Parlano gli amici di Karol Racz accusato di stupro: «Non è un bruto. Non ha mai infastidito il campo»
Stefano Galieni
Liberazione 10 marzo 2009
«Cerchi gli “zingari”? Dopo quella strada». Chi fornisce l’indicazione non nasconde disprezzo. Roma, Via Cesare Lombroso, a ridosso dell’ex ospedale psichiatrico del S. Maria della Pietà. Una salitella alla cui sinistra si erge un cancello. Poi una sbarra per i veicoli, un gabbiotto per gli operatori dell’Arci Solidarietà e alcuni prefabbricati in un area recintata e cementata. Uno spazio pulito e tenuto dignitosamente, era qui che Karol Racz, il ragazzo definito dai media e dalla questura “faccia da pugile” si guadagnava da vivere fino al suo arresto, per lo stupro nel parco della Caffarella e per un’altra violenza subita da una donna del vicino quartiere di Primavalle. Ma come vacilla il materiale probatorio che lo accusava, così il racconto di chi lo ha conosciuto sgretola l’immagine del bruto che ne è stata fatta. «Qui lo chiamavamo tutti Carlo – racconta Michele, mani callose e volto aperto – da almeno sette mesi veniva a darci una mano per pulire il campo e non ha mai infastidito nessuno. Si guadagnava pochi euro portando via l’immondizia o dando una mano quando andavamo a raccogliere ferro e metallo da vendere, ma era anche bravo come muratore e come piastrellista. A volte gli davo anche un panino con la carne. Non ce lo vedo a fare quelle cose di cui è accusato». Anche altri hanno voglia di parlare, raccontano di un uomo timido e dalla voce bassa, che aveva anche paura a guardare le donne del campo, un lavoratore umile che conosceva appena poche parole di italiano. «Viveva con gli altri rumeni della zona, nelle baracche – interviene un ragazzo – siamo tutti bosniaci, di Mostar, siamo senza documenti ma i nostri figli sono nati qui e vanno a scuola senza problemi. La nostra vita è dura, quella dei rumeni anche peggiore». «Dopo la violenza di Primavalle – dice una donna – hanno bruciato le baracche dei rumeni senza neanche dargli il tempo per prendersi coperte e vestiti. Stavano morendo di freddo, siamo stati noi a dargli le nostre coperte». Molte sono le donne che lo difendono: «Lo lasciavamo anche da solo con le nostre figlie adolescenti – raccontano – ti pare che se avesse dato fastidio a qualcuna lo avremmo fatto entrare qui?». Il solo fatto che abbiano dato lavoro a Carlo (Karol) ha rovinato l’economia di sussistenza di queste famiglie, inserite in un campo attrezzato. La maggior parte degli adulti raccoglie e ricicla metalli, la domenica hanno messo in piedi un mercatino dell’usato dove rivendono gli oggetti gettati dalla nostra opulenza, i giovani si cercano con difficoltà un lavoro più stabile ma non è facile. «Per l’Italia siamo un problema del governo bosniaco, i bosniaci non ci riconoscono e ci rimandano all’Italia, come se fossimo palline da ping pong – dice Michele. Di fatto anche se siamo qui da tanti anni e se i nostri figli sono nati in questo campo di concentramento, noi non esistiamo, non abbiamo diritti. Spesso ci fermano, ci tengono in questura senza motivo». Si avvicina Viktor (nome di fantasia), un ragazzone vestito alla moda, capelli col gel e volto maturo: «Io sto con una ragazza italiana, vorremmo farci un futuro insieme, una famiglia, ma non possiamo. Avevo trovato lavoro in un forno, mi alzavo alle cinque ogni giorno ma ero contento. Poi la polizia mi ha chiesto i documenti ed hanno consigliato al proprietario del forno di non farmi lavorare. Ora sono disoccupato. Ma che vogliono? Che a rubare ci vada per forza?». Anche lui si ricorda bene di Carlo: «era gentile e aveva paura anche dei bambini. Con noi stava bene gli davamo lavoro, da mangiare e anche da vestirsi. Se la sono presa con lui perché è debole, è povero ed è rumeno». Ma è ancora Michele ad interromperlo: «Scrivi cosa ne pensiamo. Scrivi che chi ha distrutto la vita di quella ragazzina non si farebbe certo vedere da queste parti. Saremo i primi a denunciarlo, chiunque fosse stato». Ma intanto i rom di via Lombroso pagano gli effetti della campagna negativa nei loro confronti: c’è chi li guarda con maggior disprezzo, chi ne ha paura o chi, più semplicemente non li fa più lavorare. In fondo al piazzale che delimita il campo c’è forse la persona che conosce meglio Carlo, si è lasciato intervistare in tv per dire che non credeva alla sua colpevolezza e ora non vuole più parlare con nessuno. Ci raccontano suoi amici che non ha più pace, aveva accesso ad una discarica e ad altri posti in cui trovare metalli da vendere e partiva ogni giorno presto con il suo furgone. Ora non lo fanno più avvicinare, come se portasse addosso un marchio di complicità. Non poter lavorare significa passare la fame, campare rovistando anche fra l’immondizia. È arrabbiato per essersi esposto e ora non si fida, vuole che la gente dimentichi la sua faccia e maledice il giorno in cui non si è fatto gli affari suoi. E anche se questa storia si concluderà con l’assoluzione di Carlo, il dubbio nei suoi confronti e di chi lo ha conosciuto resterà a lungo. Nessuna autorità, tanto lesta a sbattere il mostro in prima pagina, si porrà il problema di scusarsi né di far avere uno straccio di documento di identità a chi pretende il diritto di vivere meglio.
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