No tav, No muos, sindacati di base e centri sociali lanciano la campagna per l’amnistia sociale. Aderisci anche tu!

manifesto 20130721nazionale-1Ormai siamo all’emergenza. L’intensità e la capillarità degli attacchi repressivi e preventivi mossi contro il semplice dissenso sociale crescono ogni giorno di più. Tutto ciò avviene mentre al deficit di legittimazione delle rappresentanze istituzionali si aggiunge anche la loro desovranizzazione di fronte all’azione di organismi sovranazionali come la Troika o le agenzie di rating che programmano il “pilota automatico”. Quanto più gli esecutivi sono svuotati di poteri reali (i parlamenti fanno parte del decoro da tempo), tanto più si incrementano i margini di intolleranza dei governi e si riducono gli spazi di agibilità politica per chiunque è costretto a dover subire le conseguenze di drastiche politiche economiche e sociali supportate da minacciose politiche penali. Sì, perché a quanto pare l’unica materia sovrana rimasta nelle mani dei governi è lo strumento della penalità. Perseguo, giudico e condanno, ergo come Stato nazionale esisto ancora.
E’ chiaro che di fronte ad una situazione del genere ogni forma di azione collettiva dovrà misurarsi, volente o nolente, con questo tipo di problema. Lo sa bene persino uno come Beppe Grillo che fresco di un 25% di consensi elettorali, cioè 2/3 di quelli espressi, ha dovuto rinunciare ad un presidio davanti a Montecitorio, vivamente sconsigliato dai vertici del Viminale. Un disegno di legge depositato in parlamento mira a sanzionare pesantemente ogni forma di contestazione sonora di piazza. Quanto basta per capire qual è il clima.
Se si vuole tornare a far respirare la società bisogna allargare il più possibile le maglie che la contengono. Non c’è critica dell’attuale società capitalista che possa aver successo senza una contemporanea rimessa in discussione dell’apparato penale che la sostiene. Riassorbire la legislazione d’emergenza nella quale si annidano le tipologie di reato più insidiose, ma ancor di più la forma mentis che ispira l’azione della magistratura, ovvero l’idea che la materia sociale, l’azione collettiva, sia una questione di ordine pubblico se non di chiara eversione. Per farlo bisogna scardinare l’impalcatura giustizialista costruita negli ultimi decenni. Da qui l’esigenza, condivisa oggi, di aprire una vertenza per l’indulto e l’amnistia in favore dei reati politici, sociali e per sfollare le carceri.

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Adesioni collettive
ACAD, Associazione contro abusi in divisa onlus, Acoustic Impact, gruppo musicale, Action Diritti in Movimento, Assalti Frontali, gruppo musicale, Assemblea Aversana per l’Autonomia, Associazione Senzaconfine, Roma, Associazione Solidarietà Proletaria (ASP), Astroestella Senza Fini e… Confini, ATTAC Italia, Azione antifascista Teramo, Banda Bassotti, gruppo musicale, Banda Jorona, gruppo musicale Baracca Sound, Blocchi Precari Metropolitani Roma, Centro Donato Renna-Liguria, Centro sociale 28 maggio, Rovato (BS), Circolo Che Guevara PRC Roma, COBAS PT – CUB, Collettivo Militant Roma, Comitato 3e32 L’Aquila, Comitato Amici e Familiari Davide Rosci, Comitato Antirazzista, COBAS – Palermo, Comitato di Quartiere Torbellamonaca Roma, Comitato Pace di Robassomero (TO), Comitato Piazza Carlo Giuliani Genova, Communia, Spazio di mutuo soccorso Roma, Confederazione dei Comitati di Base (COBAS), Confederazione COBAS Perugia, Confederazione COBAS Pisa, Confederazione COBAS Terni, Confederazione Unitaria di Base (CUB) Piemonte, Consiglio Metropolitano di Roma, Coordinamento regionale dei Comitati NoMuos, Coordinamento Regionale USB Umbria, CPOA Rialzo Cosenza, CSA Depistaggio Benevento, CSA Germinal Cimarelli, Terni, CSA Jan Assen (ex Asilo politico) Salerno, CSOA Angelina Cartella Reggio Calabria, CSOA La Strada Roma, CUB Scuola Università Ricerca, Ex Colorificio Liberato/Progetto Rebeldia Pisa, Fuori binario-giornale di Strada dei Senza Dimora di Firenze, Ginko (Villa Ada Posse) & Shanty Band gruppo musicale, ISM – Italia, Ital Noiz Dub System, gruppo musicale, L@p Asilo 31- Laboratorio per l’Autorganizzazione Popolare Asilo 31 Benevento, Lavoratori Autorganizzati Ministero dell’Economia e delle Finanze, Legal Team Italia, Liberi dall’ergastolo, LOA Acrobax, Roma, Madri per Roma città aperta, Movimento Disoccupati Autorganizzati, CSOA Ex Macello Acerra (NA), Movimento No Tav, Movimento No Tem, Occupazioni Precari Studenti OPS area Castelli romani, Officina Rebelde Castell’Umberto (ME), Oltremedia news, Osservatorio sulla repressione, P-Carc, PMLI, Radici nel cemento, gruppo musicale, Radio Maroon, gruppo musicale, RAT-Rete Antifascista Ternana, Redazione di Zeroviolenzadonne.it, Redgoldgreen, gruppo musicale, Rete Antirazzista Catanese, Rete Bresciana Antifascista, Rete 28 aprile Fiom-opposizione Cgil, Riscossa proletaria per il comunismo Torino, Romattiva.org, Senza calma di vento Perugia, Sindacato Lavoratori in Lotta (SLL), Spazio Popolare Occupato S. Ermete Pisa, Terradunione, gruppo musicale,Tribù Acustica, gruppo musicale, Unione Sindacale di Base (USB), USB Bergamo, Wu Ming – scrittori, 99 Posse gruppo musicale

Adesioni individuali
Agrippino Gervasio (archeologo Napoli), Alessandra Magrini (AttriceContro Roma), Alessandra Schia (studentessa Napoli), Alessandro Dal Lago (Università di Genova), Alessia Montuori (Roma), Alfredo Tradardi (coordinatore ISM-Italia), Alfonso Di Stefano Comitato di base NoMuos/NoSigonella (Ct), Alfonso Perrotta (Roma), Amedeo Ciaccheri (Consigliere Municipio VIII Roma), Andrea Bianco (impiegato Napoli), Andrea Bitonto, Andrea Di Frenna (Napoli), Angela Scicchitano Villa San Giovanni (RC), Anna Balderi Ladispoli (RM), Anna Giannattasio (insegnante, Napoli), Anna Maria Bruni (giornalista, Roma), Anna Maria Liggeri (educatrice, Milano), Antimo Padula Casandrino (NA), Antonino Campenni (ricercatore Università della Calabria), Antonio Esposito (Napoli), Antonio Gentile Torre del Greco (NA), Antonio Molino (Napoli), Antonio Musella (giornalista Napoli), Assia Petricelli, Barbara Breyhan (danzatrice Sesto Fiorentino (FI), Barbara Chiocca (ambulante Napoli), Beppe Corioni, Bianca «la Jorona» Giovannini musicista, Carlo Bachschmidt (consulente tecnico processi G8), Carlo Curti (Lugano Svizzera), Carlo Giampetraglia (Napoli), Carlo Pellegrino (medico chirurgo Roma), Carlo Tompetrini, Carlotta Pappalardo studentessa Castellammare di Stabia (NA), Carmelo Eramo (insegnante), Carmine Lettieri Acerra (NA), Caterina Calia (avvocato Roma), Caterina Elendu (Napoli), Cesare Antetomaso (Giuristi Democratici), Checchino Antonini (giornalista di Liberazione), Chiara Morello (educatore professionale), Cinzia Ponticiello insegnante S. Antimo (NA), Ciro Polverino (operaio Napoli), Claudia Soprano (studentessa Napoli), Claudia Urzi (insegnante), Claudio Dionesalvi (insegnante), Claudio Guidotti (Roma), Claudio Infantino (insegnante), Cosimo Maio (Benevento), Cristiano Armati (scrittore), Cristiano Carloni (studente Università di Urbino), Cristiano Petricciolo (studente Napoli), Cristina Povoledo (Roma), Daniela Frascati (scrittrice), Daniela Pantaloni Comitato pace Robassomero (TO), Daniele Catalano, Daniele Sepe (musicista), Danilo Bianconi (Roma), Dario Rossi (avvocato Genova), David Augscheller (insegnante Merano), Davide Gennaro, Davide Rosci (detenuto per i fatti del 15 ottobre 2011), Davide Steccanella (avvocato Milano), Demetrio Conte (Counselor ed educatore Milano), Diana Lepre (disoccupata Napoli), Don Vitaliano Della Sala (parroco), Donatella Quattrone (blogger), Egle Piccinini (Asti), Elena Giuliani (sorella di Carlo Giuliani), Emanuela Donat Cattin (Milano), Emanuela Sangermano (studentessa Caserta), Emanuele Di Giulio Cesare (operaio Napoli), Emanuele Fiore (studente Napoli), Emidia Papi (USB), Enrico Contenti (ISM-Italia), Enrico Di Cola, Enrico Triaca, Roma (torturato dallo Stato nel 1978 e condannato per calunnia alle “forze dell’ordine”), Ermanno Gallo, scrittore, cittadino, Erri De Luca (scrittore), Fabio Giovannini (scrittore e autore televisivo), Federica Limpani Frattamaggiore (NA), Federico Mariani (Roma), Federico Micali, Francesca Panarese (Benevento), Francesco Barilli (coordinatore reti-invisibili.net), Francesco Caruso (ricercatore Università della Calabria), Francesco De Angelis (artigiano Napoli), Francesco De Vita (Roma), Francesco Giordano (Milano), Francesco Romeo (avvocato Roma), Francesco Verrengia (studente Napoli), Franca Gareffa (Dipartimento sociologia Università della Calabria), Franco Coppoli (COBAS Terni), Franco Iachetta (anarchico), Franco Piperno (docente di Fisica Università della Calabria), Fulvia Alberti (regista), Gabriella Grasso (Milano), Gennaro Massimino (infermiere COBAS Sanità Università e Ricerca), Gianni Piazza (ricercatore universitario), Gianpiero Bonvicino (Coordinatore PRC valli Brembana e Imagna), Gigi Malabarba, Gilberto Pagani (avvocato presidente Legal Team Italia), Giorgia Listì (Palermo), Giovanni Chirichella (Napoli), Giovanni Croce (studente, Napoli), Giovanni Russo Spena (responsabile giustizia PRC), Giulia Inverardi (scrittrice), Giulio Bass (musicista), Giulio Laurenti (scrittore), Giulio Mojo (studente Portici (NA), Giuseppe Rinforzi (operaio, Quarto (NA), Giuseppina Massaiu (avvocato Roma), Gualtiero Alunni (portavoce Comitato No Corridoio Roma-Latina), Guido Lutrario (USB Roma), Haidi Gaggio Giuliani (Comitato Piazza Carlo Giuliani), Igor Papaleo (Partito dei Carc, Napoli), Italo Di Sabato (Osservatorio sulla repressione), Jenni Caselli (disoccupata, Napoli), Laura Donati, Laura Rasero, Lello Voce (poeta), Letizia Romeo (Lucca), Livia Fenaroli, Lorenzo Guadagnucci (giornalista Comitato Verità e Giustizia per Genova), Lorenzo Santinelli (impiegato, Genova), Luca Fontana (segretario circolo PRC Che Guevara), Luca Merlino (Torre Del Greco (NA), Luciana De Pascale (Napoli), Luciano  Muhlbauer, Ludovica Formoso (praticante avvocato, Roma), Luigi Brambillaschi (Melzo (MI), Luigi Fucchi (coordinamento regionale USB Umbria), Luigi Lubrano (studente, Napoli), Luigi Oliva (Torre del Greco (NA), Luigia Pasi (Milano), Luisella Consumi (RSU Università degli studi di Firenze) Manlio Calafrocampano (musicista), Manuela Masi (studentessa, Napoli), Mara Nerbano (docente ABA, Carrara), Marco Arturi (Rete 28 Aprile, Torino), Marco Bersani ()Attac Italia, Marco Calabria (giornalista), Marco Chianese (disoccupato, Napoli), Marco Clementi (storico), Marco Di Renzo (Roma), Marco Grimaldi (studente, Napoli), Marco Rovelli (scrittore e musicista), Marco Spezia (Tecnico della sicurezza su lavoro, Sarzana (SP), Mario Battisti (Roma), Mario Pompeo, Mario Pontillo (responsabile carceri PRC), Marina Farina (docente, Napoli), Martina Grifoni (Narni), Massimo Cappitti (insegnante), Massimo Carlotto (scrittore), Massimo Lo Sciuto, operaio informatico, Matteo Squadrani (studente, Università di Urbino), Mattia Pellegrini (artista), Mattia Serafino (disoccupato Brescia), Mauro Gentile (detenuto politico per gli scontri del 15 ottobre 2011, Mauro Manola (Napoli), Mc Shark (Terradunione musicista), Michele Baronio (attore), Michele Capuano (regista-scrittore), Michele Clemente (referente nodo ALBA (Alleanza Lavoro Benicomuni Ambiente), Asti, Michele Vollaro (storico e giornalista), Mingo Fante, brigante (Torricella Peligna (CH), Mino Massimei (Presidente Circolo ARCI Montefortino 93 Artena (RM), Miriam Lombardo (studentessa, Napoli), Miriam Marino (scrittrice Rete ECO, AMLRP), Nando Grassi (insegnante Palermo), Niccolò Benvenuti (disoccupato Grosseto), Nicola D’Agosto (Napoli), Nicoletta Bernardi (Passignano sul Trasimeno), Nicoletta Crocella (responsabile edizioni Stelle Cadenti), Nunzio D’Erme (Roma), Paola Staccioli (Osservatorio sulla repressione Roma), Paolo Caputo (ricercatore Università della Calabria), Paolo Di Vetta (Blocchi Precari Metropolitani), Paolo Persichetti (insorgenze.wordpress.com), Paolo “Pesce” Nanna (comico periferico), Pasquale Vilardo (avvocato Roma), Pierpaolo Surbera (Napoli), Pietro Saitta (ricercatore in Sociologia Università di Messina), Pino Cacucci (scrittore), Rasta Blanco (musicista), Renato Rizzo (segreteria romana Unione Inquilini), Riccardo Infantino (insegnante),Roberta Fusco (Napoli), Roberta Rivieccio (Torre del Greco (NA), Roberto Colarullo (Comitato pace Robassomero (TO), Roberto Ferrucci (scrittore), Roberto Giardelli, Roberto Niro, Roberto Vassallo (Direttivo CGIL Milano RSU FIOM Almaviva Milano), Rodolfo Graziani (Terni), Rosandra Papaleo, Ruggero D’Alessandro (Lugano Breganzona, Svizzera), Salvatore Chiosi (Napoli), Salvatore Palidda (Università di Genova), Serge Gaggiotti (Rossomalpelo), cantautore, Sergio Bellavita (portavoce nazionale Rete 28 aprile Fiom), Sergio Bianchi (casa editrice DeriveApprodi), Sergio Riccardi (Roma), Silvia Baraldini (Roma), Silvio Arcolesse (Campobasso), Simona Musolino (scrittrice), Simonetta Crisci (avvocato Roma), Sonia Verzegnassi (Roma), Stefania Di Liddo (operatrice sociale Bisceglie (BA), Stefano Ciccantelli (coordinatore circolo SEL Pineto (TE), Stefano Guazzo (disoccupato Napoli), Stefano Poloni (Milano), Stefano Ulliana (insegnante scuola pubblica Codroipo (UD), Tamara Bartolini (attrice), Tatiana Montella (avvocato), Tiziano Loreti (Bologna), Ugo Giannangeli (avvocato penalista Milano), Valentina Bucci, libraia (Ancona), Valentina Perniciaro (blogger baruda.net), Valentino Bombardieri (Brescia), Valeria Nocera (Napoli), Valerio Evangelisti (scrittore Bologna), Valerio Mastandrea (attore), Valerio Monteventi, Bologna, Vincenzo Brandi (ingegnere ISM-Italia), Vincenzo Miliucci (COBAS Roma), Vittorio Agnoletto, Wsw Wufer (musicista)

Democrazia senza popolo

L’oligarchizzazione del potere e il governo delle tecnostrutture

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Maurice Duverger definiva l’accordo per governare insieme tra moderati di destra e moderati di sinistra una «democrazia senza popolo». Per il politologo francese questa coalizione dei centri, il regno della «Palude», priva i cittadini della possibilità di una scelta reale.

-1I mercati finanziari odiano la democrazia. In fondo si può riassumere così il precipizio dei valori di listino in cui sono cadute le borse alla notizia che il popolo greco doveva essere chiamato a pronunciarsi con un referendum sulle terribili misure antisociali chieste dalla Bce per salvare il Paese dal fallimento. Di questo nuovo odio per la democrazia aveva scritto alcuni anni fa il filosofo Jacques Rancière. Vale la pena ricordarne brevemente qualche passaggio: «alla critica delle carenze sostanziali presenti nel progetto democratico si è sostituita oggi una denuncia del suo eccesso di vitalità»; «Il protagonismo democratico attuale è visto come il segno di una società che vorrebbe divorare lo Stato» e l’economia, aggiungiamo noi, al punto che l’unica democrazia buona per il capitalismo finanziario è una «democrazia senza popolo».
Per riassumere quanto accaduto Rossana Rossanda sul manifesto è ricorsa alla famosa parafrasi con la quale Bertolt Brecht aveva ironizzato sulle parole del segretario generale dell’Unione degli scrittori della Ddr che di fronte ai moti operai del ’53 di Berlino-Est aveva detto: «La classe operaia di Berlino ha tradito la fiducia che il Partito gli aveva riposto: ora dovrà lavorare duro per riguadagnarsela!» e che Brecht riformulò in questo modo: «Il Comitato centrale ha deciso: poiché il popolo non è d’accordo, bisogna nominare un nuovo popolo».
Oggi il capitalismo finanziario non si accontenta di un nuovo popolo, vuole dissolverlo! Dalle ceneri della volontà popolare è nato il governo Monti.

9788822063182Il sistema politico italiano non conosce ancora una vera lotta per l’alternanza. La ragione – secondo Mauro Fotia – è da ricercare in quel male antico che è il consociativismo, fenomeno che, con i suoi risvolti trasformistici, risale ai primi anni dell’Unità ma ha ritrovato vigore nell’ultimo cinquantennio repubblicano attraverso lla Dc di Moro e il Pci di Berlinguer, fino al Pd di D’Alema e Veltroni. Il Pd, in realtà, ha proseguito gli inganni e gli incantesimi di tale processo, anziché interromperlo.


Consociativismo e think-tank, il potere all’ombra di Enrico Letta

Intervista a Giovanni De Luna,“Il governo tecnico sancisce il fallimento della-politica”
Recensione – “Il consociativismo non è mai finito” di Mauro Fotia, Dedalo edizioni 2011
L’inutile eredità del Pci tra consociativismo e compromesso storico
Perché non sciogliere il popolo? di Rossana Rossanda
Per il Censis il governo Monti è espressione di una politica prigioniera del primato dei poteri finanziari
Recensione – “La haine de la démocratie-Il nuovo odio della democrazia” di Jacques Rancière

Per farla finita con la sinistra giudiziaria 2/fine

Dagli ingraiani agli ingroiani, l’ultimo stadio della sinistra terminale

Il quadro politico attuale vede sulla scena due destre. Una berlusconiana e l’altra montiana. La seconda è sicuramente quella più intransigente e pericolosa. Dura, padronale, arrogante, una sorta di neothatcherismo con il loden addosso. L’altra, quella berlusconiana, leggermente temperata dalla matrice populista del suo leader, un groviglio di interessi autoreferenziali preoccupati solo di non essere travolti, con attorno la destra etnica leghista, indebolita e trincerata nei suoi bastioni lombardo-veneti, e i patetici cespuglietti neo-post-ex-trans fascisti.
C’è poi un centro che ruota attorno al partito democratico, rimasto lontano dalla realizzazione di qualsiasi progetto post-socialdemocratico ma piuttosto vicino ad una vecchia idea democristiana della politica, a quella che fu la sinistra democristiana, un inveramento del ceto politico del compromesso storico.
Ci sono quindi i populisti con il nuovo arcipelago grillino che hanno preso il posto dei dipietristi. Una specie di carnevale dei delusi e dei rancorosi di destra come di sinistra. Rappresentano la vera incognita sia per le dimensioni che potranno raggiungere in Parlamento che per il comportamento politico che terranno. Non sono ancora un ceto politico strutturato, anche se molti di loro provengono dal mondo del professionismo della società civile. Le due cose tuttavia non si equivalgono e bisognerà vedere in che modo reagiranno una volta saliti nelle sale del Palazzo: se si trasformeranno in “mercato della vacche”, in un serbatoio dove comprare voti come è stato per il dipietrismo a vantaggio del berlusconismo, magari questa volta a favore del Pd; oppure se saranno in grado di dare vita ad una fisionomia politica propria, non oscillatoria.
C’è infine la sinistra, o forse sarebbe meglio dire “la fine della sinistra”. Da una parte Sel, che vede l’ipotesi carismatica giocata attorno alla figura di Vendola in netto declino. Persa la scommessa delle primarie nel Pd, dopo l’entrata in gioco di Renzi e lo spostamento a destra della partita politica dentro i democratici, Sel si è ritrovata senza strategia (essendo la scelta governista il suo presupposto) e quindi relegata in una posizione subalterna, da mera ruota di scorta di Bersani. Nessuno crede che possa esercitare una capacità condizionante tale da controbilanciare le pressioni, i ricatti, la forza che metterà in campo il blocco montiano dopo le elezioni. Una forza che non si pesa solo in voti parlamentari.
Dall’altra Rivoluzione civile con il suo porta bandiera Ingroia che ha messo insieme i cocci, la “posa”, i residui dei vari cetini politici “ex parlamentari” e ormai gruppuscolari provenienti dalla dissoluzione del Pci e da alcuni gruppetti dell’estrema sinistra anni 80, sigle vuote come quella dei Verdi, e ciò che resta della ditta in fallimento di Di Pietro. Un rimasuglio in cerca di una poltrona parlamentare che li faccia sopravvivere ancora un po’, prima di maturare definitivamente il diritto alla pensione.

Il giustizialismo è una sorta di mastice ideologico comune a queste formazioni, fatta eccezione per Sel (ma anche lì bisognerebbe vedere quanto è chiara la questione), grosso modo nessuno mette seriamente in discussione questo paradigma. Magari lo interpreta diversamente, con maggiore o minore vigore e furore, con distinzioni varie, con un uso a geometria varabile come avviene per l’area berlusconiana, o con alcuni distinguo e timidi dubbi in certi limitati settori del Pd. Leghisti, ex-post-trans fascisti, grillini e igroiani sono invece tutti apertamente, dichiaratamente e furiosamente, giustizialisti.

Ma in queste elezioni lo sono più di ogni altra formazione quelli di Rivoluzione civile per l’evidente significato simbolico e programmatico rappresentato dalla scelta di avere come candidato premier proprio Antonio Ingroia, senza dover scorerre alcune delle candidature proposte nonché il leitmotiv della campagna.

Il capolinea: giustizialismo malattia senile del ceto politico comunista
Mai come in questa campagna l’identità politica delle formazioni raccolte nella lista di Ingroia è stata incentrata attorno al tema giustizialista: una vera e propria malattia senile dei partitini comunisti.
Come si è arrivati a questo punto?
La crisi terminale della sinistra italiana nasce probabilmente dalla incapacità di ripensare il decennio novanta (che a sua volta mette radici in quel che accadde negli anni 70, e nel modo in cui si conclusero). Eppure l’intera fisionomia di quel che resta della sinistra di oggi nasce da lì, da come il Pci reagì alla caduta del muro cambiando nome e dal quel che accadde subito dopo.
Merita di esser indagata meglio questa strana rimozione perché gli anni novanta hanno forgiato in buona misura l’identità della sinistra attuale, sia nella versione riformista che in quella radicale e persino antagonista.
L’illusione giustizialista ha cullato la sinistra nell’idea che il fenomeno berlusconiano fosse sorto dal mancato compimento della missione purificatrice di Tangentopoli e non sia stato invece una sua diretta conseguenza. Lo tsunami giudiziario, che ha investito il sistema politico-istituzionale nel corso della prima metà degli anni novanta, non ha lavato la politica e ancora meno moralizzato la cosa pubblica. In realtà, travolgendo le figure tradizionali della mediazione istituzionale fuoriuscite dal dopoguerra, ha semplificato le linee di comando, ridotto le zone intermedie, portando a compimento l’instaurazione del meccanismo maggioritario, favorendo così l’accesso diretto alla politica dei nuovi quadri direttamente espressi dal mercato, dalla società commerciale, dalle aziende, per non parlare dei nepotismi e degli harem. La selezione è peggiorata in negativo anche a seguito della scomparsa di quei grandi contenitori che erano i partiti di massa, dove si esercitava una grammatica politica.
La  rivoluzione conservatrice avviata negli anni ottanta ha raggiunto tutti i suoi obiettivi e il partito impresa ha trovato la strada spianata verso la sua ascesa al governo. A questo risultato hanno contribuito l’ideologia della repressione emancipatrice, il mito dell’azione penale, la teoria dell’interferenza, divenuta patrimonio di larghi settori della magistratura. Come era prevedibile fin dall’inizio Mani pulite non ha eliminato i meccanismi della corruzione, ha semplicimente liquidato per via giudiziaria una parte del vecchio ceto politico della Prima repubblica la cui attività regolatrice costituiva oramai un intralcio troppo costoso rispetto ai nuovi parametri della competitività internazionale. La sua funzione è stata eminentemente politica, un vero capolavoro: realizzare un Termidoro evitando la presa della Bastiglia. Reazione preventiva ad una rivoluzione mai avvenuta.
Così il giudiziario, da strumento di tutela reciproca tra classi dominanti, si è trasformato per un certo periodo in luogo di conflitto anche tra élites, ricorrendo a pratiche tradizionalmente riservate alle sole classi pericolose o ai nemici interni.
Lentamente l’oppio giudiziario ha contaminato buona parte delle culture presenti nella sinistra, mutandone profondamente l’universo simbolico, insieme a quello dei movimenti, ed ai vari repertori che giustificavano l’azione collettiva.
 Tutto ciò è sembrato essere anche una diretta conseguenza della crisi delle grandi narrazioni rivoluzionarie che descrivevano cammini di liberazione. L’ambizioso progetto che un tempo animava i propositi di cambiare il mondo è reclinato verso la modesta pretesa di giudicarlo. Alla costruzione d’ideali carichi di prospettive e speranze si è opposto il culto della vendetta e la furiosa libidine dell’azione penale. L’ideologia giudiziaria è apparsa come una risposta al disincanto di un mondo ormai percepito come decaduto e corrotto.
La politica ha mutato attori, tecniche e contenuto. Cacciata dai posti di lavoro, emarginata dalle piazze, sottratta agli stessi emicicli, è passata prima nelle corbeilles e poi nelle procure, mentre chi un tempo occupava le strade ha cominciato a sedersi sui banchi della parte civile e chi ha continuato a farlo ha finito per vestire i panni della nuova icona del male, il black bloc, il terrorista urbano.
Il ricorso sfrenato alle scorciatoie giudiziarie ha cristallizzato umori forcaioli e reazionari. L’abbassamento generale del livello di garanzie giuridiche ha portato unicamente pregiudizio alle classi più deboli che da sempre hanno minori mezzi e strumenti di difesa, riempiendo le carceri e contribuendo ad edificare una legislazione sempre più minacciosa.
La fonte della legittimità proviene dalla legalità o dal suffragio, sono arrivati a chiedersi alcuni pasdaran della soluzione penale come Flores D’arcais (su MicroMega). Il risultato è stato il lungo ventennio Berlusconiano e poi lo stato d’eccezione tecnocratico di Monti.

Senza un radicale mutamento di paradigma politico che si liberi una volta per tutte dell’ideologia giudiziaria e penale non si riuscirà a ricostruire nulla, anche la ripresa di eventuali temi di classe avrebbe le ali piombate.

Sullo stesso tema
Per farla finita con l’ideologia giustizialista 1/continua

Le bugie del Governo: le “torture legittime” del Sottosegretario all’Interno, prefetto Carlo De Stefano

Nella risposta che il governo, per bocca del sottosegretario all’Interno prefetto Carlo De Stefano (nella foto qui accanto), ha fornito lo scorso giovedì 22 marzo all’interrogazione, presentata dalla deputata radicale Rita Bernardini, sulle torture che nel 1982 furono utilizzate per contrastare il fenomeno della lotta armata, si lasciava intendere che almeno fino al 1984 in alcuni trattati internazionali sottoscritti anche dall’Italia fossero presenti «limitazioni» di «non di poco conto» al divieto di fare ricorso all’uso della tortura.
Secondo questa singolare interpretazione nelle convenzioni internazionali si sarebbe vietato l’uso della tortura essenzialmente contro il nemico esterno, in caso di guerre tra Stati, tacendo sul ricorso a torture contro il nemico interno (i cosiddetti “terroristi”), a meno che non si trattasse di Paesi sotto regimi dittatoriali. Una logica che se condotta fino alle sue estreme conseguenze avrebbe sancito il divieto di torturare solo per le dittature, ritenute una forma di governo illegittimo, mentre paradossalmente avrebbe lasciato alle democrazie ampi margini di possibilità di farlo tranquillamente.

Questo il passo in questione:

Fonte: Estratto dal testo letto in commissione Giustizia dal sottosegretario Carlo De Stefano

Sul piano sostanziale sappiamo che non esistono grosse diferenze nell’impiego della tortura tra Paesi con sistemi politici cosiddetti “democratici” e regimi con forme di governo dittatoriale o autoritario. Non stiamo qui a dilungarci troppo sugli esempi storici: dalla Francia, durante la guerra d’Algeria, alle imprese coloniali e imperialiste delle democrazie occidentali fino alla recente Guantanamo dell’amministrazione Bush.
Diverso è il piano formale, l’adesione alle convenzioni internazionali, i trattati Onu, il cosiddetto sistema dello Stato di diritto vieta il ricorso a determinati eccessi o abusi nell’uso della violenza legittima dello Stato, non in Italia tuttavia dove il ricorso alla tortura non è ancora oggi un reato previsto dal codice penale nonostante gli impegni presi in tal senso negli accordi internazionali e in sede europea.

La fretta e il poco tempo a disposizione mi avevano impedito sul momento di fare le dovute verifiche così ho dato per vero quanto asserito nelle affermazioni di De Stefano, rilasciate pur sempre da un membro del governo in una sede ufficiale come la commissione Giustizia dove non ci si aspetta che si raccontino frottole o addirittura si riscriva pro domo un testo come la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo.
Avrei dovuto fidarmi dell’istinto, che poi in questo caso altro non è che la stratificazione pregressa di letture e studi passati. Quei testi, soprattutto la Dichiarazione universale come la Convenzione di Roma (Cedu) li avevo letti, studiati per alcuni esami universitari o per preparare ricorsi in carcere a detenuti che mi chiedevano un aiuto.
Molte volte li ho ritrovati, citati e commentati, nei libri e mai ricordo di aver incontrato da qualche parte quelle «limitazioni» al divieto della tortura, per giunta così nette, evocate dal sottosegretario all’Interno.

Così appena ho potuto sono andato a verificare. Quei dubbi iniziali erano più che fondati. Vi chiedo scusa dunque per aver accreditato, seppur involontariamente, delle fandonie così grossolane. Nel testo dei trattati quei vincoli non esistono. Le parole di De Stefano sono frottole, roba da bocciatura secca ad un esame di primo anno di Giurisprudenza. L’interpretazione similgiuridica suggerita sulla base della scheda fornitagli dai tecnici del ministero della Giustizia (supponiamo si tratti di insigni magistrati dell’ufficio studi) rivela solo il penoso tentativo di costruire a posteriori una copertura giuridica delle ragioni dello Stato per giustificare il ricorso alle torture nei primi anni 80.

Nella Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali stipulata a Roma nel 1950, quella per intenderci sulla base della quale opera la corte di Strasburgo, come nel Patto internazionale sui diritti civili e politici, un trattato delle Nazioni unite adottato nel 1966 ed entrato in vigore nel 1976, nato dall’esperienza della Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo, non c’è menzione alcuna delle «limitazioni» di «non di poco conto» di cui parla l’esponente del governo.

Questi due testi riprendono in modo secco la formulazione presente all’articolo 5 della Dichiarazione dei diritti universali:

Articolo  3
Proibizione della tortura
Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o a trattamenti inumani e degradanti.

(Fonte: Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali – CEDU.
Roma 4 novembre 1950)

ARTICOLO  7
Nessuno può essere sottoposto alla tortura né a punizioni o trattamenti crudeli, disumani o degradanti, in particolare, nessuno può essere sottoposto, senza il suo libero consenso, ad un esperimento medico o scientifico.

(Fonte: Patto internazionale sui diritti civili e politici, New York 16 dicembre 1966,
entrata in vigore il 23 marzo 1976)


La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 10 dicembre 1948 all’articolo 5 recita:


Articolo 5

Nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura o a trattamenti o a punizioni crudeli, inumani o degradanti.

(Fonte: Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 10 dicembre 1948)

Il divieto è categorico, non lascia spazio a distinguo o limitazioni «non di poco conto (morale e in caso di ordine pubblico e di tutela del benessere generale di una società democratica)», come sostenuto da De Stefano. Semmai la formulazione è carente lì dove non fornisce una dettagliata descrizione di cosa sia la tortura.
Ed è proprio in questa eccessiva sinteticità che si sono insinuate nel tempo le strategie volte ad aggirare il divieto.
Per questo motivo la successiva formulazione varata con la Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti, adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1984 ed entrata in vigore il 26 giugno 1987, introduce una definizione molto più ampia e articolata:

Articolo 1
1. Ai fini della presente Convenzione, il termine “tortura” indica qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti ad una persona dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali, al fine segnatamente di ottenere da essa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che essa o una terza persona ha commesso o è sospettata aver commesso, di intimorirla o di far pressione su di lei o di intimorire o di far pressione su una terza persona, o per qualsiasi altro motivo fondato su qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o sofferenze siano inflitte da un agente della funzione pubblica o da ogni altra persona che agisca a titolo ufficiale, o su sua istigazione, o con il suo consenso espresso o tacito. Tale termine non si estende al dolore o alle sofferenze risultanti unicamente da sanzioni legittime, inerenti a tali sanzioni o da esse cagionate.


La tesi truffaldina del ministero dell’Interno

Da dove sono sbucate allora quelle «limitazioni» di «non di poco conto (morale, ordine pubblico, benessere generale di una società democratica)», citate dal sottesegretario all’Interno?

E’ successo un pò come nel gioco delle tre carte: al ministero della Giustizia e dell’Interno pensano che siamo degli allocchi e ce la beviamo. Come avrebbe fatto l’Azzeccarbugli di manzoniana memoria hanno combinato due codicilli (combinato disposto lo chiamano nell’orribile gergo giuridico), l’articolo 5 sopracitato e il secondo comma dell’articolo 29 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, che potete leggere qui sotto:

Articolo 29
1) L’individuo ha dei doveri verso la comunità, nella quale soltanto è possibile il libero e pieno sviluppo della sua personalità;

2) Nell’esercizio dei suoi diritti e delle sue libertà ognuno deve essere sottoposto soltanto a quelle limitazioni che sono stabilite dalla legge per assicurare il riconoscimento e il rispetto dei diritti e delle libertà altrui e per soddisfare le giuste esigenze della morale, dell’ordine pubblico e del benessere generale in una società democratica;

3) Tali diritti e libertà non possono in nessun caso essere esercitati in contrasto con i fini e i principi delle Nazioni Unite.

(Fonte: Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo, 1948)

Come è facile verificare, il testo del comma 2 riguarda unicamente l’esercizio dei diritti e delle libertà dell’individuo, sottoposti alle norme previste dalle singole leggi interne degli Stati che a loro volta non potrebbero essere in contrasto con i fini e principi della Dichiarazione generale sui diritti dell’Uomo.

In nessun momento si accenna alle torture o si fa riferimento ad una tutela del diritto soggettivo dello Stato che garantisca la possibilità di sottrarsi o attenuare il divieto di riccorrere alla tortura indicato nell’articolo 5. A questo punto c’è poco da aggiungere, quanto affermato da De Stefano è falso. Siamo alla truffa bella e buona. Nessuna legislazione internazionale ha mai ammesso la possibilità di ricorrere a torture per tutelare la morale, l’ordine pubblico o il benessere generale di una società democratica. Ciò è ammesso solo nella testa del Prefetto De Stefano e degli estensori della nota giuridica da lui letta e messa agli atti della Commissione Giustizia.

Un’affermazione del genere per l’incompetenza che dimostra e la pericolosità della tesi che afferma darebbe adito ad una immediata richiesta di dimissioni.

De Stefano se ne dovrebbe andare insieme agli autori materiali di quel testo. Sarebbe il minimo. Ma in Italia il minimo non c’è perché manca il fondo.

Concludo ricordando che la Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti del 1984 richiede, tra l’altro, agli Stati parte di incorporare il crimine di tortura all’interno della propria legislazione nazionale e di punire gli atti di tortura con pene adeguate; di intraprendere una rapida e imparziale inchiesta su ogni presunto atto di tortura; di assicurare che le dichiarazioni rese sotto tortura non vengano utilizzate come prove durante processi (eccetto che contro una persona accusata di tortura, come prova che tale dichiarazione sia stata resa); e di riconoscere e far applicare il diritto delle vittime di tortura e dei loro parenti più stretti (dependants) a ricevere un equo e adeguato risarcimento e recupero (psico-fisico e sociale).

Nessuna circostanza eccezionale – come uno stato o una minaccia di guerra, instabilità politica interna o qualsiasi altra pubblica emergenza – può essere invocata (addotta) come giustificazione di atti di tortura. La stessa disposizione vale per quell’individuo che abbia compiuto tali atti in seguito ad un ordine di un superiore o di autorità pubblica. Agli Stati parte è proibito rinviare una persona in uno Stato nel quale egli/ella potrebbe essere a rischio di subire tortura (principio di non-refoulement).

Allo stesso tempo gli Stati dovranno assicurare che i presunti responsabili di atti di tortura presenti sul territorio di propria giurisdizione vengano sottoposti a processi o estradati in un altro Stato per essere sottoposti a processo.

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Diffusione militante di #OccupyLiberazione, il giornale dei lavoratori di Liberazione che occupano la redazione dal 20 dicembre 2011

#OCCUPYLIBERAZIONE IN PIAZZA AL CORTEO DELLA FIOM
CON UN FOGLIO AUTOPRODOTTO

La prima pagina di #OccupyLiberazione

La storia di Eleftherotypia (Libertà di stampa) il giornale Greco autogestito da giornalisti e poligrafici, senza editore

Un foglio autoprodotto da distribuire gratuitamente a partire dalla manifestazione promossa dalla Fiom.
E’ l’ennesima iniziativa promossa da #OccupyLiberazione, l’assemblea delle lavoratrici e dei lavoratori di Liberazione, giornalisti e poligrafici, che occupa la redazione di viale del Policlinico dal 28 dicembre scorso, in difesa del quotidiano e dei posti di lavoro.

Il foglio (4 pagine a colori interamente autofinanziate), percorre con una serie di rapidi flash metodi ed esperienze di lotta al tempo della crisi globale.
I contributi sono anonimi, come quelli di Eleftherotypia (“Libertà di stampa”), il giornale greco resuscitato dal fallimento dall’autogestione dei lavoratori la cui storia è raccontata in quarta pagina. La filosofia di fondo è quella dell’informazione bene comune.

«La crisi prefabbricata da altri ci strangola. Ci vorrebbero ridurre al silenzio e all’obbedienza. Ma siamo in tante e tanti a ribellarci. A inventarci modi per resistere. Lotte che trasformano chi le fa e la realtà intorno. Così il più grande sindacato metalmeccanico, che i padroni vorrebbero espellere dalle fabbriche, si difende non chiudendosi a riccio, ma aprendosi. Proprio dalla sua capacità di connettersi nasce la prima grande manifestazione contro il governo dei sacrifici a senso unico e la sua maggioranza trasversale», scriviamo nell’articolo di apertura. «OccupyLiberazione non si arrende alla devastazione senza reale confronto di una comunità di lavoro, alla costruzione di teoremi impermeabili al mutare delle condizioni, alle persone spremute e poi buttate via.
Un giornale ha senso (e merita i soldi pubblici) se serve a lettrici e lettori.

Vogliamo continuate a leggere la realtà. Cambiarla e cambiare. Con voi. Collettivamente. In movimento».

Link
Occupy Liberazione
Liberazione sulle pagine di Left: i lavoratori del quotidiano di via del Policlinico 131 hanno detto “No”
Bonarchionne o Bonaccorsi? Chi è veramente l’imprenditore-direttore di Terra

Occupy Liberazione

OCCUPY LIBERAZIONE. LE LAVORATRICI E I LAVORATORI DI LIBERAZIONE
OCCUPANO LA REDAZIONE DEL GIORNALE

Occupazione aperta del giornale, perché Liberazione continui a vivere. E’ questa la decisione dell’assemblea permanente di Liberazione riunita oggi per valutare in che modo proseguire la battaglia per la vita della testata e la difesa dei suoi 50 lavoratori. Dopo la rottura del tavolo sindacale, avvenuta ieri in seguito alla decisione unilaterale e irremovibile della Mrca spa (socio unico il Partito della Rifondazione comunista) di sospendere le pubblicazioni cartacee dal primo gennaio prossimo, l’obiettivo di giornalisti e poligrafici è quello di continuare a fare il giornale, continuando a lavorare tutti, come previsto dai contratti di solidarietà firmati a luglio. Se la Mrc non dovesse tornare sulle sue decisioni, ancora tre uscite su carta e poi il prodotto completo a disposizione dei lettori on line. Già stanotte un gruppo di lavoratori srotolerà i sacchi a pelo sui pavimenti della redazione di viale del Policlinico 131. Perché?
Per un motivo simbolico: rimarcare il fatto che Liberazione non è proprietà privata di nessuno ma appartiene a una grande collettività, stratificata e composita, formata dai lettori, dai militanti di Rifondazione, da tutti quelli e quelle che il giornale hanno fatto negli anni, dai diversi direttori che lo hanno guidato (tra gli altri Luciano Doddoli, Luciana Castellina, Lucio Manisco, Sandro Curzi, Piero Sansonetti, Dino Greco), dai tantissimi pezzi di società e movimenti che il giornale ha raccontato (dal mondo del lavoro a Genova 2001, all’acqua pubblica, ai No Tav, ai No Ponte).
E per un motivo pratico: per chiedere all’editore di riconsiderare le proprie posizioni e venire a costruire nel confronto almeno una soluzione-ponte di un mese, per farsi trovare ancora vivi dalla riforma e dagli stanziamenti del governo.
La redazione è aperta. L’invito è a tutti coloro che hanno a cuore la stampa libera e vogliono portare solidarietà ai lavoratori: collegatevi, passate, scrivete, discutete, partecipate.

L’assemblea permanente di Liberazione Cdr e Rsu di Liberazione

28 dicembre 2011

Per il Censis il governo Monti è espressione di una politica «prigioniera del primato dei poteri finanziari»

Il 45° rapporto del Censis descrive un Paese «fragile, isolato e eterodiretto», depoliticizzato dal berlusconismo e annichilito dall’antiberlusconismo


Paolo Persichetti
Liberazione 3 dicembre 2011


Un Paese ostaggio di poteri finanziari interessati ad imporre solo un rigore senza futuro, incapace di fare da volano per qualsiasi sviluppo. E’ questo il giudizio durissimo che il Censis ha stilato nel 45° Rapporto sulla situazione sociale del Paese, presentato ieri mattina nella sede del Cnel a Roma. «In questi mesi – scrivono gli estensori nella parte dedicata alle “Considerazione generali” – la società italiana si è rivelata fragile, isolata e eterodiretta». Una valutazione tratta dal forte processo di marginalizzazione subito dall’Italia sul versante internazionale e che l’ha relegata nelle retrovie dello scacchiere geopolitico. La crisi attuale, che i ricercatori del Censis individuano nel «mancato governo della finanza globalizzata», ci ha reso fragili e soprattutto ha «isolato» il Paese tagliandolo fuori dai «grandi processi internazionali». Non solo nell’Unione europea o all’interno delle alleanze occidentali, ma anche rispetto ai mutamenti intercorsi nell’area Mediterranea, dove in precedenza l’Italia esercitava la sua zona d’influenza. L’esempio più eclatante è venuto dall’incapacità dimostrata nel fronteggiare all’interno della Nato l’interventismo franco-britannico in Libia. Una debolezza che l’ha costretta ad inseguire e accodarsi agli alleati-concorrenti ma soprattutto a divenire un Paese «eterodiretto», che ormai deve sottostare alla «propensione degli uffici europei a dettarci l’agenda».
Una subalternità non solo politica ma che è divenuta anche culturale, visto che «Viviamo – osservano sempre gli autori del rapporto – esprimendoci con concetti e termini che nulla hanno a che fare con le preoccupazioni della vita collettiva (basti pensare a quanto hanno tenuto banco negli ultimi mesi termini come default, rating, spread, ecc.) e alla fine ci associamo – ma da prigionieri – alle culture e agli interessi che guidano quei concetti e quei termini».
Le cause di questa decadenza trovano una ragione non solo nei processi economici colpiti dalla crisi finanziaria ma anche nel deficit di governo e più in generale di una politica «prigioniera del primato dei poteri finanziari». La verticalizzazione e la personalizzazione del potere che hanno spadroneggiato negli ultimi vent’anni, lungi dall’aver rafforzato quella capacità di decisione che fino a poco tempo fa veniva indicata come l’elisir della buona politica che doveva privilegiare la governabilità sulla rappresentanza, avrebbero «impoverito nel tempo la nostra forza di governo», accentuando un deficit politico che «ha favorito una logica di polarizzazione decisionale: in basso vince il primato del mercato, in alto il primato degli organismi apicali del potere finanziario». Una situazione avvertita come un rischio troppo grande per «una società complessa che non può vivere e crescere relegando milioni di persone a essere una moltitudine egoista affidata a un mercato turbolento e sregolato, e affidando la tenuta dell’ordine minimale a vertici e circuiti ristretti e non sempre trasparenti».

«Ognuno per sé Francoforte per tutti»
Ancor più della stagione berlusconiana, il rapporto sembra prendere di mira, nemmeno tanto velatamente, il governo-direttorio dei tecnici guidato da Mario Monti quando afferma che «la dialettica politica sembra prigioniera del primato, anche lessicale, della regolazione finanziaria di vertice, che però può esprimere solo una dimensione di controllo, non di evoluzione e crescita». Lo sviluppo – e qui c’è tutto il pensiero della tradizione democristiana incarnata da Giuseppe De Rita – è spiegato nella relazione, si fa coinvolgendo «energie, mobilitazioni, convergenze collettive», definito «governo politico della realtà». I corpi intermedi non possono essere scavalcati dall’illusoria speranza che il potere demiurgico della finanza generi sviluppo anche perché – presagisce il Censis in modo abbastanza scontato – «nel prossimo futuro potrebbero essere incubati germi di tensione sociale e di conflitto a causa della tendenza all’aumento delle disuguaglianze e dell’emarginazione».
A questo punto però l’analisi ridiscende le profondità sociali per spiegarci che in Italia esiste un deficit dei gruppi dirigenti, le cui ragioni sono probabilmente legate ai quei processi di verticalizzazione prima descritti che hanno impoverito la partecipazione politica, la vita democratica. I vertici decisionali si sono ridotti di oltre 100 mila unità tra il 2007 e il 2010, passando da 553 mila a 450 mila, cioè dal 2,4% al 2% degli occupati. Una scrematura significativa che non ha intaccato la supremazia maschile, le donne sono solo 1/5 del totale e la loro incidenza è diminuita dell’1,3%. Poche donne, età media elevata (gli under 45 sono meno del 40% mentre tra gli occupati sono il 60%) e qualificazione formativa non certo brillante (solo il 36,4 è laureato), segnalano una «inadeguatezza della leadership», il che riduce «le stesse possibilità di ricambio».
Il rapporto registra una sorta di rassegnazione generalizzata, una incapacità di reazione collettiva che trova una via di fuga «nella ricerca di nuovi format relazionali», come i social network, le aggregazioni spirituali o amicali-comunitarie (a livello di quartiere urbano o area agricola, il fenomeno dei borghi medioevali risistemati che investe il ceto medio), capaci su supplire alle carenze del welfare pubblico. Ancora più forte è il mutamento dell’autopercezione identitaria: crollano le categorie legate alla classe socio-economica (4,5%), all’appartenenza religiosa (3,7%) o politica (1,1%), che però non scompaiono del tutto ma vengono recuperate all’interno dell’eredità culturale familiare (43,2%), il che dimostra come i valori identitari si trasmettano in una forma non più pubblica e all’apparenza non ideologica a vantaggio di modelli autoreferenziali come l’esperienza del singolo (44,6%) o il carattere (42,3%).

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Perché non sciogliere il popolo?
Giovanni De Luna: “il governo tecnico sancisce il fallimento della politica”
Rancière: La haine de la démocratie-Il nuovo odio della democrazia

Perché non sciogliere il popolo?

I mercati finanziari odiano la democrazia. In fondo si può riassumere così il precipizio dei valori di listino in cui sono cadute le borse alla notizia che il popolo greco doveva essere chiamato a pronunciarsi con un referendum sulle terribili misure antisociali chieste dalla Bce per salvare il Paese dal fallimento. Di questo nuovo odio per la democrazia aveva scritto alcuni anni fa il filosofo Jacques Rancière. Vale la pena ricordarne brevemente qualche passaggio: «alla critica delle carenze sostanziali presenti nel progetto democratico si è sostituita oggi una denuncia del suo eccesso di vitalità»; «Il protagonismo democratico attuale è visto come il segno di una società che vorrebbe divorare lo Stato» e l’economia, aggiungiamo noi, al punto che l’unica democrazia buona per il capitalismo finanziario è una «democrazia senza popolo».
Per riassumere quanto accaduto Rossana Rossanda sul manifesto è ricorsa alla famosa parafrasi con la quale Bertolt Brecht aveva ironizzato sulle parole del segretario generale dell’Unione degli scrittori della Ddr che di fronte ai moti operai del ’53 di Berlino-Est aveva detto: «La classe operaia di Berlino ha tradito la fiducia che il Partito gli aveva riposto: ora dovrà lavorare duro per riguadagnarsela!» e che Brecht riformulò in questo modo: «Il Comitato centrale ha deciso: poiché il popolo non è d’accordo, bisogna nominare un nuovo popolo».
Oggi il capitalismo finanziario non si accontenta di un nuovo popolo, vuole dissolverlo! Dalle ceneri della volontà popolare è nato il governo Monti


Perché non sciogliere il popolo?

Rossana Rossanda
manifesto  4 novembre 2011

Credevo che ci fosse un limite a tutto. Quando Papandreou ha proposto di sottoporre a referendum del popolo greco il «piano» di austerità che l’Europa gli impone (tagli a stipendi e salari e servizi pubblici nonché privatizzazione a tutto spiano) si poteva prevedere qualche impazienza da parte di Sarkozy e Merkel, che avevano trattato in camera caritatis il dimezzamento del debito greco con le banche. Essi sapevano bene che le dette banche ci avevano speculato allegramente sopra, gonfiandolo, come sapevano che Papandreou aveva chiesto al Parlamento la facoltà di negoziare, e che una volta dato il suo personale assenso, doveva passare per il suo governo e il parlamento (dove aveva tre voti di maggioranza). Ed era un diritto, moralmente anzi un dovere, chiedere al suo popolo un assenso per il conto immenso che veniva chiamato a pagare. Era un passaggio democratico elementare. No?
No. Francia e Germania sono andate su tutte le furie. Come si permetteva Papandreou di sottoporre il nostro piano ai cittadini che lo hanno eletto? È un tradimento. E non ci aveva detto niente! Papandreou per un po’ si è difeso, sì che glielo ho detto, o forse lo considerava ovvio, forse pensava che fare esprimere il paese su un suo proprio pesantissimo impegno fosse perfino rassicurante. Sì o no, i greci avrebbero deciso tra due mesi, nei quali sarebbero stati informati dei costi e delle conseguenze. Ma evidentemente la cancelliera tedesca e il presidente francese, cui l’Europa s’è consegnata, avrebbero preferito che prendesse tutto il potere dichiarando lo stato d’emergenza, invece che far parlare il paese: i popoli sono bestie; non sanno qual è il loro vero bene, se la Grecia va male è colpa sua, soltanto un suo abitante su sette pagava le tasse (e non era un armatore), non c’è parere da chiedergli, non rompano le palle, paghino. Quanto ai manifestanti, si mandi la polizia.
E per completare il fuoco di sbarramento hanno aggiunto: intanto noi non sganciamo un euro. Erano già caduti dalle nuvole scoprendo nel cuor dell’estate che la Grecia si era indebitata oltre il 120 del Pil. E non solo, aveva da ben cinque anni una «crescita negativa» (squisito eufemismo). Né i governi, né la commissione, né l’immensa burocrazia di Bruxelles se n’erano accorti, o se sì avevano taciuto; idem le banche, troppo intente a specularci sopra. Perché no? I singoli stati europei hanno dato loro ogni libertà di movimento, le hanno incoraggiate a diventare spregiudicatissime banche d’affari, e quando ne fanno proprio una grossa, invece di mandar loro i carabinieri, corrono a salvarle «per non pregiudicare ulteriormente l’economia».
In breve, la pressione è stata tale che Papandreou ha ritirato il referendum. La democrazia – in nome della quale bombardiamo dovunque ce lo chiedano – non conta là dove si tratta di soldi. Sui soldi si decide da soli, fra i più forti, e in separata sede. Davanti ai soldi la democrazia è un optional.
Nessun paese d’Europa ha gridato allo scandalo. Né la stampa, gioiello della democrazia. Non ho visto nessuna indignazione. Prendiamone atto.

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Per il Censis il governo Monti è espressione di una politica prigioniera del primato dei poteri finanziari
Giovanni De Luna: “il governo tecnico sancisce il fallimento della politica”
Rancière: La haine de la démocratie-Il nuovo odio della democrazia

Odradek fuori luogo

Odradek fuori luogo

Dal blog primadellapioggia di Marco Clementi
1 dicembre 2011

“Odradek” continua a perdere il senso della realtà. Dopo averci fatto leggere sul suo blog per ben 8 volte che il tappo avrebbe retto, e poi non ha tenuto, mette le mani avanti accusando la piccola borghesia di volere indietro Berlusconi (prima che lo abbia fatto!). Accadrà, afferma. Tirando per le mani ricordi quasi ottocenteschi (e si trattava dei borboni, che nulla c’entrano con l’Italia di oggi), Odradek passa a una diversa analogia. Le scritte “aridatece er puzzone”, frase che titola questa nuova serie di commenti, comparvero nella Roma del ’44 mentre la gente quasi moriva di fame, in un periodo di epurazioni. Il colonnello Poletti, appena divenuto governatore della città, aveva istituito una commissione di ufficiali alleati, più 12 esponenti del Comitato di liberazione, per esaminare la posizione dei fascisti. Ma Roma aveva fame e accanto a “ridatece er puzzone” comparvero scritte come “Poletti, meno chiacchere e più spaghetti”.

Si combatteva ancora, anche sul suolo italiano, dove imperversava il mercato nero. Ma, cosa che Odradek dimentica, dopo la breve pausa di Badoglio, dalla politica (il fascismo) si era tornati alla politica (il governo Bonomi).
Oggi, invece, in Italia, è in atto un tentativo di dare forma a un sogno antico: quello di potersi sbarazzare della politica. Che siano stati prima i giudici e ora un governo dei tecnici, poco importa. La diagnosi è che i problemi politici nascono come conseguenza di errori politici, dunque occorrono dei sapienti, o dei saggi. C’è poi chi da sempre invoca il “partito degli onesti”, come se un potere “taumaturgico” possa ridare lucentezza a un sogno rinnovato. Quella che si intravede, però, è una trama strutturalmente illiberale, che cerca guardiani e un esito fondamentalista della politica, mentre i partiti che siedono in parlamento si sono nascosti (vai avanti tu, no tu, no tu…). Il puzzone faceva politica. Ora vi beccate la Trilateral al governo. Come avevano predetto i nostri saggi, che Odradek sta velocemente dimenticando, avvolta com’è da tempo nel mantello tarocco e nauseabondo di una meschina dietrologia.

Giovanni De Luna: «Il governo tecnico sancisce il fallimento della politica»

Le dimissioni di Berlusconi segnano la fine della parabola del berlusconismo oppure è possibile pensare al persistere di un berlusconismo senza Berlusconi? la domanda investe inevitabilemente anche il rovescio del problema: la sorte dell’antiberlusconismo.
Propagine ideologica della guerra civile borghese che ha catalizzato, egemonizzato e sterilizzato ogni potenzialità oppositiva negli ultimi due decenni, ancora una volta l’antiberlusconismo e riuscito a far passare l’idea che fosse necessario accontentarsi di qualsiasi cosa pur di mandare a casa il Cavaliere, rinunciando addirittura alla stessa consultazione elettorale a vantaggio di un governo-direttorio che tra le sue file conta consulenti delle agenzie di rating, banchieri, professori, legulei, generali, tutti esponenti di quel personale tecnico-manageriale che porta per intero la responsabilità del crack dei mercati finanziari

La banda Monti

Paolo Persichetti
Liberazione 13 novembre 2011

Con le dimissioni di Berlusconi siamo al giro di boa di un’epoca? La domanda è d’obbligo soprattutto se l’interrogativo è rivolto al berlusconismo come paradigma, come sistema. Se ne discuterà a lungo nei prossimi anni. Iniziamo a parlarne con lo storico Giovanni De Luna.

Ci sarà un berlusconismo senza Berlusconi?
Come fu per il fascismo il berlusconismo non è stato una parentesi ma una rivelazione che ha messo in luce i guasti profondi della nostra società. Uno dei problemi per il futuro sarà la ricerca degli antidoti per fare fronte al riprodursi di rischi del genere. Quel che mi preoccupa di più oggi è l’effetto che questa epoca ha suscitato sullo spazio pubblico: una sorta di desertificazione. La dimensione valoriale degli italiani è stata completamente risucchiata dentro gli angusti spazi degli  interessi privati. In questo ore così decisive sento una carenza di spinte ideali: mancano orizzonti e prospettive.

Crolla Berlusconi senza che si riesca a percepire una qualsiasi cesura simbolica. Al contrario ci propinano il governo d’emergenza, una nuova forma di consociativismo. Alla dimensione liberatoria, utopica e creativa si sovrappongono i richiami severi al senso di responsabilità, ad un mondo costipato e austero fatto di sacrifici.
Manca la cesura perché non si ha la sensazione del votare pagina, a causa dell’inadeguatezza della classe politica nella sua interezza. Non si ha la sensazione della ricostruzione, che è qualcosa che ti mette dentro la febbre dell’attivismo politico, della voglia di fare, della trasformazione.

Inadeguatezza che sembra tanto più forte proprio in chi dovrebbe incarnare il cambiamento.
Mi spaventa questa assenza di un riferimento, tranne che in Napolitano come avvenne con Ciampi. Gli unici che in questa situazione di desertificazione hanno cercato di coniugare alcuni indicazioni di valori condivisi in cui credere con la dimensione economica.

Napolitano e Ciampi? Non credi che siano loro stessi parte del problema? Non è forse Napolitano stesso che, ben al di là dei limiti previsti dalla costituzione, sta contribuendo a spegnere ogni spinta possibile alla rottura simbolica, anche ad una semplice alternanza?
No, lui sta svolgendo un ruolo di supplenza che è l’altra faccia della certificazione del fallimento della politica. A certificare il fallimento della politica in questi 20 anni è il governo tecnico, dimostrazione del fatto che la politica non è riuscita ad affrontare e risolvere questi problemi. L’altra faccia è il ruolo della presidenza della repubblica, affermatosi già con Ciampi e ora Napolitano. Hanno svolto un ruolo di supplenza rispetto ad una politica chiusa in se stessa, completamente autoreferenziale.

Possiamo dire allora che l’antiberlusconismo si sta dissolvendo nel nulla, in un vuoto?
La fine di Berlusconi e dell’antiberlusconismo non contiene più alibi. Oggi se vuoi stare in campo devi proporre, ricostruire il tessuto di una religione civile, letteralmente fatta a pezzi dal centrodestra che l’ha seppellita sotto l’idea del mercato come feticcio.

In un libro (Il consociativismo infinito. Dal centro-sinistra al Partito democrartico, edizioni Dedalo 2011) Mauro Fotia sostiene che «Il berlusconismo è indubbiamente la prosecuzione del vecchio centrismo consensualista democristiano, anzi, è la sua consumazione». Accenna un parallelo col moroteismo. Una tesi innovativa.
La Dc era per la conservazione dell’ordine esistente, Berlusconi è stato assolutamente eversivo. Nel berlusconismo c’è un estremismo di centro che Moro non conosceva anche se è vero che Berlusconi è stato più l’uomo della continuità che quello della rottura, perché ha ereditato pezzi interi di ceto politico della prima repubblica. Soprattutto ha capitalizzato l’egemonia culturale del pensiero neoliberista e mercatista incubato negli anni 80. Quello con la Lega non è soltanto un patto scellerato ma anche la condivisione di una visione eversiva dell’ordine costituzionale. Lui non tollera le articolazioni istituzionali ma ha puntato unicamente ad una connessione sentimentale con il popolo. Lo vedi Moro fare una cosa del genere?

Certo che no. In Moro la decisione politica giungeva all’apice di lunghi patteggiamenti, contrattatazioni infinite con i corpi intermedi. Nel modello berlusconiano c’è invece lo scavalcamento di tutto ciò. No credi però che il sabotaggio che i centri finanziari hanno fatto del referendum in Grecia e il fatto che in Italia va bene tutto purché non si vada alle elezioni, sia il segno di un rinnovato “odio della democrazia”, per citare Rancière?
Assolutamente, 30 anni di egemonia della destra hanno scardinato le basi della democrazia. Il governo tecnico è una sconfitta per la democrazia e per la politica. Bisogna dirselo con molta chiarezza. Anche se l’eccezionalità della situazione può giustificare il ricorso ad un governo d’emergenza, bisogna capire questa soluzione non rappresenta la fisiologia ma la patologia della democrazia.

Recentemente hai criticato la demonizzazione del debito pubblico.
Oggi il debito viene presentato come una sorta di Moloch. Invece bisogna domandarsi come e quando è stato accumulato: c’è stato un welfare risarcitorio negli anni 70 che ha redistribuito la ricchezza prodotta durante un boom economico realizzato grazie alla compressione dei salari e dei diritti in fabbrica. Il debito degli anni 70 è fisiologico, quello degli anni 80 invece è patologico perché comincia ad ingrassare il ceto politico senza avere più una ricaduta sui servizi pubblici. Ma li chi c’era?

Chi c’era?
Sacconi era lì, Brunetta era lì. Negli anni 80 erano lì, nel cuore della redistribuzione a favore di un ceto politico famelico. Insomma quando si chiama in casua il debito pubblico bisogna riflettere sulla varie fasi che ne hanno favorito la costruzione.

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Perché non sciogliere il popolo?
Per il Censis il governo Monti è espressione di una politica prigioniera del primato dei poteri finanziari