Eroi di carta
Marco Bascetta
il manifesto 30 maggio 2010
Perché manifestolibri ha voluto pubblicare una decisa analisi critica (seria, rigorosa e diffusamente argomentata, come da più parti è stato riconosciuto) di Gomorra e di numerose, successive prese di posizione pubbliche del suo autore, Roberto Saviano? Ci sono diverse ragioni. La prima può essere messa in chiaro dal passo di un articolo che attacca furiosamente Eroi di carta, il libro di Alessandro Dal Lago edito da manifestolibri, pubblicato sul periodico della fondazione finiana Farefuturo: «Un paese che non ha bisogno di eroi è un paese che non ha esempi da seguire, che rinuncia a guardare il futuro con la speranza del cambiamento…». Da un siffatto «futuro», carico di richiami arcaici e inquietanti modelli, volentieri ci teniamo alla larga. È la discussione democratica, il confronto tra posizioni diverse, l’esercizio dello spirito critico e non l’emulazione di santi, martiri ed eroi a fare crescere una collettività. E, forse suo malgrado, Saviano è stato risucchiato proprio in questo genere di tristi retoriche che non vorremmo veder tornare a prevalere. È vero e molto rilevante il fatto che Roberto Saviano sia minacciato, esposto, in una pesante condizione di rischio. Questo dovrebbe spingere a proteggerlo, a cercare di assicurare rapidamente alla giustizia coloro che lo minacciano, a bandire i politici che si avvalgono dell’appoggio delle mafie. Ma non è in nessun modo un argomento che renda indiscutibili le sue «verità», inconfutabili le sue affermazioni, incontestabile la sua interpretazione del fenomeno camorra, sublime la sua scrittura. Certamente Berlusconi e l’ineffabile Fede hanno attaccato Saviano piuttosto volgarmente (con argomenti, precisa la stampa di destra, del tutto diversi da quelli del sovversivo Dal Lago), quando l’arbitrio e le opportunità del momento hanno suggerito loro di farlo, come in passato gli avevano suggerito di apprezzare lo scrittore campano e in futuro potranno tornare a suggerirglielo. Dobbiamo allora subordinare le nostre riflessioni e i tempi della loro espressione alle mutevoli esternazioni del cavaliere e della sua corte? E, del resto, quanti danni ha fatto la logica secondo cui «il nemico del mio nemico è mio amico»? Anche Adriano Sofri non dovrebbe averlo dimenticato. Ricorderà, spero, gli «amici» assai poco presentabili scelti da certo antiamericanismo. Se dovesse essere questo, come purtroppo sembra, uno dei principi dell’antiberlusconismo odierno (da Di Pietro a Murdoch?) lo considererei una grave iattura, per non dire di peggio. E, tuttavia, non si può negare che Saviano abbia meritevolmente attirato l’attenzione di una vasta opinione pubblica sulla criminalità organizzata in Campania. Ma si potrà pur ritenere, argomentandolo, che lo abbia fatto in forme spesso discutibili e che il mito che gli si è costruito intorno abbia indotto più a una sorta di innocua tifoseria (come dimostrano molte reazioni alle critiche di Dal Lago, emotive e del tutto ignare delle sue motivazioni) che all’impegno politico e sociale o alla comprensione di una realtà complessa e contraddittoria come quella meridionale. Come avranno letto Gomorra dalle parti della Lega? È lecito discuterne? Manifestolibri pensa di sì. È abbastanza evidente che la questione vada ben oltre il caso di Gomorra e del suo autore. Ma, allora, ci si chiederà, perché prendersela proprio con Saviano, viste le numerose controindicazioni? Perché ciò che si è raggrumato intorno alla sua figura è l’esempio più vivido, e al tempo stesso più scomodo, di mito che si sostituisce al ragionamento, di predicazione che prende il posto dell’analisi, di moda che subentra alla convinzione, in un paese in cui tutto ciò che non avviene sotto i riflettori, o nel regno delle alte tirature, semplicemente non esiste, e tutto ciò che da questi è invece illuminato assume i tratti incontestabili della verità e dell’oggettività, di un ordine invalicabile del discorso. In un paese in cui il darsi sulla voce nei talk show è diventato la quintessenza dell’agire comunicativo e l’esercizio della critica impiegando strumenti culturali non banali, una colpevole perdita di tempo. Così, almeno, sembra pensarla Paolo Flores d’Arcais che tuttavia ha inspiegabilmente sottratto una frazione (speriamo limitata) del suo prezioso tempo per mettere all’indice (quello dei libri proibiti) su tre colonne del Fatto quotidiano un libro che non ha letto e non intende leggere. Si possono condividere (e io personalmente le condivido), smontare o respingere le critiche che Dal Lago rivolge all’epopea di Gomorra, ma non censurarle o relegarle nella categoria, che a sinistra non dovrebbe avere cittadinanza, della bestemmia. Sono, alla fine, proprio queste reazioni, le quali rivelano una «sinistra» impregnata della retorica degli exempla virtutis, sempre più disposta a sacrificare la comprensione delle radici (legalissime e beneducate) dell’ingiustizia all’indignazione del telespettatore, alle emozioni forti del suddito in cerca di protezione (che è ben diverso dal cittadino in cerca di sicurezza), a testimoniare della necessità di confrontarsi con i temi importanti che Dal Lago pone. Qui a Berlusconia, tra fandonie e miti, tra spettri ed epifanie del Maligno, tra risentimenti e narcisismi (non stiamo più parlando, sia chiaro, di Saviano, ma dei fustigatori di Dal Lago) è in corso da un pezzo una vera e propria guerra all’intelligenza, dove ogni ragionamento di un qualche spessore è tacciato di sabotaggio o di spregio dell’umore popolare. Un antico scrittore puritano americano diceva che quanto più sei colto, arguto, intelligente, tanto più sei pronto a lavorare per Satana (la camorra?). Attenetevi dunque alle sacre scritture, ai sentimenti «sani», all’ammirazione della Virtù. Che questo imperativo provenga dalla sinistra la dice lunga sullo stato in cui versa. Per quanto ci riguarda continueremo a cercare di comprendere il mondo che ci circonda, a pubblicare e leggere libri che ci aiutino a farlo, anche a costo di mettere in questione, magari giovandogli, qualche idolo popolare.
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Ai lettori: quando quello che una persona dice non conterà più nulla, e conterà solo chi lo dice, e come e quando lo dice, come faremo a capirci?
Le reazioni entusiaste seguite alla trasmissione di Roberto Saviano e Fabio Fazio ci hanno costretto a delle doverose riflessioni. Doverose perché pensiamo anche noi, come Roberto Saviano, che il dissenso, la libertà intellettuale e l’autonomia di pensiero siano le basi di ogni convivenza democratica. Ed è con un po’ di imbarazzo, ma senza secondi fini, che abbiamo applicato questo nostro diritto di critica alla trasmissione stessa e ai suoi contenuti. Esercitando questo diritto non vogliamo però essere definiti come un ingranaggio di quella che Saviano chiama “macchina del fango”; riconosciamo il merito divulgativo di Saviano, espresso magistralmente nell’impostazione didattica della trasmissione di venerdì sera, non dubitiamo che l’intento di Saviano sia sincero, non siamo tra coloro che ironizzano sulla condizione da recluso nella quale vive da anni, né soprattutto siamo tra quelli che sottovalutano i rischi a cui coraggiosamente si è esposto. Ma quello che Saviano e Fazio hanno detto l’abbiamo ascoltato attentamente, e non riteniamo giusto che certi concetti, certe idee e certe parole sfuggano al vaglio di un’analisi attenta e irriverente. Molte delle cose che Saviano ha detto sono false, altre ci sembrano sbagliate, la maggior parte sono banali e prese a spizzichi e bocconi dal mainstream. La riscossa della nuova Italia prefigurata da Saviano si fonda su tutte queste cose. Non possiamo non dirlo.
Saviano ha iniziato il suo monologo affermando di essere ossesionato dal lavorio incessante della “macchina del fango”, un’espressione di D’avanzo oggi in auge tra i berluscones.
Il discorso di Saviano è in realtà un’autodifesa, ed è completamente sconclusionata: dopo aver detto che la privacy è un cardine della democrazia, riferendosi al caso Boffo e al caso Tulliani, Saviano ha descritto la prassi della macchina del fango: imporre l’idea che siamo tutti sporchi e colpevoli. Per Saviano invece, rivendicare la nostra diversità è un fatto vitale. La diversità e il pluralismo, dice, sono il fondamento della democrazia; la macchina del fango, invece, ci vuole tutti uguali, tutti complici di un sistema moralmente corrotto che distrugge ogni speranza. Il pluralismo democratico, allora, sarebbe in pericolo. Ma la vera antitesi del pluralismo democratico, diciamo noi, è il pensiero unico, non il “tutti colpevoli nessun colpevole” di Berlusconi (e di craxiana memoria). La confusione tra il conformismo rispetto alle opinioni e il conformismo rispetto alla morale, è lampante, anche se nella diretta il fatto sfugge, coperto dall’espressione teatrale della faccia di Saviano e dagli applausi ammirati del pubblico.
Tutto questo discorso, poi, è rivolto a un “Loro”, astratto almeno quanto il Noi di chi lo formula. Cos’è Noi? Cos’è Loro? La società immaginata da Saviano si riduce a un conflitto tra buoni e cattivi, cioè tra i suoi amici e i suoi detrattori. Saviano invita Noi a sentirci diversi, ad affermare di esserlo. “Non migliori, per carità!, solo diversi”.
Dobbiamo dire che in questo contesto “diversi” ci sembra solo un eufemismo per dire migliori. Saviano, che parla molto per sentito dire, sa benissimo che la parola “migliori” non si può usare, è politicamente scorretta perché rimanda ai tempi bui dell’eugenetica, dei totalitarismi e cose simili. In realtà, che dica diversi o migliori poco importa: il problema è sempre lo stesso, del che cos’è Loro e cos’è Noi. Ma è importante segnalare come molte delle cose che dice non siano sue, sono frammenti di politica corretta presi qua e là dal flusso dominante, e che spesso ostacolano la logica stessa del suo discorso. Ma Saviano non può far finta di non conoscerli e li butta ugualmente nel mucchio. Risultato: non si capisce nulla.
La privacy è sacra, dice Saviano, e quello che è stato fatto a Fini e Boffo, cioè utilizzare la loro vita privata come arma di delegittimazione pubblica, è il segnale che la democrazia è in pericolo. A questo punto Saviano è costretto a dire per quale motivo, invece, la stessa cosa non vale per Berlusconi. Ci sarebbero almeno cinque motivi, a nostro parere:
1) la visione americana, molto cara a Repubblica, secondo cui l’uomo pubblico non ha vita privata 2) il problema della ricattabilità (in realtà questa parola non esiste in italiano, ma il concetto è chiaro) 3) la rilevanza penale dei fatti 4) l’importanza di capire che ruolo hanno le donne nel berlusconismo 5) il dovere giornalistico di trattare ogni notizia di cui si arrivi in possesso.
Di questi cinque, solo gli ultimi due ci convincono a fondo. Mentre Saviano ha usato, un po’ alla rinfusa, il motivo della rilevanza penale e quello della ricattabilità, ragionevole ma non sostanziale (e che, brandito da Repubblica, sembra soprattutto strumentale)
Poi Saviano ha commentato il caso Caldoro, nel quale, come nel caso Boffo, la macchina del fango ha utilizzato il presunto orientamento sessuale delle sue vittime come arma di delegittimazione politica. Secondo Saviano “è impensabile, è incredibile” che si usi un tale strumento. Come può essere impensabile? Non si è forse Boffo dovuto dimettere? Non ha forse Caldoro rischiato di venire risucchiato dalle accuse del suo dirimpettaio Cosentino? La retorica ipocrita dello scrittore giunge qui al suo culmine. Ma c’è di più: Saviano sembra dire che la discriminazione sessuale, in questo paese, è una semplice aberrazione e non un fatto diffuso e organico. Nella confusione della sua argomentazione si coglie la denuncia della bestialità della discriminazione ma, come in altri casi, Saviano spersonalizza il problema, per farne un esempio paradigmatico della solita contrapposizione tra Italia buona e Italia cattiva: per una certa Italia questa discriminazione è impensabile, per l’altra è pane quotidiano.
Terminato il monologo, il testimone passa a Fazio e, da qui in avanti, sembra proprio di assistere ad una puntata di Che tempo che Fa. Benigni fa da mattatore, poi entra in scena Claudio Abbado, che parla di cultura e altre cose insieme a Fazio, senza mai rivolgere parola al povero Saviano, per più di mezzora una statua di sale.
Il nostro si ripresenta in scena sul finale con il tricolore in mano e decide di lanciarsi in una valutazione storica del processo di unificazione dell’Italia, in cui la critica alla Lega e il consueto intento didattico si affiancano. L’unità d’Italia, sostiene Saviano, non è il frutto di un accordo tra élite, né dell’aspirazione di emanciparsi dalla dominazione straniera, “macché”: è piuttosto il frutto di un moto interiore dei nostri patres patriae volto alla cancellazione dell’ingiustizia e alla premiazione del talento. La ricostruzione è schematica e fallace, ma soprattutto Saviano esclude che un fatto storico sia la conseguenza di una molteplicità di cause. Sa benissimo che le altre due cause che ha citato, e volutamente escluso, sono validissime e accreditate. Ma qui gliene serviva una, la più suggestiva possibile, perché tutte le altre, nel suo delirio retorico, erano fuorvianti. E in questo delirio di Saviano c’è addirittura spazio per l’affermazione di nuova trinità civile: lingua, bandiera e sangue. Qui dobbiamo sperarlo, che si tratti di retorica.
Il finale ci regala un dialogo tra i due conduttori sull’opportunità o meno di rimanere in Italia. Fra i vari argomenti, Saviano ne propone uno degno di nota: “resto qui perché sono italiano”.
Gli applausi partono scroscianti, il pubblico è in piedi estasiato. Possibile che nessuno si fermi a riflettere? “Resto qui perché sono italiano”. Che vuol dire? A sentirla così sembrerebbe un rimprovero per i cittadini italiani (e quanti giovani…) che hanno deciso, quando non sono stati costretti, di vivere e lavorare all’estero. I veri italiani restano in Italia.
Ma più probabilmente è l’ennesima frase ad effetto, della quale conta solo l’espressione facciale di chi l’ha detta e il tono con cui l’ha pronunciata. E anche questa amenità passa in cavalleria.
Va detto poi che i monologhi di Saviano erano totalmente avulsi dal contesto della trasmissione, che è in tutto e per tutto somigliante al solito show di Fabio Fazio. Saviano funge qui da semplice esca, visto l’ascendente di cui gode presso l’opinione pubblica, ma il riscatto nazionale che prefigura riesce a spaventarci ugualmente. La visione manichea di una società di onesti contrapposta a una macchina del fango, mostro biblico che tutto infetta e tutto corrompe, l’abbiamo già sentita, proposta da Di Pietro e Travaglio. L’intento nuovo è quello di educare un’intera generazione mediante la proposta di paradigmi alternativi a quelli del berlusconismo. Tra questi spunta anche un elogio acritico della meritocrazia, ma il ruolo della legalità e dominante e preponderante, come testimonia l’uso indifferenziato che Saviano fa delle parole “crimine” e “male”. Il rischio, va da sé, è che la legalità diventi un valore assoluto, primario (se non unico) indicatore della morale pubblica e privata, con buona pace del diritto di resistenza, della disobbedienza civile e della riabilitazione sociale. Queste nuove idee si affermano nella società italiana proprio nel momento in cui stanno sfuggendo dalle mani di Saviano, ridotto a gradito comprimario di Fazio, per andare a finire, guardate un po’, in quelle di Fini, della “Chiesa buona” e di una trama culturale che sembra prefigurare il futuro politico dell’Italia, con o senza il talento e le intenzioni dello stesso Saviano.
Parafrasando Saviano abbiamo “aperto il computer” e ci siamo chiesti se le parole che stavamo per scrivere avrebbero innescato un’ulteriore macchina del fango: quella dei buoni, quella che ha agito già nella critica di Flores d’Arcais e Adriano Sofri al libro “Eroi di carta” di Alessandro Dal Lago. Una macchina del fango, quella dei buoni, che non agisce con calunnie sulla vita privata, insinuazioni e punizioni, ma indicando come difettosa l’identità politica e culturale delle persone, che non può essere che vecchia e sconfitta dalla storia. Chi si ferma a riflettere è perduto, la corrente della nuova Italia travolge tutto: ciò che le si oppone è roba da conservatori, o da bastian contrari.
Una nuova cultura dominante sta emergendo, quindi, nelle crepe del berlusconismo declinante. Fino all’Olanda, dove stiamo studiando, è giunto l’appello dello scrittore ai giovani. Così abbiamo intuito che in questa fase iniziale della Saviano-mania si sta promuovendo un’educazione politica e civica di grado zero, da impartire a un’opinione pubblica stordita da vent’anni di berlusconismo. Non si regge in piedi, quest’educazione, ma ha il merito di ribadire l’importanza della legalità e di indicare degli esempi positivi. Una vera presa di coscienza arriverà solo con il tempo. E in che modo, se non con la critica?
David Gallerano Andrea Rocchi