Per farla finita con la sinistra giudiziaria 2/fine

Dagli ingraiani agli ingroiani, l’ultimo stadio della sinistra terminale

Il quadro politico attuale vede sulla scena due destre. Una berlusconiana e l’altra montiana. La seconda è sicuramente quella più intransigente e pericolosa. Dura, padronale, arrogante, una sorta di neothatcherismo con il loden addosso. L’altra, quella berlusconiana, leggermente temperata dalla matrice populista del suo leader, un groviglio di interessi autoreferenziali preoccupati solo di non essere travolti, con attorno la destra etnica leghista, indebolita e trincerata nei suoi bastioni lombardo-veneti, e i patetici cespuglietti neo-post-ex-trans fascisti.
C’è poi un centro che ruota attorno al partito democratico, rimasto lontano dalla realizzazione di qualsiasi progetto post-socialdemocratico ma piuttosto vicino ad una vecchia idea democristiana della politica, a quella che fu la sinistra democristiana, un inveramento del ceto politico del compromesso storico.
Ci sono quindi i populisti con il nuovo arcipelago grillino che hanno preso il posto dei dipietristi. Una specie di carnevale dei delusi e dei rancorosi di destra come di sinistra. Rappresentano la vera incognita sia per le dimensioni che potranno raggiungere in Parlamento che per il comportamento politico che terranno. Non sono ancora un ceto politico strutturato, anche se molti di loro provengono dal mondo del professionismo della società civile. Le due cose tuttavia non si equivalgono e bisognerà vedere in che modo reagiranno una volta saliti nelle sale del Palazzo: se si trasformeranno in “mercato della vacche”, in un serbatoio dove comprare voti come è stato per il dipietrismo a vantaggio del berlusconismo, magari questa volta a favore del Pd; oppure se saranno in grado di dare vita ad una fisionomia politica propria, non oscillatoria.
C’è infine la sinistra, o forse sarebbe meglio dire “la fine della sinistra”. Da una parte Sel, che vede l’ipotesi carismatica giocata attorno alla figura di Vendola in netto declino. Persa la scommessa delle primarie nel Pd, dopo l’entrata in gioco di Renzi e lo spostamento a destra della partita politica dentro i democratici, Sel si è ritrovata senza strategia (essendo la scelta governista il suo presupposto) e quindi relegata in una posizione subalterna, da mera ruota di scorta di Bersani. Nessuno crede che possa esercitare una capacità condizionante tale da controbilanciare le pressioni, i ricatti, la forza che metterà in campo il blocco montiano dopo le elezioni. Una forza che non si pesa solo in voti parlamentari.
Dall’altra Rivoluzione civile con il suo porta bandiera Ingroia che ha messo insieme i cocci, la “posa”, i residui dei vari cetini politici “ex parlamentari” e ormai gruppuscolari provenienti dalla dissoluzione del Pci e da alcuni gruppetti dell’estrema sinistra anni 80, sigle vuote come quella dei Verdi, e ciò che resta della ditta in fallimento di Di Pietro. Un rimasuglio in cerca di una poltrona parlamentare che li faccia sopravvivere ancora un po’, prima di maturare definitivamente il diritto alla pensione.

Il giustizialismo è una sorta di mastice ideologico comune a queste formazioni, fatta eccezione per Sel (ma anche lì bisognerebbe vedere quanto è chiara la questione), grosso modo nessuno mette seriamente in discussione questo paradigma. Magari lo interpreta diversamente, con maggiore o minore vigore e furore, con distinzioni varie, con un uso a geometria varabile come avviene per l’area berlusconiana, o con alcuni distinguo e timidi dubbi in certi limitati settori del Pd. Leghisti, ex-post-trans fascisti, grillini e igroiani sono invece tutti apertamente, dichiaratamente e furiosamente, giustizialisti.

Ma in queste elezioni lo sono più di ogni altra formazione quelli di Rivoluzione civile per l’evidente significato simbolico e programmatico rappresentato dalla scelta di avere come candidato premier proprio Antonio Ingroia, senza dover scorerre alcune delle candidature proposte nonché il leitmotiv della campagna.

Il capolinea: giustizialismo malattia senile del ceto politico comunista
Mai come in questa campagna l’identità politica delle formazioni raccolte nella lista di Ingroia è stata incentrata attorno al tema giustizialista: una vera e propria malattia senile dei partitini comunisti.
Come si è arrivati a questo punto?
La crisi terminale della sinistra italiana nasce probabilmente dalla incapacità di ripensare il decennio novanta (che a sua volta mette radici in quel che accadde negli anni 70, e nel modo in cui si conclusero). Eppure l’intera fisionomia di quel che resta della sinistra di oggi nasce da lì, da come il Pci reagì alla caduta del muro cambiando nome e dal quel che accadde subito dopo.
Merita di esser indagata meglio questa strana rimozione perché gli anni novanta hanno forgiato in buona misura l’identità della sinistra attuale, sia nella versione riformista che in quella radicale e persino antagonista.
L’illusione giustizialista ha cullato la sinistra nell’idea che il fenomeno berlusconiano fosse sorto dal mancato compimento della missione purificatrice di Tangentopoli e non sia stato invece una sua diretta conseguenza. Lo tsunami giudiziario, che ha investito il sistema politico-istituzionale nel corso della prima metà degli anni novanta, non ha lavato la politica e ancora meno moralizzato la cosa pubblica. In realtà, travolgendo le figure tradizionali della mediazione istituzionale fuoriuscite dal dopoguerra, ha semplificato le linee di comando, ridotto le zone intermedie, portando a compimento l’instaurazione del meccanismo maggioritario, favorendo così l’accesso diretto alla politica dei nuovi quadri direttamente espressi dal mercato, dalla società commerciale, dalle aziende, per non parlare dei nepotismi e degli harem. La selezione è peggiorata in negativo anche a seguito della scomparsa di quei grandi contenitori che erano i partiti di massa, dove si esercitava una grammatica politica.
La  rivoluzione conservatrice avviata negli anni ottanta ha raggiunto tutti i suoi obiettivi e il partito impresa ha trovato la strada spianata verso la sua ascesa al governo. A questo risultato hanno contribuito l’ideologia della repressione emancipatrice, il mito dell’azione penale, la teoria dell’interferenza, divenuta patrimonio di larghi settori della magistratura. Come era prevedibile fin dall’inizio Mani pulite non ha eliminato i meccanismi della corruzione, ha semplicimente liquidato per via giudiziaria una parte del vecchio ceto politico della Prima repubblica la cui attività regolatrice costituiva oramai un intralcio troppo costoso rispetto ai nuovi parametri della competitività internazionale. La sua funzione è stata eminentemente politica, un vero capolavoro: realizzare un Termidoro evitando la presa della Bastiglia. Reazione preventiva ad una rivoluzione mai avvenuta.
Così il giudiziario, da strumento di tutela reciproca tra classi dominanti, si è trasformato per un certo periodo in luogo di conflitto anche tra élites, ricorrendo a pratiche tradizionalmente riservate alle sole classi pericolose o ai nemici interni.
Lentamente l’oppio giudiziario ha contaminato buona parte delle culture presenti nella sinistra, mutandone profondamente l’universo simbolico, insieme a quello dei movimenti, ed ai vari repertori che giustificavano l’azione collettiva.
 Tutto ciò è sembrato essere anche una diretta conseguenza della crisi delle grandi narrazioni rivoluzionarie che descrivevano cammini di liberazione. L’ambizioso progetto che un tempo animava i propositi di cambiare il mondo è reclinato verso la modesta pretesa di giudicarlo. Alla costruzione d’ideali carichi di prospettive e speranze si è opposto il culto della vendetta e la furiosa libidine dell’azione penale. L’ideologia giudiziaria è apparsa come una risposta al disincanto di un mondo ormai percepito come decaduto e corrotto.
La politica ha mutato attori, tecniche e contenuto. Cacciata dai posti di lavoro, emarginata dalle piazze, sottratta agli stessi emicicli, è passata prima nelle corbeilles e poi nelle procure, mentre chi un tempo occupava le strade ha cominciato a sedersi sui banchi della parte civile e chi ha continuato a farlo ha finito per vestire i panni della nuova icona del male, il black bloc, il terrorista urbano.
Il ricorso sfrenato alle scorciatoie giudiziarie ha cristallizzato umori forcaioli e reazionari. L’abbassamento generale del livello di garanzie giuridiche ha portato unicamente pregiudizio alle classi più deboli che da sempre hanno minori mezzi e strumenti di difesa, riempiendo le carceri e contribuendo ad edificare una legislazione sempre più minacciosa.
La fonte della legittimità proviene dalla legalità o dal suffragio, sono arrivati a chiedersi alcuni pasdaran della soluzione penale come Flores D’arcais (su MicroMega). Il risultato è stato il lungo ventennio Berlusconiano e poi lo stato d’eccezione tecnocratico di Monti.

Senza un radicale mutamento di paradigma politico che si liberi una volta per tutte dell’ideologia giudiziaria e penale non si riuscirà a ricostruire nulla, anche la ripresa di eventuali temi di classe avrebbe le ali piombate.

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Per farla finita con l’ideologia giustizialista 1/continua

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