L’eresia brigatista e il suo inquisitore

Biblioteca della spazzatura  – Alessandro Orsini, Anatomia delle Brigate Rosse. Le radici ideologiche del terrorismo rivoluzionario, Rubbettino 2010

di Paolo Persichetti


Alessandro Orsini, autore di una tesi sulla «mentalità religiosa presente nel terrorismo moderno», è convinto che la vicenda delle Brigate rosse possa essere spiegata con le lenti della sociologia delle religioni. I brigatisti – afferma – «si ritenevano detentori di una conoscenza superiore destinata a pochi eletti: un manipolo di giusti, possessori della verità ultima sul significato della storia». In questo tipo di letteratura il brigatista è descritto come un rozzo portatore d’odio, raffigurato come un settario, un dottrinario, un fanatico imbevuto d’idee fin troppo semplici, espressione di un “pensiero dicotomico”.
«La mentalità del brigatista – sostiene – è elementare, istintiva, brutale nella sua immediatezza». Il suo scopo è diffondere una «pedagogia dell’intolleranza». Secondo questa vulgata, chi ha fatto la lotta armata sarebbe nemico della complessità e del dubbio, ostile al ragionamento, inadeguato alla modernità. Se aggiungiamo la coda e le corna il ritratto appare completo.
Nella prosa di questo giovane studioso, insignito del premio Acqui sulla saggistica socio-politica, che ha visto il suo lavoro apprezzato e tradotto negli Stati uniti dove è normale sovrapporre i fenomeni politici radicali alle dinamiche del settarismo religioso, riproducendo quella che è stata la genealogia della nazione americana, si ritrovano gli stessi dispositivi inquisitoriali utilizzati dai frati domenicani che esercitavano il ruolo dell’accusa nei tribunali dell’Inquisizione.
Le Brigate rosse, ci fa sapere Orsini, sarebbero colpevoli di eresia gnostica: «una setta nella tradizione dello gnosticismo rivoluzionario, di cui possiedono tutte le caratteristiche: l’ossessione per la purezza personale; un catastrofismo radicale, secondo cui il mondo sarebbe immerso nel dolore e nella sofferenza; di conseguenza la concezione salvifica della rivoluzione come un’apocalisse che squarcia le tenebre e instaura una “società perfetta”; l’identificazione del nemico come il maligno, un mostro responsabile dell’infelicità umana e dunque da sterminare; infine la mentalità “a codice binario” che riduce tutti gli aspetti della realtà alla contrapposizione tra forze del Bene e forze del Male». Dei monaci giustizieri, insomma.
Rovesciare lo sguardo manicheo portato dal mondo delle istituzioni e dei media sugli anni 70, attribuendolo ai brigatisti, è un atteggiamento concettuale molto elementare. Quella proposta da Orsini è una operazione di rilettura storica priva di qualsiasi sofisticata elaborazione intellettuale. Più che un’analisi assomiglia ad un anatema. Più che un saggio di sociologia politica pare un trattato di demonologia moderna. Orsini ruba il posto agli esorcisti.
Questa analisi della lotta armata sorprende per il suo contenuto arcaico che riporta indietro nei secoli lo studio del conflitto e dei meccanismi dell’azione collettiva. Vi riecheggiano i lavori di fine Ottocento avviati da Gustave Lebon sulla psicologia delle folle, sui timori che cominciavano a permeare i ceti borghesi e le autorità costituite di fronte all’emergere sulla scena pubblica delle masse popolari e del movimento operaio nelle sue prime forme organizzate. Il nuovo protagonismo delle classi lavoratrici, fino allora silenziose, solo perché disturbava il monopolio borghese dello spazio pubblico e ne infrangeva la quiete, era ritenuto pericoloso, percepito come l’ingresso dell’irrazionale e dell’inconscio nel comportamento collettivo, espressione di una violenza atavica e bruta. D’altronde basterebbe scorrere la letteratura e la pubblicistica successiva alla Comune di Parigi per rintracciarvi alcuni stilemi assolutamente tipici e ripetitivi nei secoli della demonizzazione rivolta nei confronti di chi è stato protagonista di episodi rivoluzionari (Cf. Paul Lidsky, Les Écrivains contre la Commune, La Découverte, 1999).
Posizione che tuttavia già la scuola positivista di fine Ottocento aveva superato classificando la violenza politica come una manifestazione “evolutiva” del divenire sociale, tesa cioè ad affrettare il futuro anticipando i sistemi politici-sociali a venire. A distanza di oltre un secolo ci saremmo attesi, dunque, un confronto su modelli interpretativi più aggiornati. Peraltro, contrariamente a quanto sostiene l’autore, all’interno di tutte le ribellioni e i percorsi insorgenti viene a formarsi sempre una componente autocritica e autoriflessiva che s’interroga costantemente sulla sua logica (Cf. (Vincenzo Ruggiero, La violenza politica, Laterza, 2006). Insomma se non c’è dubbio non c’è ribellione. L’esatto contraio di quel che racconta Orsini.

3 pensieri su “L’eresia brigatista e il suo inquisitore

  1. Senza scomodare la religione e le eresie, è facile ricordare che ogni movimento insurrezionale si è accompagnato a una forte carica di moralismo: dall’incorruttibile Robespierre alla durezza di Lenin al rigore di Che Guevara nel formare e gestire la guerriglia a Cuba e in Bolivia. “La rivoluzione non è un pranzo di gala”, diceva qualcun altro che se ne intendeva. E se Pesce e i suoi gappisti non si fossero ritenuti investiti di un compito morale superiore non sarebbero riusciti a fare quello che facevano…

  2. Caro recensore,

    grazie di avere letto il mio libro e perdona il ritardo con cui replico alle tue critiche.

    La mia interpretazione del fenomeno delle Brigate rosse è interamente basata sulle testimonianze di molti suoi militanti (pentiti, dissociati e irriducibili). Ho semplicemente dato voce ai documenti brigatisti. Questo non significa che tutti i brigatisti rossi siano d’accordo tra loro o con la mia interpretazione. È un fatto, però, di cui ho dovuto tener conto, che numerosi militanti, tra cui alcuni importanti irriducibili, abbiano affermato: “Potevamo uccidere le nostre vittime dopo averle spogliate della loro umanità attraverso un percorso ideologico che ti massacra dentro e ti fa regredire a livello animale” (sono le parole pubblicate da un brigatista irriducibile). Oppure: “Uccidevo perché mi sentivo investito di una missione superiore che mi faceva sentire in diritto di colpire le mie vittime”. Oppure: “Non avevamo la minima idea di quello che volevamo costruire. Ciò che ci animava era il desiderio di distruggere tutto”. Oppure: “Entrare nelle Brigate rosse era come salire su una pira accesa”. Oppure: “Il mondo per noi era soltanto o bianco o nero per questo non siamo riusciti mai a tornare indietro perché avevamo questa idea della militanza rivoluzionaria come di un gesto sacrificale”. Oppure: “Eravamo assetati di assoluto. Noi eravamo il Bene; gli altri erano il Male”.

    Il mio libro ha ricevuto molte critiche da coloro che condannano il terrorismo “perché Orsini, con un’operazione vergognosa, ha dato ai brigatisti rossi una dignità politica e culturale, inserendo la loro azione criminale all’interno di una nobile tradizione rivoluzionaria che non ha niente a che vedere con un gruppo di assassini”. Ovviamente, “Anatomia delle Brigate rosse” è stato criticato anche da coloro che simpatizzano con le Brigate rosse, i quali mi accusano di avere condotto una bassa operazione di demonizzazione (per non parlare delle critiche di coloro che sono legati alla storia del Pci, i quali hanno detestato e disprezzato i miei studi sul ruolo pedagogico del Pci nella nascita delle Brigate rosse).

    A mio giudizio, “Anatomia delle Brigate rosse” è un libro che invita a non demonizzare il fenomeno brigatista. Non sono stato io a scrivere, nella prima pagina del mio libro, che demonizzare i brigatisti rossi è un modo per condannarsi a non comprenderli sotto il profilo storico e sociologico? In un libro di 500 pagine è possibile individuare, in perfetta buona fede, una o due frasi capaci di sorreggere la tua critica. Bisognerebbe però tenere in considerazione decine e decine di pagine che la smentiscono.

    Sul fatto che la mia interpretazione sarebbe basata su concetti e teorie “preistoriche” non sono d’accordo. Ad ogni modo, se anche tu avessi ragione, il tuo argomento, per quanto sensato, non sarebbe decisivo. Seguendo il principio: “È una teoria sbagliata perché non è recente”, saremmo costretti a buttare a mare tutto ciò che Marx ed Engels hanno scritto.

    Un caro saluto.

    Alessandro Orsini

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