Cesare Battisti inizia lo sciopero della fame

Da martedì 8 settembre 2020 Cesare Battisti ha iniziato lo sciopero della fame. In una lettera inoltrata al suo legale, l’avvocato Davide Steccanella, spiega: «Avendo esaurito ogni altro mezzo per far valere i miei diritti, mi trovo costretto a ricorrere allo sciopero della fame totale e al rifiuto della terapia». Battisti, ricorda il suo legale, è da oltre un anno e mezzo in isolamento nel carcere di Oristano, un isolamento «di fatto del tutto illegittimo». La pena accesoria dell’isolamento diurno, a suo tempo inflitta, era infatti di sei mesi, ed è terminatia nel giugno 2019. Nonostante le sue imputazioni non rientrino per ragioni cronologiche nella fascia dei reati ostativi, Battisti è rinchiuso in una cella all’interno di una sezione del carcere di Oristano adibita per lui e di cui è l’unico ospite. Una sorta di “area riservata del 41 bis” del tutto abusiva, realizzata aggirando le norme dell’ordinamento penitenziario

 

«La morsa del DAP (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) – scrive Battisti nella lettera – messa puntigliosamente in esecuzione dalla autorità del carcere di Oristano, ha resistito provocatoriamente a tutti i miei tentativi di far ripristinare la legalità, e la dovuta concessione dei diritti previsti in legge, ma sempre ostinatamente negati. A nulla sono valse le mie rimostranze scritte o orali rivolte a questa Direzione, al Magistrato di Sorveglianza, all’opinione pubblica. A Cesare Battisti – scrive ancora lo stesso Battisti, condannato all’ergastolo per 4 omicidi e arrestato nel 2019 dopo 37 anni di latitanza – non è nemmeno consentito sorprendersi se nel suo caso alcune leggi sono sospese: è quanto mi è stato fatto capire, senza mezzi termini, da differenti autorità».
«Pretendere un trattamento uguale a quello di qualsiasi altro detenuto – si legge ancora nella missiva – è una contesa continua, estenuante e che coinvolge gli atti più ordinari del mio quotidiano: l’ora d’aria; l’isolamento forzato e ingiustificato; l’insufficiente attendimento medico; la ritensione arbitraria di testi letterari; le domandine sistematicamente ignorate; oggetti di varia utilità e strumenti di lavoro negati, anche se previsti dall’ordinamento penitenziario, ecc». Da qui l’annuncio dello sciopero della fame e del rifiuto delle terapie per malattie di cui soffre.
Il tutto, scrive ancora Battisti, «affinché sia disposto il mio trasferimento in una Casa di Reclusione dove mi siano facilitate le relazioni con i familiari e con le istanze esterne previste dall’ordinamento nonché i rapporti professionali atti al sostentamento e al reinserimento. Chiedo – conclude – inoltre che sia rivista la mia classificazione nel regime di Alta Sicurezza (AS2) per terroristi, in quanto non esistono più di fatto le condizioni di rischio che la giustificherebbero».

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La permanenza in carcere di un detenuto costa all’amministrazione circa 137 euro al giorno, ma solo 20 euro vengono destinati al suo mantenimento (vitto alloggio e trattamento), il resto serve per coprire le spese della custodia e dell’amministrazione civile. La colazione costa all’erario €. 0,27, il pranzo €. 1,09, la cena €. 1,37, per un totale di €. 2,73, interamente rimborsati allo Stato dallo stesso detenuto. A queste si aggiungono le spese per il corredo, pari a €. 0,89 giornaliere, per un totale di €. 3,62. Gli altri 16 e rotti euro vanno per il trattamento. Quando la Francia della terza repubblica progettava il suo nuovo sistema penitenziario, il padre della sociologia Émile Durkheim dava consigli affinché le condizioni di vita del detenuto non si allontanassero molto dalla durezza spartana della vita di strada condotta da un normale clochard. È passato molto più di un secolo da allora, ma la mentalità dei funzionari della punizione dell’amministrazione penitenziaria non è cambiata

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di Cesare Battisti, Carcere di Oristano, 30 luglio 2020

Essere perseguitato da un povero di spirito come Salvini mette più tristezza che rabbia. Tristezza per quelle persone, disgraziatamente troppe, che gioiscono delle abili bassezze di un uomo che, sfortunatamente per la Repubblica, siede tra i banchi del Senato. Tristezza ancora per l’ignoranza generalizzata circa le reali condizioni di vita del detenuto. Per gli scempi del giustizialismo ipocrita e degli scellerati che spopolano sugli schermi televisivi o sulle pagine di alcuni giornali nazionali. Si dovrebbe stare attenti alle parole che si dicono, parlano i saggi, perché esse uccidono. E allora non basterà più essere dal lato buono delle sbarre per ritenersi in salvo dal massacro. Ci pensino coloro che, anche se giustamente saturi di inganni e colmi d’insoddisfazione, trovano facile adottare il linguaggio improprio dei soliti sciacalli a caccia di voti. E’ triste constatare come sia diffusa l’espressione dell’hotel a 5 stelle per i detenuti: «lo ha detto la televisione, perbacco, deve essere vero». C’è da augurare a costoro di non avere la sfortuna di capitare in galera. Tempi tristi, dove le disinformazioni aggrediscono in tal modo da venire assorbite prima ancora che il senso critico abbia il tempo di reagire. Succede che non basta più lasciare il detenuto in carcere a marcire, bisogna anche togliergli il diritto di parola. Non si sa mai, potrebbe avere qualcosa di importante da esternare o un sentimento da esprimere. Gli si tappa la bocca e il cuore, mentre si lasciano blaterare coloro che del carcere ne hanno fatto una miniera d’oro.

Niente di nuovo a Ovest, la fabbrica di delinquenza c’è sempre stata, ed oggi produce a pieno ritmo. E chi si riempie le tasche sono spesso i primi a gridare al ladro. Non è una novità, lo dovremmo sapere tutti come vanno le cose nel paese dei faccendieri. Eppure sentiamo gente onesta che lavora, quelli da sempre ingannati dal potere, gridare al lupo insieme agli ingannatori. Che ne è della buona saggezza popolare? E’ finito il tempo in cui si diceva che quando tutti sono contro uno, vale la pena sentire le ragioni di chi è rimasto solo. Possibile che siamo entrati a marcia indietro nell’epoca in cui è d’obbligo prendersela sempre con i più sfigati? E’ così difficile da capire il perché anche un Papa è costretto a ricordarci che siamo tutti sulla stessa barca? Oppure queste parole perderebbero valore, se a ripeterle fosse il prossimo emigrante a morire in mare, o un detenuto condannato alla gogna popolare? Nel contempo, anche persone insospettabili si mettono a fare eco a falsi profeti che venderebbero il paese pur di restare in sella alla politica predatoria.

Ma torniamo alla questione carceraria, quella trasformata in laboratorio di raggiri da politicanti mascalzoni e mercanti di parole. Se non sono i richiami alla compassione, chissà che non siano i numeri ad essere ascoltati.

I dati che seguono sono del Decreto Ministeriale del 07 agosto 2015: un detenuto costa allo Stato circa €. 137,00 al giorno. Questa spesa però, non serve a coprire solamente le esigenze personali del detenuto. Oltre l’80% di questi €. 137,00 è destinato a spese per personale civile e polizia penitenziaria. Le spese inerenti ad ogni detenuto sono in pratica meno di €. 20,00. Questi venti euro dovrebbero coprire le spese di igiene, lavanderia, sanità, vitto, area trattamentale , corredo e una voce non ben specificata di mantenimento. Non abbiamo percentuali relative ad ognuna di queste voci, salvo per il vitto e il corredo, così ripartite: colazione €. 0,27, pranzo €. 1,09, cena €. 1,37, per un totale di €. 2,73, interamente rimborsati allo Stato dallo stesso detenuto. Per il corredo, risulterebbe una spesa di €. 0,89 al giorno, ci si chiede a cosa si riferisce questa voce poiché di vestiario dell’Amministrazione non c’è traccia. Gli €. 2,73 per il vitto giornaliero si commentano da soli, sono una vergogna. Senza contare il contorsionismo dell’Impresa rifornitrice e delle Amministrazioni locali per abbattere ancor più i costi, servendosi di prodotti spesso destinati ai rifiuti e, comunque, preparando meno della metà di pasti, sapendo che i detenuti si arrangeranno col solito piatto di pasta, comprato al sopravitto fornito dalla stessa impresa. I prezzi del quale sono notevolmente superiori alla media nazionale. Non si sa quanti di quei meno di €. 20,00 siano destinati all’igiene. Per dare un’idea, in questo carcere il detenuto riceve una volta al mese: quattro rotoli di carta igienica, una saponetta, uno straccio e un litro di disinfettante diluito. Ma veniamo alla voce che dovrebbe costituire l’asse portante, la missione (sic) per eccellenza di tutto il sistema penitenziario: l’area trattamentale. Abbiamo detto che degli €. 137,00 al giorno stanziati dallo Stato, solo meno di €. 20,00 sono destinati al detenuto. Ma quanti di questi quasi €. 20,00 sono destinati all’obiettivo imprescindibile di un sistema che si dice rieducativo? Non lo sa nessuno. Oppure, tutti i fattori che dovrebbero intervenire nella complessità del sistema di rieducazione e al reinserimento del detenuto nella società sono talmente sparsi e indefiniti da rendere impossibile un calcolo preciso. Faremo prima a dire che, salvo rari Istituti che si sono notoriamente distinti nel compimento della loro missione, l’area trattamentale nel carcere esiste appena sulla carta come forma di appannaggio. Il detenuto è lasciato in balia di se stesso o affidato alla Polizia Penitenziaria, il cui compito, non è colpa loro, è quello di sorvegliare e punire. Questo è solo un aspetto, il più ovvio della squallida situazione che regna nelle carceri italiane.

Abbandonati dalla società civile disinformata, vittime della vendetta e della incapacità dello Stato di amministrare giustizie e democrazia, i detenuti si ripiegano su se stessi per sopravvivere alla pena impietosa e agli improperi. Si organizzano tra loro, affinché anche i più sventurati abbiano di che sfamarsi e resistere alle deficienze del sistema. E alla corruzione generalizzata, che alimenta l’animosità di chi sta pagando per tutti ed è pubblicamente insultato. Il detenuto cerca riparo nei codici ancestrali, perché non gli è dato conoscere strumenti diversi per affrontare con dignità la vita. La popolazione detenuta soffre in silenzio, mentre i fabbricanti di opinione pubblica brandiscono figure terrificanti. Grandi nemici della società, dicono con la bava alla bocca, grazie ai quali si giustificherebbero anche le torture. Sono sempre gli stessi ad essere mostrati alla folla inferocita. Si amplifica il loro ruolo criminale dando fiato agli sciacalli di ogni colore, che hanno rimosso il tempo in cui banchettavano tutti assieme allo stesso tavolo.

Questo è il mondo marcio del detenuto, altro che hotel a cinque stelle! Dire che neanche le bestie sono trattate allo stesso modo sarebbe fare un torto all’orso M49 che proprio in questi giorni sta passando in mezzo alle forche umane.

Aveva trascorso in carcere 40 anni della sua vita. E’ morto 2 giorni fa alla Molinette di Torino. Si chiamava Giuseppe Ciulla

8164158303_82022db094_nL’avevo conosciuto al Mammagialla di Viterbo tra il 2003 e il 2004. Veniva dal Penale di Rebibbia da dove era stato allontanato perché considerato indesiderabile. Finire al Mammagialla voleva dire una cosa sola: trovarsi in punizione. La casa circondariale di VIterbo era (e da quanto ne so ancora non è cambiata) un “istituto eminentemente custodiale”, che tradotto vuol dire con un regime detentivo rigido: celle sempre chiuse, poche attività “trattamentali”, accesso a misure alternative e benefici pressoché nullo. Insomma un carcere punitivo dove si sta chiusi e basta.
Ma Giuseppe Ciulla, così si chiamava, per così poco non si scoraggiava affatto. Ne aveva viste di molto peggio nella sua lunga carriera penitenziaria. Il carcere era la sua vita. C’era entrato a 27 anni e fatta eccezione per un breve periodo, circa un anno e mezzo, non era più uscito. Alla fine quasi quarant’anni in tutto. Diciotto di fila la prima volta e poi il resto. Ho letto la notizia della sua morte sul notiziario di Ristretti orizzonti. Da alcuni anni avevo perso le sue tracce. L’ultima volta che gli avevo scritto era in un centro clinico penitenziario, credo a Pavia, ma la lettera mi tornò indietro. Gli avevo mandato copia di una sentenza della Cassazione che poteva essergli utile per la battaglia che conduceva da tempo, vedersi riconosciuta la sospensione della pena per gravi motivi di salute. Era ancora a Viterbo con me quando fu mandato d’urgenza in ospedale. Una grave forma di diabete gli aveva provocato una cardiopatia molto seria. Lo operarono e da allora non si è mai ripreso veramente. Mi scriveva di sentire continuamente forti dolori al petto.
A Viterbo era arrivato a causa delle uova, tre uova tirate al direttore di Rebibbia, mancandolo. Il diabete gli aveva attinto la vista. Ci vedeva poco e dunque mancò il bersaglio. Raccontava ridacchiando che gli ispettori della custodia non gli rimproverarono tanto il suo gesto quanto non aver centrato il bersaglio.
Da ragazzo aveva ottenuto il diploma di perito elettronico, raccontava che per questo aveva dato il suo piccolo contributo durante la rivolta nel carcere di Trani, lui che non c’entrava nulla con i politici ma che aveva incrociato perché all’epoca per ragioni disciplinari era riuscito a farsi differenziare finendo negli speciali. Dalle radio e le televisioni, di cui si era occupato come riparatore in una delle sue prigioni passate, era diventato un appassionato di computer, di hardware soprattutto. Smontava e rimontava, leggeva tonnellate di riviste specializzate. Il suo sogno era quello di assemblare un mega computer. E così un componente alla volta si era fatto inviare a Rebibbia penale, dove il regime detentivo molto liberale lo consentiva, una super macchina. Ma la paranoia che qualcuno potesse metterci le mani dentro lo spinse a congegnare una password invalicabile di 36 caratteri, tra lettere e numeri. Una follia. Ovviamente perse presto l’appunto con la pass, impossibile da ricordare per la sua lunghezza, e così il computer divenne inutilizzabile. Chiese di farlo uscire per inviarlo ad una società specializzata, il che dopo un’estenuante tira e molla burocratico gli venne concesso. Solo che, una volta uscito, il computer non rientrò più. La Direzione non concesse mai l’autorizzazione. Iniziò così una lunga prova di forza con Ciulla che faceva istanze, riempiva domandine senza successo. Nel frattempo la rabbia montava, la convinzione di subire un torto personale anche, una sorta di persecuzione mirata, fino al lancio senza successo delle uova. In poche ore dovette fare il sacco e salire su un blindato direzione Mammagialla, la prigione dei reprobi del Lazio.
Non so perché, non ricordo più, ma era stato chiamato al casellario (il magazzino), forse per dei libri che mi erano arrivati. Il regime Eiv (elevato indice di sorveglianza) a cui ero sottoposto prevedeva un controllo sistematico dei materiali di lettura che ricevevo. Il carcere doveva fotocopiare le copertine, raccoglierle in una cartellina ed inviarle ad un apposito ufficio del Dap che le verificava. Per farne cosa? Stilare il mio profilo ideologico-culturale, controllare l’evoluzione dei miei interessi, oppure farsi le seghe. Con tutti quei testi in francese chissà cosa avranno mai capito?
Una volta in magazzino vidi appesa sulla parete una gabbietta con dentro dei pappagallini. Chiesi di chi fossero.
– Di un ergastolano, mi disse la guardia.
– In questo istituto non possono entrare. Abbiamo avvertito la Lipu che ora verrà a prenderli.
Quei pappagalli erano di Ciulla. Lui era qualche cella prima della mia. Quando capii che i piccoli volatili erano i suoi ci andai a parlare. Iniziò un lungo racconto. Quegli animali erano il suo mondo affettivo. Separato da moglie e figli, non aveva altro. A Rebibbia vivevano liberi nella cella (scusate l’ossimoro), potevano anche uscire dalla finestra, tanto facevano piccoli voli, qualche giro e poi tornavano. Nella sua vita aveva ucciso due volte, la seconda aveva ammazzato la madre. «Quella lì», diceva quando ne parlava senza mai pronunciare il nome. Verso di lei covava ancora un odio profondo, terribile. Era un sentimento che mi turbava. Mi chiedevo quale trauma originario avesse scatenato quel conflitto insieme a tanta avversione. La famiglia l’aveva ripudiato.
Eppure Ciulla sapeva essere affettuoso, leale, quasi un bambino. Un detenuto d’altri tempi, con le sue regole un po’ all’antica anche se all’improvviso il suo umore poteva scurirsi.  Riusciva ad accumulare un risentimento senza fine, un odio profondo che poteva scatenarsi in crisi d’ira senza controllo contro il carcere e tutto ciò che lo rappresentava. Era in eterno conflitto con “l’amministrazione” senza saper elaborare un minimo di strategia efficace. Quella guerra lo teneva in vita. Un probabile disturbo della personalità lo rendeva a quel punto paranoico. Non saprei dire quanto tutto ciò esistesse già prima dell’entrata in carcere o fosse una naturale conseguenza di quel lunghissimo imprigionamento e dei mille soprusi subiti. Chiamato davanti al comandante o al direttore era capace di fare mostra di sferzanti monologhi infarciti di dotte citazioni che studiava nella sua testa per giorni, ripetendoli a memoria.
Con lucida onestà un’educatrice, che aveva preso parte ad un consiglio di disciplina nei suoi confronti, mi raccontò una volta d’aver detto agli altri membri del collegio esterrefatti dal suo show:
– Tutto questo odio l’abbiamo prodotto noi. Questa persona è il risultato dell’istituzione. Un fallimento.
Ciulla era un maestro di ricette carcerarie. Siciliano, si inventava manicaretti carichi di calorie, che certo non facevano bene al suo diabete. Era un mago nel ricucinare la casanza. Per oltre un anno ho mangiato con lui, guardato con stupore dagli altri. Giuseppe si fidava molto di me, ed io riuscivo a calmarlo. Nelle ore di socialità aveva sempre un aneddoto su qualche carcere dove era stato, un racconto su un lontano episodio. Sembrava che non fosse mai stato fuori. Il suo era un mondo dentro.
Anche se la sua vista era menomata, era abilissimo con le mani. Aveva imparato a lavorare la creta. Ma al Mammagialla non era possibile, non era ammesso e quindi faceva oggetti con la pasta di pane che poi dipingeva. Me ne ha regalati diversi. Anche una falce e martello, sì perché il suo cuore era socialista.
Ora Giuseppe se n’è andato. Morto di ergastolo. Penso alla sua solitudine. Avrà forse pensato che anch’io l’ho abbandonato. Un’altro di quelli che non tengono la parola.
Ciao Giuseppe, ci siamo accompagnati per un po’ tra quelle mura.
Speravo riuscissi a resistere per vedere prima o poi alleggerire la tua pena.

(fonte Ristretti orizzonti)
Ergastolano di 67 anni muore a Torino: da inizio anno sono deceduti 8 detenuti ultra 65enni
Giuseppe Ciulla, che stava scontando l’ergastolo nel carcere “Lorusso e Cutugno” di Torino, è morto nel pomeriggio di venerdì 18 maggio scorso nel Repartino Detenuti dell’Ospedale “Molinette”, dove era stato trasportato a seguito dell’aggravamento delle patologie di cui soffriva.
Con il decesso di Giuseppe Ciulla salgono a 71 i detenuti che hanno perso la vita da inizio anno (21 per suicidio, 32 per malattia e 18 per cause “da accertare). Otto di loro avevano più di 65 anni e 5 avevano superato i 70 anni, limite oltre il quale è possibile scontare la pena in detenzione domiciliare presso la propria abitazione, o presso un luogo di cura, come previsto dalla Legge n. 251 del 5 dicembre 2005 (cosiddetta “ex-Cirielli”, o anche “Salva Previti”).
Nonostante la suddetta norma sia in vigore da oltre 7 anni, 31 dicembre 2012 gli ultrasettantenni presenti nelle carceri italiane risultavano ben 587, mentre i detenuti con un’età compresa tra i 60 ed i 70 anni erano 2.489.
L’attuale situazione carceraria, caratterizzata in molti Istituti di Pena da sovraffollamento, condizioni igieniche ed ambientali degradate, carenze dell’assistenza sanitaria e insufficiente presenza di Personale penitenziario, per i detenuti anziani rappresenta una vera e propria condanna a “morire di carcere”.

Detenuti ultra 65enni morti nelle carceri italiane da inizio anno 

Cognome

Nome

Età

Data morte

Causa

Carcere

Ciulla Giuseppe

67 anni

18-mag-13

Malattia Torino
G. Pierino

73 anni

8-mag-13

Malattia Teramo
Bombaker Sliman

78 anni

2-mag-13

Malattia San Vittore (Mi)
De Deker Jacques

66 anni

31-mar-13

Malattia Sassari
Iaria Giovanni

65 anni

12-feb-13

Malattia Asti
Pasquini Francesco

77 anni

3-feb-13

Suicidio Lanciano (Ch)
Finotto Savino

70 anni

20-gen-13

Malattia Udine
Paradiso Michele

76 anni

19-gen-13

Malattia Vibo Valentia


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Mammagialla morning

 

 

Carcere e sanzioni disciplinari, un aggiornamento e poi basta

Da alcuni giorni arrivano da più parti preoccupate richieste di notizie sulla mia situazione dopo il post del 5 novembre (vedi qui) nel quale raccontavo dei possibili rischi di sanzioni disciplinari per quanto era accaduto il sabato precedente, 3 novembre, durante un surreale incontro con la Direttrice del reparto semiliberi di Rebibbia reclusione.
L’assenza di informazioni aggiornate sulla vicenda e il prolungato silenzio del blog, dovuto a diverse ragioni (sovraccarico di impegni e semi-vita familiare che ho dedicato più del solito a mio figlio), hanno creato un po’ di allarme.
Mi scuso innanzitutto con i compagni, gli amici e i lettori che ringrazio per l’attenzione e la premura dimostratami.
Corro subito ai ripari cercando di spiegare per sommi capi cosa è successo nel frattempo.

La contestazione disciplinare
Col senno del poi posso dire che la decisione di raccontare subito quanto accaduto il mattino di quel sabato è stata una scelta lungimirante. Il lunedì successivo (5 novembre), infatti, al rientro serale in carcere l’ispettore di turno mi ha informato della presenza di una contestazione disciplinare mossa a mio carico dalla Direttrice di reparto protagonista dell’episodio.
Il testo, molto lungo e scritto a mano sul registro delle udienze, era di difficile lettura. Al suo interno si forniva un resoconto incompleto e non corrispondente allo svolgimento dei fatti avvenuti, soprattutto si delineava un profilo disciplinare della mia condotta verbale etichettata come «irrispettosa e offensiva».
Nel testo, che sembrava uscito da una pièce di Ionesco, la responsabile di reparto mi attribuiva frasi prive di senso, frutto di palesi equivoci tipici di chi non ha la capacità di ascoltare, come il fatto che io avessi sostenuto di possedere un “contratto di lavoro trimestrale” mentre avevo inutilmente tentato di spiegare che la mia retribuzione era «a cadenza trimestrale».
Nemmeno uno come Totò nei suoi mirabolanti “quiproquo” con Peppino de Filippo era mai arrivato a tanto.
Il testo della contestazione seppure carico di stizza furiosa aveva comunque del sublime, era qualcosa che toccava i vertici del teatro dell’assurdo. Ma purtroppo per me, come per tutti quelli che vivono questi episodi nel quotidiano del carcere, quella non era una messa in scena ma il realismo carnevalesco della punizione.

La Direzione archivia tutto
Preso atto delle contestazioni ho redatto delle note difensive inviate alla Direzione. A quel punto, secondo quanto previsto dalle norme dell’ordinamento e del regolamento penitenziario che regolano i procedimenti disciplinari, entro 10 giorni dalla contestazione avrebbe dovuto svolgersi un’azione disciplinare nel corso della quale si sarebbero dovuti valutare fondatezza ed eventuale portata dei fatti contestati, per poi decidere se erogare, o meno, una sanzione.
In quei giorni di attesa una domanda dominava su tutte le altre: chi sarebbe venuto a presiedere l’azione disciplinare?
La stessa responsabile di reparto, nella tripla veste di accusa, giudice e presunta parte lesa – eventualità ammessa dall’ordinamento penitenziario – oppure, molto più opportunamente, un altro dirigente d’Istituto?
Il dilemma è rimasto tale perché allo scadere dei 10 giorni non è accaduto nulla.
Con molta saggezza chi è gerarchicamente al di sopra della funzionaria che dirige il reparto Semiliberi ha deciso altrimenti, ritenendo evidentemente infondati i rilievi mossi.

La storia poteva dirsi conclusa qui. E invece no, il veleno è sempre nella coda, ci insegna madre natura.

La nota al magistrato in cui si segnalano «atteggiamenti di arroganza, offesa e di insofferenza nei confronti della Istituzione»
Il 23 novembre mi viene notificato il rigetto di una licenza, di una sola giornata, che avevo chiesto nel fratempo per stare insieme a mia madre il giorno del suo settantasettesimo compleanno.
Leggendolo con attenzione ho scoperto che il rifiuto aveva valore di sanzione per l’episodio del 3 novembre.
Il provvedimento negativo era desunto da una nota proveniente dal carcere (la fonte non è indicata) allegata alla domanda di licenza, protocollata n° 17159/12, inviata il 7 novembre 2012, dunque due giorni dopo la contestazione disciplinare senza esito, nella quale si riferisce dell’arrivo di una «comunicazione circa comportamenti posti in essere dal Persichetti in data 5/11/12 [c’è un errore di data, Ndr] nei confronti della dottoressa Trapazzo, consistiti in atteggiamenti di arroganza, offesa e di insofferenza nei confronti della Istituzione e della singola persona».
Si riportano anche due frasi virgolettate che dovrebbero rappresenare la prova della condotta verbale incriminata. Frasi che però risultano indecifrabili.
Questo provvedimento di rigetto è ancora oggetto di ricorso presso l’ufficio del magistrato, dunque evito di entrare troppo nei dettagli. Il problema evidentemente non è il giorno di licenza rifiutato ma il merito di una sanzione erogata in assenza, non solo di infrazione disciplinare, ma addirittura della procedura prevista per valutarne il fondamento, dunque per un fatto nullo e non avvenuto. “Il fatto non sussiste” è la formula di rito in uso in questo caso.

Rigetto licenza copia

Così vanno le cose. L’espediente, il ricorso ad una “comunicazione” inviata al magistrato aggirando addirittura le stesse procedure disciplinari, per altro già poco garantiste nei confronti dei detenuti, è l’artificio che può permettere di erogare sanzioni senza alcuna verifica sui fatti, sulla loro sussistenza reale, senza accertamento delle prove, sulla pura base del principio di autorità: in questo caso la parola di una Direttrice di reparto; come a dire che i fatti non esistono ma solo le parole di chi ha l’autorità di pronunciarle.

Quando la stessa Direttrice voleva sindacare il contenuto degli articoli scritti per Liberazione
Ad onor del vero non è la prima volta che mi trovo di fronte ad una cosa del genere. Già nel febbraio del 2011 la stessa dirigente, che da poco aveva assunto le nuove funzioni di responsabile della semilibertà, aveva fatto ricorso al medesimo espediente.
All’epoca il contenzioso riguardava la richiesta di copia degli articoli indicati nella denuncia-querela avanzata contro di me da Roberto Saviano (vedi qui).
Articoli ritenuti – a detta della nuova responsabile di reparto – fondamentali per una compiuta valutazione dell’osservazione trattamentale. E perché non valutare anche le lezioni che tenevo all’università di Paris 8?
Lasciamo correre il manifesto profilo di incostituzionalità di una pretesa del genere. Un fatto di una abnormità gigantesca passato sotto silenzio.
Qualcosa di analogo mi era già accaduto al Mammagialla di Viterbo alcuni anni prima, quando il  magistrato di sorveglianza del posto si oppose ai permessi di uscita per un mio libro, Esilio e castigo, (vedi qui). All’epoca la vicenda finì sui giornali (vedi qui).
Tuttavia nel febbraio 2011 l’oggetto del contendere non poteva nemmeno essere una discussione del genere. In quel momento, infatti, non ero nemmeno a conoscenza del contenuto della querela e quindi degli articoli denunciati (in procura nonostante le ripetute richieste hanno sempre opposto il segreto istruttorio), poiché mi era stato notificato un semplice verbale di elezione di domicilio – di cui avevo fornito copia alla Direzione – nel quale si indicava unicamente il numero di protocollo del procedimento senza altre informazioni.
Per giunta la richiesta della responsabile di reparto (se è vero che gli articoli dovevano essere analizzati per redigere l’osservazione scientifica della personalità) aveva una tale portata formale che non era possibile indicare dei testi prima di averne ricevuto comunicazione ufficiale da parte della procura.
A ben vedere, dunque, è alla procura che la Direttrice avrebbe dovuto rivolgere la sua richiesta, non certo a me.
Di fronte ad una tale oggettiva impossibilità, trattandosi in ogni caso di articoli diffusi nello spazio pubblico, consigliai la Direttrice – al fine di consentirle di soddisfare la sua curiosità – di recarsi sul sito web di Liberazione, dove allora lavoravo, e cliccare il mio nome per avere completa visione di tutti i miei testi.

Sapete quale fu il risultato?
Il suggerimento venne recepito come un rifiuto di «rapportarsi correttamente con l’Amministrazione».
L’episodio, oltre ad essere prontamente segnalato all’ufficio di sorveglianza con la solita comunicazione semiclandestina,

«Il 02.03.2011 il Persichetti, durante un colloquio col Direttore di Reparto riguardante proprio tale vicenda [querela da parte di Roberto Saviano Ndr], è stato invitato a produrre gli articoli relativi alla querelle, al fine di avere un quadro della situazione; ha percepito come atteggiamento “censorio” la richiesta formulatagli dal dirigente e per tutta risposta gli ha detto chiaramente che gli scritti sono liberamente accessibili su internet e che non vedeva la necessità di doverli produrre lui. Si è pertanto ritenuto di dover informare dell’accaduto e dell’atteggiamento tenuto dal semilibero il Sig. Magistrato di Sorveglianza».

venne poi abbondantemente sviluppato nella relazione di sintesi con la quale si dissuase il magistrato dal concedermi l’affidamento in prova ai servizi sociali, avendo io l’abitudine (cito questo passo da antologia):

«La forma mentis del Persichetti lo conduce ad avere talora, un atteggiamento “paritario” (anche se tale aggettivo rischia di acquisire una valenza negativa) nei confronti di un’Amministrazione verso la quale, comunque, egli deve rispondere del proprio comportamento e non trattare da pari: il tutto, ovviamente, nel rispetto del diritti della persona.Talora però nel soggetto pare vi sia una difficoltà a rendersi conto che, a differenza di quanto accade in un rapporto tra persone fisiche, rapportarsi con l’Amministrazione richiede una diversa “dialettica”, fatta – anche obtorto collo – di una puntuale esecuzione delle direttive o anche, delle sole indicazioni fornite dalla stessa e dai suoi operatori».

A questo punto credo di avervi detto più o meno tutto. No, dimenticavo. Il racconto di quanto accaduto il 3 novembre fatto su questo blog è poi finito sulla pagina online de Gli Altri, settimanale dove lavoro. Da qui è rimbalzato sulla rassegna giornaliera di Ristretti orizzonti e così non è sfuggito alla attenzione di Rita Bernardini, parlamentare radicale attentissima alle questioni carcerarie e che esercita con grande energia e cura il potere di sindacato ispettivo nelle carceri che la funzione di deputato gli consente. La Bernardini ne ha così fatto l’oggetto di una interrogazione scritta (qui), anche se nel testo depositato mancano i riferimenti agli ultimi fatti.

Adesso vi ho detto veramente tutto. Consentitemi di non ritornarci più sopra, accada quel che accada, di tanta meschinità ne ho la palle piene.
In tutti questi anni di carcere mi è capitato di redigere centinaia e centinaia di note difensive e ricorsi per i miei malcapitati compagni di detenzione che dovevano misurarsi con episodi simili. Di queste storie oggi ho la nausea.
La vita è altrove. La mia poi è semi, metà, mezza… Se ci saranno altre puntate, e per esperienza vi posso dire che ve ne saranno delle altre perché questa storia non finisce certo qui, spero che verrano altri a scriverne. Io passo volentieri il testimone.

Ciao a tutti.

Paolo Persichetti

Link utili per approfondire
Davide Steccanella: il diritto del detenuto non deve essere a discrezione
Se nei prossimi giorni questo blog diventerà muto ora sapete perché
Vedrete questo logo per molto tempo ancora

Paolo Granzotto e il funzionario giuridico-pedagogico di Rebibbia
Kafka e il magistrato di sorveglianza di Viterbo
Permessi all’ex Br? No, se non abiura

La polizia del pensiero – Alain Brossat
Saviano e il brigatista

Se nei prossimi giorni questo blog diventerà muto, ora sapete perché!

Una tranquilla giornata di semilibertà

Sabato 3 novembre, oggi non si esce alle 7.00. C’è una lista di 15 persone convocate dalla direttrice di reparto. Poco dopo le  8.00 cominciano le udienze. Si sentono delle grida femminili uscire dall’ufficio. Uno alla volta escono i detenuti, i volti sono scuri, alcuni allucinati.
–  Ma chi è questa? Ma chi ce l’ha mannata?
Poco dopo le 10.00 tocca a me. Entro e vengo invitato a sedere. Esito prima di farlo. La direttrice è furibonda, si vede da lontano. Tuttavia all’inizio prova ad usare un tono tranquillo.
–  Risulta un ritardo nei pagamenti dei suoi stipendi, l’ultima mensilità è di agosto.
Me l’aspettavo una domanda del genere perché aveva fatto la stessa osservazione ad altri. Vuoi vedere che non sa nemmeno che i miei pagamenti sono trimestrali? Mi ero detto. Glielo spiego e tutto si risolverà facilmente. Povero illuso!
–  Dottoressa, il calendario delle mie retribuzioni è in perfetta regola. Come prevede il contratto, i compensi corrisposti dal mio datore di lavoro hanno cadenza trimestrale. A settembre è stato pagato il trimestre estivo. Il prossimo saldo è previsto a dicembre.

Che errore madornale! Senza saperlo ho pronunciato la parola indicibile: “contratto”. Cosa sarà mai un contratto? Questo oscuro oggetto dalla natura ormai sempre più evanescente.
La responsabile di reparto assume subito un’aria infastidita.
–  Ma non è regolare, non è indicato nel programma di trattamento.
–  Non so che dirle dottoressa, ma il contenuto del programma viene redatto dalla Direzione in coordinamento con il magistrato di sorveglianza. La cadenza dei pagamenti non è mai stata specificata in un nessuno dei miei programmi di trattamento, si tratta di un’informazione che è contenuta nel contratto a cui il programma rinvia.

A questo punto la direttrice obietta seccata di non aver trovato traccia del mio contratto da nessuna parte, lasciando intendere che è colpa mia perché non lo avrei mai depositato. Abbastanza sconcertato da questa replica, ma tuttavia sempre con un tono garbato, le faccio presente che nel mese di maggio ho presentato un nuovo contratto di lavoro, stipulato con una nuova testata dopo la definitiva chiusura della precedente, accompagnandolo con una richiesta di variazione del programma, il tutto in doppia copia come da prassi, con relativo modello 393 (la domandina) allegato e che tutto ciò ha dato luogo alle verifiche del caso, per giunta con un grosso ritardo e l’intervento risolutore dell’avvocato. La notifica del nuovo programma richiesto a fine maggio è pervenuta solo ad inizio luglio. Verifiche – aggiungo – che hanno coinvolto l’assistente sociale dell’Uepe, venuta sul nuovo posto di lavoro, e  la successiva valutazione della Direzione e del magistrato di sorveglianza.
Davanti alla mia replica, la direttrice si mostra sorpresa. La sua reazione mi fa capire che non è al corrente del cambiamento di datore di lavoro, dell’esistenza del nuovo programma e persino del contenuto dei miei precedenti contratti, nonostante diriga il reparto ormai da più di due anni, tant’è che mi chiede:
–  Perché ha un contratto a tempo determinato?
– Ho sempre e solo avuto contratti del genere, scritture private rinnovate annualmente e che ho sempre consegnato in copia a questa Direzione. I pagamenti previsti erano sempre trimestrali. Salvo ritardi.
–  Allora si sarebbero dovuti rinnovare anche i programmi di trattamento ad ogni scadenza di contratto!

Posto che probabilmente ciò accade solo se vi è un cambiamento di datore di lavoro o di mansioni, o di altre variazioni qualsiasi; ma se il rinnovo consiste in un prolungamento del precedente rapporto lavorativo, senza cambiamenti, vi è da supporre che il programma resti invariato. In ogni caso una tale questione non riguarda il detenuto ma le scelte della Direzione, che se non lo ha fatto avrà avuto le sue buone ragioni. Infatti rispondo:
–  Sarà pure così dottoressa, ma cosa c’entriamo noi detenuti? A me competeva soltanto depositare i rinnovi contrattuali e l’ho fatto.
–  Mi dimostri che lo ha fatto allora!
–  Come sarebbe a dire, “mi dimostri che lo ha fatto”? Vuole forse insinuare che mi è stata concessa la semilibertà senza contratto di lavoro, che da oltre 4 anni sono in situazione irregolare, a questo punto con l’avallo di ben due magistrati di sorveglianza che si sono succeduti nel frattempo e della Direzione che l’ha preceduta?
–  No, è lei che insinua che l’Amministrazione ha perso i suoi contratti.

La direttrice prende in mano un vecchio programma di trattamento, forse il penultimo, e inizia a leggere il dispositivo iniziale:
–  «Per svolgere attività lavorativa… offerta le cui modalità sono riportate nel corpo dell’ordinanza di concessione della misura». Ah, ah, vede, qui si parla di una “offerta”. I detenuti ottengono la semilibertà sulla base di una offerta di lavoro che è altra cosa da un contratto vero e proprio, che poi non portano mai.
–  Continua ad insinuare che non ho un contratto, dottoressa? Ma lo sa che concessa la misura della semilibertà, nel maggio 2008, arrivato in questo carcere sono rimasto chiuso una settimana in attesa che fosse materialmente consegnato alla Direzione il contratto (che per quel che mi riguarda era già in corso dal gennaio 2008, quando ero ancora chiuso al Nuovo complesso)? Se i miei contratti non li trovate è un problema vostro, mica mio!

L’atmosfera è ormai irrimediabilmente compromessa. La direttrice urla, sovrappone nevroticamente le domande, non ascolta le risposte, sbraita frasi scomposte. Testimone della scena è un Ispettore che nel frattempo ha aperto un cassetto e da un fascicolo tira fuori il nuovo programma. Mostra di essere perfettamente al corrente di tutto, perché ricorda il passaggio dalla vecchia redazione, che ha chiuso, alla nuova. E’ imbarazzato per la situazione, con gli occhi mi suggerisce, quasi mi prega, di non reagire. Sussurra di non rispondere. Ma la direttrice insiste, usa un’aria di sfida. Non è la prima volta. Quando è in difficoltà provoca.
–  Che fa si scalda? Come mai è così nervoso? C’è qualcosa che non va? Non è in grado di dimostrare che ha i contratti? Ce li porti, se li ha!
–  A casa ho la collezione, dottoressa. Sono sommerso da carte burocratiche, copie di fax, mobilità, licenze. Posso dimostrare quello che voglio, ma siete voi che dovete ritrovare quelle carte, altrimenti devo cominciare a preoccuparmi se qui dentro spariscono documenti ufficiali.
–  Sta forse accusando l’Amministrazione?
–  Veramente, dottoressa, è lei che accusa me di essere un truffatore, e questa è una cosa irricevibile. Lei non può farlo.

E sì, ho commesso l’irreparabile senza nemmeno accorgermene. Quello che ai suoi occhi appare il crimine peggiore, la lesa maestà. Una volta l’ha pure scritto: «La sua forma mentis lo conduce ad avere talora, un atteggiamento “paritario” (anche se tale aggettivo rischia di acquisire una valenza negativa) nei confronti di un’Amministrazione verso la quale, comunque, egli deve rispondere del proprio comportamento e non trattare da pari: il tutto, ovviamente, nel rispetto del diritti della persona. Talora però nel soggetto pare vi sia una difficoltà a rendersi conto che, a differenza di quanto accade in un rapporto tra persone fisiche, rapportarsi con l’Amministrazione richiede una diversa “dialettica”, fatta – anche obtorto collo – di una puntuale esecuzione delle direttive o anche, delle sole indicazioni fornite dalla stessa e dai suoi operatori».

Insomma dovevo fare pippa, abbassare lo sguardo, mettere giù le orecchie, prenderla per il culo come fanno gli altri, riconoscere di essere in torto, ammettere di avere truffato l’Amministrazione, due magistrati di sorveglianza, l’assistente sociale dell’Uepe, la Direzione del carcere, l’area trattamentale, la custodia, la polizia. Tutti presi per i fondelli. Tutti a credere da più di quattro anni che avevo un contratto di lavoro. E pure l’ufficio delle imposte. Fregati tutti. E a quel punto con la coda fra le gambe invocare perdono, intrecciare le dita come Fantozzi davanti al direttore megagalattico seduto su una poltrona di pelle umana nel suo ufficio all’ultimo piano.
Ammetto la mia ingenuità. Ci sono cascato! Ho continuato a pensare che non si potesse negare l’evidenza che esiste un principio di realtà. Ma l’evidenza non conta di fronte all’autorità che si ritiene infallibile. Così la direttrice è sbottata.
–  Come si permette, non può rivolgersi a me in questo modo. Vada fuori di qui!

Beh, se nei prossimi giorni questo blog diventerà muto, ora sapete perché.

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Carcere e sanzioni disciplinari, un aggiornamento e poi basta
Chi sono? Ma chi ho da esse? un servaggio!

La domandina

Anche il carcere ha la sua interfaccia. A pensarci bene è davvero sorprendente che un’istituzione che ha meccanismi tanto farraginosi e vetusti poi funzioni come una cibermacchina. Stiamo parlando del “modulo 393” dell’amministrazione penitenziaria, senza il quale il carcere si bloccherebbe. Modulo 393? In realtà il suo vero nome è domandina.
Parliamo di uno stampato che viene consegnato ai detenuti per comunicare con l’amministrazione. Per intenderci, chi vuole chiedere o rappresentare qualcosa al direttore, al magistrato, oppure al dottore, o magari all’educatrice, all’assistente sociale, all’ispettore di reparto, o ancora vuole acquistare prodotti nella lista del sopravitto, o vuole telefonare, rivolgersi alla matricola, vedere un volontario, parlare con il prete, recuperare un oggetto al casellario, o ancora chiedere i moduli dei telegrammi per poi spedirli, fare la telefonata alla famiglia, non basta che scriva una lettera o compili i moduli appositi: spesa, telefonate, eccetera, eccetera (ne esiste un’infinta panoplia). Deve accompagnare tali richieste o comunicazioni con la domandina, il modulo chiave, il passe-partout con il quale, in sostanza, si chiede di poter chiedere.
La burocrazia si esprime con un linguaggio simbolico che dice cose molto chiare. In carcere poter chiedere non è un diritto ma una concessione, un premio, come la carota da rosicchiare. Fino al 2000 al posto dell’attuale “Il sottoscritto ……. richiede” si poteva leggere “Il sottoscritto ……. prega”, formula a cui la quasi totalità dei detenuti aggiungeva “la signoria vostra”. Solo i prigionieri politici e pochi altri si rifiutavano barrando quell’umiliante “prega”. Questa è la costituzione materiale della prigione, il suo codice genetico, poi, solo poi e molto dopo, viene la costituzione, l’ordinamento e il regolamento penitenziario stampati in bella copia. Basta che manchino le domandine e non si può chiedere più nulla. Capita l’antifona! E’ molto facile staccare la spina.
E sia chiaro, non basta chiedere una volta. L’atto deve essere ripetuto continuamente. Quale è il fine di tutto ciò?
Intanto suscitare una situazione d’indeterminatezza continua. Nulla è mai veramente acquisito, tutto resta sempre incerto. Ogni risposta dipende dal responsabile di turno, dal suo umore, dalle sue inclinazioni, dalla sua economia libidinale, dal livello di sadismo che lo soddisfa.
Il detenuto è così privato d’ogni autonomia e capacità di autodeterminazione. Scrive in proposito Salvatore Verde (Massima sicurezza, Odradek 2002): il processo di sorveglianza che la domandina innesca trasforma l’originario desiderio in una istanza ridotta alla dicotomia sì/no, cioè al linguaggio binario che infantilisce la comunicazione piegandola all’esercizio del principio di autorità. E’ da ciò che deriva il diminutivo DOMANDINA, così simile a frittatina, passeggiatina, gelatino, parole che suscitano in tanti di noi ancora un fremito bambinesco. «In fondo, io sono come una madre per voi», mi disse una volta una direttrice.
Senza offesa dottoressa, ma in tal caso preferisco diventare orfano!

Sullo stesso tema
Cronache carcerarie

Paolo Granzotto e il funzionario giuridico-pedagogico di Rebibbia

Uno dei passaggi della relazione di sintesi postata nei giorni scorsi (Vedi qui), nella quale il Gruppo d’osservazione e trattamento della Casa di reclusione di Rebibbia ha chiesto al Tribunale di sorveglianza di Roma di non concedermi l’affidamento in prova al servizio sociale (articolo 47 dell’ordinamento penitenziario), obiezione accolta dal collegio giudicante che nella camera di consiglio del 3 maggio scorso ha ritenuto: «la misura dell’affidamento non idonea allo stato della rieducazione del condannato e ad assicurare esigenze di prevenzione, apparendo necessaria un consolidamento del processo avviato ed una verifica dello stesso», merita un’attenzione tutta particolare.

Il funzionario giuridico-pedagogico (comunemente definito “educatore”), estensore del testo, scrive a proposito del mio lavoro di giornalista presso la redazione del quotidiano Liberazione che «Tale condizione gli ha consentito e gli consentirà di effettuare legittimamente esternazioni che a taluno (vedasi su internet) sono parse, come detto, ideologiche ed immorali: ci si riferisce, nello specifico, alla difesa del Persichetti della decisione presa alcuni mesi fa dall’allora Presidente del Brasile, Ignazio “Lula” Da Silva, di non estradare in Italia il terrorista Cesare Battisti».

1) Notate il singolare impiego del termine “esternazione”, entrato nel linguaggio comune nei primissimi anni 90 a seguito dei numerosi, e all’epoca inusuali, interventi pubblici in sede non istituzionale del presidente della Repubblica Francesco Cossiga (in realtà aveva cominciato Sandro Pertini nel settennato precedente). Da allora il “Potere di esternare” è diventato uno degli attributi politici più importanti del capo dello Stato, come oggi sottolineano molti costituzionalisti che attribuiscono un significato positivo a questa consuetudine, ritenuta uno strumento di «garanzia ed equilibro» delle istituzioni. Giudizio esattamente opposto a quello espresso ai tempi di Cossiga, quando invece le esternazioni venivano stigmatizzate come un’azione destabilizzatrice. Per questa abitudine l’allora capo dello Stato venne definito «picconatore», al punto che Eugenio Scalfari al comando del partito di Repubblica promosse, seguito a ruota dal Pci-Pds, un tentativo di impeachment contro il Quirinale sulla scorta di quanto previsto dall’articolo 90 della costituzione.
Il potere di esternazione è dunque una innovazione “presidenzialista” della funzione di capo dello Stato che nella originaria interpretazione a centralità parlamentare della carta costituzionale era invece legata ad un maggiore dovere di riserbo: il presidente della Repubblica parlava solo in circostanze solenni o inviando lettere alla camere. Il ricordo di duci, monarchi e imperatori aveva spinto i costituenti ad attribuire alla figura del presidente della Repubblica un ruolo di mera rappresentanza simbolica, diffidando della eccessiva personalizzazione e della concentrazione dei poteri nelle mani di un singolo.
Definire esternazioni gli articoli o le interviste di un detenuto che fa il  giornalista, insinua dunque l’idea di una appropriazione eccezionale e privilegiata della possibilità di parola che altrimenti – si lascia intendere – dovrebbe essere relegata al più stretto riserbo. Come a voler dire che i detenuti non sono cittadini come gli altri, non hanno diritto di libera espressione.

2) Nello stesso passaggio, le cosiddette “esternazioni” vengono sottoposte all’insigne parere di un certo professor «Taluno», che il funzionario giuridico-pedagogico scrive di aver pescato in internet. A detta di questa autorevole fonte i miei articoli e le mie interviste avrebbero caratteristiche «ideologiche ed immorali». Poco prima, il funzionario aveva citato un’altra eminente opinione: quella del signor «Qualcuno», per il quale le mie posizioni non «riflettono un’idea» ma «piuttosto un’ideologia» (segnalata in corsivo nel testo).
Quali fossero le ragioni di questa dotta distinzione (platonico-marxista) tra il mondo sano delle idee e la gramigna dell’ideologia, sia il signor «qualcuno» che il funzionario giuridico-pedagogico non lo dicono.

Andiamo oltre. Incuriosito da tali eminenti pareri dopo aver letto la relazione del Got ho chiesto al funzionario giuridico-pedacogico dove avesse rintracciato i giudizi del signor «Qualcuno» e del professor «Taluno», perché su internet avevo trovato solo l’opinione di un certo «Talaltro», che stranamente prendeva le mie parti. Nel corso della lunga chiacchierata telefonica che fece seguito alla mia chiamata, il funzionario mi ha confessato che il professor «Taluno» altri non era che Paolo Granzotto del Giornale.

L’educatore sosteneva di essersi ispirato per quel giudizio ad un articolo di Granzotto, un giornalista le cui posizioni – come è noto – non riflettono un’ideologia ma un’idea, che poi questa sia di estrema destra, o peggio razzista, non importa.

Ma chi è Paolo Granzotto (leggete qui)? Biografo di Indro Montanelli, con il quale ha lavorato al Giornale dove è rimasto dopo l’arrivo di Berlusconi, Granzotto è stato sanzionato dall’Ordine dei giornalisti per aver scritto in un articolo del 2009, pubblicato su Il Giornale, che bisognava rispedire al mittente «la feccia rumena» (vedi qui). Per queste espressioni xenofobe ha ricevuto la sanzione della censura che viene inflitta nei casi di «abusi o mancanze di grave entità» e «consiste nel biasimo formale per la trasgressione accertata». La fonte battesimale ideale per esprimere giudizi di moralità e liceità sul pensiero altrui. Davvero un’ottima scelta quella del funzionario giuridico-pedagogico di Rebibbia penale.

Ma non è ancora finita. Ho cercato l’articolo di Granzotto (che potete leggere qui), e cosa ho scoperto?
Granzotto non scrive mai la parola immorale. Non pronuncia mai quella frase. Quanto sostiene il funzionario giuridico-pedagogico non c’è. Nel pezzo del 3 gennaio 2011 Granzotto, come suo solito, scrive un sacco di fesserie. In poche righe riesce a piazzare due grossolane falsità: pur di spingere sul tasto dell’impunità dimezza gli anni di carcere da me scontati all’epoca, 6 anziché 12, e mi attribuisce una frase mai detta in una intervista che avevo rilasciato il 2 gennaio 2011 a Repubblica. Nell’articolo non c’è altro.

L’educatore di Rebibbia mente quando dice di aver trovato su internet giudizi che stigmatizzavano i miei articoli. Privo del coraggio delle proprie opinioni, ha cercato malamente di attribuirle ad altri tentando goffamente di fornire loro un manto d’autorità. E quale autorità: il signor «Taluno», alias Paolo Granzotto… che poi non è.

Nell’Ordinamento penitenziario questo lavoro viene pomposamente definito: «osservazione scientifica della personalità».

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Cattivi maestri e bravi bidelli: le carte truccate di Paolo Granzotto
Paolo Granzotto: “Cacciamoli, Bucarest si riprenda le sue canaglie
Paolo Granzotto sanzionato per razzismo. Aveva scritto: “Rispedire al mittente la feccia rumena”
Granzotto il reggibraghe degli imprenditori
Kafka e il magistrato di sorveglianza di Viterbo
Negato un permesso all’ex-br Paolo Persichetti per il libro che ha scritto
Permessi all’ex br: No se non abiura

Il rapporto di Antigone: nelle carceri sovraffolamento e degrado. Unica soluzione l’amnistia

Presentato l’ottavo rapporto dell’associazione Antigone. Ogni 5 giorni si toglie la vita un detenuto. Nelle prigioni un recluso ogni mille si suicida, all’esterno solo una persona ogni 20 mila. Dall’inizio del 2011 si contano già 154 morti, di cui 53 per suicidio

Paolo Persichetti
Liberazione 29 ottobre 2011


All’ex pm antiterrorismo Franco Ionta, oggi capo dell’amministrazione penitenziaria, non è piaciuto  l’ottavo rapporto sulla condizione della detenzione, intitolato “Prigioni malate”, presentato ieri dall’associazione Antigone. Invitato alla presentazione del volume, il massimo responsabile delle carceri si è eretto a «coscienza critica» di chi, come Antigone, denuncia l’insostenibile situazione delle prigioni. Un singolare esercizio di “critica della critica” che sarebbe stato più utile rivolgere alla tragica quotidianità della realtà carceraria.
Dietro alla valanga di cifre che il rapporto elenca emerge una situazione già ampiamente nota: siamo il Paese con il maggior tasso di sovraffollamento carcerario in Europa dopo la Serbia mentre i nostri tassi di criminalità sono scavalcati da Francia e Spagna. Antigone cita i dati comparativi rilevati dal Consiglio d’Europa e da Eurostat. Attualmente per ogni 100 posti disponibili ci sono 47 detenuti eccedenti.
Gli istituti di pena sono oramai enormi lazzaretti, degli ospizi per derelitti, vaste discariche dove viene confinato ogni dolore e malessere sociale, nelle quali si ammassano umiliati e offesi, vite rottamate, sfigati senza speranza. Nel sistema penitenziario, quelle che con un eufemismo sociologico vengono definite «nuove povertà» ammontano oramai a circa l’80% della popolazione reclusa.
Una parte della popolazione è predestinata a convivere con la reclusione, è questo il dato strutturale della politica penitenziaria. Guarda caso questa porzione di popolazione è sempre la stessa: un terzo degli attuali 67.429 incarcerati sono stranieri mentre nel corso di un intero anno hanno fatto ingresso in cella ben 84.641 persone. Il profilo classico è quello del giovane privo d’istruzione e con problematiche esistenziali legate alla tossicodipendenza. Un dato che rende uniche le carceri italiane rispetto alla situazione europea. Una buona parte dei reclusi proviene dall’Italia meridionale. Non a caso la Puglia risulta la regione più sovraffollata con un tasso del 183%. Chi viene dal Sud non ha titoli di studio, appartiene ai ceti sociali più bassi. Chi arriva dai paesi d’emigrazione vede aumentare, molto di più che nel passato, la probabilità di finire imprigionato. Cifre che indicano come il carcere rinvii ad uno degli aspetti più crudi della discriminazione di classe mentre il richiamo alla legalità è la macchina ideologica che legittima e riproduce questa dominazione.
La misure alternative funzionano a macchia di leopardo rasentando un sistema che assomiglia ad un specie di feudalesimo giudiziario: a parità di reato attribuito, pena comminata, percorso penitenziario svolto, il trattamento riservato dai tribunali di sorveglianza assomiglia alla ruota della fortuna. La Cassa delle ammende, riservata per statuto al finanziamento delle attività trattamentali esterne, è stata stornata per finanziare nuove carceri e infrastrutture. Il Dap spende appena 4 euro a detenuto per tre pasti giornalieri, confidando nelle loro tasche per l’integrazione dei generi alimentari tramite il sopravvitto. Solo che il lavoro scarseggia e le mercedi sono state ridotte. Non esistono appalti trasparenti per le ditte fornitrici, ma un’attribuzione mafiosa concessa per «licitazione privata». In altre parole, la gara non è aperta a tutti. «Questo sistema – denuncia Antigone – ha prodotto e continua a produrre un’oligarchia di fornitori di pasti a crudo priva di qualsiasi controllo e basata sugli introiti per le ditte appaltatrici derivanti dal sopravvitto». In Italia – secondo quanto si legge nel rapporto – sono due le ditte a spadroneggiare in questo settore: «la Arturo Berselli & C. spa e la Seap spa». La prima attiva, direttamente o attraverso società legate, in oltre 40 istituti; la seconda presente in 26 istituti.
Che le prigioni fossero una purulenta sentina della società è stato scritto, detto e ribadito fino alla nausea. Un’ovvietà che suona come una vuota retorica dell’indignazione, non più udibile da chi vi è costretto a trascorrere periodi sempre più lunghi della propria esistenza. Secondo Vittorio Antonini, coordinatore dell’associazione Papillon: «Dopo anni di denunce non è il più il momento di spiegare a partiti di maggioranza e di opposizione, o addirittura al governo, quanto sia drammatica la realtà nelle carceri. Questa fase è finita. Si tratta invece di imporre a tutti concreti e immediati atti di responsabilità prima che le carceri scoppino. Per quel che ci riguarda – conclude – continueremo a rivolgerci alla base elettorale di tutti i partiti per spiegare quanto sia criminogeno il comportamento dei loro eletti».

Link
Cronache carcerarie

L’insostenibilità economica del sistema penitenziario

Caro-carceri, riduciamo i detenuti e dimezziamo strutture inutili

Paolo Persichetti

Liberazione 18 agosto 2011

La domanda giusta non è quanto costa un detenuto ma quanto costano le carceri. In questi tempi di urgenza economica di fronte alle manovre speculative dei mercati finanziari sul debito pubblico, mentre il governo ha annunciato una nuova manovra economica correttiva per il rientro del deficit che prevede ulteriori tagli e imposte che vengono ad aggiungersi ai pesanti interventi già introdotti nella prima stesura della legge di bilancio, in presenza di una situazione di sovraffollamento carcerario senza precedenti (67 mila detenuti), dovrebbe imporsi nel dibattito che si aperto sui rimedi da intraprendere (patrimoniale, tassa sulle speculazioni finanziarie, abolizione della cosiddetta “finanza tossica”, fondi sovrani, eurobond, smantellamento delle spese militari ecc.) anche una riflessione sull’antieconomia dell’istituzione carcere.
Secondo i dati elaborati da Ristretti orizzonti, negli ultimi 10 anni il sistema penitenziario è costato alle casse dello Stato circa 29 miliardi di euro. Dal 2000 ad oggi almeno 2 miliardi e mezzo all’anno. Vista l’ingente somma impiegata è più che lecito porre domande sull’utilità pubblica e la performatività sociale di questo tipo di spesa.

La prima risposta, sicuramente la più scontata, ritiene che il sistema penitenziario sia necessario a garantire la sicurezza. Ad essa si aggiunge una variante che fa leva sulle proiezioni simboliche: la presenza del carcere si giustificherebbe con l’esigenza di trasmettere sicurezza. Entriamo qui nel campo della retribuzione simbolica: ad ogni crimine deve corrispondere una sanzione inflitta a colui che il sistema giudiziario ha individuato come colpevole. Questa retribuzione afflittiva è ritenuta decisiva poiché in grado di produrre un valore risarcitorio e rassicurante per la società.
A dire il vero anche questo effetto retributivo si è affievolito negli ultimi tempi, e non perché sia venuta meno la natura afflittiva delle pene che – stando ai dati ufficiali – si sono notevolmente allungate e inasprite come dimostra il numero degli ergastolani, oltre 1500, a cui vanno aggiunti l’alto numero di persone condannate ad una pena superiore ai 20 anni di reclusione, ma anche per la presenza dei ripetuti e numerosi vincoli ostativi introdotti nel corso degli ultimi decenni che impediscono l’accesso ai benefici penitenziari, oltre alla presenza del 41bis (regime di isolamento massimale). Nonostante ciò è convinzione diffusa che il sistema penale non punisca a sufficienza. Ad alimentare questo pregiudizio è la deriva vittimaria che ha permeato la società. Un’ideologia dall’istinto cannibalesco che ha bisogno di capri espiatori per riprodursi. Come sanno tutti gli esperti ed operatori che lavorano nel settore, la sicurezza è diventata una nozione eterea, sempre più distante dalla realtà dei fatti sociali e sempre più abitata da percezioni, fantasmi e paure. Qualcosa che investe l’inconscio sociale più che le reali condizioni della convivenza civile. Se il carcere serve a garantire la sicurezza è singolare che l’impennata d’incarcerazioni corrisponda con il decennale decremento degli omicidi, delle rapine e delle violenze. Ma allora se ci sono meno assassini e rapinatori, nonostante 9 italiani su 10 siano persuasi che la criminalità è in aumento, chi sono questi “delinquenti” che riempiono le carceri fino a scoppiare?
La risposta si trova in alcune leggi e in diversi inasprimenti del codice penale e della legge Gozzini: La Bossi-Fini che criminalizza l’irregolarità amministrativa degli immigrati; la Fini-Giovanardi che considera altamente criminale l’uso di droghe leggere e la Cirielli che infierisce sulla recidiva, vero è proprio manganello classista che colpisce i comportamenti devianti delle fasce sociali più deboli. L’innalzamento della soglia di legalità introdotto da queste normative ha trasformato in reati penali comportamenti, o devianze, precedentemente non penalizzati o affrontati con soluzioni mediche o amministrative. Siano dunque di fronte ad una questione tutta politica, ad un’idea di società, una concezione del mondo riassunta nell’orgasmo triste della vendetta incarognita, nella libidine impotente della cattiveria antropologica, divenuti il viatico di una competizione vittimaria che si avvita su se stessa alla ricerca di un appagamento senza fine. Più le carceri saranno piene maggiori saranno le richieste d’incarcerazione e le proteste per la troppa indulgenza. Un fallimento per un sistema penale che punta a garantire se non la sicurezza almeno la sua percezione.

La seconda risposta evoca per il carcere la funzione rieducativa. Una contraddizione in termini per non dire una bestemmia. Questo mito morale e utilitaristico, iscritto persino nella costituzione, è tuttavia smentito proprio dai conti. L’80% del bilancio penitenziario è assorbito dal personale (48 mila dipendenti tra custodia, amministrativi, direttori, educatori). Solo il 13% va al mantenimento dei detenuti (corredo, vitto, cure sanitarie, istruzione, assistenza sociale), il 4,4% serve alla manutenzione, il 3,4% al funzionamento (energia elettrica, acqua). In tempi di iperliberismo l’unica dose di keynesimo legittimo sembra essere solo quello della sofferenza.
I tagli imposti nelle ultime finanziarie hanno provocato una riduzione diseguale delle risorse: 5% sul personale; 31% per tutto il resto. Considerando che in 30 mesi i detenuti sono aumentati di quasi 30mila unità, le risorse procapite per detenuto sono precipitate dai 200 euro al giorno del 2007 ai 113 del 2010. Appena 3,95 euro giornalieri per i pasti e 11 centesimi per le attività scolastiche, culturali e sportive.

Se l’esperienza carceraria è dunque così fallimentare perché non gettare la scure dei tagli proprio a partire dal numero dei detenuti e delle carceri?

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Niente amnistia perché ci vogliono i 2/3 del parlamento? Allora abolite le ostative del 4bis e allungate la liberazione anticipata. Basta la maggioranza semplice
Cronache carcerarie

Stefano Cucchi, “non l’uccise la morte ma chi volle cercargli l’anima a forza di botte”

Il libro di Ilaria Cucchi sulla morte del fratello Stefano: «Nessuno deve più morire in un carcere o in una caserma». Ostacoli e retroscena su una verità che fa paura alle istituzioni. Vorrei dirti che non eri solo. Storia di Stefano mio fratello, Rizzoli 2010

Paolo Persichetti
Liberazione 22 ottobre 2010

«Noi non c’entriamo, la divisa non ha colpa». Si congeda con queste parole il maresciallo dei carabinieri che aveva portato alla madre di Stefano Cucchi la notizia del decesso del figlio, esattamente un anno fa nel reparto penitenziario dell’ospedale Sandro Pertini. Non una imbarazzata frase di circostanza ma l’annuncio di una programmatica impunità. L’episodio è rivelato da Stefania Cucchi nel libro scritto insieme al giornalista del Corriere della Sera Giovanni Bianconi, Vorrei dirti che non eri solo. Storia di Stefano mio fratello, Rizzoli. Di frasi del genere in questa terribile storia che racconta l’oscenità del potere che si impossessa dei corpi, se ne trovano altre, come quella pronunciata da un’altro uomo in divisa davanti al reparto dove Cucchi è morto, «Ci sono tutte le carte a disposizione. Se volete potete controllare, noi siamo tranquilli». L’accesso alle carte sarà invece un percorso labirintico, per nulla spontaneo, dovuto unicamente all’attenzione politico-mediatica accesa sul caso dalla pubblicazione delle foto del corpo straziato di Stefano sul tavolo dell’obitorio e dalla caparbietà della famiglia costretta a rinunciare all proprio lutto privato. Le denunce pubbliche innescheranno una doppia inchiesta, parlamentare e amministrativa, arrivando lì dove l’indagine penale da sola non sarebbe mai giunta senza tuttavia dissolvere le molte ombre. L’autoassoluzione preventiva appartiene alle caratteristiche peculiari delle burocrazie repressive. E’ parte del patto tacito stipulato con le gerarchie in cambio della fedeltà e dei servizi prestati, spesso inconfessabili. Non a caso a sancire l’irresponsabilità è arrivato anche il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Franco Ionta, che a conclusione dell’inchiesta ministeriale affermava, «Gli accertamenti amministrativi hanno rilevato fin qui l’assenza di responsabilità da parte della polizia penitenziaria», nonostante l’indagine interna redatta dal numero due del Dap, Sebastiano Ardita, traesse ben altre considerazioni. «Quando ho potuto leggerla – afferma Ilaria Cucchi – mi sono resa conto che si stava tentando di celare perfino quanto scoperto dalle stesse istituzioni». A fargli compagnia le dichiarazioni preventive del ministro della Difesa Ignazio La Russa in favore dell’Arma dei carabinieri, quando le indagini erano ancora al punto di partenza, e la sortita ignobile del sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega al lotta contro le tossicodipendenze, Carlo Giovanardi, per il quale Cucchi se l’era cercata. In questa gara all’esportazione delle responsabilità non è stata da meno neanche la Asl competente per territorio sull’ospedale Pertini, che appena dieci giorni dopo il trasferimento in via cautelare reintegrava il personale sanitario indagato. Eppure nei sei giorni che l’hanno separato dall’arresto fino all’ultimo respiro Stefano Cucchi non ha fatto altro che passare di mano da una divisa e l’altra attraverso caserme, camere di sicurezza, carceri, reparti penitenziari di ospedali. In realtà le divise e i camici, inquadrati da altre divise, nella sua morte c’entrano eccome. «In tutte le tappe che hanno visto Stefano Cucchi imbattersi nei vari servizi di diversi organi pubblici, emerge una incredibile continuativa mancata risposta alla effettiva tutela dei diritti», afferma il rapporto interno del Dap che riassume così il calvario del giovane: «Assenza di comprensione del disagio, mancata assistenza ai bisogni, trattazione burocratica della tragica vicenda personale e in alcuni casi assenza del comune senso di umanità, si sono susseguiti in un modo probabilmente non coordinato e con condotte indipendenti fra loro, ma con inesorabile consequenzailità». Il tutto condito da tante violenze, prima durante e dopo, testimoniate da un corpo fratturato e pieno di ematomi. A Cucchi, come recita la canzone di De André, non l’uccise la morte ma chi volle cercargli l’anima a forza di botte. Il libro è la testimonianza dolorosa del percorso di una famiglia legata a valori tradizionali, «religione, legge e ordine», che proprio per questo scopre il tradimento delle istituzioni in cui ha sempre creduto. Una presa di coscienza che fa dire a Ilaria, “sorella coraggio”, di aver sentito dire in giro che la morte del fratello fa parte di quegli incidenti «inevitabili conseguenze di pratiche e comportamenti che servono a tutelare la sicurezza della collettività. Forse anch’io, un tempo, mi sarei lasciata andare a cose simili ma oggi so che sono inaccettabili. Perché non ci può essere un motivo valido per cui un ragazzo debba morire in un carcere o in una caserma. Non deve accadere, né deve accadere che l’opinione pubblica lo giustifichi come uno sgradevole inconveniente». Ad Ilaria e alla famiglia diciamo una cosa sola: non vi lasceremo mai soli.

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