Già più di mille i ricorsi dei detenuti a Strasburgo contro il sovraffollamento

Antigone e altre associazioni raccolgono i reclami dei detenuti

Alfredo Imbellone
Liberazione 3 gennaio 2010 – speciale Carcere e castigo


Nell’estate del 2009 la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia a risarcire Izet Sulejmanovic per essere stato costretto, durante la sua detenzione nel carcere romano di Rebibbia, a vivere in uno «spazio personale» inferiore ai tre metri quadrati. La condanna ha riguardato solo i cinque mesi di detenzione in cui si sono potute riscontrare tali condizioni di sovraffollamento e il risarcimento è stato quantificato in mille euro.
Per la prima volta in Italia le condizioni di invivibilità delle carceri determinate dal sovraffollamento sono state definite da un organismo giurisdizionale di livello internazionale. È un precedente significativo che, grazie a un intervento europeo, rompe l’immobilismo italiano attorno alla violazione quotidiana del dettato costituzionale contenuto nell’articolo 27 che stabilisce la presunzione d’innocenza fino a condanna definitiva, l’umanità e il fine rieducativo delle pene e l’inammissibilità della condanna a morte.
Grazie a una definizione di standard di vivibilità da parte del Comitato europeo per la prevenzione della tortura, la Corte ha potuto individuare nelle condizioni di sovraffollamento un «trattamento inumano e degradante» che viola l’articolo 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo. La vivibilità minima si misura in termini di spazi assegnati a ogni detenuto, tempo quotidiano che si può trascorrere fuori dalla cella, accesso alla luce e all’aria, privacy per quando si utilizza il wc.
E’ proprio il carattere “oggettivo e misurabile” della sentenza Sulemamovic che la rende un evento potenzialmente dirompente nei confronti delle disastrose condizioni del sistema penitenziario italiano. Non a caso la sentenza ha visto la strenua opposizione in seno alla Corte del giudice italiano Vladimiro Zagrebelsky, contrario a qualsiasi automatismo nel riconoscimento delle condizioni di sovraffollamento come trattamenti inumani e degradanti. In effetti se i detenuti che vivono in queste condizioni continueranno a seguire l’esempio di Sulemamovic, il governo italiano si potrebbe trovare costretto a risarcire decine di migliaia di detenuti. Gli standard di vivibilità definiti a livello europeo si avvicinano infatti molto alla cosiddetta capienza “regolamentare” delle nostre carceri (circa 43.000 posti), o al limite alla capienza “da metro quadrato” calcolata dalla Direzione generale dei Beni e dei Servizi del ministero (circa 52.000 posti). In ogni caso si è ben al di sotto delle attuali presenze (circa 67.000), superiori persino alla cosiddetta capienza “tollerabile” (circa 64.000 posti) stabilita con decreto ministeriale aumentando – sic et simpliciter – i posti regolamentari del 47%.
La significatività della sentenza Sulemamovic non è sfuggita alle organizzazioni che si muovono in difesa dei diritti delle persone detenute. Ristretti Orizzonti mette a disposizione tramite il sito Internet, www.ristretti.it, materiali utili per una documentazione approfondita sulla vicenda; il Comitato radicale per la giustizia Piero Calamandrei ha predisposto un modello di ricorso che ciascun detenuto può compilare e inviare direttamente alla Corte. L’intervento più significativo, tuttavia, sembra essere quello messo in campo dall’associazione Antigone che da settembre 2009 ha messo a disposizione il proprio Difensore civico in una campagna per sostenere i detenuti che vogliono andare davanti ai giudici europei per denunciare condizioni di invivibilità in cui si trovano costretti.
Parlando con Simona Filippi, avvocato di Antigone, abbiamo appreso che a oggi sono più di mille i detenuti che si sono rivolti all’associazione per chiedere aiuto nella presentazione del ricorso. Per supportare i detenuti Antigone ha costituito una rete nazionale di volontari, prevalentemente avvocati, impegnati nella presentazione dei ricorsi. Sinora si sono rivolti a questa iniziativa singoli detenuti, così come gruppi. Dal carcere di Saluzzo hanno scritto ad Antigone: «Siamo in due in cella da uno. […] un passeggio di 25 persone attualmente ci andiamo in 56 persone, in due salette che sono utilizzate per socializzare ci andiamo più di 40 persone e pensate che sono state create per 25 persone. Alle finestre ci sono delle doppie griglie che ci causano dei problemi di vista perché non possiamo vedere fuori. [….]».
Non ci sono termini di scadenza per la presentazione del ricorso laddove la persona detenuta si trova a vivere in condizioni di sovraffollamento. I termini per presentare il ricorso davanti alla Corte europea, infatti, scadono dopo sei mesi dalla cessazione della causa che determina la violazione del diritto. In questo caso, i sei mesi iniziano a decorrere da quando si viene trasferiti in un altro istituto o da quando si esce dal carcere per fine pena. I riferimenti per chi fosse interessato a presentare il ricorso sono: Difensore civico – Associazione Antigone, Via Principe Eugenio 31, 00185 Roma, difensorecivico@associazioneantigone.it.

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Quelle zone d’eccezione dove la vita perde valore

L’ultima vittima arriva dal manicomio criminale di Aversa, ma nell’elenco anche Cie e camere di sicurezza

Paolo Persichetti
Liberazione
31 dicembre 2009

L’anno carcerario si chiude con la notizia di un’altra morte. Pierpaolo Prandato, 45 anni, internato nell’Ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa è morto «soffocato da un rigurgito». Il decesso risale al 21 dicembre scorso, ma solo ieri è stato reso noto per volontà della famiglia. Lo riferisce, in un comunicato, l’Osservatorio permanente sulle morti in carcere, messo in piedi dai Radicali Italiani e da alcune associazioni (Antigone, il Detenuto ignoto, A buon diritto), insieme alle redazioni di Radio Carcere e Ristretti orizzonti.
Con la morte di Prandato salgono a 175 i detenuti del cui decesso si è avuta notizia dall’inizio dell’anno, di cui 72 suicidi. Questo episodio ricorda quello di Francesco Mastrogiovanni , il maestro salentino morto la scorsa estate in un letto di contenzione dell’ospedale di Vallo della Lucania. La frequenza impressionante di questi decessi, o dei maltrattamenti certificati che avvengono in situazioni di privazione o limitazione della libertà personale, non solo all’interno del sistema penitenziario, sollevano un allarme grave sulla cultura degli apparati repressivi e di contenimento. La morte di Stefano Cucchi è per la sua dinamica la più emblematica. Riassume tutte le altre accadute nel corso del 2009 e negli anni precedenti. Cucchi ha attraversato nel corso del suo rapido e terribile calvario tutti i luoghi e le amministrazioni che si occupano della “presa” e della “cura” dei corpi. Per sua sfortuna all’inizio è finito in mano ai carabinieri, ha pernottato nel corso di una notte in due diverse camere di sicurezza, visitato inutilmente dal personale del 118. Il giorno successivo ha conosciuto, sventura ancora più grande, i sotterranei del tribunale. E’ salito per un po’ in superficie, dove pare si amministri la giustizia, ma nessuno si è accorto di come era ridotto. E’ finito in carcere, dove ha soggiornato in infermeria. E’ passato per due ospedali, il Fatebenefratelli e il Pertini.
Diverse amministrazioni dello Stato hanno avuto in consegna il suo corpo, non si può dire che si siano occupate della sua persona, al punto che si può affermare senza remore: «Cucchi è morto di Stato». Come Alì Juburi, il detenuto iracheno quarantaduenne deceduto nell’agosto 2008 a causa di uno sciopero della fame intrapreso per protesta contro una condanna che considerava ingiusta. «Abbandono terapeutico» che ha causato anche il decesso di Franco Paglioni in una cella del carcere di Forlì. Cinismo, indifferenza, sprezzo della vita umana, hanno precipitato la morte di questo uomo di 44 anni profondamente debilitato da una malattia che il senso comune fa fatica a pronunciare, l’Aids. Stefano Brunetti, sempre nel 2008 morì in ospedale il giorno successivo al suo arresto a causa delle percosse subite. Dall’autopsia sarebbe emersa, secondo quanto riportato dal legale, la presenza di «un’emorragia interna dovuta a un grave danno alla milza. Risultano fratturate anche due costole». Nell’estate 2009 un detenuto straniero, di nome Mohammed, moriva suicida nella «cella di punizione» del carcere di santa Maria Maggiore, a Venezia. Il luogo, descritto da testimoni e da chi aveva potuto verificarne l’esistenza, come «stretto, buio, dall’odore nauseabondo», assomigliava più a una segreta medievale che a una moderna camera di sicurezza. Potremmo continuare ricordando il suicidio di Diana Blefari Melazzi, la cui sofferenza psichiatrica non fu mai presa sul serio. Citare la morte del testimone scomodo del carcere di Teramo, il «negro» Uzoma Emeka che aveva assistito al pestaggio di un altro detenuto. Per quell’episodio, il comandante degli agenti di custodia, Giovanni Luzi, venne preso in castagna da una registrazione audio mentre in un concitato colloquio rimproverava un assistente di polizia penitenziaria per aver pestato un detenuto in sezione, davanti agli altri reclusi, invece di averlo portato “sotto”, cioè nel reparto di isolamento, dove abitualmente al riparo da sguardi indiscreti avvengono i pestaggi, le “punizioni”. Questo tipo di vicende, oltre a porre un problema di tutela dei corpi, dei diritti e delle libertà calpestate, suggeriscono una riflessione meno episodica è più attenta alla natura sistemica del fenomeno.
Negli ultimi decenni l’Italia ha conosciuto diversi tipi di eccezione. Sul finire degli anni 70 s’impose un «stato d’eccezione giuridico» contro la lotta armata, procastinata successivamente contro la mafia. Forma subdola e insidiosa che stravolgeva l’eccezione classica della modernità, quella di matrice giacobina codificata nelle costituzioni liberali, che attribuisce pieni poteri all’esecutivo e sospende le garanzie giuridiche per un periodo limitato nel tempo e nello spazio. Da noi, al contrario, il ricorso all’eccezione è stato gestito dalla magistratura per delega politica. Circostanza che ha dato forma a un sistema penale ibrido, dove norma regolare e regola speciale convivono, si integrano e si sostengono reciprocamente. Tanto che non è più possibile pensare di poter ripristinare la normalità giuridica poiché non vi è mai stata sospensione, ma unicamente ibridazione di più registri giuridici e penali, legislativi e procedurali, fino a determinare un groviglio inestricabile che non consente più alcun riassorbimento o fuoriuscita. Negli anni 90 si è andato diffondendo un nuovo modello emergenziale flessibile, modulabile, a macchia di leopardo, caratterizzato dalla presenza di «zone grigie», buchi neri in cui il confine tra legalità e illegalità resta incerto. «Ambiti riservati davanti ai quali lo stato di diritto arretra», come ha scritto una volta sul Corriere della sera il professor Panebianco. Una sorta di doppio binario: legalità e diritti riconosciuti solo per una parte della popolazione e trattamenti differenziati per la restante. Le camere di sicurezza delle questure e dei carabinieri, i reparti d’ospedale dove si somministrano trattamenti sanitari obbligatori, sono spazi di diritto attenuato facilitato dall’opacità dei luoghi. I Cie, le frontiere, le zone costiere, gli aeroporti, appartengono alle «zone d’eccezione» che pongono limiti allo spazio giuridico, espellono lo stato di diritto. Definiti da alcuni anche «Non luoghi», spazi di arresto della mobilità di persone che non hanno commesso alcun crimine, caratterizzano la democrazia reale.

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Cronache carcerarie
Nasce l’osservatorio sulle morti e le violenze nei Cie, questure, stazioni dei carabinieri e i reparti per Tso

Chi ha ucciso Aldo Bianzino?

Richiesta di archiviazione, il gip rinvia la decisione

Paolo Persichetti
Liberazione 12 dicembre 2009

Si è svolta ieri presso il tribunale di Perugia l’udienza sulla richiesta di archiviazione del fascicolo per omicidio a carico di ignoti avanzata dal pubblico ministero, Giuseppe Petrazzini, per la morte di Aldo Bianzino. Alla richiesta, la seconda dopo quella presentata nell’ottobre 2008 e respinta, si sono opposti i familiari di Bianzino. Il gip, Massimo Ricciarelli, fara conoscere la sua decisione nei prossimi giorni.  Nel corso della seduta un centinaio di persone hanno manifestato all’esterno. Presenti il figlio di Bianzino, Rudra, 16 anni, e Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano Cucchi, il giovane morto nel reparto penitenziario dell’ospedale Pertini di Roma a seguito del pestaggio subito dopo l’arresto, insieme al «Comitato Verità e Giustizia per Aldo». Bianzino, persona mite e abile artigiano, venne arrestato il 12 ottobre del 2007 perché coltivava alcune piante di canapa indiana. Morì nel carcere di Perugia due giorni dopo. Inizialmente il decesso venne attribuito a un malore naturale. L’autopsia certificò invece l’assenza di patologie pregresse e lesioni agli organi interni, presenza di sangue nell’addome e nelle pelvi, lacerazione epatica, lesioni all’encefalo. Una seconda autopsia riscontrò anche un distacco del fegato e ipotizzò la morte per aneurisma cerebrale. Evento probabilmente scatenato da un violento pestaggio subito dopo l’arresto, in circostanze mai accertate. In carcere Bianzino venne abbandonato a se stesso. Per questa assenza di cure, l’agente di polizia penitenziaria in servizio la notte della sua morte è stato rinviato a giudizio, lo scorso 28 giugno, per omissione di soccorso e falsificazione dei registri. La morte di Bianzino e  quella di Cucchi sono il calco perfetto della violenza impunita delle istituzioni. In entrambi i casi solo l’apparato-cenerentola, la penitenziaria, è rimasto impigliato negli ingranaggi della giustizia.

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Aldo Bianzino, no all’archiviazione dell’inchiesta sulla sua morte
Cronache carcerarie

Caso cucchi, avanza l’offensiva di chi vuole allontanare la verità
Cucchi, anche la polizia penitenziaria si autoassolve
http://perstefanocucchi.blogspot.com/
Stefano Cucchi: le foto delle torture inferte
Caso Cucchi, scontro sulle parole del teste che avrebbe assistito al pestaggio. E’ guerra tra apparati dello Stato sulla dinamica dei fatti
Morte di Cucchi, c’e chi ha visto una parte del pestaggio nelle camere di sicurezza del tribunale
Erri De Luca risponde alle infami dichiarazioni di  Carlo Giovanardi sulla morte di Stefano Cucchi
Stefano Cucchi, le ultime foto da vivo mostrano i segni del pestaggio. Le immaigini prese dalla matricola del carcere di Regina Coeli
Manconi: “sulla morte di Stefano Cucchi due zone d’ombra”

Stefano Cucchi, quella morte misteriosa di un detenuto in ospedale
Stefano Cucchi morto nel Padiglione penitenziario del Pertini, due vertebre rotte e il viso sfigurato
Caso Stefano Cucch, “il potere sui corpi è qualcosa di osceno”
Violenza di Stato non suona nuova

Ignorata la disponibilita offerta da un gruppo di detenute che si offrì di assistere la Blefari. I magistrati puntavano al pentimento
Induzione al pentimento
Suicidio Blefari Melazzi: l’uso della malattia come strumento di indagine

Caso cucchi: avanza l’offensiva di chi vuole allontanare la verità

Autoassoluzione: reintegrati i medici indagati per la morte di Stefano Cucchi nonostante siano sotto inchiesta per omicidio colposo.
Per la Asl non ci sarebbe stato “abbandono terapeutico”. Il decesso sarebbe frutto di un evento imprevedibile


Paolo Persichetti
Liberazione 1 dicembre 2009

Sono stati reintegrati nel reparto penitenziario dell’ospedale Sandro Pertini i tre medici indagati per omicidio colposo dopo la morte di Stefano Cucchi. Eppure quanto è trapelato dagli accertamenti medico-legali sul corpo riesumato del giovane, deceduto il 22 ottobre scorso all’interno della struttura ospedaliera dopo una settimana di agonia seguita ad uno, o più, pestaggi e sevizie violentissime (sul numero esatto, e gli autori delle percosse subite, ancora oggi permane l’incertezza), confermerebbe le responsabilità dei sanitari nella sua morte. Il blocco della vescica riscontrato su Stefano Cucchi sarebbe, infatti, compatibile con la paralisi dell’ultimo tratto della colonna vertebrale.
Mentre le lesioni alla schiena e alla testa, seppur serie, non sarebbero state letali se adeguatamente curate. Insomma tutto lascia seriamente supporre che nei confronti di Cucchi vi sia stato un «abbandono terapeutico», una situazione di lassismo e incuria, una sottovalutazione grave e colposa delle sue condizioni di salute e delle cause che le avevano originate. Nonostante ciò, l’indagine amministrativa interna condotta da una commissione, apparentemente composta da personale della medesima Asl, ha sbrigativamente liquidato l’accaduto come «un evento non prevedibile». Nella relazione depositata ieri, si può leggere che l’analisi dei fatti, a fronte del «carattere improvviso e inatteso del decesso, non ha messo in luce, sul piano organizzativo e procedurale, alcun particolare elemento relativo ad azioni e/o omissioni da parte del personale sanitario con nesso diretto causa-effetto con l’evento avverso in questione. Contestualizza e configura pertanto l’oggetto dell’indagine sotto il profilo di evento non prevenibile». Per questo motivo Il direttore generale dell’Asl RmB, Flori Degrassi, ha disposto la revoca dell’ordine di trasferimento, preso in via provvisoria il 18 novembre scorso, nei confronti di Aldo Fierro, Stefania Corbi e Rosita Caponetti. La diffusione della notizia ha subito suscitato sconcerto e raccolto i commenti negativi del legale della famiglia, Fabio Anselmo, di Patrizio Gonnella dell’associazione Antigone, e di Luigi Nieri, assessore al Bilancio della regione Lazio, che ha censurato una «decisione affrettata e profondamente sbagliata», rilevando come sia piuttosto inusuale «che la Asl concluda la propria inchiesta amministrativa prima di quella penale».
La decisione presa dalle strutture dirigenti dell’ospedale Pertini non si discosta molto da quello spirito corporativo che ha fino ad ora caratterizzato il comportamento di tutti gli altri attori coinvolti in questo terribile esempio di violenza istituzionale. Chiusura a riccio e omertà d’apparato in difesa di una impunità di principio che vorrebbe imporre l’idea della insindacabilità dell’operato di chi agisce in uniforme di Stato. Un atteggiamento viziato da una visione autoreferenziale della legalità e della morale. Alcuni apparati molto potenti non hanno mai accettato di essere messi sul banco dei sospetti e fin dall’inizio hanno operato nell’ombra, mettendo le briglie a un’inchiesta che altrimenti rischiava di mostrare il «re nudo». Mentre negli ultimi giorni nuove testimonianze di detenuti, presenti nell’infermeria di Regina Coeli con Stefano Cucchi, hanno riaperto scenari su violenze precedenti l’arrivo in tribunale, che la procura ha sempre evitato di approfondire ritenendoli privi di riscontri (ma l’inchiesta serve per trovare eventuali riscontri, non per escluderli a priori), da parte degli indagati emerge una nuova strategia. Non più scarica barile tra penitenziaria e carabinieri, ma fuoco concentrico sulla persona di Cucchi, dipinto come uno che entrava e usciva dal pronto soccorso degli ospedali. Un modo per dire che era già «rotto» prima di essere arrestato. E come se non bastasse, vengono diffuse minacce a mezzo stampa facendo circolare notizie sull’apertura di una inchiesta contro i legali della famiglia Cucchi per calunnia nei confronti dei carabinieri. Un modo per dire che gli apparati dello Stato sono santuari intoccabili.

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Caso Battisti: voto fermo al 4 a 4. Prossima udienza il 18 novembre

Udienza per l’estradizione di Battisti: sospesa dopo un 4 a 4 nelle votazioni. La votazione finale riprendera il prossimo mercoledì 18 novembre. Il presidente della corte suprema ha già annunciato che non si asterrà. Tutti sanno che è favorevole all’estradizione. La decisione finale sulla sorte di Batisti a quel punta sarà nelle mani del cpo dello Stato Ignacio Lula da Silva

Paolo Persichetti
Liberazione 13 novembre 2009

Colpo di scena all’apertura dell’udienza del Supremo tribunale federale brasiliano che ieri doveva pronunciarsi sulla estradizione di Cesare Battisti, condannato in Italia a due ergastoli per una serie di attentati mortali commessi sul finire degli anni 70 dai Pac.
Il presidente della corte, Gilmar Mendes, ha reso noto il contenuto di una lettera inviata da Dias Toffoli, il giudice insediatosi tra le polemiche lo scorso 23 ottobre al posto di Menezes Direito, deceduto il primo settembre.

dsc_0023Toffoli, che in qualità di avvocato generale dell’Unione era già intervenuto nel procedimento, chiamato a fornire un parere sull’eccezione di incostituzionalità sollevata contro la concessione dell’asilo politico a Battisti, aveva difeso la correttezza della decisione presa dal ministro della Giustizia, Tarso Genro. Per evitare conflitti d’interesse ha preferito appellarsi alla clausola di coscienza e non prendere parte al voto. Un gesto che smentisce clamorosamente tutti quelli che avevano accusato Lula di averlo designato per far pendere gli equilibri del Tribunale a favore di Battisti. Nei giorni scorsi era persino circolata voce su un possibile ricorso contro la sua nomina da parte del governo italiano che per voce del proprio legale aveva chiesto a Toffoli di non presenziare al voto. Intervento che ha provocato la ferma reazione del ministro Genro contro l’atteggiamento irrispettoso della sovranità interna brasiliana. Fin dall’inizio l’Italia ha interferito in modo pesante sulla giustizia brasiliana. Un proconsole del governo, il procuratore Italo Ormanni, è stato inviato sul posto per manovrare nei corridoi del Tribunale e influenzare l’esito finale del voto. In realtà Toffoli avrebbe potuto votare. Non esistevano ostacoli giuridici, anzi i giuristi avevano elencato diversi precedenti. Soprattutto avrebbe potuto esprimersi sulla procedura di estradizione, nella quale non era mai intervenuto. Il Tribunale, infatti, con una scelta senza precedenti, e che molti hanno considerato quanto mai barocca, ha deciso di accorpare le due procedure: quella sulla costituzionalità della legge che attribuisce al ministro della Giustizia il potere di concedere lo status di rifugiato; e l’altra, sulla richiesta di estradizione avanzata dall’Italia. Il presidente Gilmar Mendes ha manovrato l’intera vicenda procedurale fornendo prova di notevole fantasia e creatività, al punto che nei manuali di diritto verrà ricordato come il fondatore del surrealismo giuridico brasiliano.
Venuto meno il voto di Toffoli, che avrebbe potuto subito chiudere la questione dando la maggioranza ai contrari alla estradizione, restano ancora aperti diversi scenari. Marco Aurelio Mello, il magistrato che all’ultima udienza aveva chiesto una sospensione, ha sciolto nel corso dell’udienza la riserva e si è detto contrario alla estradizione perché «il Tribunale supremo non può sostituirsi all’esecutivo». E’ noto che a livello planetario la materia estradizionale appartiene alla competenza dell’Esecutivo poiché attiene alla sfera dei rapporti politico-diplomatici tra Stati. L’autorità giudiziaria è chiamata soltanto ad esprimere un parere sulla fondateza e regolarità guiridica delle richieste di estradizione. Un criterio riconosciuto anche dalla costituzione italiana.
Messa di fronte fronte ad una situazione di perfetta parità, 4 contro 4, (la volta scorsa la sospensione era avvenuta in presenza di una maggioranza favorevole alla estradizione di 4 contro 3) la corte ha sospeso l’udienza. Al momento in cui questo giornale va in tipografia, non siamo in grado di dirvi quando riprenderà. Per sciogliere questa situazione di stallo, il presidente Mendes potrebbe essere chiamato ad esprimere un voto dirimente.
Decisione per nulla scontata. I contrari all’estradizione porranno, infatti, la questione dell’habeas corpus, ovvero il rispetto del principio del favor rei. Già in passato Mendes si era astenuto dal votare in situazione simile. Se prevalesse questa soluzione, la vicenda verrebbe archiviata e Battisti, scontata la pena per i documenti falsi, liberato. Una seconda incognita riguarda l’ipotesi che uno dei giudici chieda di rivedere la propria posizione. Nei giorni scorsi su alcuni quotidiani si era ventilata l’ipotesi di un ripensamento di Carlos Britto, che inizialmente si era detto favorevole all’estradizione. Anche in questo caso Battisti tornerebbe libero. Esiste anche l’eventualità che uno dei votanti chieda una ulteriore pausa di riflessione.
Se dovesse invece prevalere la volontà di far votare il presidente Mendes, da sempre favorevole alla estradizione, legato da stretti rapporti con gli ambienti del centrodestra italiano e che della vicenda Battisti ha fatto un trampolino di lancio per le sue ambizioni politiche, allora la partita davanti al Tribunale si chiuderebbe con un voto a maggioranza favorevole alla estradizione. A quel punto la palla passerebbe nelle mani del presidente Lula, ma anche qui c’è chi è intenzionato a porre un problema di legittimità che aprirebbe uno scontro di poteri tra esecutivo e giudiziario. Mendes, infatti, con un’interpretazione senza precedenti e assolutamente contrastante con la dottrina giuridica recepita a livello mondiale, ritiene la firma del capo dello Stato un puro atto formale, una mera ratifica della decisione presa dall’autorità giudiziaria. Ovviamente le cose non stanno così. I retropensieri politici che presiedono questa lettura sono del tutto evidenti. Mendes vuole destabilizzare e ridurre la sovranità del capo dello Stato. Difficilmente Lula accetterà di cedere ad una simile pretesa e valuterà l’intera vicenda sulla base di criteri politico-giuridici. L’Italia, infine, se vuole riavere Battisti dovrà comunque accedere alla condizione posta dal Tribunale perché l’estradizione possa essere materialmente possibile: commutare la pena dell’ergastolo a 30 anni di reclusione. Una questione non da poco. Fino ad ora il governo italiano ha sempre sorvolato. Davanti alla Stf ha sempre spacciato la menzogna dell’ergastolo previsto nell’ordinamento italiano come pena virtuale. Ma a Lula basterà questa favola per firmare?

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Battisti, la decisione finale resta nelle mani di Lula. Fallisce il golpe giudiziario tentato dal capo del tribunale supremo, Gilmar Mendes
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Caso Battisti: parla Tarso Genro, “Anni 70 in Italia, giustizia d’eccezione non fascismo”
Dall’esilio con furore, cronache dalla latitanza e altre storie di esuli e ribelli


Caso Battisti: ultima udienza in corso

brasile_bandieraDias Toffoli, giudice appena nominato al Supremo Tribunal Federal di Brasilia, ha formalmente annunciato che non prenderà parte alle votazioni che si terranno oggi e che decideranno se estradare o no Cesare Battisti. Come avvocato generale di stato si era espresso a favore della concessione di status di rifugiato politico concesso dal governo brasiliano; per questo precedente non voterà.
Senza il suo voto, il pronostico non è certo favorevole per l’ex militante dei PAC che in Italia dovrebbe scontare l’ergastolo.

L’udienza è in corso da meno di un’ora; l’intenzione di alcuni membri del tribunale è di bypassare completamente il presidente brasiliano Lula, che dovrebbe comunque avere l’ultima parola.Durante l’udienza il ministro giudice Cezar Peluso, ha dichiarato che Lula dovrebbe automaticamente inviare l’imputato verso le prigioni italiane.
Il procuratore generale Roberto Gurgel, tra i tanti, sostiene invece che Lula come capo di stato e del governo, responsabile delle relazioni internazionali in Brasile e garante della Costituzione, abbia il diritto di decidere se estradare o no Cesare Battisti in Italia.
Tra poco si saprà qualcosa…

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Caso Battisti: parla Tarso Genro, “Anni 70 in Italia, giustizia d’eccezione non fascismo”

Per Carlo Giovanardi Stefano Cucchi era morto di freddo, la risposta di Erri de Luca

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«Stefano Cucchi era in carcere perché era uno spacciatore abituale. Poveretto, è morto, e la verità verrà fuori, soprattutto perchè pesava 42 chili. La droga ha devastato la sua vita, era anoressico, tossicodipendente… E poi il fatto che in cinque giorni sia peggiorato… Certo, bisogna vedere come i medici l’hanno curato. Ma sono migliaia le persone che si riducono in situazioni drammatiche per la droga, diventano larve, diventano zombie: è la droga che li riduce così»

Carlo Giovanardi, Sottosegretario con delega per la lotta alla droga, “co-ideatore” della legge Fini-Giovanardi senza la quale Stefano Cucchi sarebbe ancora vivo

Erri de Luca risponde alla sua insopportabile dichiarazione con queste righe apparse su Liberazione 11 novembre 2009

Il potere dichiara che il giovane arrestato di nome Gesù figlio di Giuseppe è morto perché aveva le mani bucate e i piedi pure, considerato che faceva il falegname e maneggiando chiodi si procurava spesso degli incidenti sul lavoro. Perché parlava in pubblico e per vizio si dissetava con l’aceto, perché perdeva al gioco e i suoi vestiti finivano divisi tra i vincenti a fine di partita. I colpi riportati sopra il corpo non dipendono da flagellazioni, ma da caduta riportata mentre saliva il monte Golgota appesantito da attrezzatura non idonea e la ferita al petto non proviene da lancia in dotazione alla gendarmeria, ma da tentativo di suicidio, che infine il detenuto è deceduto perché ostinatamente aveva smesso di respirare malgrado l’ambiente ben ventilato. Più morte naturale di così toccherà solo a tal Stefano Cucchi quasi coetaneo del su menzionato.

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Caso Cucchi: Carlo Giovanardi, lo spacciatore di odio
Cronache carcerarie

In corteo a Roma per chiedere verità sulla morte di Stefano Cucchi

Si mobilità il quartiere dove viveva Stefano Cucchi. Ore 15 corteo a Torpignattara contro la violenza degli aparati di Stato, la legislazione proibizionista e anti-migranti

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Paolo Persichetti
Liberazione 7 novembre 2009

Torpignattara, il quartiere romano dove Stefano Cucchi è cresciuto, scende in piazza oggi pomeriggio per chiedere la verità sulla sua morte e dire che non si può crepare per pochi grammi di hashish, pestati a sangue, sottoposti a un calvario di umiliazioni e poi finire abbandonati nella disattenzione generale di un reparto medico penitenziario. L’appuntamento indetto dalla Rete contro l’autoritarismo è per le ore 15 in via dell’Acquedotto alessandrino, angolo via di Torpignattara. Dopo aver attraversato il quartiere, il corteo terminerà davanti al mercato coperto di via Ciro da Urbino, nei pressi dell’abitazione della famiglia, che, in una dichiarazione ripresa dalle agenzie, ha ringraziato «quanti in questi giorni stanno manifestando per Stefano. La loro solidarietà in questi drammatici momenti ci scalda il cuore». Nata dopo un incontro promosso martedì scorso dai Centri sociali al cinema Volturno, la proposta di una manifestazione cittadina ha coinvolto associazioni, comitati di quartiere e realtà territoriali che lavorano nella zona. Tra queste anche l’Osservatorio antirazzista e l’associazione dei migranti bengalesi Duumchatu, molto radicata nel quadrante sud-est della città. Il quartiere conserva ancora il ricordo dell’umiliante trattamento riservato ad alcuni lavoratori bengalesi fermati dai carabinieri della stazione locale, e da questi costretti prima del rilascio a pulire le stanze della caserma. All’iniziativa ha fornito la propria adesione anche la federazione romana del Prc. Giovedì c’è stato un volantinaggio davanti al repartino penitenziario dell’ospedale Pertini, dove Stefano Cucchi è deceduto. Nel quartiere la vicenda è molto sentita, percepita come un fatto che potrebbe toccare chiunque, senza esclusione, soprattutto tra i giovani sui quali pesa la caccia alle streghe praticata dalle squadrette della narcotici. L’arroganza, la spregiudicatezza e la violenza delle forze di polizia, sono ormai un problema che trova riscontro in numerosi “incidenti” segnalati dalle cronache. Intanto a Milano, nella notte tra giovedì e venerdì, sono apparsi cinquanta striscioni affissi dal centro sociale il Cantiere. «Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi, Aldo Bianzino: il proibizionismo è un serial killer», è scritto in uno di questi. La manifestazione di oggi vuole dare voce all’insofferenza dei cittadini verso la strumentalità delle politiche che agitano lo spauracchio della sicurezza e della tolleranza zero contro ogni diversità, in deroga a ogni diritto per poi tollerare che nelle carceri e nelle strade vengano uccisi ragazzi inermi. Nel testo di convocazione, gli organizzatori ricordano che queste tragedie trovano origine in una legislazione che costringe alla detenzione persone che hanno l’unica colpa di avere con sé modiche quantità di sostanze stupefacenti: come la Fini-Giovanardi sulle droghe, la legge Bossi-Fini, il pacchetto sicurezza. «Strumenti normativi che non fanno altro che riempire le carceri. Provvedimenti legislativi che riducono le criticità sociali a mera questione di ordine pubblico». La vera sicurezza nasce quando si rafforzano i legami sociali, la partecipazione, l’inclusione, quando c’è reddito, servizi, lavoro, cultura, rispetto. Meno polizia e più società.

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Stefano Cucchi, le ultime foto da vivo mostrano i segni del pestaggio. Le immaigini prese dalla matricola del carcere di Regina Coeli

Stefani Cucchi venne pestato a sangue prima di entrare in carcere. Lo provano le foto prese dal personale penitenziario della matricola del carcere di Regina Coeli

Le immagini scattate 20 ore dopo l’arresto. Sul volto di Stefano Cucchi sono visibili le tracce delle percosse. Era il 16 pomeriggio, a nemmeno venti ore dal suo fermo avvenuto alle 23,30 del giorno prima. I colori sul viso di Cucchi sono quelli dei lividi. Non si può guardare, quel ritratto, l’unico scattato dopo il suo arresto, senza pensare che sei giorni dopo quell’uomo di 31 anni con lo sguardo spaventato, finito in carcere per  una dose da 20 euro di hascisc, sarebbe morto. Morte  avvenuta il 22 ottobre, alle 6,20 del mattino, nel reparto detenuti dell’ospedale Pertini.

Che divise indossano quelli che hanno ridotto così Stefano Cucchi?

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Segni evidenti del pestaggio sul collo, la mascella e lo zigomo di Stefano Cucchi ritratti dalla foto segnaletica presa al momento dell'ingresso in carcere

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Nonostante la luce pessima appaiono evidenti le tumefazioni e gli ematomi attorno agli occhi di Stefano Cucchi nella foto presa dalla matricola del carcere al momento del suo ingresso

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http://perstefanocucchi.blogspot.com/
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La morte di Diana Blefari Melazzi: l’uso della malattia come strumento di indagine

Paolo Persichetti
Liberazione
3 novembre 2009

Cronaca di una morte annunciata.
«Basta, basta, basta!!! Io voglio uscire. Devo uscire. Giuro che esco e mi ammazzo e vi libero della mia presenza, ma io di questa tortura non ne posso più». Si esprimeva in questo modo Diana Blefari Melazzi in una lettera del 13 maggio scorso, inviata dal carcere di Sollicciano ad un suo amico, Massimo Papini, col quale era stata legata sentimentalmente prima della cattura. Diana Blefari non è uscita, non poteva uscire. Si è suicidata sabato 31 ottobre intorno alle 22.30 nella cella del carcere romano di Rebibbia, dove era stata trasferita da una decina di giorni. Una morte brutta, architettata ricavando un cappio con strisce di lenzuola intrecciate. La sorvegliante l’ha trovata appesa, al termine del giro fatto in sezione dopo la chiusura dei blindati. Poche ore prima gli era stata notificata la sentenza di cassazione che confermava in modo definitivo la sua condanna all’ergastolo, perché ritenuta compartecipe dell’attentato mortale al giuslavorista Marco Biagi.

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Diana Blefari Melazzi

La Blefari venne arrestata sul litorale romano nel dicembre 2003, inizialmente come “prestanome”, titolare del contratto d’affitto della cantina nella quale le cosiddette «nuove Brigate rosse», il piccolo gruppo che fino al 1999 aveva operato sotto la sigla Ncc per poi sottrarre dalle teche impolverate della storia la vecchia sigla inoperante delle Br-pcc, ma «solo se l’azione D’Antona avesse avuto successo», avevano depositato in fretta e furia archivio e altro materiale sgomberato dalla base dove erano vissuti Nadia Lioce e Mario Galesi, fino al momento della sparatoria mortale sul treno Roma-Arezzo del marzo del 2003.

Ad accusarla della partecipazione materiale all’omicidio Biagi, la pentita Cinzia Banelli. Secondo la collaboratrice di giustizia, che oggi vive sotto programma di protezione, la «compagna Maria», nome di copertura attribuito alla Blefari, avrebbe fatto da staffetta il giorno dell’attentato, sorvegliando il tragitto del consulente del ministero del Welfare dalla stazione fino ai pressi della sua abitazione, quando sarebbe dovuta entrare in azione proprio la Banelli. Solo che quel giorno la collaboratrice di giustizia non vide mai la Blefari, come dovette ammettere più volte in aula sotto contestazione della difesa. Contro di lei pesavano tuttavia altre accuse, come quella di aver preso parte alla “inchiesta” preparatoria e di aver inviato la rivendicazione tramite un internet point. Le vennero, infatti, contestate tracce telefoniche lasciate dal suo cellulare a Modena.

Il primo ottobre scorso, i sostituti procuratori romani, Pietro Saviotti e Erminio Amelio, hanno arrestato anche Massimo Papini  con l’accusa di essere una delle persone ancora non identificate che avrebbero fatto parte del gruppo. Una persecuzione quella contro Papini. Dopo anni d’indagini, pedinamenti e intercettazioni, alla fine del 2008 la procura di Bologna ne chiese l’arresto per il coinvolgimento nell’attentato Biagi, ma il Gip ritenne gli elementi depositati dall’accusa inadeguati a sostenere l’incriminazione. Passati gli atti alla procura romana, sulla base degli stessi elementi e soprattutto per il fatto di aver continuato a seguire la sua ex fidanzata lungo l’odissea carceraria e i meandri dolorosi e allucinati della sofferenza psichiatrica che l’aveva colpita, Papini è stato arrestato con l’accusa di partecipazione a banda armata. Un’accusa allucinata, tanto quanto le visioni che colpivano la Blefari stessa.

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Durante il processo Biagi

Forse sta proprio in questo accerchiamento, in questa inesorabile escalation la pulsione finale che l’ha portata a darsi la morte. In una lettera scritta dal 13 al 23 maggio, in cui si susseguono frasi deliranti di ogni tipo, scriveva a Papini: «Se vogliono che mi cucio la bocca, me la cucio. Se vogliono che parlo, dico tutto quello che mi dicono di dire, ma io non posso più stare così. Io non so proprio cosa fare, io chiedo perdono a tutti, ma basta per pietà». Gli inquirenti hanno interpretato queste parole come un messaggio verso l’esterno, rivolto a presunti referenti che avrebbero dovuto dare indicazioni sul suo modo di comportarsi. In realtà la Blefari nel suo fare ondivago e schizofrenico meditava altro. Da diverso tempo non era più in contatto con i suoi coimputati che le avevano rimproverato la scelta processuale di non ricusare l’avvocato e farsi difendere anche in punto di fatto. Gli estratti di un duro scambio di missive, tutte visionate dalla censura carceraria e finite in mano all’antiterrorismo, apparvero sui giornali. Nell’ultima lettera, finita di scrivere il 25 settembre, comunicava a Papini di aver informato il direttore del carcere di essersi «resa disponibile a parlare con i magistrati». Cosa avesse realmente in serbo, se volesse avviare una collaborazione e semplicemente circostanziare la sue reali responsabilità, o altro ancora, resterà un segreto che si è portato con sé. Di questa intenzione Papini ha saputo solo in carcere perché arrestato prima del suo recapito. Circostanza che smentisce il teorema accusatorio ed evidenzia il cinico gioco al rialzo portato avanti dagli investigatori contro la detenuta. Assolutamente consapevoli delle sue instabili condizioni di salute e del suo stato di prostrazione, gli inquirenti hanno dato l’idea di pensare alla Blefari come ad un “anello debole” che, prima o poi, si sarebbe spezzato conducendola ad atteggiamenti collaborativi con la giustizia. L’uso della malattia come strumento d’indagine. Mentre tutte le autorità carcerarie avevano riconosciuto da tempo la patologia psicotica che abitava la mente della donna, tanto da declassificarla dal regime duro 41 bis e assegnarla in un circuito comune, con frequenti passaggi nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo fiorentino, dove veniva sottoposta a periodici Tso, sul piano giudiziario si è continuato a negare per anni non solo la sua incapacità a “stare nel processo”, ma anche il diritto ad essere curata in una struttura ospedaliera adeguata.

La cieca sete di vendetta che ha animato l’inchiesta condotta dalla procura di Bologna e l’ostinata sordità delle corti d’assise nel recepire le richieste degli avvocati, documentate da numerose perizie psichiatriche che diagnosticavano una «patologia mentale che ne determina un comportamento psicotico in fase attiva», oltre a un «disturbo delirante, in diagnosi differenziale con Schizofrenia di tipo Paranoide», segnalando il «rischio di atti autolesionistici impulsivi che potrebbero essere fatali», sono finalmente pervenute a comminare quella condanna capitale abolita dalla costituzione italiana.

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Cronache carcerarie
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