Giorgio Amendola, il dirigente del Pci che detestava la classe operaia


Paolo Persichetti, l’Unità 21 giugno 2023

Nel 1968 Giorgio Amendola pubblicò un audace volumetto dal titolo, La classe operaia italiana, nel quale il leader storico dell’ala destra del Pci azzardava una singolare analisi del ceto operaio criticando la linea del suo partito e del sindacato, accusata di privilegiare quella minoranza di classe operaia che lavorava nelle grandi fabbriche, dimenticando il grosso dei lavoratori impiegati nella piccola e media impresa. Secondo Amendola occorreva ribaltare tutta la linea allora prevalente nei tre grandi sindacati italiani e anche nei partiti della sinistra. Singolare posizione che sembrava non riuscire a cogliere le dinamiche politiche del conflitto sociale. Furono proprio le lotte condotte nei grandi aggregati industriali a strappare alcune decisive conquiste, all’interno del contratto nazionale, di cui beneficiò soprattutto chi lavorava nelle piccole e medie imprese prive della forza contrattuale e politica delle grandi fabbriche. Conquiste, non solo salariali ma soprattutto contrattuali, capaci di intervenire sui ritmi, gli organici, gli straordinari, i lavori nocivi, la mensa, le 150 ore, gli aumenti uguali per tutti.

L’egualitarismo
C’è un aspetto che mandava Amendola su tutte le furie, ma non solo, perché si trattava di una cultura consolidata nel sindacato degli anni 50 e 60 e nei dirigenti del Pci, ovvero l’egualitarismo. Una rivendicazione che spiazzava le gerarchie sindacali ma soprattutto scardinava il sistema disciplinare della fabbrica, strumento di potere di “capi” e “capetti” con il loro sistema di premi, ricatti, compensi e punizioni. Rivendicazione politica innanzitutto, strumento di libertà dentro le officine. Dove nasceva l’ostilità storica di Amendola verso il protagonismo dei ceti operai? Probabilmente dalla sua originaria formazione culturale, dalle origini alto borghesi, da una visione elitaria della politica che attribuiva al partito comunista una funzione pedagogica delle masse, che andavano guidate, dotate di una rigida morale da perseguire, gerarchizzate. Per Amendola il partito comunista doveva portare a termine quella rivoluzione borghese che il partito liberale del padre non era stato in grado di compiere.
La sua classe operaia ideale era fatta di uomini pronti ad accettare l’egemonia e la tutela del partito, disposti a riconoscere la funzione maieutica a quei capi capaci di trasformarli da plebe in operai consapevoli. Ubbidienti e pronti e stringere la cintola per fare i sacrifici necessari al paese al posto di quella borghesia inesistente (sic!) e dimostrarsi così classe nazionale, ceto di governo.

La rude razza pagana
Quando sul finire degli anni sessanta una «rude razza pagana» rifiutò questi vecchi schemi e ruppe con la cultura delle commissioni interne imponendo i delegati “senza tessera”, esprimendo un altissimo grado di autonomia politica, Amendola intravide in questo protagonismo operaio, espressione per altro di una mutata sociologia di classe e di una nuova forma di capitalismo, un nemico insidioso da contrastare, da domare in tutte le forme e maniere.
L’ex segretario della Fiom e poi della Cgil Bruno Trentin, in una conversazione con Vittorio Foa e Andrea Ranieri (La libertà e il lavoro, volume curato da Michele Magno), spiegò il lungo dissenso che lo oppose ad Amendola. Quando vennero gli anni in cui si cominciava a discutere delle trasformazioni del capitalismo – racconta Trentin – Amendola «era su una linea pauperistica, di un Gramsci assolutamente mal letto». Per Amendola era la classe operaia che doveva fare la rivoluzione borghese, «perché c’è una società senza borghesia o con una borghesia stracciona che non è in grado di fare niente». Una linea – continua Trentin – a cui sfuggivano le trasformazioni reali del nostro capitalismo». Lui arrivò a ridicolizzare su Rinascita – prosegue sempre Trentin – «la mia proposta di organizzare i disoccupati nelle lotte per il lavoro, e quasi a criminalizzare certe posizioni del sindacato nei confronti dei quadri. Noi ponevamo il problema della loro conquista politica, e lui sosteneva che erano un ceto a sé. Beh, la mia convinzione è che lui era un liberale ma non un democratico. All’interno del partito, e nella sua concezione generale del rapporto tra democrazia e sviluppo economico. Il dissenso con lui si sviluppò su molti terreni. Lui era convinto che l’unità sindacale riguardasse solo la Uil e non la Cisl, che considerava un nemico. La possibilità di dialogo con i cattolici era un problema di rapporto con le gerarchie religiose, non con un sindacato. Rimase su questo coerente fino in fondo; non capiva quella realtà complessa che era la Cisl. In una riunione di partito a Frattocchie, si schierò insieme a Novella contro i consigli dei delegati irridendo a questa esperienza. Diceva che avremmo fatto un centinaio di consigli contro migliaia di commissioni interne: successe esattamente l’opposto. Ma l’attacco fu molto aspro perché fare eleggere dei delegati su scheda bianca, voleva dire, a suo parere, delegittimare il partito e la sua possibilità di presenza nei luoghi di lavoro».

Manifesto antioperaio
Dopo la sconfitta dell’esperienza del compromesso storico e la prima flessione elettorale del Pci del giugno 1979, invece di ragionare sulla posizione suicidaria tenuta dal gruppo dirigente durante il sequestro Moro, temendo un ritorno all’opposizione del partito Amendola puntò il dito contro una linea – a suo dire – troppo morbida tenuta nelle fabbriche verso l’irruenza operaia, le «rivendicazioni di democrazia diretta», le pratiche di lotta non ortodosse, il contrasto troppo debole verso la violenza operaia, il proliferare di un rivendicazionismo corporativo e contraddittorio. Rimproverava al Pci «di non avere criticato apertamente, fin dal primo momento» l’estremismo in fabbrica, «per una accettazione supina dell’autonomia sindacale e per non estraniarsi dai cosiddetti movimenti, abdicando alla funzione che è propria del Pci di diventare forza egemone della classe operaia italiana e del popolo».
Dopo il licenziamento dei sessantuno delegati di Fiat Mirafiori, accusati di violenza in fabbrica, esperimento pilota che aprì la strada l’anno successivo al licenziamento di massa di 23 mila operai, in un articolo apparso su Rinascita del 7 novembre 1979, considerato a giusto titolo il suo testamento politico e ritenuto, non ha torto, dai suoi critici un manifesto del termidoro antioperaio, Amendola mise all’indice la cultura neomarxista sorta all’inizio degli anni sessanta. Una requisitoria contro i Quaderni rossi («che restringevano all’interno della fabbrica lo scontro di classe e considerava come democraticismo ogni tentativo di allargamento del fronte con le riforme di struttura»), i Quaderni piacentini e Potere operaio, responsabili dei «tentativi di elaborazione teorica che formarono il terreno di coltura dell’estremismo, nell’incontro con l’estremismo di origine cattolica, allevato nel laboratorio della facoltà di sociologia dell’università di Trento», esperienze che avrebbero portato «alla cosiddetta “autonomia” ed infine al terrorismo». Fenomeni che il Pci non avrebbe contrasto a sufficienza, nonostante il rastrellamento del 7 aprile precedente, le carceri speciali, l’uso degli infiltrati del Pci concordato con il generale Dalla Chiesa. Un’accusa infondata alla luce di quanto poi i lavori storici hanno dimostrato ma soprattutto la prova di una cultura politica timorosa della partecipazione dal basso.
Una cosa è sicura, non sarà certo inseguendo l’insegnamento di Amendola che si potranno fondare le basi di una nuova sinistra.

La cella di Gramsci

Archivio – Visita ai luoghi nei quali Gramsci trascorse la sua vita da recluso

Nonostante l’immunità parlamentare, l’otto novembre del 1926 Antonio Gramsci veniva fermato e arrestato insieme a tutti gli altri parlamentari del gruppo comunista. Tre giorni prima erano stati varati alcuni provvedimenti «per la sicurezza e la difesa dello Stato», ulteriore tappa delle norme «fascistissime» progressivamente approvate dal dicembre 1925 e che avevano dato forma allo Stato totalitario: sciolti tutti i partiti e le associazioni che si opponevano al regime; soppressi tutti i giornali d’opposizione; abolito il diritto di sciopero, istituito il confino di polizia per i dissidenti; introdotta la pena di morte per chi avesse attentato alla vita dei reali e del Duce; istituito il Tribunale speciale per la difesa dello Stato, lo stesso Mussolini assunse l’interim dell’Interno.
I comunisti si erano fatti trovare largamente impreparati di fronte alla svolta autoritaria tanto che alla fine del 1926 circa un terzo degli effettivi del partito erano in carcere. Condotto in un primo tempo nella prigione romana di Regina Coeli, Gramsci fu assegnato al confino di Ustica ma subito poi trasferito nel carcere di san Vittore a Milano per l’istruttoria. Nel maggio del 1928 fu condannato, nel corso del maxi processo al gruppo dirigente del Pcd’I, a una pena di reclusione poco superiore a vent’anni. Assegnato al carcere di Portolongone fu trasferito per ragioni di salute nella prigione di Turi, in Puglia. In seguito ai provvedimenti di amnistia e di condono per il decennale fascista, la sua condanna fu ridotta a 12 anni e 4 mesi. A causa di un aggravamento delle sue condizioni di salute, dopo diverse richieste nel 1933 viene trasferito in una clinica a Formia. Il 25 ottobre 1934 ottiene la libertà condizionale, che al contrario di oggi non prevedeva il «ravvedimento» da parte del detenuto. Nei mesi successivi si trasferisce a Roma, presso la clinica Quisisana, per un lungo periodo di degenza. Riacquisita la piena libertà nell’aprile 1937, muore il 27 dello stesso mese a causa di un’emorragia cerebrale.

Nessuno nel carcere di Turi dimenticherà il detenuto 7047

l’Unità 27 aprile 1950
Pagina 3
Domenico Zucaro

Turi aprile – Un po’ appartata e quasi isolata dai giardini pubblici se ne sta la casa penale di Turi, dove per più di cinque anni rimase «ristretto» Antonio Gramsci.

[…]

Indietro nel tempo
Sono passate le nove del mattino. E’ l’ora migliore per la visita. Due guardie carcerarie mi fanno entrare. Avverti la presenza di un qualche cosa che domina su tutta la vita di un penitenziario, dal momento che ti senti chiudere il grosso portone alle spalle. Allora non ti rimane che seguire i movimenti dell’agente-portinaio, numero uno, poi del secondo, di tutti gli altri infine. Entriamo cosi nel regno del «Regolamento». Sfoglio il grosso libro matricola. Giro le pagine e si va indietro nel tempo: a me interessa il numero 7047 che era quello di Antonio Gramsci durante la detenzione in questa casa penale.

[…]

Una dura odissea
Nello stesso imbarazzo mi sono trovato quando ho preso contatto con altre cose che riguardano direttamente Gramsci e sono ancora qui vive. Allora da tutto l’insieme ho avuto una nozione delle sue sofferenze, della condizione in cui per 5 anni e 4 mesi ha vissuto Gramsci in questo penitenziario.
Antonio Gramsci pare fosse stato assegnato in un primo tempo al penitenziario di Portolongone per scontare la pena di 20 anni e 4 mesi e 5 giorni di reclusione. Alla richiesta del pm Isgrò, secondo il quale il cervello di Gramsci per vent’anni non avrebbe dovuto funzionare, il Presidente del Tribunale Speciale, Generale Saporiti, aderì in pieno ed aggiunse una pena accessoria di L. 6.200 di mutui e 3 anni di vigilanza, come risulta dal foglio matricolare.
Invece, date le sue condizioni di salute, Gramsci ebbe per destinazione Turi. Così il 19 luglio 1928 insieme a due detenuti comuni lombardi, condannati per appropriazione indebita e falso, vi giunse dopo una traduzione durala più di 15 giorni.
Questo trattamento indiscriminato metteva Gramsci sullo stesso piano dei detenuti comuni mentre ai detenuti politici in condizione di salute precaria spettava la traduzione diretta. A Gramsci fu riservato sempre il trattamento peggiore nei suoi trasferimenti da un carcere all’altro: lunghe soste su binari morti, viaggi su carri bestiame in pieno inverno e cosi via. Soltanto nel trasferimento da Turi a Civitavecchia gli fu consentila la traduzione più comoda. Difatti sul foglio matricolare, il 19 Novembre 1933 è la data di trasferimento, e sti sa che fu preso in forza lo stesso giorno dalla Casa Penale di Civitavecchia. Allora Gramsci era già in condizioni di salute disperate.
Il carcere di Turi nella classificazione degli stabilimenti di pena viene considerato come casa di cura per detenuti infermi. Ma non vedo come possa in buona fede essere sostenuta una tale distinzione, non so se e sufficiente per questo una misera infermeria sprovvista quasi di ogni specie di attrezzatura e la presenza saltuaria di un medico.

Il compaesano di Gramsci
I detenuti politici avevano un cortile tutto per loro, diviso dai «comuni», a mezzo di un doppio muro, tra cui corre una specie di camminamento. Qui Gramsci veniva nelle ore stabilite dal regolamento e s’incontrava con gli altri compagni che allora erano una cinquantina. E forse anche lui aspettava ansioso «l’ora dell’aria», come sempre hanno fatto e fanno t detenuti. Di questi ce n’è ancora uno. E’ l’ergastolano Faedda che vedeva tutti i giorni Gramsci. Quest’uomo ora ha 73 anni ed è nativo di Bazanta, paese vicino ad Ales, luogo di nascita di Gramsci.
Faedda nel 1928 è stato lo scopino del Teatro dei «politici» – : cioè faceva pulizia nelle celle, portava il vitto giornaliero ai detenuti e così lasciava pacchi, libri, riviste, ccc. Mi dice che allora per questi servizi riceveva dall’Amministrazione 14 lire al mese. Ma tutti i «politici» gli regalavano sempre qualcosa in natura. Quando al mattino entrava nella cella di Gramsci lo trovava già al lavoro e spesso faceva con lui una chiacchierata in dialetto sardo. Se poi era di buon umore, ben volentieri Gramsci scherzava con lui – Mi batteva la mano sulla spalla e mi diceva: «Coraggio Faedda, presto andremo via da qui» – racconta Faedda – Non gli chiedevo nulla, ma lui mi regalava o una pagnotta di pane o del vino o del formaggio. Una volta mi diede due sigari.

I ricordi del secondino
La guardia scelta Vito Semerano – anche lui ha conosciuto Gramsci – presta servizio in questo penitenziario da 23 anni; attore faceva il turno nel braccio «politici», al primo piano. Forse Semerano è stato l’uomo che he avuto il maggior rispetto in questo luogo per Gramsci. E questa considerazione mi viene suggerita da un particolare che Semerano mi racconta.
Ci troviamo davanti alla porta della cella di Gramsci e lui mi parla delle sofferenze negli ultimi tempi di Gramsci per il suo stato grave di salute. Specialmente il sistema nervoso doveva essere molto scosso e non poteva dormire. So che per regolamento la luce nell’interno della cella deve rimanere sempre accesa durante lo notte.
– A una certa ora la spegnevo – mi dice Semerano. Era lui infatti di sorveglianza durante la notte; quando poi era di turno durante il giorno spesso entrava in cella e trovava Gramsci al tavolo di lavoro.

Attività instancabile
– Copiava sempre dai libri – mi dice – e mi chiederà i quaderni per scrivere. Quando ne aveva riempito uno, me lo consegnava ed io lo passavo al direttore. Una volta bollale le pagine, veniva depositato in magazzino. Gramsci preferiva depositare i suoi quaderni per evitare che nelle perquisizioni venissero sciupati. Qualche volta si faceva comprare dell’inchiostro fuori dal carcere perché migliore.
Chiedo, a Semerano quanti quaderni consumasse in un mese; lui ricorda che arrivava a portargliene anche una quindicina. Gli dico che adesso quei quaderni sono già usciti in parte stampati in diversi volumi e comprendono tutta l’opera che Gramsci ha scritto in questa cella. Semerano mi sorride e mi fa appena sentire la sua voce: – Avevo compreso che erano molto importanti! –. Semerano ricorda ancora che alla partenza da Turi furono riempite quattro casse di libri e manoscritti.
La lapide di marmo murata sulla facciata dei penitenziario serve soltanto per dare una nozione al pellegrino di passaggio, perché la maggior parte dei turesi ha nella memoria la propria immagine di Gramsci. Molti ricordano i tempi in cui Tania, cognata del recluso, aveva preso alloggio nel piccolo albergo Lauretta. Allora, per diverso tempo, e alle volte anche per più di un mese, mi dicono, la s’incontrava sovente nelle strade e alcuni osavano interrogarla con gli occhi, altri invece o le facevano visita o la invitavano a casa, perché Tania era sempre sola. Doveva essere anche vigilata dalla polizia, ma questo pericolo per i turesi contava fino a un certo punto di fronte ai doveri dell’ospitalità. – Non si poteva lasciare una donna sola nel dolore – mi dice qualcuno.
Forse allora nessuno di qui aveva mai visto Gramsci, eppure non si faceva die parlare di lui. Al centro di ogni commento stava il fatto importante dell’epoca; si tratta del rifiuto di Gramsci a inoltrare domanda di grazia.
Ma già da come aveva impostata e poi portata a conclusione la sua ragione di essere rapporto al mondo e agli uomini, Gramsci era entrato nell’immagine popolare con tutti i caratteri del simbolo: Maestro, Liberatore, Martire, e così è scritto anche sulla lapide di marmo all’ingresso.
Sulla lapide è scritto anche: – In questo carcere – visse in prigionia – Antonio Gramsci – Maestro Liberatore Martire – che ai carnefici stolti – annunciò la rovina – alla Patria morente –
la salvazione – al popolo lavoratole la vittoria».

«Un contadino nella metropoli», esce una nuova edizione del libro di memorie di Prospero Gallinari

Anticipazione – Pubblichiamo la nuova introduzione al libro di memorie scritto da Prospero Gallinari, pubblicato dalle edizioni PGreco. Alla fine del volume sono presenti anche due documenti politici di bilancio storico scritti negli anni 90 che portano la sua firma insieme a quella di altri ex appartennenti alle Brigate rosse con cui Gallinari aveva condiviso impegno e discussione politica dentro le Br e poi negli anni che hanno seguito la chiusura di quella esperienza


Dieci anni fa, il 14 gennaio 2013, Prospero Gallinari moriva a Reggio Emilia. Colpito dall’ultimo e definitivo malore cardiaco, venne trovato nei pressi della sua abitazione, riverso al volante dell’automobile. Era agli arresti domiciliari per motivi di salute. Come ogni giorno, si apprestava a recarsi nella ditta dove aveva il permesso di lavorare svolgendo mansioni di operaio.
Ai suoi funerali presenziarono molte persone. Vecchi militanti delle Brigate Rosse, anziani esponenti del movimento rivoluzionario italiano, tanti emiliani che lo avevano conosciuto da giovane, e tanti giovani che avevano imparato a rispettarlo ascoltando le sue interviste, e leggendo il suo libro di ricordi intitolato Un contadino nella metropoli.
Sembrò e fu veramente un funerale di altri tempi. Una testimonianza di unione, e una occasione per legare insieme passato, presente e futuro, nel ricordo di un uomo la cui integrità era assolutamente incontestabile. La circostanza disturbò parecchio. Piovvero dichiarazioni di condanna e fioccarono persino denunce. Come si era potuto pensare di seppellire quel morto in quel modo? Ci sono cose, nel nostro paese, che non si devono fare. Scoperchiare l’infernale pentola della storia, come la chiamava Marx, può essere pericoloso.
Infatti la storia è un campo di battaglia. E lo è nel duplice senso di mostrarsi come terreno di lotta fra le classi tanto nel suo svolgimento, quanto nella sua ricostruzione postuma. Questo assunto, o se si vuole questa cruda verità, emerge nel modo più chiaro quando si parla degli anni Settanta italiani. A distanza di parecchi decenni, risulta evidente l’importanza politica e la vastità sociale del conflitto che vi si produsse fra il proletariato e la borghesia. Ma non per caso, dopo tutto questo tempo, le polemiche infuriano ancora senza esclusione di colpi, inscenando sempre lo stesso copione: il rifiuto, da parte della classe dominante, di ammettere che il proprio potere venne messo in discussione da una nuova generazione di comunisti, radicata nella società e intenzionata a dare senso concreto alla parola rivoluzione.
È senz’altro una coazione a ripetere. Una ossessione che talora (come nel caso della cosiddetta dietrologia) raggiunge i limiti del grottesco. Ma non dobbiamo stupirci. Corrisponde a un bisogno profondo della borghesia, concepire se stessa come classe universale e come ultima parola della storia. La miseria, le guerre e i fascismi che il suo sistema sociale ha prodotto e produce, non contano. La borghesia espone orgogliosa le sue costituzioni, indifferente alle palesi contraddizioni fra le parole e i fatti. Naturalmente, il gioco salta quando gli oppressi prendono coscienza della loro effettiva condizione, mettendo in discussione in modo razionale e organizzato il capitalismo. È successo molte volte e succederà ancora. Per questo è utile leggere Un contadino nella metropoli. Perché è la storia di un uomo che ha vissuto fino in fondo dentro la sua classe. Perché è un capitolo di storia di una classe che, sapendo annodare i propri fili, ha lanciato e sostenuto sfide temerarie, disposta a ricominciare sempre daccapo.

Qui ha senso dire qualcosa su Prospero Gallinari. Con lui, la natura era stata generosa. Gli aveva dato coraggio, pazienza, saggezza e volontà. In cambio, dopo i trent’anni, si era presa un po’ di salute. Ma gli infarti e le ischemie non avevano piegato l’emiliano della bassa. Conservava senza sforzo il suo istintivo buonumore. E la coerenza, in lui, mostrava qualcosa di semplice e concluso. Non era testarda ostinazione. Non era arrogante protervia. In Prospero Gallinari, la costanza dei modi e delle idee traeva il suo senso da una scelta fatta per sempre. Senza rimpianti. Senza leggerezze. Con il respiro lungo del contadino. E con la responsabilità asciutta del comunista.
Sono caratteristiche esemplari. Oggi è lecito sottolinearlo, davanti all’arco di una vita che si presenta incastonata nel largo mattonato della lotta di classe. Gallinari era nato in una famiglia povera e aveva iniziato molto presto a lavorare. Era stato educato alla fatica e alla soddisfazione del pane guadagnato con le proprie mani. Ma in questa casa, e nella sua Reggio degli anni Cinquanta, aveva anche appreso un orgoglio superiore. Quello del proletariato cosciente. Quello di una classe potenzialmente dirigente che, nel sistema togliattiano dell’Emilia Rossa, vedeva i primi frutti della battaglia anti-fascista, forgiando l’edificio della via italiana al socialismo.
Toccò in sorte a Gallinari, e a molti altri come lui, di dover ridiscutere tutto. Ci furono strappi, fratture, accuse e delusioni. Il Partito Comunista Italiano appariva attardato e titubante davanti alla rottura del 1968. Un intero mondo batteva alle porte del neocapitalismo europeo, chiedendo assai più dell’equità, chiedendo semplicemente la rivoluzione.
Fu davvero un taglio netto. Ed esso restò, insieme al bagaglio precedente, un patrimonio personale di Prospero, evidentissimo nel suo modo di essere. Si può detestare il burocrate senza predicare l’indisciplina. Si può contrastare l’ipocrisia senza cedere all’individualismo. La scuola del comunismo emiliano, con i suoi termometri ampi, non fu mai rinnegata da Gallo, che rifuggiva spontaneamente dai settarismi e dalle manie estremistiche della piccola borghesia. Ma la necessità delle rotture, del saper camminare anche in pochi, di andare controcorrente, rimase sempre vigile in lui, nutrendo una idea di avanguardia che aveva il gusto del destino accettato e compreso.
Non a caso, Prospero Gallinari portò tutta la sua determinazione nelle Brigate Rosse. In questa organizzazione riversò l’insieme delle sue convinzioni: il senso del partito, la mentalità guerrigliera, l’etica di una generazione che pensava in modo internazionale e non aveva paura di tagliare i ponti dietro sé. Le Brigate Rosse erano senz’altro, per lui, il duro strumento di una battaglia radicale. Ma costituivano anche una comunità di uomini e donne uniti da una scelta di vita, dove mettersi alla prova ogni giorno di nuovo. Cambiare la targa di una automobile rubata, partecipare al sequestro di Aldo Moro, stilare un documento politico, o pulire la cella di un carcere speciale, erano compiti che assolveva con la stessa anti-retorica, e spesso ironica, dedizione. Era in grado di imparare, e di ammetterlo senza alcuna difficoltà, dal compagno più inesperto di lui. Era in grado di aiutarlo con brusca delicatezza, indovinando il lato umano del problema.
Non stiamo esagerando. A Gallinari le esagerazioni non piacevano. Stiamo solo parlando dell’uomo, del militante, del brigatista. Alle Brigate Rosse egli diede interamente se stesso, con la naturalezza dei doveri elementari. Ne seguì per intero la parabola. Ricusò ogni compromesso. Scansò ogni facile presa di distanza.
Perché a lui, come a tanti altri rivoluzionari prima di lui, venne incontro la sconfitta. E proprio nella sconfitta Prospero ebbe virtù particolari, un atteggiamento che merita di essere ricordato. Non coltivò sdegnosi personalismi. Non si negò alla discussione con chi ignorava il particolare contesto degli anni Settanta. Il suo cruccio era la trasmissione autentica di un patrimonio di esperienze alle nuove generazioni. Per questo, alieno come risultava da ogni vittimismo, sollecitò fra i movimenti una battaglia a favore della liberazione dei prigionieri politici. E per questo, lontano come era da ogni protagonismo, spiegò ovunque gli fu possibile il senso di una vicenda che veniva calunniata a colpi di dietrologie, di deformazioni interessate, di chiassosi o più sottili schematismi.
Sì, Prospero Gallinari era un comunista che, volendo usare parole grosse, sapeva rispettare la superiorità immanente della storia. Ma sapeva anche che questo orizzonte non comporta un lieto fine assicurato, e tutta la sua vita si è spesa al servizio di una scommessa da impegnare ogni volta di nuovo, negli esperimenti sempre diversi dell’azione collettiva.

Parliamo infine del libro. Il lettore di Un contadino nella metropoli ha davanti a sé una successione ragionata di ricordi. Sono ricordi essenzialmente politici. Eppure non manca l’at- tenzione alle cose della vita, ai tanti significati dell’esistenza quotidiana. Non si tratta del semplice rimpianto del militante o del prigioniero per la privazione degli affetti privati, e dei colori e dei suoni del mondo. Si tratta del rapporto con la terra e con l’aria, della relazione con il susseguirsi delle stagioni, della misura ereditata dalla manualità collettiva del lavoro contadino. In Gallinari tutto questo era radicato nell’animo, e non si era affatto smarrito nel suo viaggio dentro la metropoli. Ne derivava una speciale schiettezza. Una schiettezza niente affatto ingenua che il lettore del libro incontrerà fra le pagine, dove l’uomo, il militante e il dirigente politico riescono a parlare senza orpelli e narcisismi, con una lingua netta e sincera, che rende il ricordo prezioso, consegnandolo alla storia.
Si parla infatti molto spesso, e anche con ragione, dei limiti e dei pericoli della memorialistica. Per le Brigate Rosse ce n’è stata tanta, forse troppa, anche perché l’interdetto scagliato dalla classe dominante sul dibattito storico-politico ha consegnato al racconto, al referto individuale, alla narrazione più o meno veritiera delle esperienze vissute, una funzione di supplenza non sempre positiva. Solo ora alcuni storici cominciano a mettersi in moto con le dosi minime di competenza. E in ogni caso si avverte la mancanza di uno sguardo generale, di uno sguardo complessivo capace di collocare la vicenda della lotta armata dentro l’ampio spazio delle lotte di classe italiane e europee degli anni Settanta, nonché dentro la vicenda più generale del comunismo storico, di cui le Brigate Rosse fanno parte a pieno titolo.
Ecco, forse questo è il contributo più importante che Un contadino nella metropoli fornisce sia al lettore curioso, sia a quello militante, sia infine allo studioso al lavoro sul materiale della storia. Le Brigate Rosse sono state una organizzazione rivoluzionaria e comunista. Sono nate nella classe operaia, con l’esplicito obiettivo di trovare una strada per la conquista del potere politico nelle nuove condizioni create dal capitalismo e dalla situazione mondiale del secondo dopoguerra. Hanno incontrato e provato a risolvere i problemi classici del marxismo rivoluzionario. Hanno dovuto inventare, ma lo hanno fatto dentro un solco più lungo e più ampio della loro esperienza. Hanno scritto e teorizzato, ma il loro pensiero si riallacciava a un dibattito internazionale che andava ben oltre i confini italiani, puntando a riattivare i temi del leninismo nel paese del Biennio rosso, della Resistenza antifascista, del Sessantotto studentesco e del Sessantanove operaio.
Non era un compito facile, e il libro di Prospero Gallinari offre molti spunti per comprendere sia i meriti sia i limiti delle Brigate Rosse. In ogni caso, il suo autore non cerca sconti. Non gioca a fare il duro. Nemmeno scarica colpe sull’epoca, sulle ideologie, sulla tenaglia del Novecento irretito dai doveri totalizzanti. Semplicemente, Gallinari restituisce l’orgoglio della forza e dell’unità, il dispiacere per le divisioni e le scissioni, le domande che una storia collettiva ha posto a se stessa, lasciandole in eredità alle generazioni successive.
Dopodiché non è lecito illudersi. Sentiremo ancora dire che Prospero è stato solamente un assassino, e non avremo risposte facili, perché certamente egli ha usato la violenza contro chi considerava nemico della sua gente. Leggeremo fino alla nausea che ha incarnato il prototipo del militante fanatico, e non potremo svicolare, perché senza dubbio egli aveva rinunciato alla comoda perfezione degli animi imparziali.
La verità è che in questo mondo fatto di oppressione e di dolore, Prospero Gallinari aveva preso in parola il comunismo fin da ragazzo, e ha lasciato almeno il morso dei suoi denti sulla mano che ci percuote da millenni. È un vanto del proletariato saper produrre individui simili, perché è su questi indispensabili, come li chiamava Brecht, che riposa la possibilità di oltrepassare un giorno i confini della società borghese.

Gennaio 2023

Le compagne e i compagni di Prospero

La polizia della Storia tra Kafka e l’angoscia della realtà

Recensioni – La Polizia della storia, la fabbrica delle fake news dall’affaire Moro, Paolo Persichetti, Deriveapprodi aprile 2022, pp. 281


Vincenzo Morvillo, 14 dicembre 2022 Contropiano

«Qualcuno doveva aver diffamato Josef K. perché, senza che avesse fatto nulla di male, una mattina venne arrestato». Si tratta, com’è noto, del celebre incipit de Il Processo di Franz Kafka.
E queste parole ci tornano alla mente sin dalle prime righe di La Polizia della Storia, il libro-denuncia scritto dal compagno ed amico Paolo Persichetti:

«La mattina dell’8 Giugno, dopo aver lasciato i miei figli a scuola,sono stato fermato per strada da una pattuglia della Digos e scortato nella mia abitazione, dove ad attendermi c’erano altri agenti appartenenti a tre diversi servizi della Polizia di Stato: Direzione Centrale della Polizia di Prevenzione, Digos e Polizia Postale».

Da quel momento, la vita di Paolo si è trasformata in una traslazione realistica e angosciante della vicenda di Josef K, narrata dallo scrittore praghese.
Accusato in prima istanza di “associazione sovversiva”, senza che abbia messo in atto alcuna azione tesa al sovvertimento dello Stato.
Poi, di aver divulgato fantomatico “materiale secretato” della Seconda Commissione Moro: materiale che secretato non era, considerato che le bozze delle diverse relazioni stese dalla Commissione circolavano tra le redazioni dei giornali e che tutta la documentazione dell’inchiesta era destinata alla divulgazione pubblica.
Infine, di “favoreggiamento” per aver tenuto contatti con ex brigatisti – nella fattispecie Alvaro Loiacono che a sua volta conversava con Alessio Casimirri – condannati per il sequestro Moro oltre quarant’anni fa.
Il primo ha scontato la pena in Svizzera in quanto cittadino elvetico. Il secondo è fuggito in Nicaragua fin dall’inizio degli anni ’80, dove vive  da uomo libero.
Il primo ha scontato la pena in Svizzera in quanto cittadino elvetico. Il secondo è fuggito in Nicaragua fin dall’inizio degli anni ’80, dove vive  da uomo libero.
Ex Br oramai settantenni, che Persichetti utilizza come “fonti vive” per il suo lavoro di ricercatore e storico. Ma che per la Polizia della Storia e per la Magistratura italiana altro non sarebbero che sovversivi “in servizio attivo” che Paolo starebbe “favorendo”, passando loro informazioni.
Ex Br oramai settantenni, che Persichetti utilizza come “fonti vive” per il suo lavoro di ricercatore e storico. Ma che per la Polizia della Storia e per la Magistratura italiana altro non sarebbero che sovversivi “in servizio attivo” che Paolo starebbe “favorendo”, passando loro informazioni.
Informazioni di cui, naturalmente, l’intera cittadinanza italiana può venire a conoscenza, semplicemente con un click su Google.
Una trama grottesca e surreale, come quella del kafkiano processo intentato ai danni di Josef K.
Ed infatti, a Persichetti, nel narrare la sua assurda vicenda – nella prima parte del libro – non difettano toni ironici e sarcastici, indirizzati agli organi repressivi e di prevenzione di uno Stato che, francamente, si fa fatica a definire “democratico”.
Organi inquirenti, repressivi e di prevenzione i quali, più che individuare una fattispecie di reato, sembrano andare all’astratta ricerca di una qualsivoglia colpa da addebitare a Paolo. Una colpa che andrebbe ricercata, ça va sans dire, tra le carte e i documenti del suo archivio.
Archivio nel quale, tenetevi forte, sarebbe celato l’ultimo dei misteri sul Caso Moro. La madre di tutte le cospirazioni. La Verità di tutte le Verità.
Difficile evitare un po’ di sarcasmo nei confronti dell’azione di Polizia e Magistratura, leggendo le pagine in cui Paolo racconta questa sua surreale vicenda.
Come quelle in cui scrive del modo in cui gli inquirenti siano addirittura arrivati a clonare il cellulare dell’avvocato Davide Steccanella. Importante penalista meneghino, scrittore, autore di un corposo volume sulla storia della lotta armata in Italia, difensore di Cesare Battisti, Steccanella si è trovato intercettato sol perché in contatto con Persichetti.
Come quelle in cui scrive del modo in cui gli inquirenti siano addirittura arrivati a clonare il cellulare dell’avvocato Davide Steccanella. Importante penalista meneghino, scrittore, autore di un corposo volume sulla storia della lotta armata in Italia, difensore di Cesare Battisti, Steccanella si è trovato intercettato sol perché in contatto con Persichetti.
Conclusione, come scrive lo stesso Paolo: «Digos e Polizia di Prevenzione ascoltavano le nostre conversazioni telefoniche che riferivano al Pm. Per tutti quei mesi, l’intera strategia difensiva costruita dall’avvocato Steccanella è stata intercettata permettendo alla Procura di conoscerla in anticipo ed entrare nei segreti della difesa».
Tecniche da Stato totalitario. Strategie da Stato di Polizia. Vietate espressamente da ogni codice di procedura, perché invalidano ogni possibile difesa giudiziaria; ossia legale.
Altro che Urss e Ddr, Le vite degli altri sono qui. Sono le nostre!

La seconda parte del libro, volutamente più rapsodica, discontinua, non sempre coerente sul piano formale, ma disseminata di notizie fondamentali, dettagli storiografici significativi ed essenziali spunti di riflessione, è interamente dedicata al cosiddetto Caso Moro.
Paolo sembra voler dar fondo a tutta la sua intensa attività di ricerca, sembra quasi grattare la crosta della memoria per riversare sul foglio ogni micro-frammento storiografico riguardante quella vicenda.
La sua ci appare un’opera di resistenza e di sfida democratica ad istituzioni totalitarie, che vorrebbero mettere il bavaglio a lui e alla Storia.
Istituzioni orwelliane che pretenderebbero di tacitare la libera espressione del pensiero, soprattutto se essa riguarda un passato che il Potere deve necessariamente porre nell’oblio dei tempi.
Pena il riconoscimento politico di una forza rivoluzionaria che mise in crisi le fondamenta stesse dello Stato borghese.
Ricercatore e Storico, Paolo è dunque vittima, dal giugno 2021, di un attacco concentrico e senza precedenti, portato da Polizia di Prevenzione, Digos e magistratura inquirente, contro la sua persona e la propria famiglia.
Il sequestro di tutto il materiale documentale, dell’archivio, delle fonti storiografiche, dei dispositivi elettronici e addirittura delle cartelle cliniche riguardanti Sirio, il figlio tetraplegico di Paolo e della compagna Valentina Perniciaro – anch’essa non risparmiata dal sequestro – costituiscono un intollerabile attentato alla libertà personale e alla ricerca storiografica, sciolta dai vincoli oppressivi imposti dal pensiero dominante.
Un attacco repressivo, il cui unico scopo “razionale” sembra quello di mettere il guinzaglio all’attività di ricostruzione della Verità storica – che Paolo conduce tenacemente da anni, insieme ad altri validi studiosi – incentrata sull’insorgenza degli anni ’70 e sul più clamoroso evento rivoluzionario, messo a segno da una organizzazione guerrigliera nel cuore dell’Occidente capitalista: il rapimento del Presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro, ad opera delle Brigate Rosse.
Un evento che, da quaranta e più anni, è diventato la pietra angolare per la costruzione di una narrazione artificiosa della Repubblica Italiana, da cui viene espunto il conflitto di classe e completamente cancellato il quindicennio che – dall’inizio degli anni ’70 alla prima metà degli anni ’80 – ha visto un’intera generazione sollevarsi, anche in armi, contro il regime democristiano, lo Stato, la cultura borghese e contro il modello produttivo del Capitale imperante.
Un attacco repressivo, insomma, per continuare ad imporre una narrazione mistificante, preda del senso di colpa e dei deliri auto-vittimizzanti escogitati, dopo la morte di Moro, dagli ex dirigenti di Pci e Dc.
Una narrazione costruita a tavolino, con il piglio ottuso dell’ossessione cospirazionista, da parte di politici di basso profilo ma con l’ambizione di apparire, come il senatore Sergio Flamigni, il presidente della Seconda e inutile Commissione Moro – Giuseppe Fioroni – il senatore Gero Grassi.
Narrazione perpetuata anche da parte di magistrati posseduti dall’ideologia del complotto.
Da parte di “storici” al servizio di un partito. E di una pletora infinita di giornalisti – un paio di generazioni almeno, con poche ma molto apprezzabili eccezioni – tutti attratti dai facili guadagni (le “consulenze” con la trentennale “commissione parlamentare di inchiesta”), nonché dalla notorietà che la stesura di un libro o un surreale docufilm, infarciti di dietrologia sull’affaire Moro, hanno fin qui garantito.
Una narrazione, infine, il cui vero obiettivo è di natura eminentemente politica: il controllo dalla memoria collettiva rispetto a quel passato rivoluzionario, allo scopo di ipotecare presente e futuro.
Un presente e un futuro che – il potere spera – non abbiano mai più a confrontarsi con genuine aspirazioni o istanze di sovversione e di conflitto, contro l’impero della merce e del profitto. Contro il conformismo dell’intelletto e dell’anima. Affinché sia il Capitale l’unico orizzonte di senso.
Il libro di Paolo, come dicevamo, è quindi un coraggioso atto di testimonianza e di resistenza personale contro tutto questo.
E contro la repressione storiografica preventiva messa in campo dallo Stato Italiano.

 * Il libro sarà presentato a Napoli, presso i locali del Civico7 Liberato, Giovedì 15 Dicembre, a partire dalle ore 18:30. Saranno presenti, con l’autore, il giornalista Fulvio Bufi (Corriere della Sera) e l’avvocato penalista Biagio Gino Borretti. Introduzione di Vincenzo Morvillo, della redazione di Contropiano

Il rapimento Moro e l’uso pubblico della storia

Una recensione a La polizia della storia di Anna Di Gianantonio apparsa su http://www.pulplibri.it – L’uso politico della memoria serve dunque a dimostrare che nessuna strategia, nessuna organizzazione, nessuna motivazione politica che nasce dal basso può esprimersi senza essere manipolata e resa inefficace dalla presenza dei poteri dello Stato. In questo modo gli anni Settanta sono diventati anni di piombo da cui siamo usciti grazie all’azione determinata della politica della fermezza e della difesa della legalità (Paolo Persichetti, La polizia della storia. La fabbrica delle fake news nell’affaire Moro, Derive Approdi, pp. 240)

Anna Di Gianantonio 15 luglio 2022
https://www.pulplibri.it/paolo-persichetti-la-dietrologia-sul-caso-moro-e-le-domande-a-cui-non-ce-risposta/

Il libro di Paolo Persichetti spiega il disagio di chi, appassionato alle vicende degli anni Sessanta e Settanta, legge i numerosi lavori usciti recentemente – grazie alla desecretazione delle carte decisa dal governo Renzi – sulla cosiddetta “strategia della tensione” e osserva che molte pubblicazioni, invece di chiarire, talvolta complicano il contesto. Per quanto riguarda le stragi di Ordine Nuovo si conoscono i nomi degli esecutori, ma su quelli dei mandanti vi sono molte e diverse ipotesi. Con il passare del tempo e con la produzione di inchieste televisive, film e nuove ricerche, il lettore ha la sensazione di trovarsi alle prese non tanto con pubblicazioni che, utilizzando fonti inedite, si avvicinano alla verità, ma utilizzando generi letterari simili alle spy-story o ai noir.

Per le Brigate Rosse il quadro è ancora più complesso: in un intreccio di fake news, luoghi comuni e veri e propri falsi storici. Il libro di Persichetti è un accurato e complesso smontaggio delle false notizie sul delitto Moro, che si basa sul suo lungo lavoro di ricerca e su quello di una nuova generazione di storici – tra cui Marco Clementi e Elena Santalena con cui ha scritto il primo volume sulla storia delle BR – che intende analizzare gli anni Settanta con gli strumenti della storia, senza sensazionalismi e false piste. Nel testo l’autore fa nomi e cognomi di famosi autori che sulla vicenda del sequestro e della morte di Moro hanno creato una vera e propria fortuna editoriale, alimentando false ipotesi e complottismi.

Di tutte le complesse questioni della vicenda Moro è impossibile fare una sintesi: è necessario leggere le carte e le prove che porta l’autore. Persichetti rovescia innanzitutto l’immagine di Moro traghettatore illuminato che voleva portare i comunisti al governo, illustrando i colloqui che lo statista ebbe con l’ambasciatore americano Richard Gardner. In quelle occasioni fu proprio Moro, spaventato dal consenso del PCI e convinto che le Brigate Rosse destabilizzassero il paese favorendo i comunisti, a chiedere  all’ambasciatore una maggiore attenzione e un attivismo statunitense in Italia. Per rassicurare il diplomatico, Moro garantì che nel nuovo governo Andreotti non ci sarebbe stato alcun ministro di sinistra, smentendo clamorosamente le assicurazioni che erano state fatte al PCI e che riguardavano la presenza di almeno tecnici di area nel nuovo esecutivo.

La scelta di Moro di depennarli dagli incarichi fu contestata dallo stesso futuro presidente del consiglio Andreotti e dal segretario nazionale Zaccagnini che si dimise dalla carica. Il PCI, furioso per la decisione, votò la fiducia solo dopo la notizia del rapimento dello statista. Dunque Moro non fu affatto l’uomo del compromesso storico o delle larghe intese, come fu rappresentato post mortem, quando lo si descrisse come lungimirante antesignano di politiche inclusive mentre durante la prigionia venne considerato incapace di formulare pensieri autonomi.

Altro luogo comune diffuso ancor oggi è la “leggenda nera” su Mario Moretti, considerato una personalità ambigua e legata in qualche modo ai servizi. Moretti sta scontando il quarantaduesimo anno di esecuzione di pena e dunque difficilmente può essere considerato un uomo al servizio dello Stato. I sospetti su di lui vennero diffusi da Alberto Franceschini e Giorgio Semeria, smentiti da indagini interne che rivelarono l’inattendibilità delle accuse, ugualmente utilizzate da ricercatori come Sergio Flamigni che sulla figura di Moretti e sui suoi presunti legami con i poteri forti ha costruito la sua fortuna politica ed editoriale.

La dietrologia sul caso Moro si è esercitata sulla presenza in via Fani di altri soggetti, in particolare su due motociclisti in sella a una Honda, visti sulla scena del rapimento dal testimone Alessandro Marini. I motociclisti scatenarono mille ipotesi sulla loro presunta identità di uomini dei servizi, killer professionisti o agenti di servizi esteri, dando luogo a nuove pubblicazioni. Fu il lungo e minuzioso lavoro storico di Gianremo Armeni nel saggio Questi fantasmi. Il primo mistero del caso Moro che mise in luce in luce l’inattendibilità della testimonianza. In via Fani c’erano solamente le dieci persone indicate nei processi come responsabili del sequestro e dell’uccisione della scorta, tutte appartenenti alle Brigate Rosse.

Con una nutrita serie di documenti e di analisi Persichetti denuncia anche le incongruenze della seconda commissione Moro, istituita nel maggio del 2014 con la presidenza di Giuseppe Fioroni. Pur utilizzando tecniche di indagine nuove, come l’analisi del DNA e le ricostruzioni laser della scena del delitto, non si è giunti a nuove conclusioni.

Persichetti sostiene dunque che:

Cinque anni di processi, decine e decine di ergastoli erogati insieme a centinaia di anni di carcere, due commissioni parlamentari, le testimonianze dei protagonisti, alcuni importanti lavori storici, non hanno scalfito l’ossessione cospirativa e il pregiudizio storiografico che da oltre tre decenni alligna sul sequestro Moro e l’intera storia della lotta armata per il comunismo...

Qual’è il pregiudizio storiografico cui l’autore fa riferimento? Molto semplicemente l’idea che un gruppo armato abbia potuto, senza aiuti esterni, compiere un’azione di quel tipo mentre la lettura “politica” di quegli anni vuole dimostrare che dietro le lotte di massa degli anni Sessanta e Settanta c’erano strategie di potere orchestrate da forze occulte legate allo Stato, ai servizi segreti, a dinamiche internazionali.

L’uso politico della memoria serve dunque a dimostrare che nessuna strategia, nessuna organizzazione, nessuna motivazione politica che nasce dal basso può esprimersi senza essere manipolata e resa inefficace dalla presenza dei poteri dello Stato. In questo modo gli anni Settanta sono diventati anni di piombo da cui siamo usciti grazie all’azione determinata della politica della fermezza e della difesa della legalità.

Secondo Persichetti quali domande sarebbe lecito invece porsi sul caso Moro? Innanzitutto andrebbe fatta un riflessione sull’uso della tortura sui detenuti e sulle detenute delle BR ad opera del funzionario dell’UCIGOS Nicola Ciocia, chiamato professor De Tormentis, che applicò sui prigionieri, soprattutto sulle donne, azioni violente ed umilianti per costringerli a parlare, pur in presenza di una legislazione speciale che consentiva abbondanti sconti di pena a pentiti, collaboratori di giustizia, dissociati. Inoltre: perché la linea della fermezza fu mantenuta sino all’esito tragico della morte di Aldo Moro? Perché i due partiti di massa, DC e PCI, non intervennero per la sua salvezza, nonostante le BR si accontentassero di un riconoscimento della natura politica della loro azione? Perché Fanfani, che doveva pronunciare un discorso di minima apertura e riconoscimento, non parlò, tradendo l’impegno preso con il PSI che si adoperava per una trattativa?

Due ultime considerazioni. L’archivio di Paolo Persichetti, sequestrato l’8 giugno 2021 da agenti della Digos con accuse pretestuose deve essere  restituito al legittimo proprietario. Persichetti ha scontato la sua pena ed è l’unico a poter raccogliere testimonianze dei protagonisti di quegli anni avendo gli strumenti per ragionarci sopra. Non può esistere in Italia un organismo di “polizia di prevenzione” che intervenga sulla ricerca storica per orientarla in direzioni prestabilite. Scandaloso è il fatto che pochi intellettuali si siano mossi a difesa della libertà della ricerca storica, minacciata non solo per quanto riguarda gli anni Settanta. Si pensi alla criminalizzazione degli studiosi delle foibe, passibili del reato di negazionismo.

Infine un’osservazione. È doverosa la ricostruzione storica ma è necessaria anche una riflessione politica su quegli anni. Leggendo il volume, alcune figure di brigatisti come Franceschini emergono per la loro inadeguatezza politica e umana. A mio avviso il terreno autobiografico e psicologico non è un elemento secondario nel fare un bilancio di una fase storica. Inoltre vi sono stati degli errori: innanzitutto, come afferma l’autore, l’aver pensato che il rapimento avrebbe causato contraddizioni forti tra base e dirigenti del PCI riguardo al compromesso storico, contraddizioni che  vennero ridimensionate anche a causa del rapimento. L’uccisione di Guido Rossa nel 1979 non fece che rafforzare la condanna contro le azioni armate e prosciugare quella zona grigia che non si schierava con lo Stato. Sulla questione delle ragioni del consenso e sul tema della violenza sarebbe necessaria una discussione molto articolata.

Quando l’Italia dava asilo agli attentatori De Gaulle

Agli smemorati che si indignano per la decisione della cassazione di Parigi di chiudere definitivamente il contenzioso con l’Italia sulle richieste di estradizione dei dieci ex militanti di gruppi armati di sinistra degli anni 70, riparati in Francia da diversi decenni, vale la pena ricordare che anche l’Italia negli anni 60 offrì protezione e rifiutò di estradare gli esponenti dell’Oas che attentarono contro il presidente francese De Gaulle oppure sul fronte opposto gli esponenti del Fronte di liberazione nazionale algerino

Esattamente un anno fa, nella serata di lunedì 28 marzo 2022 la rete televisiva pubblica francese France 2 ha trasmesso una inchiesta giornalistica all’interno di un format mensile di approfondimento, Affaires sensibles, dal titolo: «Brigate rosse, la fine dell’esilio?». Per circa 70 minuti gli spettatori d’Oltralpe hanno visto scorrere immagini che provavano a riassumere oltre 40 anni di politica d’asilo informale offerta ai rifugiati italiani degli anni 70, nota come «dottrina Mitterrand», anche se non si è mai trattato di una dottrina codificata ma di una politica di fatto, perseguita con alcune rilevanti eccezioni da ben quattro presidenti della Repubblica: Mitterrand, Chirac, Sarkozy e Hollande. Un dibattito tra l’avvocato e presidente onorario della Ligue des droits de l’homme, Henri Leclerc, e il giornalista della Stampa Paolo Levi, chiudeva la trasmissione. Il primo chiamato a difendere le ragioni giuridiche, politiche e umane di questa politica d’accoglienza, il secondo a dare voce un po’ sguaiata alle ragioni avverse dello Stato italiano. Nel tentativo di trovare argomenti suggestivi in favore della estradizione degli ex militanti italiani, ormai integrati da decenni nella società francese, il giornalista Paolo Levi ha paragonato le azioni mirate dei gruppi armati della sinistra dell’epoca, rivolte contro obiettivi selezionati delle gerarchie economiche, politiche e statuali italiane, a quelle indiscriminate dei jihadisti che dagli anni 90 in poi hanno insanguinato le città francesi, fino al massacro del Bataclan, molto più simili per la loro natura stragista alle bombe che in Italia fascisti e apparati dello Stato hanno disseminato nelle piazze e stazioni nei primi anni 70, provocando centinaia di morti e feriti. Preso dalla foga, l’inviato de la Stampa ha provocatoriamente chiesto cosa mai avrebbe pensato l’opinione pubblica francese se gli autori del massacro del Bataclan avessero trovato ospitalità in Francia. Levi avrebbe fatto bene a leggere qualche libro in più prima di lanciarsi in simili incauti paragoni, perché qualcosa di simile è già accaduto in passato. Durante la guerra d’Algeria, in Italia trovarono ospitalità e sostegno esponenti importanti dell’Oas, una organizzazione clandestina della destra francese messa in piedi da membri dell’Esercito e dei Servizi segreti contrari all’indipendenza dell’Algeria. La loro presenza in Italia era sottoposta alla stretta sorveglianza dell’Ufficio affari riservati, recenti studi hanno dimostrato che si avvalevano anche del sostegno del Sifar. Quando le autorità italiane non poterono fare a meno di arrestarli per le loro attività cospirative contro il presidente francese De Gaulle e persino contro Enrico Mattei, odiato per il sostegno che attraverso l’Eni forniva alle forze nazionali algerine, evitarono di estradarli favorendo la loro partenza verso Paesi amici o neutri. Uno di loro, Jean-Jacques Susini, beneficiò di una notevole impunità sul territorio italiano anche quando le autorità furono informate del suo coinvolgimento nel fallito attentato contro De Gaulle presso il monumento commemorativo del Monte Faron, a Tolone. Azione concepita in territorio italiano (1). Susini rimase quattro anni in Italia sotto la benevola protezione dalla polizia nonostante le condanne del Tribunale per la sicurezza dello Stato francese.
Al suo arrivo all’Eliseo, nel 1981, François Mitterrand ripagò l’Italia con la stessa moneta, con la differenza che i fuoriusciti italiani non hanno utilizzato il territorio francese come retroterra per fare incursioni in Italia. Di fronte al flusso di rifugiati politici che traversavano le Alpi, fece del suolo francese una sorta di camera di decompressione del conflitto che dilagava in Italia, rifiutando le estradizioni nell’attesa di un’amnistia. «Al di la della risposta giudiziaria – ha spiegato una volta consigliere giuridico dell’Eliseo Louis Joinet, vero architetto di questa politica d’asilo – si trattava di facilitare il cammino di chi tentava di uscire dalla lotta armata per andare verso una soluzione politica. L’importante era non marginalizzare quelli che avevano una riflessione politica».

1 Pauline Picco, Liaisons dangereuses, Les extrême droites en France et en Italie, 1960-1984I, Presses universitaires de Rennes, Rennes, coll. « Histoire », 2016.

Lo storico Marco Clementi, «Il sequestro dell’archivio di Paolo Persichetti è un attacco al suo lavoro di ricerca sugli anni 70»

Quando il terremoto distrusse Amatrice e gli altri comuni vicini ero lì con la mia famiglia. Paolo Persichetti e la sua erano partiti da qualche giorno e quella mattina avremmo dovuto incontrarci in Umbria. Stavamo lavorando a un libro sul caso Moro e più in generale sugli anni della lotta armata in Italia assieme alla prof.ssa Elisa Santalena, che vive in Francia, e anche durante il periodo estivo ci si incontrava per consultarci. Paolo aveva fatto un lavoro egregio in Archivio di Stato, a Roma, quartiere Eur, dove era stata depositata una mole enorme di documentazione proveniente dalla PS, dai carabinieri, dai servizi (direttive Prodi e Renzi), passando intere settimane a leggere, ordinare e creare un suo inventario di carte che era il primo studioso in Italia a vedere.
Il mio archivio, che contiene documenti provenienti un po’ da tutto il mondo e in molte lingue straniere, si trovava a Capricchia, la frazione di Amatrice da dove è originario mio padre, mentre mia nonna era di Accumoli, tanto per non farci mancare nulla quella notte. Saputo della tragedia, Paolo corse con un amico. La casa, che avevamo ristrutturato da pochi anni, aveva tenuto. Entrammo e con calma, nei giorni successivi, nei momenti in cui non dovevamo provvedere all’ennesima emergenza, mettemmo in salvo l’archivio e circa mille libri, che avevo portato per aprire una biblioteca in paese. Pensavo, all’epoca, che la comunità dove ero nato meritasse un luogo di cultura, sebbene fossero rimasti in pochi a vivere stabilmente tra i Monti della Laga. E lo pensava anche Paolo, per quella che è ormai diventata la sua comunità di adozione.
Di adozione sua e della sua famiglia, con il piccolo Sirio, un bambino che adesso tutti conoscono come il “capo” dei Tetrabondi, un bambino con una forza e di una intelligenza rare, che sta superando ogni difficoltà che la vita gli ha posto di fronte fin dal ventesimo giorno dalla nascita grazie alle sue qualità e al lavoro instancabile dei suoi genitori.
Il dott. Persichetti è un grande papà. Poco mi importa che sia un docente mancato in Francia a causa della sua estradizione e che abbia passato anni in carcere. Resta tra i migliori ricercatori che abbia mai incontrato in quella che, purtroppo, può oramai definirsi una lunga carriera. Chi mi conosce lo sa: ne stimo pochi, con ancora meno parlo. Paolo Persichetti è un uomo colto, acuto, meticoloso (molto più di me), capace di ragionare da storico, politologo e sociologo (molto meglio di me), instancabile lettore di lavori altrui, con una straordinaria capacità di giudizio critico e in grado di tornare sui propri errori. Il suo italiano, poi, è tra i migliori sulla piazza storica. È un cercatore di risposte a domande storicamente fondate e sarebbe in grado di tenere un ottimo corso sugli anni Sessanta e Settanta in qualunque università del mondo.
Qualcuno ha parlato, per la perquisizione della sua casa avvenuta l’8 giugno 2021, di attacco alla ricerca storica. Mica gli storici ufficiali, quelli delle organizzazioni scientifiche e dell’accademia. Quelle e quelli credo non diranno una parola in merito. Li conosco e non mi faccio illusioni. Paolo non è considerato un pari. Tra l’altro la ricerca storica non è una persona. Anzi, non so bene proprio di cosa si tratti. Non so cosa sia la storia, non so cosa sia il passato, il presente, un fatto, un avvenimento. Provate a chiederlo a decine di storiche e di storici. Ognuno darà una risposta differente, spesso vaga, a volte incomprensibile. La questione, allora, riguarda le ricerche proprio del dott. Persichetti. Le sue ricerche, non quelle di chiunque altro. Quelle di uno dei migliori, se non il migliore, studioso del caso Moro. In grado di aprire le contraddizioni e stanare le dietrologie basate sul nulla, di mettere in fila le deduzioni che diventano per miracolo “realtà” e di porre infine il quesito dei quesiti in maniera chiara: se si chiede verità ancora oggi, dopo 40 anni, i processi che hanno condannato decine di persone all’ergastolo o a centinaia di anni di carcere, che cosa hanno detto?
Come se la verità fosse un punto fermo in qualche parte del cosmo e servissero solo le chiavi giuste per aprire la porta che la custodisce. Come se la presenza, ingombrante, di storico o storica non fosse determinante nel maneggio personale e soggettivo delle carte. Come se il soffio che regolarmente passiamo sulla polvere del passato, non scoprisse il nulla che oggi resta e non ci chiedesse, a noi che ci assumiamo la responsabilità di raccontare, di dire esclusivamente la nostra. La verità storica non esiste. Esistono gli uomini e le donne e le loro opere. Paolo è uno di loro. Nelle sue carte e nei computer gli inquirenti troveranno risposte storiografiche solide, ben strutturate, chiare. Troveranno il riflesso di quello che ho potuto osservare in tutti gli anni nei quali abbiamo lavorato insieme e anche se da tempo ho scelto di non occuparmi più di di lotta armata in maniera professionale, ci consultiamo, leggo ancora parte delle cose che scrive, continuo a essere una presenza nella sua vita di studioso, oltre che in quella privata. Credo di aver imparato da lui, come lui ha imparato da me. Ma è arrivato il momento che il dott. Persichetti sia riconosciuto non come un ex, ma per quello che è: un ottimo storico, il migliore sul caso Moro e la storia delle Br. Per distacco.

Se dietro le Br c’erano i servizi, perché Moretti sta ancora in galera?

Frank Cimini, Il Riformista 6 aprile 2021

Mario Moretti fu arrestato il 4 aprile del 1981. Quindi sono 40 anni precisi precisi che dorme in galera da molto tempo semilibero ma comunque detenuto notturno. L’anniversario di quelle manette è l’ennesima occasione che il festival della dietrologia non si lascia scappare. Basta sentire le parole che Gennaro Acquaviva all’epoca del sequestro Moro capo della segreteria di Bettino Craxi ha consegnato in questi giorni a Walter Veltroni che sul Corriere della Sera ci prova sempre a rievocare “i misteri”.
«Non so chi, non so come, ma sono certo che le Brigate Rosse sono state manovrate presentemente dal Kgb. L’infiltrazione sovietica nell’area della protesta violenta era evidente. Nel gruppo romano non lo so non credo, ma nelle Br in genere penso di sì. Bisognerebbe chiedere a Moretti».
Eccoci, un esponente del partito della trattativa insieme a un erede del partito della fermezza per ribadire quello di cui negli atti processuali non si trova traccia. Ma a Mario Moretti tutti o quasi continuano a chiedere la verità quella che lui ha sempre detto a cominciare con il libro intervista a Rossana Rossanda e Carla Mosca che gli chiedevano in che modo lui reagisse al sospetto di ambiguità e trasversalità.
«Ah, con molta serenità e molta tranquillità nel senso che io mi rendo conto che attraverso questa accusa si vuole colpire l’idea dell’autenticità delle Brigate Rosse. La tesi che siano state manovrate dall’esterno è una tesi cara a chi non può sopportare l’idea che in questo paese si siano svolti dei fatti, delle iniziative, si siano giocati dei progetti politici esterni ai giochi di palazzo. Queste illazioni non meritano alcuna considerazione» è la posizione di Moretti che finora nessuno è stato in grado di scalfire concretamente.
Anche se la dietrologia non vuole demordere. Ci sono carriere politiche e giornalistiche costruite sui falsi misteri del caso Moro. Sempre in questi giorni il figlio del capo della scorta di Moro, Domenico Ricci, intervistato da Adnkronos è tornato a intimare a Moretti di “dire la verità”.
Non resta che stare ai fatti. Nel caso Moretti avesse intrallazzato con servizi segreti e potenze straniere non dormirebbe ancora dopo 40 anni in una cella del carcere di Opera.
Il paese anche dopo così tanto tempo rifiuta di fare i conti con quello che fu un fenomeno squisitamente politico perché evidentemente ha paura della propria storia. Al punto da non voler prendere atto che Moretti condannato a sei ergastoli ha pagato per le sue responsabilità e dovrebbe dopo quarant’anni essere scarcerato. Avrebbe pieno diritto alla liberazione condizionata che lui non chiede perché non vuole evidentemente relazionarsi con chi in pratica con la dietrologia gli nega identità politica. Sentirsi rivolgere sempre lo stesso sospetto per uno che sta dentro dal 1981 è se possibile peggio dei sei ergastoli che gli hanno dato i giudici.
In libreria da pochi giorni c’è un saggio “Brigate Rosse: un diario politico” curato dalla ricercatrice Silvia De Bernardinis. Un rendiconto critico e autocritico della storia delle Br a opera di alcuni dirigenti e militanti. Ribadisce il saggio, che dietro le Br c’erano solo le Br.

Conversando con Barbara Balzerani su “Brigate rosse, un diario politico. Riflessioni sull’assalto al cielo”

Il ruolo politico, assolutamente centrale, avuto dai militanti prigionieri nella vicenda brigatista, una caratteristica che innova sulla consueta tradizione rivoluzionaria che vedeva invece i prigionieri esclusi dalla vita politica dell’organizzazione esterna; il peso da loro giocato in alcuni passaggi cruciali: dal rapimento Moro, alla successiva contestazione della Direzione esterna con rivendicazione non solo dell’elaborazione della linea politica ma anche della direzione dell’organizzazione, fino alle spinte scissioniste che portano le Br alla spaccatura in più tronconi. La difficoltà di far capire al collettivo dei prigionieri che l’alto livello delle lotte nelle carceri speciali non era riproducibile all’esterno, dove il riflusso aveva travolto i movimenti sociali e negli stabilimenti Fiat prendeva forma la sconfitta della classe operaia. L’incapacità di mettere in pratica una nuova strategia dopo il rapimento Moro, la fine di una elaborazione unitaria con la fuga in avanti di chi credeva fosse maturo il tempo della «guerra civile dispiegata» o riteneva una soluzione rinchiudersi nel recinto della fabbriche, già stravolte dalla ristrutturazione produttiva. Lo smantellamento di intere colonne causato dal fenomeno dei “pentiti”, le torture dispiegate contro gli arrestati e il rifiuto di riconoscerle di una parte importante dei prigionieri, la proposta di «ritirata strategica» che suscitò aspre reazioni e successive scissioni sul modo di interpretarla. Barbara Balzerani riflette sulla sua esperienza all’interno della Brigate rosse a partire dal bilancio elaborato a metà degli anni 80 da un gruppo di militanti, a loro volta confluiti nelle Br-pcc

Silvia De Bernardinis, Venerdì 19 marzo 2021

È uscito da poche settimane il libro che ho curato, Brigate rosse: un diario politico, per DeriveApprodi. Chi lo leggerà si troverà di fronte a un testo, se non distante, sicuramente differente dalle ricostruzioni storiche fatte dagli storici. È un’analisi densa, complessa e non facilmente sintetizzabile se non per linee generali, con una costruzione del testo metodologicamente molto chiara che analizza pezzo per pezzo la storia brigatista: parte dal contesto politico, prende in esame partiti politici, movimento di classe, sinistra rivoluzionaria, guerriglia e antiguerriglia, proposta politico-strategica delle Br e verifica alla prova dei fatti. Una ricostruzione a 360 gradi che è storia delle Br e storia dell’Italia degli anni 70, al di là delle intenzioni degli autori. Più che farti domande ti propongo alcuni temi di carattere generale che emergono dal testo su cui può essere utile spendere qualche parola. Diciamo prima di tutto che i compagni protagonisti del confronto, delle discussioni da cui ha origine il documento che DeriveApprodi ha deciso di pubblicare, sono stati tra quelli con cui hai condiviso sia la fase iniziale della tua esperienza nelle Br, nella colonna romana, sia il periodo successivo, quando ti sei ritrovata a gestire in un ruolo dirigente l’eredità brigatista e la parte finale della sua storia, per usare le tue parole, a cercare di «tradurre in pratica politica e organizzativa quel controverso bilancio». Fa eccezione Carlo Picchiura che hai conosciuto dopo il tuo arresto, nel 1985, durante i processi, uno dei pochi che dal carcere aveva aderito alle Br-Pcc dopo la spaccatura. Si tratta dei compagni politicamente più vicini e di discussioni che hai vissuto direttamente.

Si, ed è difficile parlarne ora che Piero, Gigi, Salvo e Picchio non ci sono più. Mancanze, tra le altre, che hanno reso ancora più vuoti questi anni così difficili da vivere. I legami nelle Br non sono mai stati familistici visto il prevalere su tutto della buona salute dell’Organizzazione e la precarietà della nostra vita a piede libero, ma è indubbio che il sentire i compagni un bene prezioso di cui godere e da preservare, dava forza anche nelle condizioni più dure e compensava la provvisorietà del domani di ciascuno di noi. La fiducia incondizionata è una reciprocità di sguardo che non sempre la politica concede ma che pareggia i conti con le proprie paure e incertezze quando si ha la fortuna di viverla. Cercare di essere all’altezza dell’altro insegna a superare la competizione e i protagonismi. Credo renda migliori.
Questa pubblicazione rende giustizia a una realtà misconosciuta che poco appare nella storia delle Br. Infatti nella vulgata con cui è raccontata emergono pochissimi nomi in confronto ai tanti militanti che l’hanno attraversata e alla loro qualità. Anche questo concorre alla distorsione del suo patrimonio politico e del senso stesso dell’agire in un’organizzazione di comunisti. Come se non fosse un prodotto collettivo in cui ciascuno, per come sa e può, è essenziale a comporre il tutto ma la raffigurazione elitaria di qualche testa pensante nell’insignificanza di tanti anonimi e invisibili, senza nome, faccia e identità. E questo riguarda anche i compagni che hanno lavorato a vario titolo a questo testo dal carcere e che sono stati tra i pochi che ho avuto accanto negli ultimi difficilissimi anni di militanza. La spaccatura di cui parli, quella col Partito della guerriglia, non è stata la sola ma certamente la più devastante sia per l’inconciliabilità dell’analisi, delle tesi politiche e delle pratiche, sia per l’adesione massiccia dei nostri compagni in carcere. Cosa di non poco conto in quel periodo di scarse certezze. Per questo il testo che hai curato è ancora più prezioso, spiragli di luce nella opacità del presente per chi era rimasto fuori a resistere che, purtroppo, sono caduti nel vuoto (forse per un malinteso rigetto di ogni contributo proveniente dal carcere?) e un rimedio di senso nel dilagare di follia che sembrava imperversare tra i seguaci del partito della guerra civile in atto. Una mano tesa nella navigazione rovinosa della nostra crisi politica e del perfezionamento scissionista dei prigionieri del «nucleo storico». Le riflessioni di cui tratta il testo sono quelle che hanno impegnato i compagni prigionieri rimasti nelle Br-Pcc che non potevano che andare all’origine di una storia per poterne valutare i punti di criticità, gli errori, la necessità di adeguare l’analisi e la pratica alle nuove condizioni. Fino all’interrogarsi sulla percorribilità stessa del terreno di lotta per come l’avevamo sempre inteso, in cui l’azione armata costituiva la esemplificazione, il condensato di un programma politico reso possibile dai contenuti presenti nelle punte più avanzate del movimento rivoluzionario di quegli anni e necessario per continuare ad avanzare.
Di quelle lotte interpretavamo l’insito contenuto rivoluzionario, di potere, traducendolo in una strategia politico-militare di guerra di lunga durata. Niente a che vedere con il sindacalismo o i bracci armati dei movimenti, niente con l’insurrezionalismo. Tutte concezioni queste che caratterizzavano molta parte delle altre organizzazioni rivoluzionarie e che verranno riproposte dai diversi spezzoni in cui si è frantumata l’Organizzazione. Si è trattato di uno scontro di idee portato avanti attraverso un intenso lavoro politico all’interno dei movimenti. Questo può spiegare anche la adesione alle Br di molti compagni che avevano animato il movimento del ’77 con la sua radicalità di contenuti, disperso dai carrarmati di Cossiga e la sua impossibilità di tenuta attraverso scontri armati di piazza.

Alcune considerazioni sul testo: il contesto, il fine per cui è stato scritto e il metodo con cui è stato scritto questo documento gli danno alcune qualità: prima di tutto non è un documento ideologico ma politico, il fatto di non dover sostenere una tesi lo mette al riparo dal pericolo di forzare la realtà alla propria tesi. Un’analisi concreta su fatti concreti, marxista. Considerando il momento in cui viene proposto, dominato da un dibattito pressoché ideologico, riflesso della crisi delle Br, mi sembra un dato significativo. Inoltre, sia il fatto che nasce per cercare di risolvere i punti critici e i limiti nella condotta della guerriglia e per capire se e quali fossero gli scenari possibili per la lotta armata, sia il fatto di essere scritto a partita non ancora formalmente conclusa, fa sì che non cada in autogiustificazioni, rischio sempre presente nelle ricostruzioni ex post.

Si, la metodologia adottata dagli estensori è propria di un contributo di analisi politica e non ideologica, né tantomeno programmatica. Non è un caso che quei compagni sostenessero la battaglia politica in corso a fianco delle Br-Pcc anche a partire dal ruolo che i prigionieri avrebbero dovuto assumere nel dibattito interno. Questo è un capitolo importante nella nostra storia e ne riflette luci e ombre. I nostri prigionieri avevano sempre avuto una grande importanza nelle dinamiche interne dell’Organizzazione. Erano la nostra faccia pubblica, erano tra i fondatori dell’Organizzazione, avevano grandi capacità politiche, erano i magnifici protagonisti del processo guerriglia e delle lotte in carcere. Ma, forse anche a causa della contraddittorietà dei nostri dispositivi interni, bisogna concludere che hanno negativamente condizionato le nostre scelte e, da un certo punto in poi, esasperato i nostri problemi politici. Soprattutto quando si è evidenziata la crisi di superamento della fase della propaganda armata e l’impasse della nostra capacità di elaborazione programmatica, le forzature da parte loro non hanno certo contribuito a dipanare la nostra inadeguatezza. In questa strettoia si è materializzato l’intervento a gamba tesa della maggior parte dei prigionieri coagulati intorno alle tesi del «nucleo storico». Non si è trattato di un contributo politico teso ad affrontare le nuove condizioni dello scontro a cavallo degli anni ’80 tutto da verificare nella pratica ma dell’elaborazione di un dettagliato programma valido per tutta l’organizzazione. Nonostante i tentativi di mediazione e di limatura degli eccessi di un’analisi completamente sballata circa le condizioni dello scontro, le tesi di una rivoluzione alle porte, mutuata dalle condizioni delle lotte in carcere, hanno cortocircuitato il già squilibrato rapporto dentro-fuori facendolo deragliare su un capovolgimento delle cause-effetto. Secondo quei compagni le difficoltà dell’Organizzazione non erano di carattere politico a fronte di una difficile transizione in una fase di offensiva del nemico e di deciso rallentamento di passo della conflittualità di classe, ma derivavano da una cattiva conduzione da parte della sua direzione. Fino al precipitare di questa bufera intestina in mozioni formali di sfiducia nei confronti dell’esecutivo e operazioni scissioniste di pezzi dell’organizzazione. Va sottolineata la varietà di tesi politiche delle varie fazioni in cui s’è frantumata la compagine Br, dal sindacalismo armato, allo scioglimento nel movimento, alla centralità dei settori emarginati e del carcere, tutte però confluenti nel chiedere legittimità ai prigionieri. Su tutto è emersa la velleità di superamento della crisi attraverso la decapitazione della direzione nazionale ritenuta un freno alle potenzialità rivoluzionarie delle masse nel presente. Sta di fatto che la debolezza dell’organizzazione ha reso possibile l’impensabile, ossia la pretesa di una sua direzione dall’interno del carcere. E se questo, nei fatti, ha dimostrato tutta la sua non praticabilità ha anche avuto tutto l’agio di aumentarne le difficoltà. In tutta evidenza la qualità e le finalità del contributo del testo in esame è di tutt’altra natura e rispondeva al compito da parte dei prigionieri di dare un supporto all’organizzazione nella lettura della fase più difficile della sua storia, senza interloquire nella linea politica. Contributo politico senza sconti e reticenze che quei compagni assolvevano nella consapevolezza di avere come compiti fondamentali non essere di intralcio all’Organizzazione esterna, di tenere conto dei rapporti di forza per non creare condizioni di detenzione invivibili e, all’occasione, segare le sbarre e raggiungerci. Nella consapevolezza di essere ostaggi del nemico, sottoposti a un incessante controllo e impossibilitati a verificare nella pratica le loro tesi. Nella assunzione di una responsabilità collettiva e non personalistica di cui rendere conto. E nonostante il minoritarismo, il ritardo e la scarsa efficacia nel riuscire a contenere la frana sotto cui è rimasta seppellita persino la memoria del nostro tentativo di «assalto al cielo», resta un documento decisivo per chiunque voglia comprenderne la complessità, al di là delle celebrazioni o della svendita. Soprattutto perché quei nodi politici su cui anche le Br si sono incagliate sono rimasti irrisolti. In primis dai fuoriusciti che, va sottolineato, a decenni di distanza non si sono curati di fare un bilancio delle loro scelte e renderne conto, come le Br hanno sempre fatto.

Il testo, proprio per come è costruito, fa emergere con grande chiarezza il significato di lotta armata come strategia politica, un concetto molto ben definito nella storia delle Br, come hai appena chiarito sopra, e che anche all’interno delle Br nel periodo della crisi è stato confuso con altro, e di cui oggi ancor di più, per il modo in cui è stata divulgata nel senso comune non solo la storia delle Br ma tutto il contesto degli anni ’70, si è persa traccia. Le Br nascono dalle lotte del 1968-69 e attraversano tutto il ciclo di lotte degli anni 70, e anzi si spingono anche oltre. Si trovano ad agire in due contesti diversi, e in condizioni diverse, e cioè, in un lasso di tempo brevissimo, tra il 1974 e il 1978-79, passano dall’esercitare un certo peso all’interno delle fabbriche, a esercitare un peso politico a livello nazionale. Un passaggio che avviene in un contesto diverso da quello che ne ha segnato la nascita e coincide con un processo di ristrutturazione mondiale in corso, da una situazione che vede la classe operaia all’offensiva ad un quadro che si fa sempre più resistenziale. Vi trovate in un groviglio di contraddizioni.

Il progetto politico delle Br nasce sulla concezione guerrigliera di dimostrare la fattibilità oltre che la necessità di assunzione di una mentalità e una strategia offensive. Nelle migliori tradizioni del movimento rivoluzionario non si trattava di concepire la legittimità della lotta armata come reazione difensiva alla violenza dello Stato in una dinamica a perdere di rincorsa della repressione né tantomeno giustizialista. Era il livello e la qualità dello scontro di classe che la motivavano. Credo che le lotte operaie che avevano conquistato l’autonomia di classe ne fornissero un inequivocabile esempio nella prassi di guadagnare terreno e strappare conquiste sul campo stando sempre un passo avanti alla mediazione contrattuale. Nei graduali aggiustamenti della linea politica nel vivo dello scontro, attenzione massima era rivolta a una analisi in grado di esaminare i piani strategici del capitalismo per poterne anticipare le mosse. Questo in un quadro di belligeranza di una parte significativa del movimento operaio e rivoluzionario e di rafforzamento del campo rivoluzionario internazionale. La focalizzazione del processo di perdita dell’autonomia nazionale dei paesi capitalistici (nascita dello Sim) ne è una esemplificazione a fronte di una progettualità del nemico di governo della crisi del modello fordista, globalizzando i mercati e accentrando il capitale finanziario, delocalizzando le fabbriche, ristrutturando la produzione, precarizzando il lavoro e le condizioni di vita di vasti settori proletari. E, su tutto, dichiarando guerra alla conflittualità, condizione sine qua non per garantire i profitti delle aziende multinazionali. Al grande capitale occorreva stabilire nuovi margini della democrazia parlamentare che potevano contenere sia colpi di stato e dittature (come in Cile e in Argentina) sia l’autoritarismo «ferreo» di governi alla Thatcher. Da questo punto di vista si rende comprensibile il salto all’attacco al cuore dello Stato come scelta strategica delle Br per rinsaldare e dare prospettiva ai rapporti di forza favorevoli conquistati nelle fabbriche e nei territori. Questo il quadro ed è indubbio che, almeno in Italia, i progetti della ristrutturazione liberista della produzione e dei rapporti sociali non hanno avuto vita facile grazie al movimento rivoluzionario e alla lotta armata. Quadro che cambia con l’arretramento di quel movimento e le modificazioni a livello internazionale a favore del fronte imperialista.
Che la tendenza dei programmi del grande capitale fossero quelli analizzati è da tempo sotto gli occhi di tutti nella loro piena realizzazione. Negli anni in cui le Br l’hanno teorizzata erano appunto una tendenza, un processo e non un dato di fatto, soprattutto nell’«anello debole della catena» come l’Italia. Dentro questo quadro contraddittorio abbiamo oscillato tra una visione materialistica dello stato delle cose presenti e la sballata convinzione di un precipitare all’ordine del giorno delle dinamiche di rinnovamento/riorganizzazione della politica e dell’economia. Per questo nella testa di qualcuno si era formata la convinzione che non rimanesse che armare le masse essendosi esaurito ogni spazio di tutela dei loro interessi materiali immediati. Ammesso che le condizioni di una rottura rivoluzionaria ci fossero, i tempi in politica non sono un accidente che si possono dilatare o accorciare a proprio piacimento e i nostri sono stati decisamente sfasati mancando la periodizzazione della «lunga durata» e il suo andamento affatto lineare. Fino a che tutto è diventato una rincorsa a fiato corto nel tentativo di rimediare agli errori. Fuori tempo massimo.

C’è un dato che sembra essere costante nella storia delle Br, contraddittorio perché al tempo stesso ne costituisce la forza e l’originalità ma anche uno dei punti deboli e dei limiti, e cioè il carattere sperimentale, che discende dalla loro eterodossia. Il non avere modelli di riferimento gli dà la libertà e le mette in condizione di dover sperimentare. Come si dice nel testo, si parte «da una base progettuale che tende a precisare, per approssimazioni successive, la propria proposta politico-strategica, come anche le soluzioni tattiche».

Ma la sperimentazione non è sempre stata la caratteristica dei processi rivoluzionari? A quale modello si è ispirata la Cina di Mao, la Cuba di Castro o le guerriglie dell’America latina? A quale la rivoluzione dei curdi del PKK, dei greci del «17 novembre», dei compagni dell’Eta, degli zapatisti e quella guidata da Sankara? È certo esistito un paradigma rivoluzionario novecentesco che ne ha dettato i caratteri generali ma sul terreno della pratica ciascuno ha dovuto fare i conti con la propria composizione di classe, con la storia e le tradizioni sociali del proprio paese, con la propria collocazione in ambito internazionale, con il grado di consenso/controllo del potere e, soprattutto, con il livello dello scontro di classe. Se il Partito comunista cinese avesse dovuto considerare la classe operaia il soggetto centrale del processo rivoluzionario, avrebbe dovuto inventarsela. E non è forse vero che certe direttive da Mosca abbiano «ingessato» l’andamento delle rivoluzioni specie nei paesi in via di decolonizzazione? Noi siamo stati il frutto di una fuoriuscita dal modello insurrezionale, partito-esercito, ormai impraticabile nelle situazioni metropolitane al livello di maturazione del conflitto rivoluzione/controrivoluzione. Troppi i dispositivi di controllo, non ultimi quelli di partiti e sindacati. Troppi i livelli di differenziazione e relativa mediazione. Al contrario la guerriglia offriva un modello di possibilità di attacco anche ad alto livello con una forza militare ridotta. Quello che conferiva incisività non era la sua endemicità. Ossia non era decisiva la quantità e il livello delle azioni messe in campo quanto la capacità di cogliere il maturare delle contraddizioni di classe, i piani del nemico, i punti deboli del suo schieramento, il livello del peso politico della guerriglia nel movimento rivoluzionario. Questo ha comportato la necessità di affinare le armi dell’analisi di contesto e compiere i salti necessari per non perdere la capacità offensiva e disperdere i rapporti di forza conquistati. Ossia sperimentare sul campo la validità delle proprie analisi.

Diversamente da altre organizzazioni combattenti le Br hanno sempre identificato nella Dc il nemico principale. Ma il ciclo di lotte di quegli anni vede anche lo scontro tra due vie e due concezioni presenti all’interno del movimento operaio: da una parte la tradizione terzinternazionalista e il progetto di integrazione della classe operaia nello Stato e dall’altra la centralità del conflitto capitale/lavoro, la guerra di classe, la distruzione dello Stato. Compromesso storico e attacco al cuore dello Stato.

Si, nonostante il peso dell’azione controrivoluzionaria del partito e del sindacato comunisti le Br hanno condotto una battaglia politica nel movimento per affermare la centralità della Democrazia cristiana nel campo nemico. Tra noi e i comunisti c’era una contrapposizione di altra natura. Proprio perché si trattava del conflitto tra due anime interne alla classe, per dirla alla cinese, si trattava di una «contraddizione in seno al popolo» e come tale andava trattata. La presenza negativa del più grande partito comunista d’occidente in questo paese non è certo stata secondaria nel procedere dello scontro, ma questo nulla toglie al fatto che si trattasse di contraddizioni reali che vivevano all’interno della classe operaia. La Dc deteneva il potere e non lo avrebbe mai ceduto ai comunisti, nonostante la loro forza elettorale e la loro fattiva collaborazione. Proprio le vicende legate alla «campagna di primavera» ne sono una dimostrazione: il governo sarebbe rimasto ed è sempre rimasto saldamente in mano alla Dc mentre i loro «alleati» perfezionavano la loro deriva socialdemocratica. Ai comunisti sono andati incarichi di «lavori sporchi» di contenimento e repressione e per questo sono stati particolarmente invisi nell’ambito dei movimenti. Non senza qualche ragione. Ma per arrivare al governo hanno dovuto cancellare il peccato della loro origine nel campo comunista, mai del tutto amnistiato nell’occidente capitalistico, sconfessare ideologia e alleanze, cambiare nome e cognome. Nel conflitto degli anni ’70, secondo la nostra visione, erano sì lo Stato ma quello interno alla classe operaia. Nei loro confronti andava usato il bisturi più affilato. La gestione autocritica dell’azione contro Guido Rossa ne è l’esempio più appropriato, come anche la fotografia di quanto lo scontro fosse interno alla classe operaia.

Stando ad una verifica dei fatti, la presenza della guerriglia non ha rappresentato un ostacolo né allo sviluppo del movimento, né alle conquiste del movimento operaio degli anni 70, al contrario, ha contribuito a spostare i rapporti di forza e ha rallentato il processo di ristrutturazione.

Su questo non ci dovrebbero essere dubbi. La forza dei movimenti in quegli anni era un concerto polifonico che andava ben oltre le differenze. E il travaso reciproco di forza funzionava almeno quanto era in grado di ottenere conquiste che mai sono state tanto rilevanti. Come è evidente, soprattutto oggi, quella sul piano sanitario. E questo al di là della autorappresentazione dei diversi soggetti in campo che, nella sconfitta, è diventata uno scarico di responsabilità da imputare alle Br. Persino le battaglie per i diritti civili non subivano danni nonostante le tesi cospirazioniste dei pacifisti impegnati nella battaglia per il divorzio mentre le Br sferravano il primo «attacco al cuore dello stato» con il processo al giudice Sossi. Ma, aspetto ancora più importante, basterebbe analizzare le vicende legate allo scontro che ha riguardato la Fiat per rendersi pienamente conto di quanto sia stata determinante la crisi della guerriglia nell’accelerazione della ristrutturazione e nell’attacco alle avanguardie interne alla fabbrica.

Ritorniamo su un punto cui accennavi sopra, e cioè il peso del «nucleo storico» in carcere. Se è vero che dal carcere non si può dirigere la guerriglia, la si condiziona, o almeno nel vostro caso sembra averla condizionata. Ribaltando il principio guida delle Br dove la pratica ha sempre preceduto la teoria, finite – parlo delle Br fuori dal carcere – per cercare di adattare la realtà alla teoria. Il documento restituisce questo processo in termini politici e in termini politici dà anche una spiegazione che ha portato alla centralità del «nucleo storico». Sintetizzando, dopo la «campagna di primavera» la fase della propaganda armata si esaurisce e le Br cercano, senza trovarlo, il passaggio alla fase successiva che il nucleo storico identifica, teorizzandolo sull’esperienza concreta delle lotte in carcere, nel passaggio alla guerra civile. Siamo nel 1979 e la Direzione Br si scontra con una realtà che al contrario non è in alcun modo assimilabile o generalizzabile con il contesto carcerario. Basti solo pensare alla vicenda Fiat. Il nodo della crisi, che non si risolverà, è che dopo la propaganda armata e in un contesto di lotte resistenziali la guerriglia – o almeno l’esperienza delle Brigate rosse – non trova soluzioni. Su questo nodo politico avviene la spaccatura all’interno delle Br.



n verità questo precipitato ha una lunga incubazione e attraversa le tappe che hanno portato a maturità la crescita politica e organizzativa delle Br. A un’analisi a posteriori si possono rilevare i chiaroscuri di un rapporto dentro/fuori che non necessariamente doveva avere un epilogo tanto negativo. E questo ha messo in evidenza errori, malintesi, incertezze progettuali e inadeguato governo delle contraddizioni interne. Esemplificativo è il passaggio del processo di Torino. Alla sbarra praticamente l’interezza del quadro dirigente originario. Si trattava del primo processo in cui lo Stato intendeva dimostrare la forza di seppellire i comunisti armati sotto secoli di galera e celebrare la sua vittoria sull’eversione. Non è andata così. La stretta dialettica tra i compagni prigionieri e l’Organizzazione all’esterno rendeva possibile dimostrare nella pratica che «la rivoluzione non si processa». Di più, che a essere processato era lo Stato. Quel processo ha visto rimandi successivi a causa della difficoltà di costituzione della giuria popolare, proprio per la politicità che aveva conquistato grazie alla conduzione in aula dei compagni e l’attacco esterno dell’organizzazione.
L’esemplificazione di «chi processa chi» con un iter giudiziario bloccato (fino all’intervento persuasivo extragiudiziale del Pci a sanare la riluttanza dei giurati) e il sequestro di Aldo Moro rendeva palese la forza dell’attacco al cuore dello stato nella disarticolazione degli assetti di potere. Fuor di polemica, non capire e rifiutare questo passaggio non spiega come si potesse sviluppare un processo rivoluzionario endemicizzando lo scontro senza tentare di individuare e anticipare il progetto controrivoluzionario della borghesia. Organizzarsi sul terreno della lotta armata per agire sul piano dei bisogni credo sia una partita persa in partenza.
Il processo di Torino ha contribuito enormemente ad aumentare la visibilità dei prigionieri all’esterno e il loro prestigio nell’Organizzazione, anche per il livello del loro contributo teorico. Col senno di poi si può dire che tutto questo avesse già in nuce l’esito negativo che ha avuto? Certo è che, come sostengono i compagni del testo in esame, l’Organizzazione, sia pur recalcitrante, ha scelto di adottare in toto la produzione programmatica proveniente dal carcere in una vistosa virata economicista del suo progetto. E la contraddittorietà con cui è stata agita non è stata sufficiente a evitare il capovolgimento di un caposaldo dei suoi fondamenti nel tentativo di adattamento della realtà alla teoria. Nonostante il suo avanzare incerto il «dopo Moro» ha significato una stagione di crescita e grande vitalità dell’Organizzazione in un contesto nazionale che ha toccato il massimo dello sviluppo dei gruppi armati. L’interpretazione che i prigionieri hanno dato di questa situazione è stato il precipitare qui e ora della «conquista delle masse sul terreno della lotta armata». I programmi «immediati» dovevano costituirne il viatico, traducendo meccanicamente la capacità di organizzare delle rivolte in carcere con il precipitato in termini di condizioni sociali talmente contrapposte al sistema vigente da poter essere soddisfatte solo armi alla mano a livello di massa. Naturalmente la pratica dell’Organizzazione non poteva essere all’altezza di tale aspettativa e il dissenso è andato crescendo fino a sfociare nella rottura. La spinta decisiva è stata un progetto di evasione dall’Asinara che ovviamente aveva come condizione imprescindibile il supporto dell’Organizzazione. Per noi si trattava di un attacco dal mare con un allestimento logistico del tutto diverso da quello metropolitano a cui eravamo abituati. Le forze impegnate erano notevoli e anche di più le difficoltà di portare a termine l’operazione senza danni. Ma non ci siamo tirati indietro. La preparazione è durata tanto da consumare tutti i mesi estivi. Basti pensare alla difficoltà di una via di fuga fino all’entroterra o alla scarsa propensione del luogo al furto di veicoli tanto che le macchine necessarie le abbiamo dovute portare dal “continente”. Alla fine dell’estate abbiamo dovuto desistere data la rarefazione della popolazione locale con la partenza dei turisti. Per noi si trattava di un rinvio, per i compagni in carcere di un tradimento. Secondo loro non è che non avevamo potuto ma non avevamo voluto. Questa la sostanza della loro accusa. Lo sviluppo dello scontro è andato verso la deriva scissionista dopo la richiesta di dimissioni dell’esecutivo, in seguito reiterata dai separatisti della colonna milanese. Finalmente dall’interno del carcere era stato costruito un gruppo all’esterno che rispondeva pienamente alle aspettative dei teorici della guerra sociale totale. In tutta evidenza, in questo bilancio, le responsabilità personali non sono state secondarie.

Un altro aspetto portato in luce dal documento è questo: benché le Br ponessero sin dal 1975 come obiettivo strategico quello di staccare l’Italia “anello debole della catena imperialista” per una collocazione nell’area dei paesi non allineati, nella visione strategica brigatista, secondo quanto è scritto nel documento, si sottolinea l’assenza di un collegamento della guerriglia all’interno di un fronte antimperialista, in una strategia globale antimperialista, che era al contrario una questione importante e molto presente nel contesto che aveva determinato l’origine stessa della guerriglia. Si tratta di una linea di combattimento che le Br-Pcc tentano di riprendere negli anni ’80 con la costruzione del Fronte combattente antimperialista. Per la prima volta le Br escono dall’ambito nazionale e attaccano direttamente la Nato con l’azione Dozier e in seguito con l’azione che colpisce Leamon Hunt. L’appunto critico che viene mosso, in particolare su Dozier, è che si tratta di un mutamento importante all’interno delle Br che non viene compreso fino in fondo teoricamente, manca di un impianto strategico.

Tutto vero. Nei nostri documenti il riferimento strategico alla questione internazionale è ricorrente, anche perché lo scenario che si era aperto con le rotture rivoluzionarie delle «zone di influenza» dopo la Seconda guerra mondiale sono state uno degli elementi che hanno favorito anche l’insorgenza degli anni ’70. Ma è come se il sottinteso fosse internazionalisti sì ma «ognuno a casa sua». La nostra storia è strettamente legata a quella del soggetto rivoluzionario da cui le Br sono nate, ossia gli operai del polo industriale del nord di cui hanno seguito anche la sorte. Certo «provincialismo» brigatista è andato in parallelo con la particolare forza della guerriglia e del movimento rivoluzionario nel nostro paese che, paradossalmente, non ha facilitato la costruzione di battaglie comuni con altre forze antimperialiste di diversa cultura politica. Al di là di relazioni di scambio e sostegno il capitolo «internazionale» è rimasto vacante nella nostra agenda. Ci sentivamo nello stesso flusso rivoluzionario ma, come anche altre forze combattenti, in un contesto internazionale caratterizzato dalla autodeterminazione delle singole esperienze. La vicinanza con le altre forze guerrigliere in Europa si è limitata alle analogie riscontrabili in alcune battaglie (vedi sequestro di Martin Schleyer), ma gli obiettivi comuni delle organizzazioni combattenti, come la liberazione dei prigionieri, non sono stati sufficienti a colmare le distanze strategiche. A dispetto di quanto andavamo teorizzando circa la necessità di un fronte comune delle forze guerrigliere e con il campo dei paesi non allineati nei fatti ha prevalso la nostra specificità alla «fatica» di individuare e percorrere i terreni propri di un fronte antimperialista. Alla fine degli anni ’70 e anche in coincidenza con la sconfitta del soggetto politico che avevamo messo al centro del nostro progetto, diventava non più rinviabile colmare il vistoso vuoto di progetto, anche in presenza della ripresa di movimenti contro le basi Nato e contro la guerra. In extremis abbiamo cercato di recuperare il terreno perduto su un programma di «guerra alla guerra» che andasse a rafforzare l’attacco alla tecnocrazia neoliberista. Veramente troppo tardi per elaborare una strategia all’altezza del compito anche alla luce della crisi di credibilità che aveva scavato a fondo al nostro interno e non solo.

La ritirata strategica: riprendendo quanto dicevo sopra, anche in questo caso il dato sperimentale mi sembra quello più evidente, con un concetto tra l’altro estraneo alla tradizione Br.

Beh, fare come se nulla fosse stato dopo il fallimento dell’operazione Dozier e la costatazione di quanto fosse profonda la crisi interna non espressa prima, sarebbe stato il massimo. Certo è che abbiamo dovuto cercare una via d’uscita sotto i colpi del contrattacco nemico e quella di ricorrere a ripieghi buoni solo in termini ideali (ritirarsi nelle masse) e per altri lidi e condizioni ha prevalso. Abbiamo cercato di capire come organizzare la resistenza per contenere le perdite, analizzare le cause del tracollo e verificare la possibilità di riprendere a combattere. Non ultima la verifica dello stato di salute della nostra credibilità e della rete di sostegno.
A differenza delle altre «ritirate» compiute dall’Organizzazione l’ultima avveniva alla fine della lunga stagione di offensiva dei movimenti e nel pieno delle nostre lacerazioni. Occorreva perciò addestrarsi per capire quale fosse un difficile «che fare» non escludendo la verifica che ce ne fosse ancora uno praticabile. Nella consapevolezza che una guerriglia urbana non può ritirarsi per un tempo indefinito senza perdere fisionomia, riferimenti di classe e affidabilità. In quella situazione il dato sperimentale è stato fortemente condizionato dal contrastare un nemico che, grazie alle informazioni dei «pentiti», aveva deciso in tutta evidenza di sferrare il suo attacco finale. Mentre i nostri compagni continuavano a cadere, mentre i conflitti a fuoco per strada si moltiplicavano, i buontemponi della «rivoluzione alle porte» completavano la loro operazione denigratoria alimentando il coretto che ci voleva arresi a un passo dalla rivoluzione e trascinandoci in uno scontro frontale contro la follia della loro guerra ai compagni che avevano dato informazioni sotto tortura. Solo dopo l’esaurirsi dell’effetto e della disponibilità alla collaborazione di quanti si andavano «pentendo» abbiamo potuto riprendere l’attività, a fiato corto per risorse e lucidità. C’erano ancora compagni che si univano a noi per percorrere una strada mai tanto incerta. Nella scomparsa di tutte le altre ipotesi di lotta armata praticate.

Negli ultimi tempi ha preso forma un corpus storiografico, prodotto soprattutto da chi non ha avuto esperienza diretta degli anni ’70, che riporta alla luce produzione teorica ed esperienze pratiche di quegli anni e che ragiona, questa dovrebbe essere la regola ma sappiamo che così non è, sulle fonti nel loro contesto. Per quanto riguarda le Br, il dato che emerge è che, diversamente da ciò che per decenni si è affermato, la produzione teorica delle Br esisteva, e che rispetto ai temi in discussione a livello internazionale non era affatto marginale (il concetto di globalizzazione nel 1970, lo stato imperialista delle multinazionali). Questa produzione teorica ha una caratteristica fondamentale: nasce nella fabbrica, è tutta interna alla dinamica di classe e capisce perfettamente, proprio perché lo vive nella praxis della fabbrica, come si muove il capitale. Comparandola con quel che viene prodotto negli stessi anni dai centri di studio dei partiti della sinistra o anche in ambito accademico, che avevano ben più potenti mezzi a disposizione, il dato è di grande interesse. E apre a una riflessione sul fatto che l’esistenza di un «sapere di classe» è sistematicamente rimosso – e qui non parlo esclusivamente di Br ovviamente.

Ormai questo dovrebbe essere acclarato. E non tanto per spirito autocelebrativo ma perché il «sapere di classe», contrapposto alla presunta neutralità della tecnica produttivistica, costituisce l’impalcatura che ha sostenuto e continua a sostenere la possibilità di liberazione dal capitalismo. E questo è un dato che non è cambiato per quanti tentativi di sua applicazione possano essere stati fallimentari anche perché il conflitto di classe non si è certo esaurito nel ‘900.

Chi leggerà non avendo familiarità con il linguaggio brigatista noterà che ci si riferisce alle Br come «Organizzazione», un concetto e un principio che mi pare colgano essenza e sostanza di ciò che sono state le Br.

Si, non ci siamo mai sentiti né definiti «partito». Abbiamo sempre pensato di essere un’avanguardia in stretta dialettica con altre avanguardie armate e non. Non eravamo la guida di grandi masse all’assalto di un palazzo, ma una forza politico/militare che sul lungo periodo sperimentava la capacità di disarticolazione dei progetti nemici con l’obiettivo di impedirne la realizzazione e favorire e riempire di prospettiva rivoluzionaria l’opposizione di classe. L’unità del politico/militare si rifletteva nel singolo militante che incarnava un principio fondante dell’Organizzazione, la caratteristica della sua formazione politica e la ricomposizione tra lavoro manuale e intellettuale. Non è un caso che le biografie dei militanti fossero tanto simili per estrazione sociale e cattivi maestri di se stessi.

Un tuo compagno ha detto che avete fatto una straordinaria apologia del potere, cioè gli avete attribuito una «lucidità strategica» che non aveva. In Compagna Luna e Perché io perché non tu mi sembra che anche tu faccia, con un linguaggio diverso, la stessa considerazione.

Alla luce dei fatti è così. Nello sforzo di comprenderne la natura abbiamo confuso le linee di elaborazione strategica del potere, per esempio le direttive della scuola di Chicago, con la capacità politica di traduzione da parte dei soggetti preposti. (Ma ex post a capire sono buoni tutti!). Se si pensa al tempo che si è reso necessario perché la gestione tecnocratica in campo economico prevalesse e trasformasse la stessa natura della politica istituzionale; se si pensa a quanto sia comunque contraddittoria questa realtà, si può capire quanto poca cosa fosse quella «lucidità». Le mie considerazioni a cui fai riferimento sono state in relazione a come sono andate le cose soprattutto durante il sequestro Moro. L’insensatezza della «fermezza» mentre la casa bruciava, la svalutazione dell’ostaggio («non è lui»!), l’immobilismo dei veti incrociati tra Dc e Pci, i controlli di polizia in sostituzione di qualsiasi iniziativa del governo, non erano una risposta ma la fotografia di una classe dirigente alla «Todo modo». Quelle mie riflessioni hanno trovato in seguito qualche oggettiva conferma. Infatti di recente sono stati resi noti i verbali delle riunioni dei democristiani e dei comunisti durante i 55 giorni del sequestro. Altro che statisti. Da una parte una congerie di gruppi di potere e feudi elettorali ognuno per sé e dall’altra un grande partito operaio ridotto a garante dello status quo del potere altrui. Nero su bianco si possono trovare nel volume Brigate Rosse. Dalle fabbriche alla campagna di primavera. Una lettura veramente molto istruttiva.

The most up-to-date historiographical research about the Red Brigades

Marco Clementi, Paolo Persichetti, and Elisa Santalena. Brigate rosse: Dalle fabbriche alla «campagna di primavera». Volume I. Roma: DeriveApprodi, 2017. 512 pp; 23.80 €. ISBN: 978-88-6548-177-6

Acknowledgement: the Version of Record of this Manuscript has been published and is available in Terrorism and Political Violence, 7 January 2021, https://www.tandfonline.com/doi/full/10.1080/09546553.2021.1864972

Reviewed by Marco Gabbas, University of Milan, Milan, Italy
gabbas_marco@alumni.ceu.edu

With this volume – which is only the first of a multi-volume work – Marco Clementi, Paolo Persichetti and Elisa Santalena gave a crucial contribution to the understanding of a topic as difficult and complex as the history of the Italian Red Brigades (or BR). The three authors consulted a quantitively and qualitatively impressive amount of sources, which go from court records to the records of public investigating commissions; from police and carabinieri sources to those of the secret services; from memoires to interviews to those directly involved. This fundamental volume is certainly bound to remain the definite text on the topic for the forthcoming years.
The merits of this work are evident since the setting the authors clarify in the introduction. One first, important merit is giving Italian “armed struggle the dignity of a study subject.” This dignity, as the authors highlight, has been often denied especially in the cultural area of the Italian Communist Party (PCI). This cultural area has in fact produced over the years many “pamphlets written by essayists with a more than dubious methodology” (6). A second important merit is certainly giving a strong blow to the many conspiracy theories which are sadly still frequent in the discussion of the history of the Italian Red Brigades. In this case also, the authors underline the responsibility of the PCI in giving legitimacy to these theories, which go from labelling the BR “fascist provocateurs” to alleging the involvement of foreign secret services (KGB, CIA or Mossad, depending on taste). In fact, even though such theories existed since the beginning of leftist armed struggle in Italy, there was a “watershed in 1984, when the PCI [, which was] in a strategical crisis after the failure of the historical compromise [with the Christian Democratic Party] […] distanced itself from the majority motion” of the Parliamentary Investigating Commission on the abduction of Aldo Moro. The authors highlight that fighting against conspiracy theories is a lost battle since the beginning. However, they concretely help those who wish to tackle the matter seriously, from a historical point of view.
One third important merit is the authors’ courageous interpretation of the BR phenomenon. In fact, the three authors avoid comfortable explanations, and clarify that the Italian Red Brigades were not “the illegitimate child but an integral part – though a minority – of a decade-long clash whose existence few have admitted in Italy” (12). The authors painstakingly scanned the history of the birth of the Red Brigades, highlighting that they were born in large Northern Italian factories, and reconsidered the importance of the intellectual contributions coming from Trento and Reggio Emilia. The BR were an organization, then, which was born in factories and which could grow thanks to “workers’ opacity,” a concept developed by the British scholar Edward P. Thompson which the three authors relevantly apply to the case of the Red Brigades. Remarkably, this concept was used even by Giuliano Ferrara – who at the time was a leader of the Turin section of the PCI – to describe this phenomenon (56). The authors paint a realistic and merciless portrait of the Italian extra-parliamentary Left, which was fluid and magmatic. The BR were only one of many organizations – though it certainly was the most dangerous and long-lasting – which could be an arrival or a starting point for many militants, who were strongly convinced violence was necessary.
Fourthly, the authors give us new insights on the abduction of Aldo Moro by painstakingly analysing the stance of the PCI. According to the authors, Moro was not insane while being held by the BR, but sought a rational and strategic way to reach a compromise between the BR and the state, so that his life could be spared. The solution was not found, because Moro clashed against a rubber wall in which the PCI had a fundamental importance. The authors talk about “rigor mortis” (436-440) referring to the opposition of the PCI to any negotiation. They sketch a party which was prey of a rigid realpolitik, and which was more interested in saving its presence in the government than in saving Moro’s life. Certainly, the PCI acted in a certain way also because it was anxious to be recognised as a credible interlocutor by the Italian business world and by the United States. PCI representative Giorgio Napolitano played a crucial role in building links with “American friends” (417-435).
Fifthly, the authors make an incredibly detailed description of anti-BR strategies, highlighting a crucial factor which has been largely neglected so far, that is the fundamental use of torture which helped the Italian state to defeat the BR. In fact, the use of torture – which was at first episodic, but which became more and more systematic after the Moro case – was fundamental to extort information on locations and individuals which fundamentally contributed to the state’s victory. In particular, the book tells the case of Enrico Triaca, one printmaker of the BR who was subject to waterboarding (500-511).
By way of conclusion, all scholars and concerned readers cannot but thank the authors for their excellent work. We all wait for the second volume.