Carcere d’estate, solo posti in piedi. Il Dap, “ghiaccio per tutti”
Paolo Persichetti
Liberazione 9 luglio 2008
«Solo posti in piedi». Questo è il cartello che presto verrà affisso davanti alle entrate degli istituti di pena.
Si è sforata ormai anche la soglia dell’ipocrisia, quella che prevede un «capienza tollerabile» di 63.762 detenuti a fronte di una soglia regolamentare che invece ne accetta “solo” 43.201, cioè 20 mila in meno. Quest’ultima a sua volta gonfiata. Il numero di posti realmente fruibile infatti è ancora più basso, non arriva ai 38 mila. Ieri eravamo a 63.789. Peggio di un carro bestiame. A Trieste la direzione del carcere aveva persino introdotto un registro dei materassi a terra per stabilire chi a turno doveva dormire sul pavimento. Un modo per regolamentare il disagio ed evitare tensioni. Dopo le brande supplementari, dopo i letti a castello che raggiungono il soffitto, dopo l’occupazione delle salette una volta adibite per la socialità, quelle dove in genere c’era il tavolo da ping-pong e alcune sedie e tavolini per giocare a carte oppure a scacchi ed ora vivono in permanenza 20-30 persone, dopo i pavimenti sono rimasti solo i posti in piedi. Restano i corridoi (come in certi ospedali), ma ancora per poco.
Ovviamente c’è fermento nelle carceri per questa situazione che rasenta l’indicibile, soprattutto quando il caldo torrido, come quello di questi giorni, rende impraticabili le più elementari condizioni di vita e d’igiene. Ma non è che in inverno sarà meglio. Ora infatti le direzioni possono ricorrere al prolungamento delle ore d’aria nei cortili, come indicato da una circolare del Dap. Ma quando arriverà il freddo e le ore di cella chiusa si prolungheranno la vita sarà ancora di più un inferno.
Da settimane si registrano proteste collettive dei reclusi. In almeno 30 istituti di pena sono in corso scioperi del vitto e “battiture” ad orari prestabiliti. Andate sotto le mura del carcere della vostra città e sentirete un assordante concerto di pentole e casseruole accompagnato da urla, canti, fischi, stracci alle finestre. Il popolo chiuso si fa sentire, suona la sua sinfonia d’estate. A Lanciano, Secondigliano, Reggio Emilia, Rebibbia reclusione, Marassi, Marino del Tronto, Como, Piacenza, Saluzzo, Catania, Palermo, Pisa, Verona, Venezia, i detenuti hanno inscenato proteste a turno.
Negli uffici del Dap se non è allarme rosso, poco ci manca. Anche se nessuno l’evoca e le preoccupazioni si dirigono soprattutto verso comportamenti individuali, come l’autolesionismo e i suicidi (è stato vietato l’uso di scatolame in metallo), lo spettro della rivolta aleggia nei retropensieri. Basta un niente, una scintilla in situazioni sature di tensione e malumore perché tutto precipiti. Per questo la protesta ha contagiato anche la polizia penitenziaria che deve convivere con il sovraffollamento. Le principali sigle sindacali hanno manifestato ieri a Bologna. Seconda tappa dopo Milano. Il calendario della protesta degli agenti di custodia prevede ulteriori tappe a Bari, Palermo, Cagliari per poi concludersi a Roma in settembre. I sindacati penitenziari denunciano il «disinteresse del Ministro Alfano» e una carenza d’organico cifrata a 5 mila agenti. Ricordano, inoltre, come il “piano carceri”, nel quale si prevedeva la costruzione di 24 nuovi istituti e l’ampliamento di quelli esistenti, non è mai decollato. Affermano anche che «la soluzione di tutti i problemi non può essere quella di affidarsi solo e soltanto all’edilizia penitenziaria». L’idea che la semplice estensione della superficie repressiva, la moltiplicazione senza precedenti dei contenitori penali, l’esplosione della popolazione detenuta fino alle 80-100 mila unità messe in conto dalle proiezioni del piano carceri non sia più la soluzione ma parte del problema, è un’acquisizione nuova in territori come quelli della penitenziaria. Si tratta evidentemente di quel semplice “buon senso” che nasce da chi opera a contatto diretto con la realtà carceraria fuori dalle strumentalizzazioni politiche, dalla demagogia populista e giustizialista. Si tratta di una consapevolezza sistemica che però non ha rappresentanza sociale e mediatica e non trova traduzione in un sistema politico che ormai funziona solo per lobby e gruppi di potere. Le proteste dei detenuti non riescono a farsi sentire, non trovano eco in periodo dove il conflitto è demonizzato, la protesta criminalizzata, soprattutto i movimenti deboli, isolati, confusi.
Pur ammettendo che la situazione è «altamente critica», il Dap può permettersi di rispondere ricorrendo a dei ridicoli palliativi. Il presidente, Franco Ionta, ha istituito un sistema di monitoraggio, un gruppo di lavoro con facoltà di verifica e proposta, costituito col bilancino per dare visibilità ai diversi interessi corporativi che compongono la realtà penitenziaria: due magistrati, un direttore penitenziario, un ufficiale giudiziario e due alti ufficiali della polizia penitenziaria. In una circolare di 16 pagine, inviata a tutti gli istituti di pena, indica l’individuazione di «spazi detentivi a gestione “aperta” – con limitate ricadute sul contingente da impiegare per il controllo e la sicurezza – dove assegnare detenuti di minore pericolosità». Una soluzione arrangiata per tenere i reclusi ammassati nelle celle solo in orari notturni. Ha disposto un incremento delle ore di passeggio e l’acquisto di maggiori quantità di ghiaccio e metadone. Il carcere, come avrebbe detto Gigi Proietti si è liqueso.
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