Stupro della Caffarella, Loyos picchiato dalla polizia per confessare il falso

Confessione forzata, scrivono i giudici: «Loyos (il “biondino”) non si era inventato le percosse. Tracce sul suo corpo. La smentita delle forze di polizia non ha alcun valore probatorio

Anita Cenci
Liberazione 30 aprile 2009

Ora lo riconoscono anche i giudici. Per fargli confessare ciò che non aveva fatto, cioè lo stupro della Caffarella, Alexandru Izstoika Loyos è stato sottoposto a percosse. È questo il succo delle motivazioni dell’ordinanza con la quale il 27 marzo scorso il tribunale del riesame di Roma l’aveva scarcerato, ritenendo infondata l’accusa di calunnia e autocalunnia. La notizia è stata 9AE9B3534FA3179945A8233C4A435Aaccolta nell’indifferenza generale, appena poche righe nella cronaca locale. Loyos era quello che i giornali hanno etichettato come il “biondino”. Spersonalizzato e mostrificato insieme a Karl Racs, anche lui subito soprannominato “faccia da pugile”. I due, secondo la questura e la procura, avevano aggredito una coppia di fidanzatini minorenni nel parco della Caffarella, stuprando brutalmente la fanciulla. In realtà i responsabili di quello scempio erano altri, a loro volta cittadini romeni che nei giorni precedenti avevano commesso diverse aggressioni contro coppiette nella stessa zona, seminando una quantità incredibile d’indizi. Un’indagine più accorta avrebbe trovato subito quelle tracce e scoperto agevolmente i veri colpevoli. Invece le cose sono andate diversamente. La politica ha interferito pesantemente nell’inchiesta. Un ennesimo decreto sicurezza è stato varato dopo una violenta campagna allarmistica. Servivano subito due colpevoli. Loyos e Racs erano stati fotosegnalati dalla polizia dopo un altro stupro, avvenuto il 21 gennaio precedente, in un luogo poco distante dal loro accampamento di fortuna. Insomma erano i capri espiatori perfetti. L’adolescente aggredita non mise molto a indicare il viso del biondino. Seguendo una classica tecnica a imbuto gli erano state mostrate un numero limitato di foto. Nonostante ciò aveva designato un’altra persona. Solo in seconda battuta “riconosce” Loyos. La polizia lo trova subito. Erano le 18 circa del 17 febbraio. 8 ore dopo (alle 2 di notte) confessa davanti al pm: «L’abbiamo violentata per sfregio…». Chiama in causa anche l’amico Racs. Pochi giorni dopo ritratta, spiegando di aver subito violente percosse. Nessuno lo ascolta. In questura sono occupati a smaltire la sbornia della conferenza stampa trionfale dei giorni precedenti. I giornali dipingono agiografici ritratti. Il questore non sta nella pelle: «Un lavoro di pura investigazione, d’intuito e senza l’aiuto di supporti tecnici. Da veri poliziotti». Gli fa eco il capo della Mobile Vittorio Rizzi: «Finalmente non sarò più il nipote di Vincenzo Parisi» (capo della polizia dal 1987 al 1994).
Ma a rovinare la festa, e le carriere, arrivano i test del dna. Le tracce dello stupro non appartengono ai due. In questura fanno muro, «bastava quello che ci aveva riferito Isztoika per sbatterlo in galera», risponde con arroganza il questore. Ma il punto è proprio questo, Loyos aveva riferito solo dettagli ripresi dalla prima versione dei fatti fornita dalla minorenne. Una ricostruzione modificata pochi giorni dopo dal fidanzato. Insomma era stato “indottrinato”.
Ma perché l’aveva fatto? La risposta viene oggi dalle 12 pagine redatte del tribunale della libertà. Secondo i giudici Loyos «ha illustrato in modo sufficientemente articolato le specifiche modalità con le quali sarebbe stato sottoposto a “pressione” dagli inquirenti romeni per ottenere la sua confessione», mentre «nessuna valenza probatoria può attribuirsi alle assicurazioni provenienti da entrambe le polizie, circa il mancato ricorso a mezzi di coercizione fisica e/o psicologica durante l’interrogatorio». Sul giovane – scrivono i giudici – è stata riscontrata «qualche “traccia” corporea, seppur lieve (“un rossore cutaneo sotto l’ascella”, sul referto medico d’ingresso al carcere si è evidenziata una “lieve escoriazione all’orecchio sinistro”)». Quel che è accaduto nelle stanze della questura nella tarda serata del 17 febbraio assomiglia molto alla situazione raccontata da Gianrico Carofiglio in un piccolo libricino d’appena 40 pagine, Il paradosso del poliziotto: «Il lavoro dell’investigatore, poliziotto o pubblico ministero, si colloca su una linea di confiine. Da un lato ci sono delle regole, non necessariamente giuridiche, che spesso, in modo consapevole o inconsapevvole, vengono violate. Ma senza regole non c’è nessuna differenza fra guardia e ladro, tutto si riduce a una pura questione di rapporti di forza. Dall’altro lato c’è la tendenza, che abbiamo tutti, a dare giudizi morali sul comportamento altrui. Questa tendenza è ancora peggiore di quella a violare le regole. I peggiori investigatori – quelli che fanno gli errori più gravi e devastanti – si trovano nella categoria dei moralisti[…] la tendenza a formulare giudizi morali offusca l’intuito investigativo e la comprensione del crimine. E a volte maschera aspetti inconfessabili della personalità di chi li formula, per esempio un’attrazione torbida e non controllabile verso alcune delle cose orribili di cui dobbiamo occuparci».

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Stupro Caffarella: Racs innocente e senza lavoro 16/continua

Prima il carcere e ora il razzismo

Paolo Persichetti
Liberazione
29 marzo 2009

È durato il tempo di una fiaba la promessa di lavoro per Karol Racs, il romeno innocente marchiato col soprannome di “faccia da pugile”, accusato senza uno straccio di prova d’essere stato uno degli stupratori della Caffarella e poi a catena di una seconda violenza sessuale, finché il dna ha detto che gli autori erano altri. Lui aveva sempre negato, indicando persone e luoghi dove aveva passato la serata. Ma le sue parole erano scivolate via come il vento. Non solo non lo credevano ma nemmeno lo ascoltavano. Invece l’hanno preso a botte. Sta scritto nei referti medici stilati all’ingresso in carcere. Tutti sanno cosa è veramente successo. Nelle redazioni e in tribunale la voce corre. I dettagli passano di bocca in bocca. Ma nessuno pronuncia la parola giusta, quell’unica parola che direbbe tutto e spiegherebbe tante altre cose, per esempio la confessione estorta all’altro protagonista della vicenda, Alexandru Loyos Isztoika, il “biondino”. Quella parola che nemmeno esiste nel nostro codice penale. Fatto quasi unico: il reato di tortura non c’è, non perché non esiste il comportamento criminale che lo caratterizza ma perché manca la qualificazione giuridica che lo definisce. Come a dire che la “banca rotta fraudolenta” non esiste, non perché gli imprenditori non scappano con il malloppo ma perché non è previsto il reato che la persegue. Giochi di prestigio, assoluzioni preventive degli apparati.
Racs, dunque, doveva essere il perfetto colpevole con quella faccia lombrosiana segnata da una vita difficile. Orfanatrofio, lavori umili, espedienti, mai reati però. Anonimo tra gli anonimi che affollano le file degli umiliati e offesi. All’uscita dal carcere l’hanno rimesso a nuovo: vestiti, una Mercedes ad aspettarlo, albergo e ristorante per una settimana. Era l’accordo che il suo avvocato gli aveva garantito per l’esclusiva concessa a Porta a porta. Lì, spaesato più che protagonista, aveva fatto da comparsa alla cerimonia buonista del risarcimento pubblico, ma poi la serata ha preso un’altra piega. Nel parlamentino di Vespa nessuna domanda sulle percosse e solite passerelle per i politici di turno. Il Sindaco Alemanno ha mostrato una sola preoccupazione: onorare l’azione di quella polizia che in questa vicenda ha fatto solo disastri, sommando sofferenza a dolore, moltiplicando le vittime e lasciandosi quasi sfuggire i colpevoli. La deputata Livia Turco del Pd invece si è domandata dove fosse il punto d’equilibrio tra riconoscimento della sofferenza della vittima e garanzie giuridiche per chi finisce sotto accusa. Come se le due cose fossero incompatibili, come se evitare il coinvolgimento d’innocenti fosse un insulto e non un modo per dare giustizia alla vittima. Parole che hanno reso più chiare le ragioni del silenzio della sinistra in questa vicenda dominata dalle destre, moderate ed estreme, con il decreto sicurezza, le ronde, lo squadrismo, l’odio e il razzismo più sfrenati. La sinistra si è arresa da tempo: di fronte alla vittima ha rinunciato alla presunzione d’innocenza. Il paradigma vittimario dilaga, obnubila. Proposta come esperienza unica e incomparabile, la sofferenza della vittima strumentalizzata politicamente assume una visione assoluta, fino a rivendicare una sorta di monopolio del dolore, un’esclusiva narcisistica e perciò concorrenziale verso le altre vittime, fino al negazionismo altrui. Da qui l’edificazione di una scala di valori che paradossalmente preclude l’altro: la vittima ritenuta immeritevole e socialmente debole. Rinchiuso nella torre d’avorio del proprio dolore, il punto di vista vittimario diventato marketing politico si è trasformato in una tirannia che semina ingiustizie, legittima abusi e fomenta il populismo penale.
E così Racs, vittima negata di tutta la vicenda, ha fatto la fine di Cenerentola: allo scadere della mezzanotte il sogno di una vita normale è svanito. Le diverse offerte di lavoro si sono liquefatte. In particolare quella di Filippo La Mantia, lo chef che aprirà ad aprile un ristorante nel centro di Roma. Il cuoco, che anni fa subì un’ingiusta detenzione, ha dovuto fare retromarcia di fronte alle proteste e alle minacce ricevute. Tre cameriere si sono licenziate appena saputo dell’arrivo del romeno. Una ditta di facchinaggio ha protestato, sostenendo che c’erano italiani che avevano più diritti. Dall’estero un’agenzia turistica ha fatto sapere che non avrebbe più inviato clienti se Racs fosse stato assunto. Razzismo dilagante? Qualcosa di più e di peggio. Ormai lo spettacolo della cronaca nera annichilisce, spinge a barricarsi in casa, votare i politici che chiedono “legge e ordine”, odiare chi sta peggio e adulare chi domina.

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Stupro della Caffarella: cosa si nasconde dietro la “confessione” di Loyos? 15

Cosa si nasconde dietro la confessione-ritrattazione di Loyos? Per la difesa ci furono “pressioni fisiche” (tortura), per la procura quelle ammissioni dimostravano che Loyos e Gavrilia (uno degli stupratori) si erano conosciuti in carcere nel 2007

Anita Cenci
Liberazione 25 marzo 2009

Secondo il pm Vincenzo Barba esisterebbero dei legami tra Alexandru Loyos Isztoika, il “biondino” che aveva inizialmente confessato (ma subito ritrattato) lo stupro della Caffarella, per essere finalmente scagionato dal test del dna, e Oltean Gavrilia, che una volta incastrato dalla prova biologica ha ammesso la violenza commessa insieme al connazionale Jean Alexandru Ionut.
Il pubblico ministero ha depositato una certificazione dell’amministrazione penitenziaria nella quale si comprova la contemporanea presenza dei due nel carcere di Regina Coeli in due diverse circostanze. È quanto si è appreso ieri al termine dell’udienza del tribunale del riesame, chiamato a pronunciarsi sulla richiesta di scarcerazione di Loyos per l’accusa di calunnia, autocalunnia e diffamazione scaturita dalla sua ritrattazione. Il collegio, presieduto da Antonio Lo Surdo, si è riservato. Molto probabilmente la decisione arriverà nella giornata di oggi. La difesa ha ribadito che la confessione, avvenuta in piena notte, sarebbe stata estorta al giovane dopo un trattamento molto brusco, mentre l’assenza di segni evidenti sul corpo non sarebbe di per sé un argomento valido per sostanziare il reato di calunnia. Esiste un ampio ventaglio di pressioni fisiche, anche di elevata intensità, capace di non lasciare tracce lampanti. Al momento della ritrattazione, Loyos mostrava solo dei rossori al livello delle ascelle, mentre Racs era stato refertato all’ingresso in carcere. Insomma qualcosa d’anormale è certamente successo nelle ore immediatamente successive all’arresto dei due, sotto la pressione politico-mediatica del momento. Qualcosa che se trovasse conferma assumerebbe estrema rilevanza anche per l’enorme esposizione politica assunta da tutta la vicenda. Lo stupro di san Valentino è stato il cavallo di Troia che ha consentito il varo dell’ennesima svolta sicuritaria, la legalizzazione delle ronde, una nuova ondata di sgomberi e odio xenofobo con ripetuti pestaggi di lavoratori immigrati. Una spedizione punitiva contro lavoratori romeni avvenne in margine ad un corteo di Forza nuova nelle ore successive allo stupro. Attorno alla vera storia della confessione-ritrattazione di Loyos si gioca dunque una partita importante, non solo giudiziaria ma anche politica.
Per questo questura e procura non arretrano di un millimetro, intenzionate ad allontanare ogni sospetto sul loro operato e dimostrare che l’arresto di Loyos non era poi del tutto infondato. Il pubblico ministero ha ripetuto che Loyos, con la sua “confessione”, intendeva proteggere la fuga dei suoi complici. Se così fosse, sia Gavrilia che Ionut non ne hanno minimamente approfittato, commettendo al contrario solo errori e ingenuità.
E poi, il fatto che il “biondino” e Gavrilia si siano trovati nello stesso carcere per 48 ore, dal 25 al 27 settembre 2007, e per 8 giorni dal 12 al 20 ottobre successivo, non dimostra automaticamente che abbiano avuto modo di conoscersi. La prima volta erano addirittura in piani diversi. I «nuovi giunti», spiegano da Regina Coeli, passano sempre alcuni giorni in isolamento. La circostanza, benché meriti d’essere approfondita, allo stato resta soltanto una mera supposizione non corroborata da prove.

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Stupro del Quartaccio, scarcerato Racs 14

Scarcerato Karol Racs. Crolla anche la seconda accusa
Confessano i due veri autori dello stupro incastrati dal dna

Anita Cenci
Liberazione 24 marzo 2009

Karol Racz ha lasciato ieri sera il carcere di Regina Coeli. È caduta così anche la seconda accusa nei confronti del romeno già scagionato l’11 marzo scorso dalla violenza carnale commessa contro una minorenne il giorno di san Valentino nel parco romano della Caffarella.
Il tribunale del Riesame di Roma, presieduto da Giuseppe D’Arma, ha esaminato la nuova richiesta di scarcerazione per l’altra accusa che pesava nei suoi confronti, l’aggressione sessuale su una donna di 41 anni consumata la sera del 21 gennaio nel quartiere del Quartaccio, una zona di Primavalle nella periferia nord della capitale. Questa seconda imputazione era giunta all’apice della brutale campagna mediatica che aveva messo alla gogna Racz, insieme al suo coimputato Loyos Isztoika, decretati colpevoli dello stupro della Caffarella anzitempo. I due episodi erano tenuti insieme dal «teorema incolpativo» messo in piedi dalla questura e dalla procura, dopo aver abilmente pilotato testimoni facilmente suggestionabili e vittime e comprensibilmente confuse e sotto choc. I due ragazzi oggetto dell’aggressione – avevano scritto i giudici in sede di tribunale del Riesame – «hanno generato un quadro rappresentativo destrutturato, disomogeneo e contraddittorio».
Il tribunale ha deciso di rimettere in libertà Racz, nonostante il pm nel corso dell’udienza avesse richiesto la conferma del provvedimento restrittivo. Ma, contro l’accanimento persecutorio della procura, pesava come una montagna il risultato negativo dell’esame dna (come per l’episodio della Caffarella), il riconoscimento incerto realizzato dalla vittima in sede d’incidente probatorio, incertezza ribadita dalla donna in più di una occasione e poi l’alibi stesso fornito dal romeno, come nel caso della Caffarella. Alibi, va detto, mai tenuti nella giusta considerazione dagli inquirenti perché a fornirli erano persone ospiti nei campi rom della zona di Torrevecchia. Alcuni di loro, appositamente riuniti dalla polizia in una sala d’attesa della questura, erano stati intercettati con la speranza di coglierli in flagranza di falsa testimonianza mentre insieme, pensavano gli investigatori, sicuramente avrebbero concordato una versione di comodo che scagionasse il loro conoscente. Invece dicevano il vero. Un comportamento, quello degli investigatori e della procura, che in tutta questa vicenda ha dato più volte prova di un aperto pregiudizio.
Sempre ieri, gli altri due romeni risultati positivi al test del dna, arrestati venerdì 20 marzo con l’accusa d’essere i veri stupratori della Caffarella, hanno confessato la loro partecipazione all’aggressione nel corso dell’interrogatorio di garanzia tenuto di fronte al pm e al gip. I due, Alexandru Jean Ionut, 18 anni, e Oltean Gavrilia, 28 anni, già detenuti per altre rapine contro delle coppiette, realizzate in un altro parco della capitale limitrofo a quello della Caffarella, nei giorni immediatamente successivi allo stupro, hanno affermato – ha spiegato il pm Vincenzo Barba – «di avere appreso dell’arresto di Loyos Isztoika e Racz dai giornali escludendo però di averli mai conosciuti o frequentati».
Insomma della prima inchiesta non resta nulla, se non molta cattiva coscienza e tanta disonestà intellettuale, come quella dimostrata dal questore Giuseppe Caruso che dopo la svolta nelle indagini, riprese da zero e finalmente condotte con criteri investigativi seri, non più obnubilati dalla necessità di offrire in fretta dei colpevoli alle richieste pressanti della politica, ancora sabato scorso si dichiarava convinto «che ci sia un legame diretto o indiretto» tra Loyos (il biondino) e i due nuovi arrestati. «È il filo che stiamo cercando di scoprire», ha aggiunto. Eppure, sempre il Riesame aveva liquidato l’autoconfessione di Loyos con parole inequivocabili: «Una trama che declina uno stato d’intrinseca inaffidabilità (…) d’infedeltà storico-rappresentativa», in quanto «è proprio la qualità soggettiva del dichiarante a deprivare il suo narrato della presunzione relativa di affidabilità e a influenzare il meccanismo ricostruttivo».
Ora che i presunti responsabili dello stupro sono stati assicurati alla giustizia e l’inchiesta sembra avviata su binari più consoni del rispetto del codice di procedura (con la rinuncia a far sfilare davanti ai media dei trofei da caccia), molti vorrebbero sapere come è stata estorta la confessione di Loyos, come è stato possibile che gli sia stato fatto dire «lo abbiamo fatto per dispetto», quando non aveva commesso nulla del genere.
Anche se le reazioni delle istituzioni vanno in tutt’altra direzione e difficilmente si arriverà a fare piena luce. Il sindaco di Roma Alemanno si è subito complimentato con la questura «per la tenacia e la determinazione» dimostrata.
E mentre le indagini sui nuovi inquisiti si allargano per verificare se Gavrilia, come ha sostenuto il suo coimputato più giovane, si sia macchiato di un altro stupro (di cui andava vantandosi) avvenuto nel mese di luglio 2008 nella zona del Pigneto, oggi si terrà l’udienza del Riesame per Loyos Isztoika ancora detenuto con l’accusa di calunnia, autocalunnia e diffamazione per una violenza che non ha mai commesso.
Intanto ieri sera all’uscita dal carcere del suo assistito, l’avvocato La Marca ha lanciato un appello: «Karol è un bravo pasticcere, se c’è qualche fornaio o pasticcere pronto a offrire un lavoro si faccia avanti».

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Caffarella: negativi i test del Dna fatti in Romania 12/continua

Tutti negativi i test del Dna fatti in Romania, si indaga sui telefonini ritrovati

Anita Cenci
Liberazione
18 marzo 2009

Evapora definitivamente l’indagine che ha portato all’arresto di Karol Racs e Alexandru Loyos Isztoika, i due romeni accusati del brutale stupro avvenuto il giorno di san Valentino nel parco romano della Caffarella.
Ve la ricordate la storia del cromosoma Y? Uno dei tanti depistaggi investigativi che hanno segnato questa vicenda?
Erano i giorni in cui i test del dna scagionavano Racs e Isztoika. Le indagini si trovavano sotto schiaffo e allora qualcuno venne in soccorso dicendo che attraverso un esame genetico sperimentale, si era riusciti a identificare l’etnia romena degli aggressori. Un modo per dire che i poliziotti avevano solo preso i romeni sbagliati. La dottrina giuridica chiama questo tipo di responsabilità: “colpa d’autore”, una colpa per il modo d’esser della persona non per quello che avrebbe eventualmente commesso. In realtà, i tecnici della polizia scientifica avevano rilevato delle coincidenze con il cromosoma Y di Jon F., 25 anni, detenuto già prima della violenza nella prigione di Bucarest. Gli esperti azzardarono un’idea: poiché il cromosoma Y è ereditario occorreva verificare il dna degli altri maschi della sua famiglia.
Vi ricordate poi dell’uomo senza tre dita? Quel Ciprian C., il primo che fu riconosciuto nell’album fotografico mostrato all’adolescente violentata? Di lui si disse di tutto: che aveva un alibi poi divenuto incerto; che era un informatore della polizia, per questo protetto; che era introvabile. E vi ricordate dei pastori nomadi, i parenti del “biondino” Isztoika, il clan sperduto nei villaggi dell’est romeno, anche loro in fuga, forse?
Insieme fanno una lista di 22 persone, tutte ricercate per essere sottoposte al test del dna. Ebbene attraverso una rogatoria internazionale, gli esami sono arrivati e l’esito è risultato inesorabilmente negativo. Nessuno di loro c’entra con lo stupro della Caffarella.
Ora vi ricordate delle parole del questore Giuseppe Caruso dopo il riesame? «Le evidenze probatorie restano tutte», e più in là, «bastava quello che ci aveva detto Isztoika per sbatterlo dentro». Ora invece sappiamo che la confessione del “biondino”, poi ritrattata, fa acqua da tutte le parti. Il fidanzatino dell’adolescente violentata ha dato tre versioni diverse dei fatti. Isztoika fu indottrinato, a suon di botte, sulla prima. Da qui le discrepanze con quanto precisato, ma solo dopo, dal giovane aggredito.
Lentamente stanno emergendo anche le prime indiscrezioni sul “trattamento” subito dai due romeni. Chi le ha ascoltate, dice che assomigliano molto ai protocolli d’interrogatorio in uso nei territori di guerra.
 Mentre le indagini, a un mese di distanza dalla violenza, sembrano imboccare per la prima volta una pista seria, quella che ha portato al ritrovamento dei due telefonini rubati durante lo stupro, molte domande attendono risposta. Chi e perché ha “forzato” le indagini in una determinata direzione fin dalle prime ore? Pressioni della politica? Oppure eccessiva voglia da parte di alcuni funzionari di compiacere certi pregiudizi ideologici dell’attuale maggioranza? Eccesso di onnipotenza? Ora gli investigatori hanno tutto l’interesse a far fruttare la nuova pista dei cellulari tornati a funzionare dopo un silenzio durato settimane. La traccia dei numeri imei ha portato subito a identificare i nuovi possessori, uno in Italia e l’altro in Romania. I due sono estranei alla violenza ed hanno acquistato gli apparecchi da un ambulante in un mercato di Boccea. Questi, a sua volta, li aveva ricevuti da un’altra persona di cui la polizia conosce già l’identità. Residente nella borgata Finocchio, l’uomo per il momento è irreperibile. È soltanto il ricettatore? Solo ripercorrendo l’intero percorso fatto dai due telefoni, si verrà a capo della domanda.
Lunedì prossimo è prevista l’udienza del tribunale del riesame che dovrà pronunciarsi sulla seconda richiesta di scarcerazione presentata dal difensore di Racs. Questa volta verranno esaminate le accuse per lo stupro del Quartaccio. Dopo un riconoscimento incerto della vittima, anche qui l’esame del dna ha scagionato il romeno. C’è chi ha scritto che i due se fossero stati romani, invece che romeni, sarebbero già fuori. La decisione è importante anche perché, molto probabilmente, l’incipit che ha fuorviato le indagini sulla Caffarella nasce da lì, da chi non ha mai tolto gli occhi dal gruppo di romeni e rom di Primavalle, monitorati fin dai giorni che seguirono il primo stupro di via Andersen, al Quartaccio. È lì che furono individuati i colpevoli più facili, quelli politicamente più fruibili per la campagna politica che si scatenò immediatamente dopo e portò all’ennesimo decreto sicurezza.

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Caffarella e Quartaccio: l’uso politico dello stupro

La cronaca è da sempre un interessante rivelatore sociale. La cronaca nera lo è ancor più da quando la politica ha fatto della paura, dell’insicurezza fisica, della criminalità, uno strumento di governo. Si è già osservato come il termine “insicurezza” abbia lentamente mutato senso venendo ad indicare non più il timore verso un futuro incerto legato all’aumento del costo della vita, alla precarietà sociale, all’impossibilità di crescere in modo decente i propri figli assicurando loro una istruzione pubblica, degli studi superiori efficaci e magari un percorso universitario, alla difficoltà di pagare l’affitto o il mutuo, al carovita, bollette, benzina, abbigliamento, alla quasi impossibilità di uscire la sera per andare a mangiare una pizza, bere un bicchiere, vedere un film, ascoltare un concerto, guardare uno spettacolo teatrale. L’insicurezza di cui si parla non riguarda la fragilità dei posti di lavoro, i salari che perdono sistematicamente potere d’acquisto, i ticket sulle medicine e le cure ospedaliere, gli assegni sociali che un tempo aiutavano ed ora sono scomparsi con lo sfaldamento del welfare. L’insicurezza che preoccupa non riguarda la mancanza di nuovi posti di lavoro o l’offerta sul mercato di lavori a bassa remunerazione, senza garanzie, senza contributi, senza diritti sindacali, copertura malattie, pensione. L’insicurezza che ossessiona non si rivolge ad un futuro dove la pensione sarà sempre più un miraggio e avremo una società di persone anziane ridotte alla povertà. No, per fare schermo a tutto ciò si diffonde un’ansia da insicurezza costruita sulla base di continui allarmi sociali dovuti a una presunta crescita della criminalità, anche se poi ciò non corrisponde al vero. Rapine e omicidi sono in calo, come le aggressioni, tuttavia la percezione sociale del rischio criminalità è in continuo aumento grazie ad un’informazione ipertrofica che amplifica e spettacolarizza i fatti di cronaca nera fino a renderli totalizzanti.
La cronaca nera è un rivelatore delle trasformazioni della politica, dei suoi linguaggi, delle strategie messe in campo. Negli ultimi anni il tema degli stupri, delle aggressioni sessuali legate strumentalmente alla figura dello straniero, dell’immigrato clandestino, sono diventati argomenti centrali del marketing politico e dell’immaginario sociale. Il caso Reggiani, la donna uccisa per aver resistito ad una rapina trasformatasi in violenza sessuale, lo stupro di una turista olandese in un casale abbandonato del Portuense, nelle periferia nord-est della capitale, lo stupro di Guidonia sempre a ridosso di Roma, episodi che hanno visto responsabili degli immigrati dell’est europeo, hanno creato un terreno fertile intanto per coprire le centinaia di altre violenze quotidiane realizzate da italiani contro donne (italiane e straniere), il più delle volte in famiglia, in luoghi ritenuti sicuri, affidabili, per poi scatenare campagne xenofobe, di odio puro.
Il tema della sicurezza è stato il leitmotiv che ha aiutato la vittoria del candidato Alemanno al posto di sindaco di Roma; la brutale violenza della Caffarella contro una minorenne è servita al governo per varare l’ennesimo pacchetto sicurezza.
Per questa ragione abbiamo deciso di pubblicare una serie di post con articoli di commento e cronaca sulle indagini che hanno interessato lo stupro della Caffarella e del Quartaccio (Primavalle). Le due vicende, molto probabilmente senza alcun legame tra loro, sono un esempio di prim’ordine per comprendere l’uso politico che di questi episodi è stato fatto, nonché per cogliere l’azione condotta da una molteplicità di attori intervenuti nelle due vicende: investigatori della squadra mobile, questore, polizia romena, ministero degli Interni, sindaco, gruppi politici della destra, media.

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Vittorio Rizzi, capo della squadra mobile durante la trionfale conferenza stampa in cui annuncia la cattura dei due responsabili dello stupro alla Caffarella, scagionati poi dal Dna

* * * *

Giustizia: non è stato “disguido”, ma imbroglio quasi perfetto

Lucia Annunziata
La Stampa
, 5 marzo 2009

Francamente non so se bisogna benedire o maledire quello che è successo. Sia ben chiaro: la scoperta che i due immigrati romeni accusati di essere i colpevoli dello stupro della Caffarella in realtà non lo sono, è un vero e proprio schiaffo alla nostra coscienza nazionale.
Vogliamo davvero lasciar passare questo episodio come un ennesimo “disguido” delle Istituzioni del nostro Bel Paese, o vogliamo fermarci un attimo a chiederci come sia stato possibile, e chi ne sia responsabile? Perché, prima ancora che si sappia bene quel che è accaduto, una cosa è certa: questo è un tipico caso in cui almeno un responsabile va trovato e deve pagare.
Vediamo intanto perché la vicenda Caffarella si presenta come più grave dei pur molti errori simili. Le indagini italiane non sono un esempio di efficacia. Questa affermazione si fa molto spesso a proposito di iniziative “audaci” da parte di magistrati che indagano sulla politica. In questi casi, c’è un’attenzione quasi parossistica al tema da parte sia dei giornali che del Parlamento.
La verità però è che le indagini italiane sono ampiamente carenti anche quando si tratta di crimini comuni. La prova? La confusione e le lungaggini in cui si sono insabbiati alcuni grandi delitti, quasi tutti dati per altro come “chiariti”: ci trasciniamo ancora fra il pigiama e gli zoccoli di Anna Maria Franzoni nella villetta di Cogne, fra il computer e i pedali della bici di Alberto Stasi, fra le tracce di Amanda e Raffaele sul reggipetto di Meredith.
Quasi tutti i maggiori delitti del Paese, anche quelli non politici, periodicamente rigurgitano una nuova prova persa, avvilita, trascurata o smarrita. Ad esempio, Profondo Nero, un recente libro di Giuseppe Bianco e Sandra Rizza (ed. Chiarelettere) riapre l’inchiesta sull’assassinio di Pasolini, collegandolo alla morte di Mattei e del giornalista De Mauro, proprio in base a nuove testimonianze.
A differenza dei casi che riguardano la politica, però, gli italiani non sembrano indignarsi troppo degli errori nelle indagini di “nera”. Anzi: la confusione è diventata una sorta di nuovo genere di “soap” giornalistica che si sviluppa nel tempo e con grande godimento di tutti. Lo stupro della Caffarella presenta una forte novità, figlia di questi nostri tempi: è un fatto di violenza, dunque di nera, che assume però una fortissima valenza sociale per il contesto in cui avviene. Un caso “transgender” che scavalca le tradizionali distinzioni fra cronaca e politica.
Della delicatezza della situazione siamo stati consapevoli tutti fin dal primo momento. E ci siamo fidati. Fidati, sì. Perché in Italia, nonostante si ami dilaniarsi su tutto fra Guelfi e Ghibellini, resiste una profonda fiducia nelle nostre istituzioni. Ogni volta è come se fosse la prima, per la nostra opinione pubblica. Ci siamo tanto fidati che quando la polizia ci ha presentato i suoi mirabolanti risultati, nessuno di noi ha sollevato un dubbio. Nonostante le Amande, gli Alberti, le Annamarie e gli Azouz, abbiamo applaudito e gridato al miracolo. Se non è fiducia nelle istituzioni questa!
Poi le smentite, e infine la certezza dell’errore. E non si sa se benedire il disvelamento, o se maledire la nostra stupidità collettiva. Tutti convinti da parole come “materiale organico” e “Dna”, nonché ammiratori del metodo. La polizia ha avuto anche l’impudenza di presentarci (in una conferenza stampa!) il racconto di un’inchiesta esemplare, svolta in collaborazione internazionale con la polizia romena, con foto e pedinamenti, il metodo tradizionale. Approfittando così (tanto per colorare di più la valenza politica del risultato) per dare una bastonata polemica all’uso delle intercettazioni.
Ora, di fronte alle smentite, si dice: “La politica ha messo fretta”. Ma non è questo lo scandalo: la politica fa sempre fretta, ha sempre bisogno di presentare, usare, mangiare. Scandalosa è l’incoscienza dei corpi dello Stato che hanno accettato questa fretta. E scandaloso è soprattutto il risultato: l’intero Paese si è visto condurre per il naso verso una direzione che conferma il razzismo più frettoloso e più rozzo. Cui nessuno è riuscito a sottrarsi, nemmeno i democratici più convinti.
Qualcuno dei nostri lettori potrebbe alzare la mano e porre una domanda molto opportuna: ma voi giornalisti? Perché anche voi vi siete accucciati? È un rimprovero giusto. Troppo spesso noi giornalisti facciamo da acritica cassa di risonanza delle indagini. Una responsabilità che ci è stata già rinfacciata. E che ci prendiamo.
Ma come dubitare di un teatrino perfetto, come quello messo in piedi dalle nostre istituzioni? Siamo di fronte a una vera e propria frode. Qualcuno deve pagare per il clima che l’episodio lascia in tutto il Paese, di amaro in bocca e di sgomento.

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È razzismo parlare di dna romeno
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Quando il teorema vince sulle prove
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Stupro della Caffarella: è razzismo parlare di dna romeno

Ditemi voi se non è razzismo parlare
di “dna romeno”

Piero Sansonetti
Il Riformista
, 6 marzo 2009

Esagero quando dico che il razzismo, in Italia, è un male che sta dilagando? E quando dico che una parte della stampa favorisce questo dilagare? Mi pare di no. Provo a dimostrarvelo. Ieri due giornali conservatori – Libero e il Giornate – hanno polemizzato contro chi nei giorni scorsi si era un po’ indignato per la vicenda dei due giovani romeni accusati dello stupro della Caffarella (linciati dai mass media e poi scagionati dalla prova del Dna). In particolare i due giornali criticavano un mio articolo, pubblicato ieri l’altro sul Riformista nel quale sostenevo due tesi. La prima è che le Tv e i giornali italiani hanno il linciaggio facile. Basta una parola della polizia o una soffiata di un giudice per emanare la sentenza di condanna ed espone l’imputato al pubblico ludibrio. La seconda tesi è che nel nostro Paese sta montando il pregiudizio razzista. La base del pregiudizio è evidente in molti giudizi e cronache sugli accusati dello stupro alla Caffarella. Si è arrivati a parlare di un cromosoma Y che identificherebbe la nazionalità romena. Il concetto è chiaro: hanno un patrimonio genetico diverso dal nostro. Dunque, sono una razza. Quando dico “pregiudizio razzista” mi riferisco a quell’idea secondo la quale esistono alcuni gruppi etnici, o popoli, o nazionalità, “portati” per propria natura al delitto, o a un particolare tipo di delitto. Sostenevo che questo pregiudizio è la base, il pilastro del razzismo, dai secoli dei secoli (gli ebrei complottano, gli zingari rubano i bambini, i romeni stuprano, i neri sono forti e violenti, etc.); ed è la struttura ideologica sulla quale poi crescono le degenerazioni più feroci (l’antisemitismo, il Ku Klux Klan, o addirittura il nazismo). Michele Brambilla, sul Giornale, mi fa una contestazione ragionevole. Dice: attenti a non confondere forcaiolismo e razzismo. Giusto, ha ragione, sono due fenomeni diversi. Anche se spesso – ma non sempre – tendono a sovrapporsi, o ad allearsi. Dice Brambilla: i giornali hanno sbattuto in prima pagina mostri romeni, ma anche mostri italiani o di altri paesi, e li hanno spolpati ben bene prima che giungesse l’assoluzione. E poi non hanno di sicuro dedicato all’assoluzione lo stesso spazio e la stessa enfasi dedicata alle accuse e alle notizie infamanti (e false). Condivido l’obiezione, ma credo che non mi riguardi: ho scritto migliaia e migliaia di righe contro il forcaiolismo, anche contro quello che se la prende coi potenti, e appena qualche giorno fa – abbastanza isolato – mi sono schierato, proprio dalle colonne del Rifonnista, a favore della legge che vieta la pubblicazione delle intercettazioni. Fausto Carioti, su Libero, fa invece un ragionamento diverso, e mi offre un argomento formidabile per rispondere a Brambilla del Giornale. Non posso che dire a Brambilla: leggiti l’articolo di Carioti e poi dimmi se non pare anche a te che il razzismo stia dilagando sui nostri giornali. Cosa scrive Carioti? Diciamo che anche lui ha qualche dubbio sulla colpevolezza dei due romeni. Ma non ha dubbi – sembra di capire, o comunque ne ha pochissimi – sulla colpevolezza “dei romeni”. In che senso? Dovrei copiare quasi tutto l’articolo per farvi capire bene il ragionamento, ma mi limito a trascriverne la frase chiave: “Gli investigatori hanno svolto un esame genetico sperimentale sul cromosoma “Y” degli aggressori (della ragazza della Caffarella, ndr). I dati ottenuti confermano che, molto probabilmente, costoro appartengono all’etnia romena”. Non mi sembra che questa affermazione abbia bisogno di spiegazioni. Vuol dire questo: i romeni hanno un patrimonio genetico diverso da quello nostro, di noi “bianchi”. Sono una razza. Ecco, questa è esattamente la base teorica del razzismo. Cos’è il razzismo? La teoria secondo la quale gli esseri umani non sono tutti uguali, ma sono divisi in razze – e naturalmente se le razze sono diverse ce ne saranno di superiori e di inferiori – e queste razze, sulla base della loro diversità biologica hanno anche diversità comportamentali. Dopo la tragedia del fascismo e del nazismo (e l’orrore del manifesto della razza, pubblicato in Italia nel 1939) il razzismo, nel nostro paese, sembrava sostanzialmente sconfitto. Anche perché la scienza aveva accertato e solennemente dichiarato che le razze non esistono. Oggi, purtroppo – è questo l’allarme che lanciavo col mio articolo – il razzismo sta riprendendo piede. Io non uso più questo termine, come facevo 10 anni fa, come insulto. Il razzismo, secondo me, è così diffuso nell’opinione pubblica, da essere diventato un punto dì vista. Anche se infondato, anche se antiscientifico, anche se davvero pericolosissimo, è un punto di vista che ad esempio il collega Carioti rivendica puntigliosamente nel suo articolo. Articolo che, con una vecchia battuta, può essere riassunto così: “Non sono io razzista, sono loro che sono rumeni!”.

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Quartaccio-Caffarella, l’uso politico dello stupro
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Stupro della Caffarella: quando il teorema vince sulle prove

Quando il teorema vince sulle prove

Anita Cenci
Liberazione
5 marzo 2009

«La politica ha messo fretta». Achille Serra, una lunga esperienza in polizia, riassume cosi le disastrose indagini sullo stupro della Caffarella. Un giudizio ancor più netto quando scende sul piano tecnico: «mi sembra che l’accertamento scientifico sia stato sottovalutato a favore del riconoscimento fotografico». Ma forse occorre fare un passo indietro per capire cosa sia successo nell’inchiesta che ha portato all’arresto di Alexandru Isztoika e Karol Racs, i due romeni poi scagionati dalla prova del Dna.
Il 30 ottobre 2007, Nikolay Mailat, un cittadino romeno di 24 anni che viveva in un tugurio sulle rive del Tevere, nei pressi della stazione di Tor di Quinto, violenta e uccide Giovanna Reggiani. L’episodio dà il via a una lunga campagna sulla sicurezza. Il marketing della paura alimenterà tutta la successiva campagna elettorale. A Roma, il sindaco Veltroni avvia gli sgomberi degli insediamenti abusivi dove trovano riparo migranti provenienti dall’est europeo. Il governo di centrosinistra vara un primo decreto sicurezza carezzando l’idea che la destra possa essere sconfitta sul suo stesso terreno. Nel frattempo i cittadini romeni e tra loro i paria Rom vengono additati al pubblico ludibrio. Nonostante le statistiche ufficiali dicano che soltanto lo 0,27% di loro violi la legge, diventa senso comune associarli ai crimini peggiori. La psicosi dello zingaro aggressore, violentatore e ladro di bambini si diffonde. In diversi angoli d’Italia, madri di famiglia denunciano tentativi di rapimento dei loro bambini da parte di nomadi, anche se tutto crolla di fronte ai primi riscontri. Queste leggende metropolitane alzano un muro di odio verso la comunità romena, quella che ha rimpiazzato nella gerarchia del disprezzo i polacchi di una volta, i magrebini e gli albanesi venuti dopo. Ora tocca a loro, gli ultimi in ordine d’arrivo.
Arriviamo così all’inizio di quest’anno. La destra governa indisturbata, l’opposizione quasi non c’è più e quella che si fa sentire è ancora più forcaiola del governo. A Roma Alemanno è diventato sindaco con la promessa di ridare sicurezza alla città. Un ministro del suo stesso partito ha messo i militari a presidiare semafori e strisce pedonali. Non servono a nulla ma abituano l’occhio alle mimetiche e alle armi spianate. Il messaggio è chiaro: «Siamo in guerra». Gli stupri però non calano. Non scendono quelli commessi da italiani: padri, fidanzati e mariti nel chiuso poco rassicurante delle mura domestiche (quasi il 60,9%). I media però continuano a parlare soltanto di quelli che vedono coinvolti cittadini stranieri. Un altro stupro, al Quartaccio, nella periferia nord della Capitale crea il panico. Si pensa subito a due stranieri «dell’est con la pelle scura». Un eufemismo per dire «zingari romeni». Lì vicino ci sono delle capanne tirate su tra cespugli e fango. Chi vi trova riparo è identificato e fotosegnalato. Tra loro anche i due accusati dello stupro alla Caffarella. Probabilmente l’errore che ha viziato l’indagine nasce qui. La polizia ha cercato ciò che la politica voleva che si trovasse. Subito dopo la stupro, il sindaco Alemanno dichiara: «Ho parlato col questore, sono due persone con accento dell’est, di carnagione scura, probabilmente rom», e di seguito «domani ci saranno degli sgomberi a sorpresa». Indagini e politica, un intreccio fatale. La giovane vittima parla di un tipo dai capelli chiari. Le mostrano delle foto in cui appare Isztoika. Non è strano?
Aveva piccoli precedenti per furto, non per reati sessuali e viveva all’altro capo della città. Se si cerca un biondo tra i fotosegnalati romeni il campo si restringe inevitabilmente, ma anche la percentuale di errore si moltiplica enormemente. Ciò si spiega soltanto con la convinzione che i romeni identificati nelle baracche del Quartaccio fossero coinvolti nello stupro di via Andersen. Insomma le indagini hanno imboccato subito una direzione univoca, perché così volevano le pressioni della politica.
Ma al primo errore se ne sono aggiunti altri: quella «confessione» di Isztoika, risultato di una percorso che il comunicato congiunto emesso ieri sera da questura e procura non chiarisce affatto. Vecchia storia quella delle confessioni rese dagli indagati. Difficile da estirpare dalla cultura questurina che continua a considerarle ancora – nonostante le nuove tecniche investigative – la prova più suggestiva. L’inquisito resta il cuore dell’inchiesta e del giudizio. L’animale confessante è volentieri ritenuto la fonte stessa della prova, – come ammette il giurista Franco Cordero nella suo Procedura penale. Certo, «essendo rare le effusioni spontanee, bisogna stimolarle: gli inquisitori manipolano anime. L’opera richiede un ambiente, luoghi chiusi; presto appare diverso da com’era fuori, irriconoscibile; gli shock da tortura incidono meno del lavoro profondo. Quando sia infrollito al punto giusto, un niente lo smuove».
Prima della confessione davanti alla videocamera cosa è successo? È vero o no che un poliziotto romeno si è occupato del biondino? In alcuni retroscena riportati dalla stampa, fonti anonime parlano di un incontro di almeno un’ora, dove si è parlato solo in romeno e che avrebbe scosso profondamente il giovane, spingendolo ad autoaccusarsi. Per gli inquirenti Isztoika sarebbe a conoscenza dei fatti (ma fornisce solo elementi già noti all’indagine) perché copre qualcuno. Al punto da rischiare una condanna pesantissima? Non è illogico?
Infine, perché non attendere le risultanze scientifiche prima di lasciarsi sfuggire quel «meno uno»? Forse la troppa ansia di successo, la voglia di dire «da oggi non sono più il nipote di Vincenzo Parisi» (capo della Polizia alla fine degli anni 80), come dichiarato dal capo della mobile dopo la cattura dei due romeni, hanno giocato un brutto scherzo alla verità. Gli stupratori sono ancora in giro.

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Stupro della Caffarella: tante botte per trovare prove che non ci sono 5

Stupro Caffarella, nuove analisi: «Il dna non è dei romeni arrestati». Intanto uno dei due, Karol Racs denuncia maltrattamenti appena arrestato a Livorno e poi in Questura a Roma

Anita Cenci
Liberazione 6 marzo 2009

I nuovi test sulla comparazione del Dna, realizzati dal laboratorio dell’università di Roma diretto dalla professoressa Carla Vecchiotti, hanno confermato ancora una volta che le tracce biologiche rinvenute dopo lo stupro della Caffarella non appartengono a Alexandru Isztoika e Karol Racs, i due cittadini romeni accusati della brutale violenza.
Le situazione si aggrava per la squadra mobile e la procura di Roma che l’altro ieri hanno diffuso un comunicato congiunto nel quale, in sostanza, fanno quadrato attorno alle indagini fino ad ora svolte. Per il questore Giuseppe Caruso, che ha parlato anche a nome dei magistrati, «l’impianto accusatorio non cambia di una virgola».
Ma dire che nulla cambia giacché tutto si è svolto secondo le regole, non aggiunge prove a quelle che già mancano. Per giunta questa ricostruzione è contestata dai due imputati, che hanno dichiarato ai parlamentari in visita nelle loro celle di aver subito violenze perché confessassero. «La notte che sono venuti a prendermi – ha raccontato Racs -, sono entrati i poliziotti romeni e mi hanno riempito di botte. Poi sono arrivati quelli italiani, e giù altre botte. Mi hanno trasferito a Roma, e gli investigatori mi hanno picchiato di nuovo». All’arrivo in carcere pare che fosse accompagnato da un verbale di pronto soccorso ed fosse pieno di contusioni.
Ora, nonostante il doppio esame del Dna li abbia scagionati, i due rimarranno comunque sotto custodia cautelare. Anche se lunedì prossimo il tribunale del riesame dovesse accogliere per entrambi la richiesta di scarcerazione avanzata dagli avvocati, procura e questura avrebbero comunque trovato il modo di mantenerli in detenzione.
Dal 5 marzo scorso, infatti, Racs è incriminato anche per la violenza sessuale compiuta su una donna, la sera del 21 gennaio in via Andersen, al Quartaccio. Il bassino stempiato che è entrato nella vicenda della Caffarella solo perché tirato in ballo dal suo connazionale, si è ritrovato travolto da una catena di sospetti nonostante la giovane vittima della violenza e il suo fidanzatino avessero inizialmente indicato un’altra persona e fornito un identikit completamente diverso dalla sua figura. Un micidiale dispositivo inquisitorio dove l’accusa ha trovato forza unicamente perché supportata da una seconda e così via. Una di quelle situazioni kafkiane in cui le smentite, piuttosto che indurre un po’ di buon senso, indispettiscono ancora di più chi muove le accuse. Il rischio è che la verità venga sacrificata di fronte alla necessità di tutelare la credibilità dell’autorità.
Intanto un nuovo colpo alle indagini è arrivato anche dalla donna di 41 anni, vittima dello stupro del Quartaccio, che ieri non ha confermato l’identificazione avvenuta durante l’incidente probatorio. «Era buio, avevano il cappuccio», ha detto la donna al Messaggero . La sensazione è che anche in questo caso Racs non c’entri nulla, ma sia stato coinvolto a causa di una potente suggestione mediatica che l’ha trasformato in un mostro da sbattere in prima pagina.
Più complicata è la posizione di Isztoika, il «biondino», a causa della sua confessione. Secondo gli investigatori non vi sarebbe nessun conflitto tra le «parole» e le «risultanze» scientifiche oggettive (il Dna), perché Isztoika avrebbe dimostrato di conoscere dettagli ancora ignoti alle indagini prima di esser ascoltato e solo successivamente verificate.
Per la polizia, anche se non fosse l’autore diretto del fatto, sarebbe comunque a conoscenza di come si è svolto e di chi l’avrebbe commesso. Per questo sarebbe pronta per lui, e per Racs, una nuova imputazione di favoreggiamento, oltre che di calunnia (per aver detto di aver subito violenze) e autocalunnia (per essersi accusato dello stupro).
Isztoika invece ribadisce che la confessione gli è stata estorta e il suo contenuto suggerito in dettaglio dai poliziotti romeni. Resta da capire se davvero egli abbia riferito circostanze ignote fino a quel momento. Lo varebbe fatto durante la videoregistrazione? Oppure prima? Vanno verificate anche le dichiarazioni di Racs, riportate da alcuni quotidiani, e nella quali spiega le confessione del suo coimputato perché: «terrorizzato da due romeni molto potenti, forse coinvolti nella vicenda».
Insomma le voci si accavallano e gli inquirenti, dietro la difesa delle loro indagini, sembrano in realtà confusi. Un cappotto con tracce di sangue, “dimenticato” nel bar dove i due fidanzatini erano stati soccorsi, è stato recuperato per essere sottoposto ad analisi. La sequenza del Dna di uno degli aggressori avrebbe trovato una parziale corrispondenza con quella di un altro cittadino romeno, in carcere nel suo paese da mesi.
Nel frattempo l’ingrato mondo della politica, quei partigiani della tolleranza zero che avevano in precedenza osannato gli investigatori, ora scaricano su di loro il flop di una politica “razzista” della sicurezza che crea invece insicurezza, perché la gente ha capito che alla fine i veri stupratori sono fuori. Il sindaco Alemanno, che si era precipitato ad indicare negli immigrati delle est i naturali colpevoli, ora dice che non vuole innocenti in carcere. Indagini e politica, un intreccio fatale. In questura avranno capito la lezione?

È sempre giallo sui due rumeni arrestati
Il Dna non c’è, ma per gli inquirenti: «L’accusa regge»

Stefano Galieni
Liberazione
5 marzo 2009

La Procura della Repubblica di Roma e la questura, con un comunicato congiunto, hanno confermato l’impianto accusatorio nei confronti dei due cittadini rumeni accusati dello stupro ai danni di una ragazzina, la sera del 14 febbraio a Roma. Il fatto che dai primi riscontri il Dna dei due risulti incompatibile e che le prove a carico sembrino sgretolarsi giorno dopo giorno, non sembra portare verso la ricerca di altre piste per assicurare alla giustizia i responsabili di questo odioso delitto. Mihai Muntean è segretario generale del Partito dei rumeni in Italia (8.000 iscritti che in questo periodo stanno aumentando considerevolmente), con contatti in tutti i Comuni in cui è forte la concentrazione rumena. Si sente nell’occhio del ciclone e non accetta che la sua comunità passi per essere composta da delinquenti e stupratori. «L’accanimento è iniziato con l’atroce omicidio della signora Reggiani – racconta – I reati sono diventati un pretesto per accanirsi contro una comunità composta per la maggior parte da lavoratori che pagano le tasse e vogliono vivere in pace, rispettando le leggi. Ma si è deciso di fare campagna politica e informativa facendo leva sulla sensibilità delle persone, arrivando a confermare l’equazione immigrato=delinquente». Mihai denuncia come su questo si sia costruito un “capitale elettorale” e si sia creata una tensione difficile da smorzare, in cui crescono il sospetto e la paura reciproca, ma anche veri e propri gravi e mai sufficientemente condannati episodi di xenofobia e di razzismo: «Hanno incendiato negozi gestiti da rumeni, sono stati picchiati cittadini inermi e si è arrivati ad emanare un decreto assurdo come quello sulle ronde che a mio avviso rappresentano una vera e propria dichiarazione di impotenza e di fallimento da parte dello stato». Sono in molti nella sua comunità a denunciare l’inutilità e la pericolosità delle ronde nate su questa isteria generale, sono molti a dire che aumentano il senso di criminalizzazione di una intera comunità, ad accorgersi di come le istituzioni che dovrebbero rassicurare l’opinione pubblica, scelgano di sostituire le forze dell’ordine demandate alla prevenzione e alla repressione dei reati con dei pensionati. E’ infuriata anche Halina Harja, giornalista di “Realitatea tv”, una emittente in lingua molto seguita in Italia: «Non mi sembra normale o giusto organizzare una conferenza stampa, come ha fatto la questura di Roma, all’inizio e non alla chiusura delle indagini, sbattendo i “mostri rumeni in prima pagina”. Si è violata la fondamentale presunzione di innocenza, potevano aspettare l’esito degli esami e dei riscontri. Ma non è la prima volta che accade: nel settembre del 2007 due fratelli rumeni vennero arrestati per lo stupro di una donna a Torino. Dopo tre mesi di carcere sono stati prosciolti, anche allora l’esame del Dna provò che erano innocenti. La corte di appello ha condannato lo Stato italiano ad un risarcimento per ingiusta detenzione dei due, ma questa notizia è finita in un trafiletto nascosto fra le tante notizie mentre all’atto dell’arresto i giornali avevano parlato ampiamente del caso». Tanto Mihai quanto Halina sono allarmati degli effetti concreti di questa campagna mediatica e politica contro i rumeni: dicono che diventa sempre più difficile per i propri concittadini trovare casa in affitto, un lavoro, mantenere relazioni stabili con gli italiani con cui invece c’è storicamente una vicinanza storica, culturale e linguistica. Oltre 200 anni fa si andava in Romania per cercare fortuna e molti italiani rimasero lì, tanto che i discendenti sono considerati minoranza linguistica a cui garantire diritti fra cui un deputato in parlamento. Ma questo si dimentica, come si dimenticano, è ancora Mihai a ricordarlo, i tanti e biunivoci rapporti di partenariato economico: imprenditori italiani che hanno delocalizzato la propria produzione in Romania, e imprenditori rumeni che si stanno affermando in Italia. Ma questi non fanno notizia, di loro non si parla. Colpa anche del fatto che la comunità rumena è ancora frammentata e cerca scarsamente di essere presente sia politicamente che per riacquisire spazio nell’informazione. «Io mi chiedo perché siamo arrivati ad una legge fatta di due pesi e due misure – domanda retoricamente Sebastian Zlotea, del Prc – Certi reati vanno puniti con severità estrema indipendentemente dal paese di provenienza di chi li commette. Ma in Italia non solo questo non vale più, ma se è un mio connazionale a commettere un reato perché la responsabilità deve ricadere sull’intera comunità?». I tre concordano sulla necessità che la comunità rumena sia maggiormente presente nella politica e nella società, anche visto l’avvicinarsi di scadenze elettorali. Ma intanto oggi ci potrebbero essere due innocenti in galera e due stupratori liberi, non importa di quale nazionalità, in grado di ripetere il reato.

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Quartaccio-Caffarella, l’uso politico dello stupro 1
È razzismo parlare di Dna romeno 2
L’inchiesta sprofonda 3
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Stupro del Quartaccio, scarcerato Racs 14
Cosa si nasconde dietro la confessione di Loyos? 15
Racs innocente e senza lavoro 16
La fabbrica dei mostri 17
Loyos picchiato dalla polizia per confessare il falso 18


Stupro della Caffarella: non esiste il cromosoma romeno 6/continua

Emiliano Guardina genetista Università Tor Vergata (Roma)
«Il cromosoma y non è sufficiente per tracciare un profilo genetico»

Stefano Galieni
Liberazione
7 marzo 2009

Da molto tempo, di fronte a omicidi efferati o a reati predatori come gli stupri, si scatena l’uso spettacolarizzante della genetica come disciplina in grado di comprovare definitivamente la colpevolezza o l’innocenza di chi è indagato. Ultimo, in ordine di tempo, il caso della brutale violenza inflitta ad una minorenne a Roma il 14 febbraio scorso.
Emiliano Guardina, genetista presso l’Università di Tor Vergata di Roma, spiega: «Le analisi del Dna si basano sulla comparazione di specifichesequenze variabili nella popolazione. Ognuno di noi ha specifiche variabili, analizzandone un certo numero (15 o 16) è possibile evidenziarne una per ogni individuo. Il profilo che se ne ricava è unico e deve combaciare perfettamente con quello di chi è accusato».

C’è chi ha parlato di Dna che si sono mischiati e di cromosoma y identificativo. Che significa?
Nel caso di violenze in cui i reperti sono presi da tamponi vaginali, il materiale esaminato è misto (vittima e aggressori) allora è utile isolare il cromosoma y – esclusivamente maschile – per ricavare un profilo dell’aggressore. Il cromosoma non è discriminativo ma è parentale.

Ma il cromosoma y è sufficiente per tracciare un profilo genetico?
Assolutamente no. Serve l’intero profilo che deve comprendere anche gli altri cromosomi e l’intera sequenza genetica. Nei
paesi in cui in seguito a matrimoni sono le donne ad andare a vivere nella località in cui vivono gli uomini, il cromosoma y non migra, spesso è simile per molti individui. Se io vado a vivere da mia moglie a Milano, sposto il mio cromosoma a Milano e la variabilità è ridotta ma il cromosoma y di per se non è identificativo né può portare come unica prova ad un legame di parentela.

E pensare che c’è stato anche chi ha scritto di Dna diversi in base alla provenienza nazionale.
Non esistono varianti genetiche esclusive di singole entità geografiche. Posso dire che certe sequenze sono più frequenti in Spagna piuttosto che in Italia ma non posso e non debbo utilizzare questo come prova identificativa. So che esistono probabilità ma nessun elemento certo. Senza dimenticare che la specie umana è sopravvissuta solo grazie alla capacità di migrare, di mescolare i propri patrimoni genetici in maniera tale da sopravvivere in qualsiasi condizione. Pensi che una autorità riconosciuta come la Società Americana di Genetica Umana si è sentita in dovere di dire che certe ricerche che pretendono di trovare le proprie origini nel tempoattraverso una analisi del profilo genetico, non hanno alcun valore. Eppure c’è ancora chi crede questo.

Beh c’è anche chi utilizza la genetica per definire la predisposizione a comportamenti specifici.
Mi scusi per il termine ma questa è una cazzata. C’è una distanza siderale fra il comportamento individuale e il patrimonio genetico, ogni ricerca lo conferma ma basti pensare alla differenza che c’è fra gemelli monozigoti per capirlo. Solo
che le persone vorrebbero una certezza rassicurante come questa, sapere che un tale gruppo nazionale ha lo stupro nel Dna, per potersela prendere con il gruppo.

Si, l’unica certezza è che lo stupratore è uomo?
Si perché prevalgono approcci riduzionismi che non possono trovare voce nel terzo millennio. Eppure quanti plastici di Bruno Vespa continuo a vedere, quante spiegazioni contorte. Basterebbe dire che il dna è democratico non differenzia bianchi e neri, uomini e donne. Ma stiamo tornando alle teorie lombrosiane.

Si sopravvaluta la genetica forense?
Chi la esercita è molto prudente e prima di affermare con certezza che il Dna di un sospettato è quello rinvenuto sul luogo di un delitto ci pensa bene. Tutto deve combaciare anche se siamo in grado di recuperare l’intero profilo da una sola cellula. Ma non la si può considerare come unica prova per il castello accusatorio. Si rischiano errori e quando abbiamo dubbi sulla perfetta comparazione del profilo noi non ci permettiamo di emettere verdetti certi.

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