Quando l’obelisco del Duce doveva saltare in aria

5d6F4qkeOr74M_Smx8wHuatwdIQDnkOUROt6lvKmuEjWPYE_W_NdjhpXYJb6QyQHDiVznQOL4Mk3LdmMvHImrapzlSxD6ouCfY5sIb1VW3lO0d46bj53PXleJnuqQJAkZQymHc26Fd8y0vYkuk3K2eogQJq1n1HWzjLxBA9xxCmaUZ8fPqwrNZhEa0WPxj_K--wLa_o3X3HGeQa0QcLts7Il 25 aprile del 1971 l’obelisco inalzato nel 1932 in onore di Benito Mussolini, monumento alla mitologia imperiale del regime fascista e al culto della personalità, eretto all’entrata del Foro Italico (ex Foro Mussolini) a Roma doveva saltare in aria.
A decidere l’azione dalla fortissima portata simbolica era stato il livello occulto di Potere operaio romano guidato da Valerio Morucci. Il progetto – racconta Paolo Lapponi nel libro di Aldo Grandi, Insurrezione armata (Bur Rizzoli, 2005, p. 161) – era pronto in tutti i suoi minimi dettagli: «Due cariche cave disposte a taglio alla base della stele, che sarebbe venuta giù tutta intera sulla corsia stradale tenuta sgombra al momento opportuno da squadre di militanti». A ricordare l’episodio è stato anche lo stesso Morucci in Ritratto di un terrorista da giovane, Piemme 199, p. 81-82: «Avevo letto da qualche parte che il pezzo superiore dell’obelisco era un monolite fatto arrivare dalle cave di Carrara con il quale si intendeva emulare, nella consumata arte scenografica del regime fascista, le gesta degli antichi romani che avevano portato a Roma obelischi egizi. Poteva bastare una buona carica alla base per farlo venir giù come una pera matura. Però, per essere sicuri, ne preparammo due. Prendemmo delle cassette da frutta, quelle alte e robuste, e le riempimmo di esplosivo da mina, ossia nitrato d’ammonio, meno potente del tritolo ma pur sempre un esplosivo che spalanca le montagne. Saranno stati una quindicina di chili. Abrebbero sentito il botto fino a Napoli. Sul librone che mi aveva regalato Feltrinelli, nella sezione dopo la cannabis, dedicata agli esplosivi, avevo letto che le cariche cave erano più efficaci per arrivare in profondità, e così al centro del nitrato d’ammnio incastrai due coni di rame rovesciati per concentrare l’esplosione. Studiando il piano decidiamo di arrivare all’obelisco passando dietro alla Farnesina e costeggiando lo stadio. Poi bisognava pensare ad interrompere il traffico, perché tutta quella rova che sarebbe crollata poteva ammazzare qualcuno. Prendiamo delle transenne bianche e rosse che alcuni di noi dovevano mettere sul lungotevere per deviare il traffico una volta piazzata la carica». Purtroppo l’operazione non andò in porto «perché a cento metri di distanza, all’Istituto di educazione fisica (Isef), era in corso un’occupazione studentesca. Era troppo rischioso – racconta sempre Lapponi. Aspettammo un giorno o due per vedere se l’occupazione terminava, poi rinunciammo». E così l’obelisco che in pieno terzo millennio proclama «Mussolini Dux», come i tetragoni blocchi di travertino dedicati alle conquiste del regime fascista posti alle sue spalle che – ha scritto Alessandro Portelli sul manifesto del 12 giugno scorso – stanno ancora lì, «come forche caudine (per non dire dei mosaici con l’ossessiva scritta «Duce» che almeno mi metto sotto i piedi)». «L’opera colossale, – declamava Il Popolo d’Italia del 5 novembre 1932 – quella che desta l’ammirazione di chi guarda è il gigantesco monolito eretto nell’Urbe al nome di Mussolini quale segnacolo del rinnovamento nazionale da lui voluto ed attuato. Il candido blocco di marmo strappato ai fianchi delle montagne Apuane, ha attraversato il mare, ha risalito il fiume, ed ora è volto verso il cielo».
L’idea dell’obelisco era venuta al ras del fascismo carrarese Renato Ricci, dal 1927 presidente dell’Opera Nazionale Balilla (ONB), l’organizzazione fascista della gioventù. Ricci aveva impostato un imponente programma di costruzione di infrastrutture, Case del Balilla, palestre, impianti sportivi, convitti. Tra esse spiccava a Roma il Foro Mussolini, vasto complesso di impianti sportivi iniziato nel 1928 sotto la guida dell’architetto carrarese Enrico Del Debbio. In esso avrebbe dovuto campeggiare l’obelisco destinato a celebrare a imperitura memoria il capo del fascismo. L’obelisco, simbolo del «fascismo di pietra», diventava protagonista della storia ideologica di un regime che nel culto della personalità del suo capo cercava il momento di una compattezza totalitaria (per una storia dell’obelisco vedi qui).

L’ira iconoclasta dei movimenti antirazzisti
L’abbattimento a Bristol, vicino Londra, nel corso di una manifestazione antirazzista della statua del trafficante di schiavi Edward Colston e la rimozione, sotto la spinta dei movimenti afroamericani, di quelle erette in onore di generali e uomini politici del Sud schiavista, come quelle del generale sudista Robert E. Lee nel centro di Charleston o Richmond, negli Stati Uniti, dopo l’omicidio di George Floyd da parte di un poliziotto, ha scatenato da noi molte discussioni sulla liceità di queste azioni ritenute eccessive, un’offesa alla memoria del passato, un’indebita censura della storia. Si è tornati a parlare anche della statua milanese di Indro Montanelli presa di mira nuovamente dopo il raid del 2019. Il giornalista, voce della destra storica italiana, nazionalista, fascista, colonialista, poi negli anni della Repubblica esponente della destra più conservatrice e reazionaria, personaggio dalle sette vite, frondista di professione, grande opportunista sempre pronto a tenere un piede in due scarpe, scaltro nel cambiare casacca all’avvicinarsi di ogni cambio di regime e mantenere immutata la sua poltrona al sole che raccontò di aver acquistato durante la campagna coloniale in Etiopia del regime fascista una giovane schiava per soddisfare le sue esigenze sessuali.
A queste anime belle, a questi nuovi guardiani della memoria, ha risposto Alessandro Portelli spiegando che la memoria non è un semplice deposito del tempo passato, «ma una forza attiva nel presente». Un monumento esiste perché chi l’ha eretto intendeva lanciare e lasciare un messaggio. Il significato politico-ideologico del Foro Mussolini, per esempio, fu spiegato in modo esemplare dallo stesso Ricci: «Dal punto di vista storico-politico, un monumento che riallacciandosi alla tradizione imperiale romana, vuole eternare nei secoli il ricordo della nuova civiltà fascista, legandola al nome del suo Condottiero»(1). Come giustamente ha chiosato Portelli «Queste icone, lungi dallo svolgere una funzione di storia e memoria, impongono una sola memoria su tutte le altre, congelano la storia in un passato monumentale e negano tutta la storia che è venuta dopo».

(1) Opera Balilla, Il Foro Mussolini (prefazione di Renato Ricci), Bompiani, Milano 1937, p. 5.

 

Quel sorriso che li seppellirà

DoinaDopo nove anni passati all’interno di uno spazio recluso fatto di cemento e acciaio un corpo che torna ad avere dei momenti di libertà risente emozioni intense. Poter nuovamente camminare a piedi nudi sull’erba, sentire sulla propria pelle le carezze della sabbia, guardare l’orizzonte fino a quella linea che si confonde con il cielo, sentire la brezza del vento che arriva dal mare, provoca una gioia profonda, brividi e commozione. E lì che ti accorgi che le cose più belle sono quelle più semplici, come il contatto diretto con gli elementi della natura. C’era questa gioia nel sorriso di Doina Matei ritratto nella foto che gli è stata rubata sul suo profilo facebook. Un momento di felicità che è proprio della nostra specie vivente: qualsiasi essere umano avrebbe sorriso dopo anni di cattività. Lo fanno tutti gli altri mammiferi: avete mai visto immagini di animali rimessi in libertà dopo anni di prigionia in recinti o stalle? Corrono e giocano scalciando in preda ad una euforia incontenibile. Questa qualità della nostra specie è stata rimproverata a Doina Matei. La sua colpa? Essersi dimostrata umana sorridendo di fronte al mare. Chi lo ha fatto evidentemente umano non è, ma non può essere nemmeno considerato una bestia, anche loro avrebbero gioito. E poiché anche il modo vegetale reagisce agli elementi della natura, a questi moralisti da strapazzo non resta altro che condividere la coscienza minerale di un fossile.

La vicenda giudiziaria di Doina Matei è partita male fin dall’inizio. 16 anni di reclusione per un omicidio preterintenzionale è una sanzione abnorme, pari al doppio di quelle più alte comminante per questo tipo di reato. Pene del genere vengono attribuite per omicidi volontari le cui circostanze portano i giudici ad applicare solo il minimo della sanzione prevista con il riconoscimento delle attenuanti o il ricorso al rito abbreviato. A Doina invece sono state applicate solo aggravanti in un contesto di allarme politico, dove il tema della immigrazione veniva sovrapposto a quello della sicurezza urbana avviando le prime campagne d’odio razzista. L’episodio tragico e banale al tempo stesso scaturisce da un litigio dentro un vagone della metropolitana a causa della calca. Una serie di spinte scatena un alterco con un’altra ragazza, Vanessa Russo, di poco più grande. Scrivono alcune cronache dell’epoca che sarebbe volato anche un sonoro ceffone, forse preso da Doina fisicamente più gracile, che reagisce con un gesto inconsulto. Quel giorno minacciava di piovere e la giovanissima rumena, già madre di due bambini e che viveva prostituendosi, aveva portato con sé l’ombrello: prima tragica fatalità. Doina lo impugna nella parte alta dell’asta e con un gesto dal basso verso l’alto raggiunge al volto l’altra ragazza. La punta dell’ombrello entra nell’occhio e va in profondità tranciando l’aorta. Vanessa morirà di emorragia. Doina, che era in compagnia di una sua amica minorenne, si allontana nella confusione della folla, probabilmente inconsapevole delle conseguenze mortali di quel colpo. D’altronde a riprovarci altre cento volte difficilmente sarebbe riuscita a raggiungere ancora quel punto. Il suo volto, rimasto impresso nelle telecamere interne della metro, permetterà agli inquirenti di rintracciarla ed arrestarla rapidamente.
Nonostante le circostanze che hanno portato alla morte di Vanessa Russo siano frutto di una maledetta catena sfortunata di eventi, Doina viene incriminata fin da subito per omicidio volontario. Alla fine il giudice riconosce la natura preterintenzionale dell’omicidio ma infligge una condanna molto pesante. Un compromesso che salva il processo dalla cassazione.
Che si tratti di un giudizio sommario nel quale Doina è stata inchiodata a recitare la parte del mostro, lo prova un altro episodio accaduto sempre a Roma tre anni più tardi: un giovane, stavolta romano, dopo un litigio ai tornelli all’interno della metropolitana di Anagnina colpisce con un pugno una infermiera di nazionalità rumena, Maricica Hahaianu, madre di un bambino. Dopo un coma di una settimana la donna muore. Nonostante il ragazzo abbia tentato immediatamente la fuga (verrà bloccato da un testimone) si vedrà riconoscere le attenuanti generiche (era incensurato) ed una condanna sostanziosa ad 8 anni. Dopo averne scontati 4, e maturati 5 per la buona condotta, rientra legittimamente nei termini di legge per l’affidamento in prova che ottiene senza suscitare polemiche da parte dei moralisti a geometria variabile.
Una disparità di trattamento che trova spiegazione solo nella logica discriminatoria che ha subito Doina Matei, a causa delle sue origini e della sua condizione sociale di giovane sbandata.

C’è una ulteriore circostanza che è passata inosservata in questi giorni. Una volta diffusa la notizia sulla semilibertà ottenuta da Doina, dopo ben oltre la metà della pena (9 anni scontati ed 11 maturati con la buona condotta), qualcuno ha ossessivamente iniziato la caccia sul web per trovare tracce della giovane donna fino a rubare la foto postata sul suo profilo fb. Immagine poi finita su un quotidiano romano che ha scatenato la polemica. E’ lecito che una immagine privata sia stata rubata e pubblicata su un giornale? E le ingiurie e le minacce ricevute da Doina sulla sua bacheca non sono un reato come prescrive il codice penale? Non solo Doina non è stata tutelata, come avrebbe avuto diritto, ma è stata penalizzata con la sospensione della semilibertà decisa da un giudice di sorveglianza che – sembra – gli ha rimproverato di frequentare i social network esponendosi mediaticamente. Divieto fino ad oggi inesistente nei trattamenti (una specie di contratto) che si firmano all’avvio della semilibertà. Alcune Direzioni carcerarie in passato vietavano o limitavano l’uso dei portatili per i semiliberi, fin quando gli è stato fatto notare che i cellulari sono vere e proprie spie elettroniche che permettono un controllo senza precedenti degli spostamenti e comportamenti del detenuto. Insomma il rimprovero del magistrato di sorveglianza non solo è privo di fondamento ma non ha tenuto conto del fatto che la parte lesa in questa vicenda e proprio Doina.
I famigliari di Vanessa Russo hanno invocato la pena di morte e protestato contro la foto che ritraeva Doina sorridente. Nessuno di noi può sapere come reagirebbe di fronte ad una scomparsa così tragica e insensata della propria figlia. Ma esiste una prova del nove: a parti rovesciate avrebbero invocato al pena di morte? Questo è il punto: la giustizia non è un fatto privato di una parte. Processo e esecuzione penale non possono essere lasciate in balia del vittimismo. Ma ancora una volta il peggio viene da chi cavalca dolore ed emozioni anche quando raggiungono dimensioni patologiche.
Il carcere non redime, indurisce ed inasprisce. Ma in taluni casi, quando a finirvi sono persone senza legame sociale, che vivono ai margini, può diventare paradossalmente una occasione. Parlo ovviamente di chi si trova a scontarlo in sezioni di media sicurezza, dove è permesso con maggiore facilità di incontrare operatori esterni, docenti, gente di cultura, teatro, persone ricche di esperienze che possono dare molto. Chi, tra i detenuti sa approfittare di questi incontri, che mai la vita precedente gli avrebbe procurato, può senza dubbio trarne profitto: acquisire fiducia, scoprire di avere potenzialità prima inespresse. Ogni esperienza anche negativa alla fine può essere maestra di vita.
Per questo mi auguro che Doina Matei non molli ma continui a sorridere. Quel suo sorriso ci serve contro i fautori dell’odio. Perché un giorno li seppellirà.

A dieci anni di distanza torna nelle librerie “Di sconfitta in sconfitta” di Vincenzo Guagliardo

L’ossessione identitaria, il paradigma del capro espiatorio con il suo corollario di pentimenti e dissociazioni, la filosofia penale, il razzismo istituzionale incarnato dalle ripetute legislazioni antimmigrati, una nuova forma di capitalismo distruttivo che percepisce le forze produttive non più come un’occasione di sfruttamento ma come un esubero, sono alcune delle piste che accompagnano la riflessione di Vincenzo Guagliardo a partire dal nodo della sconfitta della lotta armata, letta come un’opportunità, non un fatto negativo che inibisce ogni possibilità bensì «una caratteristica necessaria del mutamento per chi non sia soddisfatto dell’esistente». Corredata da una nuova intervista di Massimo Cappitti all’autore (pp. 127-163), questa seconda edizione Di sconfitta in sconfitta. Considerazioni sull’esperienza brigatista alla luce di una critica del rito del capro espiatorio oltre ad una nota dell’editore contiene in postfazione anche due interventi di Paolo Persichetti e Tommaso Spazzali


Questo volume può essere richiesto direttamente all’editore inviando l’importo di euro 12,00 sul c.c.p. 28556207 intestato a: Colibrì – via Coti Zelati, 49 – 20037 Paderno Dugnano (Mi)

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Guagliardo, “Punizioni e premi, la funzione ambigua della rieducazione”
Guagliardo, “Logica premiale e logica vittimaria ispirano la nuova filosofia penale”
Populismo penale
Il paradigma vittimario

Paolo Granzotto sanzionato per razzismo. Aveva scritto: rispedire al mittente la «feccia rumena»

Sanzione “segreta” per Paolo Granzotto

Redattore sociale
16 marzo 2012

Aveva scritto che bisognava rispedire al mittente “la feccia rumena” (vedi sotto) in un articolo del 2009 pubblicato su “Il Giornale”. Per queste espressioni xenofobe, il giornalista Paolo Granzotto, iscritto all’Ordine del Lazio, ha ricevuto nei giorni scorsi la sanzione della censura che viene inflitta “nei casi di abusi o mancanze di grave entità” e “consiste nel biasimo formale per la trasgressione accertata”.
A denunciare Granzotto all’Ordine dei giornalisti era stata una reporter di origine romena che fa parte dell’Associazione nazionale stampa interculturale (Ansi). Tuttavia, la decisione non è stata resa pubblica, nemmeno sul sito dell’Ordine laziale.
Roberto Natale, presidente della Federazione nazionale della stampa italiana, ha ricordato la vicenda al Salone dell’editoria sociale, nel corso della presentazione del secondo libro bianco sul razzismo in Italia, dal titolo “Cronache di ordinario razzismo”, a cura dell’associazione Lunaria. Commentando l’opera che muove critiche molto dure ai giornalisti italiani in tema di razzismo, Natale ha parlato di “spettacolarizzazione delle notizie sugli stranieri con connotazione negativa”, “di omissione di importanti notizie” e di “informazione forcaiola”. L’Fnsi promuove da mesi la campagna “LasciateCientrare” che ha visto anche Redattore Sociale in prima linea per chiedere l’accesso della stampa ai centri di detenzione e a quelli di accoglienza per migranti, vietato da una circolare del ministro dell’Interno Roberto Maroni. “I Centri di identificazione e di espulsione sono un problema di diritti dei migranti e di diritto dei cittadini a essere informati – ha detto il presidente dell’Fnsi – è però anche un gigantesco problema di costi non motivati e di sprechi del denaro pubblico”.
 Il 2011 è stato l’annus horribilis del razzismo in Italia, con il picco di casi sia tra la gente comune sia tra le istituzioni, secondo il monitoraggio effettuato da Lunaria, che va a colmare il vuoto delle statistiche ufficiali. “Questa impennata è legata allo spauracchio degli sbarchi e della cosiddetta invasione islamica” ha spiegato Paola Andrisani, la ricercatrice che ha curato il monitoraggio. I casi erano tantissimi, circa un migliaio, ma solo 255 sono finiti nel volume, come rappresentativi di quello che avviene nelle pieghe dell’Italia nascosta all’opinione pubblica. I mass media sono i primi imputati. “Il razzismo è una terribile semplificazione, un gioco ad avere un capro espiatorio e un nemico, con un linguaggio bellicoso e ostile” ha commentato Franca Di Lecce, della Federazione delle chiese evangeliche.  “La stampa mainstream anche progressista continua a chiamare centri di accoglienza quelli che sono i lager di stato – ha spiegato l’antropologa Annamaria Rivera – si legge anche di ‘etnia cinese’, un miliardo di persone diventa incredibilmente un’etnia. Manca uno strumento per sanzionare chi usa questo linguaggio”.  A margine dell’incontro Grazia Naletto, presidente di Lunaria, inquadra così la battaglia di parole: “In Italia c’è un senso comune che ancora ritiene che il razzismo non esiste. Senza cadere nell’errore opposto di generalizzare, bisogna dire che la società italiana non è razzista ma c’è una preoccupante diffusione del razzismo e della xenofobia”.
Dopo la pulizia etnica di Rosarno nel 2010, una nuova pagina nera ha segnato l’anno in corso: Lampedusa. Ancora una volta, i reportage dei mass media sono al centro del dibattito per le conseguenze sociali della cattiva informazione. “La grande simpatia nei confronti della primavera araba si ferma a quando i protagonisti sono rimasti a casa loro, perché quando hanno preso il mare per venire in Italia le cose sono cambiate” ha detto Maria Silvia Olivieri, una delle autrici del libro bianco e responsabile comunicazione del Servizio di protezione per rifugiati e richiedenti asilo (Sprar). “I media sono stati al servizio della scelta governativa di svilire la dignità delle persone – ha continuato – abbiamo visto immagini di persone ammassate come animali a dormire sul molo e ci siamo chiesti perché non venissero trasferiti nei centri di accoglienza governativi che sapevamo essere disponibili. Si voleva fare un’operazione Napoli a Lampedusa, come per la spazzatura”. Olivieri ha sottolineato che “c’è stata una costruzione scientifica di un nemico mentre nel frattempo la gente moriva in mare. I connazionali delle vittime hanno riferito che gli è stato perfino impedito di intervenire nel riconoscimento delle salme, nessuno si chiede cosa ne è stato di questi cadaveri rimasti senza nome”. (rc)
Cacciamoli Bucarest si riprenda le sue canaglie
di Paolo Granzotto
Il Giornale 4 febbrio 2009

Fuori, fuori, senza la minima esitazione. Accompagnati alla frontiera e lì consegnati alle autorità romene. Ci pensino poi loro a farne ciò che ritengono opportuno. Questo giornale si è sempre battuto per la certezza della pena, è vero. Ma che il contribuente, categoria alla quale mi onoro di appartenere, debba sborsare 400mila euri al giorno per farla scontare alla folta popolazione carceraria romena è una cosa che non mi va giù. Oltre tutto, se una volta riconosciuta colpevole di reato rispedissimo al mittente la feccia romena – e spero che non mi si dia del razzista se chiamo col loro nome individui che ammazzano, stuprano, rubano agendo con furore belluino – ne guadagnerebbe e di molto l’impellente questione dell’affollamento carcerario. C’è da aggiungere un’altra cosa. Per il romeno che si macchia di un delitto – di qualunque entità esso sia – una pena grave, dolorosa da sopportare, è proprio quella di lasciare quel Bengodi per la criminalità e la clandestinità che è l’Italia. Dove un po’ per pietismo buonista, un po’ per solidarismo multietnico e culturale, un (bel) po’ per zelo ideologico, non solo la condanna inflitta è sempre mitigata da una sfilza di attenuanti più o meno generiche, ma fra permessi, affidamento in prova, libertà vigilata o condizionale e legge Gozzini la stesso periodo di detenzione finisce per essere decurtato della metà della metà. E tutto ciò rende particolarmente accomodante la vita ai malviventi. Magari, non si può mai dire, i regimi giudiziario e carcerario romeno sono un po’ meno tolleranti e buonisti del nostro, magari laggiù la pena la si sconta fino in fondo. Ma anche in caso contrario, resta il fatto che in Romania il delinquere comporta più rischi che non in Italia. Se così non fosse, non verrebbero a frotte da noi per esercitare la loro, diciamo così, professione.
Ci sarebbe, su questo argomento, da sentire il parere delle vittime o, in caso di omicidio, dei loro parenti. Che si aspettano, che pretendono che giustizia sia fatta. Ma che per i motivi sopradetti di rado vedono esaudita la loro legittima, umanissima richiesta. Mi chiedo allora se desti più furore sapere che il colpevole in qualche modo l’ha fatta franca – magari scarcerato dopo un paio di giorni – o sapere che è fuori dai piedi, in qualche galera o in qualche souk romeno, non proprio luoghi ameni, sia l’una che l’altro. Non so, ma io non avrei dubbi. Oltre tutto la Romania è in Europa, aderente a pieno titolo all’Unione e non mi pare sia consono allo spirito, agli ideali e ai principi eurolandici impestare di canagliume gli Stati membri. Non dico mica che noi siamo, da quel punto di vista, dei santi. Ma ciascuno si tenga le canaglie sue e pertanto, quelle romene, fuori. Fuori senza la minima esitazione.

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Paolo Granzotto: “Cacciamoli:_Bucarest_si_riprenda_sue_canaglie
Cattivi maestri e bravi bidelli: le carte truccate di Paolo Granzotto

Destra: il terrorismo dei “lupi solitari”, le passioni tristi della crisi. Il massacro dei senegalesi di Firenze

L’analisi – Cosa c’è dietro l’azione pluriomicida di Gianluca Casseri, frequentatore di CasaPound

Il killer xenofobo non era un soggetto isolato. Casseri era iscritto come simpatizzante all’associazione CasaPound di Pistoia, come recita un comunicato ufficiale di CasaPound Italia («Il semplice fatto della sua partecipazione ad una nostra manifestazione – spiega CPI in una nota – non è assolutamente sinonimo di impegno politico in e per CPI, come il fatto che fosse iscritto da simpatizzante a Pistoia non vuol dire che partecipasse in alcun modo alle attività organizzative della sezione»). Non solo, godeva anche della stima di Gianfranco de Turris, un autorevole intellettuale della destra italiana.
Chi è de Turris?
De Turris è fondatore e segretario della Fondazione «Julius Evola», dedicata al «pensatore» d’estrema destra, con trascorsi fascisti e nazisti, teorico della gerarchia tra le razze. E’ stato vicecaporedattore dei servizi culturali al Giornale Radio della Rai, in quota a Alleanza Nazionale e poi al Pdl, è andato in pensione nel febbraio del 2009. Continua a curare una rubrica, L’Argonauta, su Radiouno Rai ogni domenica sera.
Sempre de Turris ha firmato due prefazioni encomiastiche ai libri di Casseri. L’ultimo, I Protocolli del Savio di Alessandria, pubblicato a maggio per l’editore Solfanelli, è un’invettiva contro Il cimitero di Praga di Umberto Eco e conferma l’esistenza del complotto pluto-giudaico sul mondo. Nella prefazione loda Casseri e spiega che I Protocolli dei Savi di Sion, pur essendo un documento falsificato, nondimeno dicono cose vere. I saggi di Casseri su Lovecraft sono sempre stati annunciati sui siti web più noti nell’ambito del fantastico italiano, così come il «romanzo esoterico» scritto con Enrico Rulli, La Chiave del Caos, sempre con prefazione del solito de Turris

di Guido Caldiron
Liberazione 14 dicembre 2011

Gli studiosi del terrorismo di estrema destra li chiamano “lupi solitari”: figure legate alla culture xenofobe, fasciste o anti-sistema che decidono di passare all’azione non in base a un progetto politico o “militare” che hanno costruito con altri, ma quando ritengono che sia venuto il momento dello scontro, della guerra, dell’atto esemplare. Muovendosi in un territorio emotivo che rasenta spesso la follia pura, i “lupi solitari” non sono però mai delle figure culturalmente isolate, spesso già affiliati a gruppi o formazioni estremiste, interpretano con la loro sanguinaria “discesa in campo” gli umori più terribili del proprio tempo. Di fronte alle contraddizioni e alle inquietudini delle società occidentali, di fronte al crescere del disagio sociale e identitario, si fanno interpreti dei “sentimenti tristi” della crisi: odio, rancore, razzismo. Agiscono da soli, portando alle estreme conseguenze la cultura della guerra che hanno in sé, e che è parte fondante delle ideologie come delle sottoculture del radicalismo identitario, ma si immaginano come interpreti del senso comune, dando così un nome e un volto ai fantasmi della discriminazione e della ricerca costante di un capro espiatorio che caratterizzano da tempo il cuore malato dell’Occidente.
Ciò che è accaduto ieri a Firenze e quanto è già dato di sapere sulla biografia e le idee di Gianluca Casseri, il cinquantenne simpatizzante di Casa Pound, cultore del fantastico e dell’esoterismo, descritto dalle agenzie di stampa come un individuo con «simpatie neonaziste, pagane, antisemite e razziste», che ha ucciso due venditori ambulanti senegalesi e ne ha feriti gravemente altri tre prima di togliersi la vita, sembra infatti rimandare – con le dovute proporzioni, ma con la medesima gravità – ad altre simili tragedie. Per quanto il profilo di Casseri faccia pensare al neofascismo di sempre, con tanto di formazione evoliana e rimandi alla cultura che ha prodotto I Protocolli dei Savi di Sion, la sua follia razzista può essere forse inquadrabile in una tendenza più ampia e diffusa ormai sul piano internazionale.
Era il 22 luglio di quest’anno quando Anders Behring Breivik, un norvegese di trentadue anni, faceva prima esplodere una bomba nei pressi della sede del governo, nel centro di Oslo, e attaccava quindi a colpi di mitraglietta il campeggio dei giovani del Partito Laburista sull’isola di Utoya, non lontano dalla capitale. Bilancio della giornata più tragica della storia della Norvegia del secondo dopoguerra: settantasette morti e centinaia di feriti.
Già vicino al Partito del Progresso, una formazione xenofoba arrivata a raccogliere fino a un quarto dei consensi dei norvegesi su una piattaforma politica anti-Islam e anti-immigrati, ben prima di rendersi protagonista della strage di Oslo, questo giovane benestante e direttore di un’azienda agricola biologica, aveva diffuso su internet un testo di 1500 pagine dal titolo European Declaration of Independence – 2083, in cui si presentava come un “nuovo crociato”, o un “nuovo templare”, in grado di guidare “le milizie cristiane” verso la liberazione del Vecchio Continente, ormai trasformatosi in “Eurabia”, vale a dire un’Europa nelle mani dei musulmani. Il multiculturalismo e i suoi alleati, a partire proprio dai socialdemocratici norvegesi, e l’Islam erano i nemici a cui Breivik aveva annunciato di voler muovere guerra.
Quel testo delirante, l’attentatore norvegese lo aveva anche inviato ad alcuni parlamentari, in diversi paesi europei, che evidentemente ritenava sensibili alle sue tesi. Del resto, all’indomani della strage e suscitando scandalo nel suo stesso partito, l’europarlamentare della Lega Nord Mario Borghezio aveva dichiarato: «Al netto della violenza, le idee di Breivik – il no alla società multirazziale, la critica dura alla viltà di un’Europa che pare rassegnata all’invasione islamica – sono profondamente sane e condivisibili».
La figura del “lupo solitario” è stata però evocata soprattutto dagli esperti statunitensi di terrorismo e a partire da un caso emblematico: quello del più grave attentato compiuto sul suolo americano prima dell’11 settembre.
Il 19 aprile del 1995 un camion riempito di una micidiale miscela composta da fertilizzante, benzina e gasolio, esplode sotto l’Alfred Murrah Federal Building nel centro di Oklahoma City. L’effetto è pari all’esplosione di 2mila kg di dinamite: l’edificio che ospita gli uffici di alcune agenzie federali che lavorano con l’Fbi, è distrutto. Le vittime sono 168, tra cui 19 bambini, i feriti superano i 680.
Per la strage viene processato e condannato a morte – sarà giustiziato nel 2001 in un carcere dell’Indiana – Timothy McVeigh un giovane di ventisette anni, bianco, reduce dall’Iraq, ha partecipato all’operazione “Desert storm”, e vicino al movimento estremista delle Milizie. Al momento del suo arresto, nella macchina di McVeigh la polizia trova alcune armi e una copia dei Turner Diaries un libro di fantascienza molto diffuso nel circuito del suprematismo bianco che descrive lo scoppio di una guerra razziale, e nucleare, negli Usa.
McVeigh spiegherà che «l’attentato era un gesto di rappresaglia, una ritorsione» per quanto accaduto a Waco, in Texas, nel 1993, quando l’Fbi attaccò il ranch in cui si erano asserragliati i membri di una setta religiosa causando decine di morti. «Proprio come in Cina, il nostro governo ha utilizzato i carri armati contro i suoi stessi cittadini», sosteneva il giovane attentatore, spiegando come per l’estrema destra quell’atto avesse rappresentato una vera e propria dichiarazione di guerra di Washington a tutti gli americani.

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Un fascista del terzo millennio

(Adnkronos) – Era un uomo dalla doppia vita il 50enne Gianluca Casseri, l’uomo che oggi ha ucciso due senegalesi, ferendone tre e suicidandosi durante un conflitto a fuoco con la polizia, a Firenze. Nato in provincia di Pistoia, Casseri faceva il ragioniere, ma allo stesso tempo era un appassionato scrittore con simpatie neonaziste, pagane, antisemite e razziste. Aveva fondato la rivista La Soglia, ed era membro dell’associazione culturale La Runa. Simpatizzava con CasaPound. Amava i fumetti e i film di fantascienza, e i libri di Lovecraft. Nel suo saggio «I protocolli del Savio di Alessandria» rilancia la teoria antisemita del complotto mondiale degli ebrei, e le tesi negazioniste sull’Olocausto. Tra le altre sue passioni letterarie, Nietzsche, Jung e Evola. Ha anche scritto un libro, La Chiave del Caos, in cui le solite tematiche negazioniste e razziste si intrecciano con esoterismo e magia.
Insomma un vero fascista del terzo millennio!

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Destra il terrorismo dei lupi solitari le passioni tristi della crisi il massacro dei senegalesi di Firenze

Sbarchi a Lampedusa, «il governo conceda la protezione temporanea prevista anche dall’Ue»

Intervista a Gianfranco Schiavone, membro dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione

Paolo Persichetti
Liberazione 3 aprile 2011

Nel giro di poche settimane, dal giorno in cui è esplosa la guerra civile in Libia, la Tunisia ha accolto sul suo territorio 100 mila persone. Lo ha fatto con «grande dignità e capacità», spiega in un comunicato l’associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, nonostante il Paese sia allo stremo, con una economia distrutta ed un apparato statale in parte smantellato. Il governo provvisorio, infatti, ha sciolto i corpi di polizia, invisi alla popolazione perché compromessi con la dittatura di Ben Alì, congedandone per intero i 150 mila appartenenti. L’ordine pubblico è per ora gestito dalle Forze armate composte da militari di leva, in attesa che la prossima assemblea costituente voti la nuova costituzione a cui dovranno ispirarsi le nuove forze dell’ordine. Nonostante ciò, la Tunisia ha dimostrato una capacità d’accoglienza sconosciuta all’Italia. Da noi sono bastate poche migliaia di profughi, meno di 10 mila, per gridare all’esodo biblico, e creare volutamente una situazione insostenibile sull’isola di Lampedusa, il collo di bottiglia degli ingressi via mare. Eppure, ci spiega Gianfranco Schiavone, consigliere nazionale dell’Agsi, «gli strumenti di diritto per fare fronte a questa emergenza esistevano da subito. E’ mancata è la volontà di applicarli anche per ragioni di calcolo legati all’intenzione di suscitare sentimenti xenofobi da fruttare politicamente oltre ad una certa confusione del governo».

Intende la norma sulla “protezione temporanea” prevista dall’articolo 20 del testo unico sull’immigrazione che secondo alcune indiscrezioni il governo sarebbe propenso a prendere in considerazione?
Non solo. Esiste anche una norma europea che istituisce la protezione temporanea prevista dalla direttiva 2001/55/Ce, recepita dall’Italia col decreto legislativo del 7 aprile 2003 n. 85. Il ricorso a questo tipo di permesso, che ovviamente va concertato a livello europeo, offrirebbe ai profughi la possibilità di spostarsi in tutto lo spazio Shengen. In questo caso si potrebbe discutere della ripartizione delle quote tra Paesi membri. L’articolo 20 del testo unico sulla immigrazione elaborato nel 1989 consente, invece, una protezione temporanea solo sul territorio nazionale.

Questa è una differenza rilevante. Alcuni Paesi europei potrebbero opporsi come sta già facendo la Francia che respinge i migranti alla frontiera di Ventimiglia.
La realtà è che l’Italia, al di là delle lamentele rivolte verso gli altri Paesi membri, non ha mai presentato formalmente la proposta di attivare la protezione temporanea. A livello Ue questo tipo di protezione è stato espressamente previsto per quelle situazioni eccezionali in cui si manifestano afflussi massicci di persone che fuggono da situazioni di grave instabilità che si è prodotta in un Paese terzo rispetto all’Ue: “il cui rimpatrio – stabilisce il testo – in condizioni stabili e sicure risulta momentaneamente impossibile a seguito della situazione del Paese stesso”. Che è proprio quello che sta accadendo oggi. L’Italia introdusse in anticipo questa norma rispetto all’Ue perché si trovò in prima linea a fronteggiare la crisi albanese. La protezione internazionale in questo caso non c’entra nulla. Non siamo di fronte a richieste di asilo politico legate al riconoscimento di una violazione della convenzione di Ginevra.

Avete avuto qualche ruolo nel ricordare al governo che esisteva questa strada?
C’è stato un suggerimento da parte di parecchie associazioni ma non c’è stato molto ascolto. Il governo si è dimostrato miope nell’illusione di riuscire a rimpatriare coercitivamente (e illegittimamente secondo il protocollo Cedu) le migliaia di tunisini. La protezione temporanea darebbe corso a permessi annuali, rinnovabili una sola volta, favorendo i ricongiungimenti familiari in ambito europeo. Infine non dimentichiamo che stiamo perdendo l’occasione per investire sul futuro di un Paese giovane con un potenziale economico e sociale che potrebbe sfociare in una collaborazione economica e culturale per noi favorevole.

Link
I dannati della nostra terra
Cronache migranti
Sans papiers impiegati per costruire Cpt
Le figure del paria indizio e sintomo delle promesse incompiute dall’universalità dei diritti
Elogio della miscredenza

Aigues-Mortes 1893, lavoratori francesi contro lavoratori italiani

Libri – Enzo Barnabà, Morte agli italiani. Il massacro di Aigues-Mortes, 1893, Infinito Edizioni (pp. 128, euro 12,00)
Gerard Noiriel, II massacro degli italiani. Aigues-Mortes, 1983. Quando il lavoro lo rubavamo noi, Marco Tropea (pp. 320, euro 18,00)

Paolo Persichetti
Liberazione 13 febbraio 2011


Un grande massacro può restare solo un piccolo scandalo». E’ un po’ il destino toccato al “Massacre des Italiens”, il pogrom scatenatosi in Camargue, il 17 agosto 1893, contro i lavoratori stagionali italiani impiegati nelle saline francesi di Aigues-Mortes che provocò 8 morti, 14 dispersi e 99 feriti. Allora la Francia era il Paese che accoglieva il maggiore flusso di migranti europei e l’Italia quello che ne esportava il numero più grande. Dopo il libro di Enzo Barnabà, Morte agli italiani. Il massacro di Aigues-Mortes, 1893, Infinito Edizioni (pp. 128, euro 12,00), uscito in occasione del centenario della strage e ristampato nel 2008, l’episodio che portò i due Paesi sull’orlo del conflitto armato è uscito finalmente dal lungo oblio in cui era caduto. Della questione è tornato ad occuparsi lo storico Gérard Noiriel con un saggio da poco tradotto che affronta la vicenda con gli strumenti della socio-storia: II massacro degli italiani. Aigues-Mortes, 1983. Quando il lavoro lo rubavamo noi, Marco Tropea (pp. 320, euro 18,00). Storia dal basso e storia dall’alto si intrecciano nell’indagine condotta da Noiriel che definisce l’accaduto «l’esempio più truce di xenofobia operaia in qualsiasi storia dell’immigrazione». Un’eruzione d’odio verso «gli italiani che ci rubano il lavoro» le cui dinamiche possono dirci molte cose su fatti analoghi avvenuti ai nostri giorni, come la caccia all’uomo contro gli stagionali africani di Rosarno, in Calabria.
Ogni anno, tra agosto e settembre, al momento della raccolta del sale ad Aigues-Mortes affluivano migliaia di lavoratori richiamati dalla speranza di trovare un lavoro stagionale. I documenti delle prefetture descrivono un clima d’allarme e i problemi suscitati dall’afflusso in massa di questa manodopera migrante, ben oltre la forza-lavoro richiesta ma utile serbatoio di riserva ed efficace strumento di pressione per abbassare il costo del lavoro. Potevano affluire fino a 2000 stagionali a fronte dei 1200-1300 utilizzati, aumentando del 50% la popolazione del posto con inevitabili difficoltà d’accoglienza e sicurezza. Uomini soli e giovani, ritenuti instabili, la cui presenza “selvaggia” suscitava problemi sanitari per l’assenza di acque sorgive e il deflusso delle acque fognarie. Diffusa era poi la propagazione della malaria.
In quelle settimane tre gruppi sociali venivano messi di fronte ad una condizione di bestiale concorrenza tra loro: i locali, gli stagionali francesi originari delle vicine Cevennes, a cui nel tempo si aggiunsero gli italiani, perlopiù Piemontesi, ed infine i “trimards” (lavoratori nomadi francesi), profondamente destabilizzati dalla crisi economica e ridotti ad una condizione di forte marginalità. Questi ultimi ebbero un ruolo centrale nelle violenze, tra i processati, infatti, 18 su 37 erano senza fissa dimora e tra questi 11 su 17 furono accusati dei reati più gravi.
La presenza di stagionali italiani era cresciuta col tempo. Provenienti da un’economia più povera erano disposti a compensi inferiori e ritmi di lavoro più intensi. Nell’agosto del 1893 erano stati assunti 621 italiani contro 700-800 francesi, meno dei 900 degli anni precedenti. La raccolta era organizzata per gruppi geografici separati, ma la necessità d’integrare l’effettivo con stagionali “occasionali” portò alla formazione di alcune squadre miste. Fu proprio in uno di questi gruppi che scoppiò la prima rissa. Motivi di rivalità diedero fuoco ad un malcontento sordo che covava da tempo «contro i forestieri che rubavano il lavoro accettando qualsiasi condizione». Le cause del massacro avevano ragioni ben chiare, condizioni di lavoro massacranti (tra cui pesava la scarsità di acqua potabile corrente in mezzo ad un mare di sale) e la messa in competizione tra forza-lavoro locale e straniera. Solo l’anno successivo al massacro le autorità realizzarono un servizio di derivazione dell’acqua corrente e poco dopo la Compagnie des salins du Midi meccanizzò la raccolta del sale. Nel frattempo la macchina amministrativa inventò la carta d’identità per stranieri, che consentiva di regolare la tutela del lavoro nazionale. Soluzioni tecniche messe in atto dai dominatori – spiega Noiriel – per risolvere i problemi che loro stessi avevano creato. Quella carneficina viene oggi ricordata come un esempio tipico di razzismo, nonostante all’epoca l’episodio venne interpretato con categorie ben diverse. Il razzismo sul piano lessicale ancora non esisteva. La parola entrò nel vocabolario francese solo nel 1902, il termine xenofobia nel 1903. Lo scontro vedeva contrapposti i sostenitori del nazionalismo, che chiedevano l’espulsione pura e semplice degli stranieri, e i fautori del liberalismo che invece chiedevano di punire solo coloro che mostravano un’inclinazione verso il male. La difesa della manodopera nazionale agitava anche le correnti socialiste. Per Noiriel decisivo fu il ruolo del fattore nazionale nella legittimazione del massacro. Paradossalmente quell’eccidio mise in mostra quanto fosse avanzato il processo di nazionalizzazione delle masse. Fu solo più tardi con l’affaire Dreyfus e l’uccisione del presidente Sadi Carnot da parte di Sante Caserio, l’anarchico italiano che volle vendicare l’esecuzione di Ravachol, che fattore nazionale e questione operaia si separarono nella percezione pubblica.

Cattivi maestri e bravi bidelli: le carte truccate di Paolo Granzotto

Biografo di Indro Montanelli, con il quale ha lavorato al Giornale dove è rimasto dopo l’arrivo di Berlusconi, Paolo Granzotto scrive articoli che sembrano manifesti per bourgeois epatés. In realtà, il più delle volte, il suo stile da madama la marchesa finisce solo per essere grottesco. Impreciso, disinformato e disinformatore, i suoi pezzi sono infarciti di menzogne e bugie, senza disdegnare nemmeno sparate razziste come quando scrisse in un articolo del 2009 che bisognava rispedire al mittente «la feccia rumena».
Granzotto è un mio lettore affezionato e questo gli procura ogni tanto qualche gastrite (leggi qui).
Nell’articolo che segue, Granzotto se la prende con una mia intervista apparsa su la Repubblica del 2 gennaio 2011. In difetto d’argomenti da opporre si attacca alla retorica dei cattivi maestri che tanto piace ai bravi bidelli.
Nelle righe del pezzo dedicate a me, 8 su complessive 22, riesce a piazzare due grossolane falsità: la prima è che sarei stato premiato della semilibertà dopo appena sei anni di carcere, argomento che gli serve per spingere sul tasto dell’impunità; nella seconda mi attribuisce una frase mai detta nell’intervista che gli è andata di traverso: «Battisti non commette reati da trent’anni», circostanza per altro vera se togliamo i documenti falsi impiegati per entrare in Brasile. Che bisogno aveva Granzotto di attribuirmi argomenti da me mai impiegati invece di controbattere a quelli da me veramente utilizzati?
Evidentemente questi ultimi lo mettevano in difficoltà ed allora ha preferito crearsene altri.
Per quanto riguarda, invece, la storia dell’impunità bastava informarsi un po’: fino al momento dell’intervista a Repubblica del gennaio 2011 avevo trascorso (tra prigioni italiane e francesi) più di 12 anni della mia vita in carcere. Dodici anni di pena effettiva che per effetto del calcolo della “liberazione anticipata” (per i profani del sistema carcerario vuole dire una sorta di sconto per buona condotta) corrispondono a 15 anni di pena maturata sui 19 complessivi da scontare.

Dal giugno 2008 esco ogni mattino dal carcere per andare a lavorare e vi rientro la sera. Questo regime detentivo prende il nome di semilibertà, o se volete anche “semicarcerazione” (come la storia del bicchiere mezzopieno e mezzovuoto). Questa mezza libertà che inizia con le luci del giorno non è una libertà vera, ovviamente. Il semilibero si porta il carcere addosso lungo tutta la giornata. Non può andare dove vuole ma solo dove i giudici hanno stabilito. Ha degli orari ben precisi che deve rispettare, è consegnato sul posto di lavoro, a meno che l’attività lavorativa svolta non imponga degli spostamenti, tutti preventivamente segnalati e monitoriati dalle autorità di polizia. Terminato il lavoro deve rispettare una fascia di reperibilità che non gli consente alcun altro spostamento. Gli unici spostamenti ammessi sono dal carcere al lavoro, dal lavoro a casa, da casa al ritorno in carcere. Ogni altro eventuale spostamento al di fuori degli orari preventivamente ammessi non è autorizzato.
Al momento della mia estradizione dalla Francia tre delle quattro condanne che mi erano state inflitte erano prescritte. In sostanza il decreto di estradizione firmato dal primo ministro francese nel 1995 non era più valido (il testo riportava in calce come condizione che le pene indicate non fossero prescritte). Di norma una nuova procedura avrebbe dovuto essere riaperta per aggiornare la validità della estradizione. In realtà venni consegnato alle autorità italiane perché la procura di Bologna cercava in tutti i modi di spostare le indagini sull’attentato Biagi verso la pista del “santuario francese”, rivelatasi poi un vero e proprio depistaggio. Una richiesta di “individuazione” e una rogatoria internazionale erano state avviate contro di me. Anche qui il trattato che disciplina le estradizioni tra Paesi europei prevedeva l’attivazione di una nuova procedura di estradizione per i nuovi fatti che mi venivano addebitati. Tutto ciò non avvenne mai. Fui ceduto all’alba del 25 agosto 2002 sotto il tunnel del Monte Bianco senza nuova estradizione, senza possibilità di difendermi, anzi senza nemmeno sapere dell’accusa che m’attendeva in Italia. Per oltre due anni e mezzo sono rimasto indagato nell’inchiesta Biagi, all’inizio in modo occulto, poi formalizzato, per essere alla fine prosciolto. Nei 3 anni successivi mi vennero sistematicamente negati i permessi a causa degli articoli e di un libro che avevo scritto nel frattempo.
Non è affatto vero, come invece ha scritto Giuseppe Cruciani in una specie di lista di proscrizione dal titolo “Gli amici del terrorista. Chi protegge Cesare Battisti”, Sperling & Kupfer 2010, che i detenuti condannati per reati politici possono usufruire dell’indulto di 3 anni concesso dal parlamento nel 2006. I reati aggravati dall’articolo 1 delle legge Cossiga, che sanziona le “finalità di terrorismo e sovversione dell’ordinamento costituzionale”, nonché alcuni dei reati canonici previsti nel capitolo dei delitti contro la personalità interna dello Stato del codice Rocco (banda armata, associazione sovversiva, attentato contro lo Stato) sono stati esclusi dall’applicazione di questo indulto

Ma chi ha ammazzato scenda dalla cattedra

di Paolo Granzotto
Il Giornale 3 gennaio 2011

Possono ben avvolgersi nel sudario dell’ipocrisia i politici, gli intellettuali e i giornalisti che negli anni dell’eversione fecero da sponda (quando non vi militarono) alla lotta armata. Gli stessi che volendosi fare l’appello firmarono in massa (…)
(…) il manifesto-sentenza contro il commissario Calabresi «torturatore»: Eugenio Scalfari, Giorgio Bocca, Furio Colombo, Margherita Hack, Umberto Eco… i soliti noti. Possono far finta di mostrarsi indignati per il no di Lula all’estradizione di Cesare Battisti. Ma ci hanno pensato due reduci della lotta armata dai quali non hanno mai preso le distanze, e anzi, a rivelare quel che rode loro dentro. Si chiamano Sergio D’Elia e Paolo Persichetti, il primo intervistato dal Riformista, il secondo da Repubblica. Appartenente alla banda armata di Prima linea, D’Elia ha scontato quindici anni di carcere per poi essere eletto deputato nelle liste radicali (Marco Pannella ha, sulla coscienza, altri di questi ingiuriosi sberleffi alle istituzioni: Toni Negri, Cicciolina…). Attualmente è a capo di Nessuno tocchi Caino. Naturalmente è ritenuto, dai progressisti più avvertiti, un guru, un maestro di pensiero. Paolo Persichetti, brigatista rosso, area Unione dei comunisti combattenti. Condannato a ventidue anni e sei mesi di reclusione per banda armata, riesce a rifugiarsi in Francia senza però potervi restare a lungo. Ma se è per questo, nemmeno in carcere: estradato, scontati nelle patrie galere sei dei ventidue anni e passa, gode della semilibertà. Giornalista, scrive per Liberazione, organo del Partito della Rifondazione comunista.
«Onore a Lula» gioisce D’Elia, per il quale essendo le nostre carceri «strumento di tortura» e lo Stato «macchiatosi di molte stragi», «l’Italia non ha l’autorità politica nazionale e internazionale per protestare con chicchessia». E dunque, meglio «Battisti libero in Brasile», anche se pluriomicida, perché, spiega D’Elia inoltrandosi in un ragionamento senza né capo né coda, «a me non interessa nulla di Battisti. A me interessa la difesa del detenuto ignoto, non di quello noto». Non poteva mancare, nella rivendicazione dei diritti del serial killer, un riferimento al totem della Costituzione secondo la quale «il carcere serve per rieducare». Non è vero, naturalmente (il carcere è il luogo – e dunque serve a ciò – dove si scontano le pene le quali «devono tendere – dicesi tendere – alla rieducazione del condannato», articolo 27). Ma anche se fosse come dice D’Elia, restano demenzialmente sconclusionate le conclusioni: non essendo «il Battisti di 35 anni fa lo stesso Battisti di oggi» ne consegue che «il Battisti del delitto non è lo stesso della pena. Per cui, Costituzione alla mano, non deve andare in galera». In quanto ai sentimenti dei familiari dei caduti sotto il piombo del terrorista e non certo entusiasti nell’apprendere che Battisti si è sottratto, grazie a Lula, alla giustizia, D’Elia taglia corto: «I parenti delle vittime sono stati traditi non da Battisti, ma dallo Stato».
Ovviamente anche per Paolo Persichetti la decisione presa da Lula è ineccepibile: non solo «Battisti non commette reati da trent’anni» e questo già dovrebbe bastare a farne un uomo libero. Ma perché quella dell’ex presidente brasiliano è, a conti fatti, una salutare lezione: «Questo Paese – lamenta sconsolato Persichetti – non sa rielaborare il proprio passato» insistendo nell’errore di «voler regolare dei conti (così li chiama, i quattro omicidi) in termini giudiziari». Casi come quello di Cesare Battisti devono infatti essere guardati, come li ha guardati Lula, «con gli occhi della storia» affrontando «gli anni di piombo con un atto di chiusura politica».

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Anche Berlusconi lancia la caccia ai Rom

Il Consiglio dei ministri vara il secondo pacchetto sicurezza dopo quello del 2008. Misure contro le prostitute di strada. Scatenata la caccia ai Rom. I prefetti potranno utilizzare la polizia per far rispettare le ordinanze dei sindaci-potestà. Carta d’identità elettronica anche per i neonati

Paolo Persichetti
Liberazione 6 novembre 2010

«Abbiamo deciso di inserire una norma sul reato di prostituzione nel pacchetto sicurezza». La frase è stata pronunciata ieri da Silvio Berlusconi, anche se nelle intenzioni del premier non voleva essere la solita stucchevole barzelletta con la quale ogni volta egli pensa di accattivarsi l’uditorio che ha di fronte, come consigliano alcuni manuali di management. La tragedia degli uomini ridicoli è quella di non possedere nessuna qualità comica. Al massimo riescono a sprofondare nel grottesco. Dopo una estate trascorsa all’insegna delle rivelazioni sulle escort che vanno e vengono dalle lussuose residenze private del presidente del consiglio, dopo i verbali resi davanti alla magistratura da alcune testimoni sui festini a luce rossa e i party a base di sesso a pagamento e droghe avvenuti nelle sue ville, riferiti dalla stampa nelle ultime settimane, Berlusconi è arrivato alla conferenza stampa per presentare il nuovo pacchetto sicurezza annunciando il varo, addirittura con misura d’urgenza tramite decreto legge, di una nuova norma contro la prostituzione. Poiché – ha spiegato senza il minimo imbarazzo ma con il suo consueto sorriso di plastica – il provvedimento contenuto nel ddl preparato dalla ministra per le Pari opportunità, Mara Carfagna, «non procedeva in Parlamento abbiamo ritenuto di riapprovarlo di nuovo». La misura – ha precisato il ministro degli Interni Roberto Maroni, presente anch’egli alla conferenza stampa – prevede l’introduzione del foglio di via obbligatorio per chi esercita la prostituzione in strada violando le ordinanze dei sindaci in materia. Niente a che vedere con il meretricio di Stato, insomma quello sotto scorta che affolla le serate rilassanti del primo ministro. «Fumo» per sollevare l’allarme su «un’emergenza prostituzione, che non c’è», ha commentato Pia Covre, segretaria del comitato per i Diritti civili delle prostitute, che ha ricordato come il foglio di via per chi lavora sui marciapiedi «esiste già e molti già lo applicano». Il decreto attribuisce ai prefetti il potere di disporre del concorso delle forze di polizia per assicurare l’attuazione delle ordinanze in materia di sicurezza urbana. In questo modo, ha spiegato Maroni, «si rafforza il ruolo dei sindaci: le ordinanze comunali, infatti, si sono spesso rivelate poco efficaci perché non c’era collegamento con le forze di polizia che dovevano attuarle». Arriva a compimento così la filosofia penale d’eccezione contenuta nel primo pacchetto sicurezza varato nel 2008, quello che aveva esteso la possibilità per i sindaci di emettere ordinanze amministrative in deroga alle situazioni di urgenza e necessità. Il federalismo di stampo leghista erige così un altro pezzo della sua architettura autoritaria della società. Il combinato disposto delle ordinanze amministrative emanate da sindaci, trasformati in potestà, che intervengono cortocircuitando giunte e consigli comunali, supportate dalla forza pubblica, disegnano un sistema istituzionale non previsto dalla attuale costituzione che fa a meno degli organi di rappresentanza e soprattutto attribuiscono carattere di sanzione penale a norme amministrative, spesso stravaganti e assolutamente incoerenti, non previste dal codice penale. Alla stessa logica appartiene l’attribuzione ai comuni delle competenze in materia di rinnovo dei permessi di soggiorno. Ogni anno le questure rinnovano 500mila permessi.  «noi vogliamo – ha detto Maroni – che il rinnovo dei permessi di soggiorno venga tolto alle questure e suddiviso sul territorio nei comuni dove i cittadini comunitari risiedono». Un modo per trasferire il controllo sulle politiche migratorie in mano alle forze politiche che controllano il territorio. La Lega che controlla buona parte del Nord potrà così avere mano libera per trasformare i cittadini extracomunitari in situazione regolare in “clandestini” e quindi cacciarli dal Paese, costringerli a spostarsi altrove o addirittura arrestarli grazie al reato di immigrazione clandestina introdotto nel precedente pacchetto sicurezza. Altra norma xenofoba e razzista introdotta, questa volta sotto forma di disegno di legge, è  la possibilità di espellere i cittadini dell’Unione europea che vogliano soggiornare in Italia oltre i 90 giorni senza avere i requisiti di alloggio e reddito. Si tratta di un calco della legge introdotta recentemente dal governo francese per espellere le comunità Rom e nomadi in genere. «La violazione – ha spiegato sempre il ministro dell’Interno – oggi non è sanzionata e dunque noi introduciamo una sanzione che è l’invito ad allontanarsi. Se questo invito non viene rispettato, è prevista l’espulsione del cittadino comunitario per motivi di ordine pubblico». L’unica nota positiva dei nuovi dispositivi di legge, ovvero l’abrogazione della legge Pisanu che vietava l’accesso libero alle postazioni wi-fi e agli internet-point, è stata subito compensata dall’introduzione della nuova carta di identità elettronica sin dalla nascita per tutti i cittadini. La schedatura biometrica degli italiani comincerà sin dalla culla.

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