono succeduti in perfetta antitesi tra loro” chiosa l’autore. E per questa ragione domenica 22 febbraio 2015 la zona fu sottoposta a scansione laser dalla polizia scientifica. I nuovi rilievi fecero emergere l’assenza di novità. In via Fani agirono le Brigate Rosse. Solo loro. Ma dirlo, riaffermarlo, ribadirlo è pericoloso. In pratica come dimostra la vicenda di Paolo Persichetti un reato.

Quando l’Italia dava asilo agli attentatori De Gaulle

Anticipazione – In uscita il 5 maggio nelle librerie e piattaforme online.
Si può prenorare fin da ora sul sito della casa editrice:
https://deriveapprodi.com/libro/la-polizia-della-storia/

Il 23 marzo 2022 sono riprese le udienze della Corte d’appello di Parigi incaricata di esaminare le nuove domande di estradizione presentate contro dieci ex anziani attivisti politici condannati per aver partecipato a gruppi armati della estrema sinistra degli anni 70. Nella serata di lunedì 28 marzo la rete televisiva pubblica francese France 2 ha trasmesso una inchiesta giornalistica all’interno di un format mensile di approfondimento, Affaires sensibles, dal titolo: «Brigate rosse, la fine dell’esilio?». Per circa 70 minuti gli spettatori d’Oltralpe hanno visto scorrere immagini che provavano a riassumere oltre 40 anni di politica d’asilo informale offerta ai rifugiati italiani degli anni 70, nota come «dottrina Mitterrand», anche se non si è mai trattato di una dottrina codificata ma di una politica di fatto, perseguita con alcune rilevanti eccezioni da ben quattro presidenti della Repubblica: Mitterrand, Chirac, Sarkozy e Hollande. Un dibattito tra l’avvocato e presidente onorario della Ligue des droits de l’homme, Henri Leclerc, e il giornalista della Stampa Paolo Levi, chiudeva la trasmissione. Il primo chiamato a difendere le ragioni giuridiche, politiche e umane di questa politica d’accoglienza, il secondo a dare voce un po’ sguaiata alle ragioni avverse dello Stato italiano. Nel tentativo di trovare argomenti suggestivi in favore della estradizione degli ex militanti italiani, ormai integrati da decenni nella società francese, il giornalista Paolo Levi ha paragonato le azioni mirate dei gruppi armati della sinistra dell’epoca, rivolte contro obiettivi selezionati delle gerarchie economiche, politiche e statuali italiane, a quelle indiscriminate dei jihadisti che dagli anni 90 in poi hanno insanguinato le città francesi, fino al massacro del Bataclan, molto più simili per la loro natura stragista alle bombe che in Italia fascisti e apparati dello Stato hanno disseminato nelle piazze e stazioni nei primi anni 70, provocando centinaia di morti e feriti. Preso dalla foga, l’inviato della Stampa ha provocatoriamente chiesto cosa mai avrebbe pensato l’opinione pubblica francese se gli autori del massacro del Bataclan avessero trovato ospitalità in Francia. Levi avrebbe fatto bene a leggere qualche libro in più prima di lanciarsi in simili incauti paragoni, perché qualcosa di simile è già accaduto in passato. Durante la guerra d’Algeria, in Italia trovarono ospitalità e sostegno esponenti importanti dell’Oas, una organizzazione calndestina della destra francese messa in piedi da membri dell’Esercito e dei Servizi segreti contrari all’indipendenza dell’Algeria. La loro presenza in Italia era sottoposta alla stretta sorveglianza dell’Ufficio affari riservati, recenti studi hanno dimostrato che si avvalevano anche del sostegno del Sifar. Quando le autorità italiane non poterono fare a meno di arrestarli per le loro attività cospirative contro il presidente francese De Gaulle e persino contro Enrico Mattei, odiato per il sostegno che attraverso l’Eni forniva alle forze nazionali algerine, evitarono di estradarli favorendo la loro partenza verso Paesi amici o neutri. Uno di loro, Jean-Jacques Susini, beneficiò di una notevole impunità sul territorio italiano anche quando le autorità furono informate del suo coinvolgimento nel fallito attentato contro De Gaulle presso il monumento commemorativo del Monte Faron, a Tolone. Azione concepita in territorio italiano (1). Susini rimase quattro anni in Italia sotto la benevola protezione dalla polizia nonostante le condanne del Tribunale per la sicurezza dello Stato francese.
Al suo arrivo all’Eliseo, nel 1981, François Mitterrand ripagò l’Italia con la stessa moneta, con la differenza che i fuoriusciti italiani non hanno utilizzato il territorio francese come retroterra per fare incursioni in Italia. Di fronte al flusso di rifugiati politici che traversavano le Alpi, fece del suolo francese una sorta di camera di decompressione del conflitto che dilagava in Italia, rifiutando le estradizioni nell’attesa di un’amnistia. «Al di la della risposta giudiziaria – ha spiegato una volta consigliere giuridico dell’Eliseo Louis Joinet, vero architetto di questa politica d’asilo – si trattava di facilitare il cammino di chi tentava di uscire dalla lotta armata per andare verso una soluzione politica. L’importante era non marginalizzare quelli che avevano una riflessione politica».

1 Pauline Picco, Liaisons dangereuses, Les extrême droites en France et en Italie, 1960-1984I, Presses universitaires de Rennes, Rennes, coll. « Histoire », 2016.