Fini e il futuro della destra nazionale verso un nuovo conservatorismo

Il cuore oltre Berlusconi. A Mirabello il Presidente della Camera ha dato l’addio al populismo

Guido Caldiron
Liberazione
7 settembre 2010


Gianfranco Fini ha scelto la platea di Mirabello, dove il vecchio Movimento Sociale di Almirante rinnovava ogni estate la sfida della destra nazionale nel cuore dell’Emilia rossa, per dar vita a un nuovo capitolo di quella storia paradossale cui la politica italiana ci ha abituato da tempo. Dopo aver guidato un partito, Alleanza nazionale che scelse di abbandonare il Novecento, inaugurando la stagione “post-fascista”, all’ombra dei successi del montante berlusconismo – la svolta sancita dal congresso di Fiuggi seguì di alcuni mesi la nascita del primo esecutivo guidato dal Cavaliere -, il Presidente della Camera decide che è venuto ora il momento di abbandonare la nave e di denunciare le derive plebiscitarie e personalistiche del populismo a cui Berlusconi ha dato voce e corpo. L’ingresso nella famiglia della destra europea, a tendenza liberale e conservatrice, per altro più volte annunciato, avviene perciò all’insegna della rottura con l’uomo grazie al quale l’Msi ha avuto i suoi primi ministri, è uscito da un isolamento durato mezzo secolo e si è potuto imporre come una grande forza politica nazionale. Le parole utilizzate da Fini non lasciano alcun dubbio. Bruciata apparentemente sul campo negli ultimi mesi l’ipotesi di costituzionalizzare il berlusconismo, l’ultimo leader del Msi ha scelto domenica di chiamare le cose con il loro nome. Ha spiegato che il tempo della gratitudine per quanto fatto da Berlusconi nel 1994 è finito, che il Cavaliere deve smetterla di confondere la leadership con l’atteggiamento di un propritario d’azienda e che il Pdl, partito di cui è stato il co-fondatore, si è trasformato in una Forza Italia allargata «con qualche colonnello o capitano che ha soltanto cambiato generale e magari è pronto a cambiarlo ancora», tanto per chiarire come valuti il sostegno assicurato al Cavaliere dai vari Alemanno, Gasparri e La Russa. E forse anche il riferimento fatto da Fini all’«egoismo diffuso» dell’Italia di oggi andava nella stessa direzione.
Il primo paradosso riguarda perciò questa sorta di “parricidio”, andato in scena sul palco biancorossorverde di Mirabello e a cui è stato chiamato simbolicamente a partecipare anche Giorgio Almirante, citato dal Presidente della Camera all’inizio del suo discorso come «un uomo certamente capace di guardare avanti (che) indicò al suo popolo la necessità di un salto di generazione», scegliendo oltre vent’anni fa lo stesso Fini per guidare la comunità della fiamma tricolore. Il secondo, decisamente più grave, riguarda le aspettative che da sinistra in molti sembrano aver riposto, e continuano a riporre, nel Presidente della Camera. A Mirabello Fini ha parlato da uomo di destra, tornando a citare, come aveva fatto lo scorso anno in occasione dell’ultimo congresso di An, che sanciva la nascita del Pdl, una celebre frase di Ezra Pound che suona più o meno così: «Se un uomo non è disposto a lottare per le proprie idee o non valgono niente le sue idee o non vale niente lui». Ha parlato di patria e di famiglia, di una «sintesi tra capitale e lavoro», di giovani, meritocrazia e «etica del dovere». Ha parlato, ancora una volta, di integrazione per gli immigrati onesti e di lotta all’immigrazione clandestina: tema su cui in una sinistra che oscilla tra il “miserabilismo” di chi non vede che gli immigrati appena sbarcati da un gommone e la “rincorsa securitaria” di chi vorrebbe dare la caccia ai lavavetri, si registra la maggiore eco delle sue proposte.
La destra di Fini si smarca da Berlusconi e dalla Lega, considerata quest’ultima una forza «a dimensione locale» e solo in parte un concorrente, e smette di inseguire le sirene del populismo, dopo che nell’ultimo decennio gli intellettuali “d’area” hanno dedicato pagine e pagine al posibile paragone tra il Cavaliere e il generale De Gaulle che, certo, oltre a sostenere il presidenzialismo fu tentato più volte dalla prova di forza muscolare, pur essendo decisamente di un’altra stoffa rispetto all’uomo di Arcore. Ma la rottura con la nuova politica inaugurata dall’ex padrone di Mediaset non pone Fini al di fuori della destra, come sembra invece suggerire un altro paradosso italiano, ne rivela invece il possibile profilo futuro. Dopo l’Msi e ora, almeno in prospettiva, dopo Berlusconi, la destra nazionale sembra alla ricerca di un approdo che è, in massima parte figlio della contingenza e dei paradossi della nostra politica, ma che continua a alimentarsi di alcuni saldi punti di riferimento. Il viaggio sembra però appena iniziato. Al punto che nell’introduzione a uno dei testi che danno conto dei lavori in corso dentro e attorno a Futuro e libertà, In alto a destra, Coniglio editore (pp. 288, euro 14,50), e che raccoglie contributi di Campi, Croppi, Lanna, Perina, Terranova e Raisi, per non citare che alcuni dei partecipanti, Giuliano Compagno spiega come «da una lettura attenta di questa raccolta di articoli, ripresi dal Secolo, da Farefuturowebmagazine e da Charta Minuta, si trae il convincimento che la destra, quale categoria del politico, non sia più definibile con certezza, in essa albergando, semmai fosse, tanto un’ampia polisemia di riferimenti concettuali quanto un esteso richiamo a opere, a pensatori e a miti che hanno illustrato il nostro Novecento per tacere di un passato ancor più remoto». Questo mentre Salvatore Merlo, in La conversione di Fini. Viaggio in una destra senza Berlusconi, Vallecchi (pp. 220, euro 16,00) attribuisce al ruolo personale giocato dallo stesso Fini la possibilità di indicare l’insieme di questo percorso: lontano dai tempi delle scuole di partito, oggi «il leader è una figura capace di evocare un’idea anche attraverso la sua sola immagine». Così, per capire dove voglia andare ora il presidente della Camera, conviene, suggerisce Merlo, guardare alla sua formazione politica piuttosto che all’evoluzione della sua carriera. Qualche certezza, in questo quadro ancora provvisorio, l’aveva però indicata lo stesso Fini che, solo lo scorso anno, nel suo libro, Il futuro della libertà (Rizzoli) aveva manifestato un grande interesse per la politica inaugurata da Ronald Reagan trent’anni fa. L’elezione di Reagan «a presidente degli Stati Uniti nel novembre del 1980 – scriveva Fini – fu il primo grande segnale che l’Occidente e il mondo libero stavano per lanciare la loro grande controffensiva politica, economica, culturale e tecnologica dopo le battute d’arresto degli anni Settanta»: «Dietro lo stile di Reagan c’era il ritorno della tensione morale e ideale della politica».

Link
Fascisti su marte
Neofascismo, il millennio in provetta

Saviano, l’idolo infranto

Daniele Sepe
il manifesto 6 Giugno 2010


Ma cosa è successo alla sinistra radicale in Italia? Sono io che ho perso la bussola o sono altri che si sono dimenticati per strada un poco di concetti che ci accompagnavano nell’analisi della società? Ad esempio la magistratura, le forze dell’ordine, l’apparato repressivo dello Stato sono oggi nostri alleati nella lotta contro il Capitale? Io ricordavo altre cose. Ma la legalità, le leggi cosa sono se non un sistema di regole che serve a proteggere il più forte dal più debole? Non sono promulgate dallo stesso Stato che l’istante dopo accusiamo di essere classista, liberticida, guerrafondaio e repressivo? No, sembra da quello che sto leggendo oggi che sono io che mi sbaglio. In realtà noi viviamo in una democrazia perfettamente compiuta nella quale chi è nato figlio di un muratore a Casal di Principe e il figlio di Briatore e Gregoraci hanno perfettamente le stesse prospettive: entrambi se capaci si potranno fare strada nel lungo cammino della vita. Noi viviamo in un sistema economico capitanato da gente di cui a volte conosciamo i volti e altre no, ma che si fonda sul consumo. Possedere è essere felici. E questo bisogno di consumare, soprattutto in un momento di crisi come questo, viene cullato, coccolato, alimentato da tutto quello che è la cultura dominante oggi, dai media in primo luogo. Non hai il Suv? Sei un reietto. Non vesti firmato? Non ti fidanzerai. Non sei stato in crociera quest’estate? Sei un fallito. Vendere e ancora vendere. Ma non è che tutti si possano permettere, in maniera «perfettamente legale» di vivere come Veronica Lario, idolo di sinitrorsi perché in conflitto divorzistico col padrone d’Italia per eccellenza, il Signore del Male. E allora c’è della gente selvaggia, una feccia canagliesca che pretende oggi, con una violenza che appartiene ad un’altra epoca, l’epica era del baronaggio e della imprenditoria pioniera e aggressiva degli esordi, non solo di limitarsi a taglieggiare il piccolo commerciante o imporre il prezzo del lavoro di un giorno ad un immigrato in un campo di pomodori, ma addirittura di sedere nei lindi consigli di amministrazione. Ma per noi comunisti una volta questi signori non erano criminali alla stessa maniera? Non sono per noi le due facce della stessa medaglia? Come diceva Brecht «è più grave l’effrazione di una banca o la fondazione di una banca?». Ecco, la nostra bussola culturale, politica, oggi è ancora Brecht o è diventata Roberto Saviano? Chaplin diceva che il crimine paga solo alla grande. Infatti. Io nelle parole e gli scritti di Saviano non ho mai trovato queste sottili distinzioni. Mentre si rivolge in maniera educata e deferente al nostro Presidente del Consiglio, suo editore, con una «preghiera», ai tempi della legge sul processo brave, tuona contro le belve assetate di sangue sedute dietro una sbarra al processo «Spartacus». Sarà, ma io trovo il capitalismo italiano e i boss camorristici tragicamente simili. E non per dire, ma un Marchionne che chiude Termini Imerese (quando Fiat ha ricevuto contributi statali e europei per decenni) buttando sulla strada migliaia di famiglie sta aiutando chi e cosa, se non chi poi può andare a proporre un lavoro certamente un po’ più pericoloso, ma infinitamente più redditizio di un salario da operaio, a un giovane siciliano? Fa bene alla coscienza pensare che leggere un romanzo sulla camorra o gridare ’siamo tutti Saviano’ può fare paura a gente sanguinaria in perfetta collusione con buona parte di quello Stato che dovrebbe combatterli, invece secondo il mio modesto parere se ne strabatte. Comanda il denaro. E un libro è un libro. Una canzone è una canzone. Un film è un film. Ma poi la ricetta a tutto questo proliferare di organizzazioni criminali quale sarebbe? Per noi «sinistri radicali» nel 2010 è diventata l’indagine di Polizia, il processo e il carcere? Ma perché, messo dentro a vita uno Schiavone e i suoi compagni, non ci sarà qualcun altro a prenderne il posto? Se le condizioni sociali e politiche non cambiano ce ne saranno altri cento. E’ ovvio che non può essere il bastone la nostra e la loro liberazione. E soprattutto sarei io e il mio pensiero la stampella della criminalità organizzata? Scusatemi, io auguro a Saviano di vivere centanni e godersi quello che si è guadagnato. Ma lasciatemi per centanni la possibilità a me e ad altri pochi «deficienti invidiosi» di ragionare da comunista e di poterlo scrivere. Nel caso contrario, visto che la gogna è gia partita, la solidarietà della sinistra radicale voglio sperare che arrivi a me. Se no vuol dire che ho buttato via una vita di lotta militante per niente.

Link
Ma dove vuole portarci Saviano?
Buttafuoco, “Saviano agita valori e codici di destra, non regaliamo alla sinistra”
Attenti, Saviano è di destra. Criticarlo serve alla sinistra
Populismo penale
Il diritto di criticare l’icona Saviano
La libertà negata di criticare Saviano
Pagliuzze, travi ed eroi

Il diritto di criticare l’icona Saviano

Alessandro Dal Lago
il manifesto 3 giugno 2010


Non ho intenzione di difendermi dalle «critiche» per il mio libretto sul caso Gomorra-Saviano (anche perché si tratta, per lo più, non di critiche ma di esecrazioni e «vade retro»). Se si è interessati alla questione, mi si può leggere e giudicare di conseguenza. Intervengo invece sull’accusa di dissacrazione che alcuni (per esempio Violante e Flores d’Arcais) mi hanno gettato addosso, visibilmente senza aver letto il testo e, nel caso di Flores, incitando il pubblico a non leggerlo. Qui, come in altri casi (penso a Sofri) non c’è solo un appello alla censura preventiva (mi si critica non per quello che dico ma perché lo dico).
Appare anche un modo di pensare mitologico e autoritario, e quindi sostanzialmente papalino, il che fa specie in persone (parlo di Sofri e Flores) che passano per campioni della libertà di parola e del laicismo. È questa la cultura capace di opporsi a Berlusconi? Per Violante, il mio è un tipico caso di sinistra «iconoclasta». Ne deduco che per lui la sinistra deve adorare le icone. E non diversamente pensa Flores, quando invita a manifestare contro Berlusconi o a darsi al sesso o ad altre attività ricreative, piuttosto che leggermi quando critico Saviano. Insomma, guai a entrare nel merito di quello che Saviano scrive. E soprattutto, guai a interrogarci sul significato politico dell’identificazione di una parte consistente della sinistra nella sua figura e nella sua opera. È semplicemente quanto ho tentato di fare nel mio libro a tre livelli, narrativo, mediale e sociologico (tra parentesi, occuparmi di queste cose è esattamente il mio mestiere, diversamente da quanto Flores, che pure mi conosce da quasi trent’anni, fa credere ai lettori del Fatto quotidiano). Livello narrativo: ho analizzato la «verità» di Gomorra in base al testo e a nient’altro, ignorando qualsiasi pettegolezzo sulle sue fonti, ma portando alla luce il carattere tecnicamente auto-referenziale della narrazione («ci sono stato e ho visto, e quindi dico la verità»); livello mediale: ho discusso la costruzione, in buona parte dei media, dell’eroismo di Saviano, mostrando anche come lo scrittore, nei suoi interventi successivi a Gomorra, abbia in qualche modo fatto proprio il ruolo che gli veniva cucito addosso; livello sociologico (e se vogliamo, politico): che significa il processo di iconizzazione dello scrittore nella sfera pubblica del nostro paese? L’ultimo punto mi sembra decisivo e integra i primi due. La trasformazione di Saviano, a sinistra, in icona del bene contro il male (rappresentato dal crimine organizzato) sposta il conflitto politico in una dimensione morale e moralistica fondamentalmente diversiva e consolatoria. Una dimensione illusoria, in cui – ma questa è solo un’ipotesi – molti scaricano le frustrazioni di una sinistra che in buona parte non è più rappresentata, oppure è impotente di fronte al trionfo della destra. Il fatto interessante è che la categoria dell’eroismo è storicamente appannaggio della destra romantica (penso a Evola), e questo spiega la fortuna di Saviano tra i seguaci di Fini (si veda la fondazione Farefuturo e che cosa pensa di me). Di conseguenza, la classica accusa zdanoviana che mi rivolgono Sofri e Flores («a chi giova?») è risibile, un altro aspetto della loro reazione censoria.
Come si conviene a qualcuno che, volente o nolente, è stato trasformato in icona dell’eroismo, molto spesso le posizioni di Saviano su questioni di interesse pubblico sono unanimiste e apolitiche, e cioè buone per tutti (anche se nel libretto riconosco che talvolta prende posizione contro le derive più clamorose dell’attuale regime in materia di conflitto di interessi). Sostenere che la recente lotta degli studenti contro la distruzione della scuola e dell’università pubblica conta ben poco di fronte al crimine organizzato o ridurre la morte dei soldati in Afghanistan alla questione dei poveri ragazzi del sud che non hanno alternative, senza dire nulla del significato della guerra e dell’implicazione dell’Italia, è qualcosa che non si può passare sotto silenzio. Nessuno chiede a Saviano di occuparsi di questi problemi. Ma se ne scrive o ne parla, naturalmente è criticabile, come chiunque altro. Io trovo grottesco che qualcuno liquidi tutto questo, e cioè la critica di quello che Saviano dice, in termini di «invidia»: è come sostenere che se un critico cinematografico parla male di un film, è perché invidia il regista. Ma dietro tutte queste reazioni, volta per volta isteriche o moraliste, si profila un enorme problema politico: l’impotenza evidente di un’idea di alternativa basata quasi esclusivamente sull’opposizione all’anomalia Berlusconi, e non al blocco di interessi (e valori e simboli) che il cavaliere sintetizza. Di fatto, precari e pensionati, studenti e lavoratori, insegnanti e tutte le altre figure socialmente deboli (per non parlare di marginali, esclusi e stranieri) sono sostanzialmente soli sulla scena politica, in balia di questa destra. E, come le elezioni dimostrano, la mancanza di rappresentanza porta anche quote importanti di elettori di sinistra a votare per gli altri (un classico sintomo di un sistema sociale e politico in preda al populismo). La destra fa politica di classe, eccome, l’opposizione no. E questo è anche un effetto dello spostamento del conflitto in chiave simbolico-morale (e, sì, giustizialista), come dimostra l’ossessione unanime per la legalità. Ecco allora che il conflitto è evacuato, che tutto (dalla questione del lavoro all’ignobile condizione delle nostre carceri o al razzismo imperante) viene minimizzato o comunque messo in secondo piano. Ed è inevitabile se, in nome della legalità, ci mettiamo a priori dalla parte dell’ordine, politico o simbolico che sia.  Di questo, ovviamente, a Saviano non imputo una particolare responsabilità, anche se lo critico, in base ai suoi scritti, per aver contribuito ampiamente alla retorica dell’eroismo. Ma forse i suoi seguaci a priori e a prescindere, le vestali della pubblica indignazione che pontificano dalle tribune mediali, non sono proprio innocenti della spoliticizzazione di cui parlo sopra. E pensando proprio a loro, mi chiedo chi rispetti di più, in ultima analisi, lo scrittore perseguitato dalla camorra: chi lo prende sul serio, discutendolo anche polemicamente, o chi si genuflette davanti alla sua icona.

Link
Ma dove vuole portarci Saviano?
Saviano, l’idolo infranto
Buttafuoco, “Saviano agita valori e codici di destra, non regaliamo alla sinistra”
Pagliuzze, travi ed eroi
Attenti, Saviano è di destra. Criticarlo serve alla sinistra
Populismo penale
La libertà negata di criticare Saviano
Alla destra postfascista Saviano piace da morire

La libertà negata di criticare Saviano

Eroi di carta

Marco Bascetta
il manifesto 30 maggio 2010

 

Idee di scorta

Perché manifestolibri ha voluto pubblicare una decisa analisi critica (seria, rigorosa e diffusamente argomentata, come da più parti è stato riconosciuto) di Gomorra e di numerose, successive prese di posizione pubbliche del suo autore, Roberto Saviano? Ci sono diverse ragioni. La prima può essere messa in chiaro dal passo di un articolo che attacca furiosamente Eroi di carta, il libro di Alessandro Dal Lago edito da manifestolibri, pubblicato sul periodico della fondazione finiana Farefuturo: «Un paese che non ha bisogno di eroi è un paese che non ha esempi da seguire, che rinuncia a guardare il futuro con la speranza del cambiamento…». Da un siffatto «futuro», carico di richiami arcaici e inquietanti modelli, volentieri ci teniamo alla larga. È la discussione democratica, il confronto tra posizioni diverse, l’esercizio dello spirito critico e non l’emulazione di santi, martiri ed eroi a fare crescere una collettività. E, forse suo malgrado, Saviano è stato risucchiato proprio in questo genere di tristi retoriche che non vorremmo veder tornare a prevalere. È vero e molto rilevante il fatto che Roberto Saviano sia minacciato, esposto, in una pesante condizione di rischio. Questo dovrebbe spingere a proteggerlo, a cercare di assicurare rapidamente alla giustizia coloro che lo minacciano, a bandire i politici che si avvalgono dell’appoggio delle mafie. Ma non è in nessun modo un argomento che renda indiscutibili le sue «verità», inconfutabili le sue affermazioni, incontestabile la sua interpretazione del fenomeno camorra, sublime la sua scrittura. Certamente Berlusconi e l’ineffabile Fede hanno attaccato Saviano piuttosto volgarmente (con argomenti, precisa la stampa di destra, del tutto diversi da quelli del sovversivo Dal Lago), quando l’arbitrio e le opportunità del momento hanno suggerito loro di farlo, come in passato gli avevano suggerito di apprezzare lo scrittore campano e in futuro potranno tornare a suggerirglielo. Dobbiamo allora subordinare le nostre riflessioni e i tempi della loro espressione alle mutevoli esternazioni del cavaliere e della sua corte? E, del resto, quanti danni ha fatto la logica secondo cui «il nemico del mio nemico è mio amico»? Anche Adriano Sofri non dovrebbe averlo dimenticato. Ricorderà, spero, gli «amici» assai poco presentabili scelti da certo antiamericanismo. Se dovesse essere questo, come purtroppo sembra, uno dei principi dell’antiberlusconismo odierno (da Di Pietro a Murdoch?) lo considererei una grave iattura, per non dire di peggio. E, tuttavia, non si può negare che Saviano abbia meritevolmente attirato l’attenzione di una vasta opinione pubblica sulla criminalità organizzata in Campania. Ma si potrà pur ritenere, argomentandolo, che lo abbia fatto in forme spesso discutibili e che il mito che gli si è costruito intorno abbia indotto più a una sorta di innocua tifoseria (come dimostrano molte reazioni alle critiche di Dal Lago, emotive e del tutto ignare delle sue motivazioni) che all’impegno politico e sociale o alla comprensione di una realtà complessa e contraddittoria come quella meridionale. Come avranno letto Gomorra dalle parti della Lega? È lecito discuterne? Manifestolibri pensa di sì. È abbastanza evidente che la questione vada ben oltre il caso di Gomorra e del suo autore. Ma, allora, ci si chiederà, perché prendersela proprio con Saviano, viste le numerose controindicazioni? Perché ciò che si è raggrumato intorno alla sua figura è l’esempio più vivido, e al tempo stesso più scomodo, di mito che si sostituisce al ragionamento, di predicazione che prende il posto dell’analisi, di moda che subentra alla convinzione, in un paese in cui tutto ciò che non avviene sotto i riflettori, o nel regno delle alte tirature, semplicemente non esiste, e tutto ciò che da questi è invece illuminato assume i tratti incontestabili della verità e dell’oggettività, di un ordine invalicabile del discorso. In un paese in cui il darsi sulla voce nei talk show è diventato la quintessenza dell’agire comunicativo e l’esercizio della critica impiegando strumenti culturali non banali, una colpevole perdita di tempo. Così, almeno, sembra pensarla Paolo Flores d’Arcais che tuttavia ha inspiegabilmente sottratto una frazione (speriamo limitata) del suo prezioso tempo per mettere all’indice (quello dei libri proibiti) su tre colonne del Fatto quotidiano un libro che non ha letto e non intende leggere. Si possono condividere (e io personalmente le condivido), smontare o respingere le critiche che Dal Lago rivolge all’epopea di Gomorra, ma non censurarle o relegarle nella categoria, che a sinistra non dovrebbe avere cittadinanza, della bestemmia. Sono, alla fine, proprio queste reazioni, le quali rivelano una «sinistra» impregnata della retorica degli exempla virtutis, sempre più disposta a sacrificare la comprensione delle radici (legalissime e beneducate) dell’ingiustizia all’indignazione del telespettatore, alle emozioni forti del suddito in cerca di protezione (che è ben diverso dal cittadino in cerca di sicurezza), a testimoniare della necessità di confrontarsi con i temi importanti che Dal Lago pone. Qui a Berlusconia, tra fandonie e miti, tra spettri ed epifanie del Maligno, tra risentimenti e narcisismi (non stiamo più parlando, sia chiaro, di Saviano, ma dei fustigatori di Dal Lago) è in corso da un pezzo una vera e propria guerra all’intelligenza, dove ogni ragionamento di un qualche spessore è tacciato di sabotaggio o di spregio dell’umore popolare. Un antico scrittore puritano americano diceva che quanto più sei colto, arguto, intelligente, tanto più sei pronto a lavorare per Satana (la camorra?). Attenetevi dunque alle sacre scritture, ai sentimenti «sani», all’ammirazione della Virtù. Che questo imperativo provenga dalla sinistra la dice lunga sullo stato in cui versa. Per quanto ci riguarda continueremo a cercare di comprendere il mondo che ci circonda, a pubblicare e leggere libri che ci aiutino a farlo, anche a costo di mettere in questione, magari giovandogli, qualche idolo popolare.

Link
Ma dove vuole portarci Saviano?
Buttafuoco, “Saviano agita valori e codici di destra, non regaliamo alla sinistra”
Attenti, Saviano è di destra. Criticarlo serve alla sinistra
Populismo penale
Il diritto di criticare l’icona Saviano
Saviano, l’idolo infranto
Pagliuzze, travi ed eroi
La libertà negata di criticare Saviano
Alla destra postfascista Saviano piace da morire

Populismo penale

Populismo penale

police-partout3

Link
Ma dove vuole portarci Saviano?
Luigi Ferrajoli: Populismo penale ovvero la strategia della paura
Di Pietro: “Noi siamo la diarrea montante”
Quando il privilegio indossa la toga, la casta dei giudici in rivolta
La ragnatela di Anemone e la lista che fa paura
Nella lista di Anemone l’intero establishment: lavori o favori?
Congresso Idv: i populisti lanciano un’opa su ciò che resta della sinistra
Retroscena di una stagione: Di Pietro e il suo cenacolo
Di Pietro interrogato a Perugia, sospetti su due appartamenti
La ragnatela di Anemone e la lista che fa paura
Nella lista di Anemone l’intero establishment: lavori o favori?
Saviano, l’idolo infranto
Il diritto di criticare l’icona Saviano
La libertà negata di criticare Saviano
Il ruolo delle corti costituzionali tra costituzioni rigide e costituzioni aperte
Dal vertice della consulta una replica alle critiche sul ruolo della corte costituzionale
La farsa della giustizia di classe
Processo breve: amnistia per soli ricchi

Lo scudo di classe di Berlusconi
Retroscena di una stagione: Di Pietro e il suo cenacolo
Congresso Idv: i populisti lanciano un’opa su ciò che resta della sinistra
La sinistra giudiziaria
La farsa della giustizia di classe
Processo breve: amnistia per soli ricchi

Ho paura dunque esisto
Dipietrismo: malattia senile del comunismo?
Giustizia o giustizialismo, dilemma nella sinistra
Il populismo penale una malattia democratica
Badiou, Sarkozy il primo sceriffo di Francia in sella grazie alla doppia paura
Curare e punire
Il governo della paura
Genesi del populismo penale e nuova ideologia vittimaria
Populismo penale, una declinazione del neoliberismo
L’indulto da sicurezza, il carcere solo insicurezza
Come si vive e si muore nelle carceri italiane
Prigioni i nuovi piani di privatizzazione del sistema carcerario
Carceri private il modello a stelle e strisce privatizzazioni e sfruttamento
Le misure alterantive al carcere sono un diritto del detenuto
Sprigionare la società
Desincarcerer la société
Carcere, gli spettri del 41 bis
Carcerazioni facili, dopo le proteste torna in carcere. Aggirate le garanzie processuali

Nel paese del carcere facile, il Corriere della Sera s’inventa l’ennesima polemica sulle scarcerazioni rapide


La ragnatela di Anemone e la lista che fa paura

L’inchiesta resta a Perugia. Il restroscena sul ritrovamento della lista dei “clienti” della cricca

Paolo Persichetti
Liberazione 15 maggio 2010

Mentre piovono un po’ da tutte le parti le smentite da parte di chi ha visto il proprio nome comparire nella “lista Anemone”, il promemoria ritrovato nel computer del costruttore figura centrale della “cricca” che lucrava grazie all’assegnazione di appalti concessi in deroga, vengono alla luce le circostanze che hanno portato al suo ritrovamento.
Era il 14 ottobre del 2008, e la lista di nomi più bollente d’Italia venne rinvenuta quasi per caso nel corso di un controllo fiscale di routine condotto dal commando provinciale della Guardia di finanza di Roma. In proposito esiste anche una intercettazione della segretaria, Anna, che allarmata telefonava al suo «capo» avvertendolo di quanto era successo: «Sembrerebbe, da quello che sono riuscita a vedere perché mi sono messa lì vicino con una scusa, che stampavano gli elenchi di personale vecchio, lavori, ‘ste cose qua». Sulla diffusione della lista 18 mesi dopo il suo rinvenimento, lista che sembra fosse sconosciuta alla procura di Perugia ed a quella di Roma, che ha diffuso ieri per nome del suo procuratore capo una nota nella quale afferma di non averne mai ricevuto copia (un modo per dire, «non siamo stati noi a renderla pubblica»), esistono anche dei retroscena.
Quello proposto da Franco Bechis su Libero evoca un scontro interno alla Guardia di finanza. Un regolamento di conti tra il generale Emilio Spaziante e Andrea De Gennaro, fratello dell’ex capo della polizia Gianni, rimosso poco tempo fa dalla direzione del comando provinciale della Capitale. Tra Spaziante, vicino all’ex capo del Sismi Pollari e al comandante generale Roberto Speciale (quello della guerra con Visco e delle spigole comprate con l’aereo), e Giovanni De Gennaro, capo dei Servizi interni, suo acerrimo rivale e fratello di Andrea, non sarebbe mai corso buon sangue. Da qui la vendetta contro il fratello finanziere che avrebbe innescato la reazione a catena che avrebbe portato alla diffusione della lista sugli organi di stampa.
Per nuocere a chi? Non si capisce bene. Il danno è bipartizan: nella lista ci sono decine di indirizzi pubblici e privati di ufficiali della Finanza, e sono indicati i lavori realizzati nelle caserme del corpo, al tempo stesso compaiono i nomi di Gianni De Gennaro, Antonio Manganelli e Nicola Cavaliere, come i lavori svolti per la polizia e il ministero dell’Interno. Retroscena a parte, un problema serio per la Guardia di finanza è rappresentato dalla posizione dell’ufficiale Francesco Pittorru, attualmente in forza nei Servizi, che sembra sia stato incastrato dallo stesso Anemone. I legali dell’imprenditore hanno smentito, tuttavia lo 007 pare che si sia trovato in difficoltà nel dimostrare l’origine degli assegni ricevuti dall’architetto Zampolini, al quale Anemone aveva delegato le operazioni di compravendita degli appartamenti da regalare a politici e funzionari sospettati di esser coinvolti nel sistema d’assegnazione fraudolenta degli appalti speciali. Sulle spalle di Pittorru gravano sospetti sull’origine dei due appartamenti ricevuti al centro di Roma e su tre ristrutturazioni realizzate da ditte di Anemone. Quello che viene fuori dalle inchieste in corso, sia a Perugia che a Firenze, è la ragnatela delle relazioni intessute dall’imprenditore e dal suo ispiratore, il potente gran comis dei lavori pubblici Balducci. Nel 2003, a soli 32 anni, grazie a Balducci, Anemone è proiettato nel giro delle commesse speciali. Ottiene fino al 2008 412 lavori. Grazie al Nos, il nulla osta sicurezza, ottiene tutti i pass necessari per lavorare nei ministeri sensibili: Interni, Difesa, Servizi, Presidenza del consiglio. Sotto la gestione Lunardi e Scajola, via il supertecnico Incalza, ottiene appalti come la costruzione del carcere di Sassari e i ripetuti interventi nel minorile di Casal del Marmo. Non lo ferma più nessuno. Con Bertolaso alla Protezione civile fa il botto. Ai tempi di Tangentopoli era stato coniato il termine di «corruzione ambiente». Da allora, nonostante il ciclone di Mani pulite e il presenzialismo giudiziario abbiamo mutato radicalmente il volto della politica, nulla è cambiato. Da sistemica la corruzione è divenuta molecolare. Giustizialismo e populismo hanno giovato solo a se stessi. C’è un’ambigua simbiosi che sorregge corruzione e retorica dell’anticorruzione. Intanto la sinistra ne muore. Sarebbe tempo di aprire una profonda riflessione.

Link
Nella lista di Anemone l’intero establishment: lavori o favori?
Il magistrato e la lobby dei generali
Luigi Bisignani &co, il potere opaco che divora l’Italia

Mario Tronti, 12 marzo 2010: «Sciopero generale contro l’attacco ai diritti del lavoro»

Intervista a Mario Tronti, presidente del Centro per la riforma dello Stato

Paolo Persichetti
Liberazione 7 marzo 2010

Che fare? L’eterna domanda di sempre si ripropone di fronte alla sfacciata manovra del governo Berlusconi e del padronato che con la legge 1167-B sono riusciti ad aggirare l’intero sistema dei diritti del lavoro costruito negli ultimi decenni del Novecento, in particolare in quegli anni 70 che furono anni di libertà ed emancipazione. Potremmo dire che l’ultimo capitolo degli anni 70 rimasto ancora aperto è stato chiuso con il voto del Senato di lunedì scorso. Ma questo esito arriva davvero così imprevisto? La domanda è strettamente legata al che fare, soprattutto nel momento in cui giungono le prime critiche sull’insufficiente reazione dell’opposizione. Rifondazione aveva già predisposto dei quesiti referendari in attesa che la nuova normativa assumesse una veste definitiva. Il giuslavorista PierGiovanni Alleva ne ha spiegato su queste pagine i presupposti tecnici. Non solo, ma i giuristi del lavoro attendono al varco la nuova legge per sollevare eccezione d’incostituzionalità alla prima vertenza. Ma tutto questo è sufficiente? La discussione è aperta: per Sergio Cofferati la via del referendum è un’arma spuntata. A fronte dell’enorme sforzo di mobilitazione per la raccolta delle firme è ormai fin troppo facile condizionare l’elettorato affinché non si mobiliti inficiando così, attraverso il mancato quorum, il voto finale. L’ex segretario della Cgil propone la strada della proposta di legge d’iniziativa popolare come leva tribunizia per informare e mobilitare i lavoratori e le loro famiglie, suscitando così una forte reazione di massa. La Cgil fino ad ora è parsa poco reattiva. Colpiti dalla crisi i lavoratori si arrampicano sui tetti per difendere disperatamente i posti di lavoro. Mai come oggi la forza lavoro appare vulnerabile e indifesa. «Governo e padronato – spiega Mario Tronti – registrano un grande momento di debolezza del movimento sindacale. Le confederazioni sono divise, la Cgil isolata, i lavoratori sulla difensiva. Siamo di fronte ad un affondo della politica del governo, un attacco mascherato che stavolta, come dice Luciano Gallino, invece che sparare con le Corazzate sui diritti dei lavoratori sta utilizzando i sottomarini».

Che fare, allora?
Intanto hanno ragione quelli che hanno denunciato il ritardo della Cgil e dei partiti del centrosinistra. A parte i diversi rimedi (referendum, eccezione di costituzionalità), nell’immediato la cosa più importante è la reazione da costruire subito. La Cgil deve modificare i contenuti dello sciopero generale previsto per il 12 marzo. Quanto è accaduto cambia il senso della mobilitazione. La Cgil deve registrare questo passaggio chiamando i lavoratori ad opporsi alla controriforma del diritto del lavoro. Occorre correggere e drammatizzare questo momento anche per conquistare i lavoratori delle altre confederazioni. Vanno denunciate con durezza le scandalose posizioni di Uil e Cisl.

Ormai anche la destra ha una certa presa sul mondo del lavoro. Penso alla Lega nelle fabbriche del Nord ma anche alla destra sociale. Sarebbe interessante sentire cosa ha da dire sulla questione una candidata come la Polverini.
Il rapporto con le altre forze sindacali non può essere sempre di vertice ma deve rivolgersi all’intera forza lavoro, alla base, indipendentemente dall’appartenenza organizzativa. Siamo di fronte ad un punto di passaggio molto serio. Per questo bisogna arrivare a far percepire quanto rischiosa sia sulla pelle delle persone, sul proprio futuro e la propria vita, l’idea dell’arbitrato che cade in mano a figure disposte a soluzioni vicine all’interesse padronale e non dei lavoratori. Questo è un tema che fa breccia. Serve un appello al partito democratico perché si dia una mossa. Questa legge colpisce una parte importante del suo elettorato. Deve prendere posizione e uscire dalla propria ambiguità.

Ma il Pd si mostra una forza politica sempre più estranea alle tematiche sociali?
Bisogna stanarli, prendere alcune iniziative. Stiamo elaborando con il “Tavolo del lavoro”, una struttura del Crs, un appello in appoggio dello sciopero generale. Chiamiamo anche le forze intellettuali e politiche a una convocazione il giorno precedente. In questo momento ci si deve stringere intorno alla Cgil, che resta l’elemento di resistenza, e nello stesso tempo spingerla a una maggiore aggressività che la fase richiede. Sono convinto che esistono le condizioni. Il disagio nel mondo del lavoro è molto forte. Non è possibile che gli operai si trovino utilizzati solo come soprammobili sul palco di Sanremo. Serve un nuovo richiamo alla società civile in generale per ridare visibilità al tema del lavoro. Questione molto più importante dell’oscuramento per un mese dei talk show. E’ evidente che va introdotta una diversa gerarchia dei problemi individuando le contraddizioni centrali. C’è un problema di orientamento politico che i grandi partiti hanno perso.

Non è forse un effetto del paradigma totalizzante dell’antiberlusconismo? Il discorso legalitario e giustizialista si sovrappone alla questione sociale sollevando un problema di egemonia culturale che disarma i lavoratori.
Sostengo da sempre che l’antiberlusconismo è una cosa che finisce per occultare i problemi veri del paese e delle persone in carne e ossa, della quotidianità difficile di chi lavora. Alla fine rischia di nascondere le contraddizioni reali, anche del campo avverso. Bisogna fare breccia nelle persone reali che sono implicate molto più da questi temi e molto meno dei problemi della par condicio.

Link
1970, come la Fiat schedava gli operai
Ferrajoli, “Incostituzionale l’arbitrato preventivo previsto nella controriforma del diritto del lavoro”
Alleva: “Pronto il referendum, questa legge è anticostituzionale”
“Cara figlia, con questa legge non saresti mai nata”
Cronache operaie

Congresso Idv: i populisti lanciano un’Opa su ciò che resta della Sinistra

Di Pietro alla ricerca della legittimazione democratica s’inventa dopo 12 anni un congresso largamente blindato in partenza. L’uomo dei vizi privati e delle pubbliche virtù cerca di sbancare ciò che resta a Sinistra.
E la Sinistra si inchina

Paolo Persichetti
Liberazione 6 febbraio 2010

Ormai ridottosi a partito fantasma, rimasuglio di lobby, potentati locali, combriccole, senza una strategia, il Pd è costretto a cercare l'abbraccio di Di Pietro per non perdere una base cresciuta a pane e giustizialismo. Il mito dell'azione penale, della funzione salvifica della magistratura, presentano alla fine il conto. La bancarotta culturale, l'asservimento all'ideologia giustizialista e al peronismo dipietrista. Prc, Pdci e Sinistra ecologia e Libertà che speravano nella nascita di un fronte peronista radicale restano a bocca asciutta. Amanti rifiutate, cornute e mazziate

Dodici anni sono passati da quando il 21 marzo 1998 Antonio Di Pietro fondò l’Italia dei valori. Da allora il movimento politico di cui è sempre stato il presidente-padrone dotato di poteri assoluti non ha mai affrontato un congresso. Più che un partito è stato una specie di Spa, una piccola matrioska che nascondeva al proprio interno il segreto di famiglia, il sodalizio tra l’uomo di Montenero di Bisaccia, sua moglie e Silvana Mura, l’inossidabile tesoriera. «Tutto gira in una sorta di associazione “clandestina” – ha ricordato in una intervista rilasciata pochi giorni fa Elio Veltri, stretto collaboratore dell’ex pm e suo ghostwriter fino al 2001 –  fondata da tre persone, nella quale si può entrare solo con il placet di Di Pietro ma, appunto, davanti ad un notaio». In virtù di questo singolare statuto, Di Pietro è il titolare esclusivo della ripartizione dei finanziamenti, della supervisione sugli iscritti, della composizione delle liste elettorali. Nelle sue mani risiede la chiave che consente il cambiamento dello statuto. Insomma un castello fortificato non certo una comunità partecipata. Secondo gli idealtipi della sociologia weberiana si tratta di una classica formazione politica fondata sul potere carismatico del suo leader, improntata al più genuino populismo. In altri tempi, nel Novecento, sarebbe stato catalogato come un movimento politico “predemocratico”. Tuttavia c’è sempre una prima volta per tutti. E così, anche se con grave ritardo, questo movimento ha cominciato timidamente ad aprirsi in direzione della dialettica interna. Ieri si è tenuta presso il Marriot Park Hotel di Roma, vicino all’aeroporto di Fiumicino, la prima assise nazionale del partito. Slogan d’apertura: «L’alternativa per una nuova Italia». I lavori si concluderanno domenica. Tuttavia parlare dell’avvio di un percorso di trasparenza e normale vita partecipativa resta un grosso azzardo, anche se fornire la sensazione della «svolta» è l’obiettivo di questo primo congresso: liberarsi della vecchia immagine personalistica, offrire l’idea di una formazione finalmente democratica, partecipata, aperta alla società. In realtà le modifiche statutarie introdotte sono assolutamente minime, l’Italia dei valori resta proprietà privata di Di Pietro. Si tratta solo di un adeguamento dovuto alla “crisi di crescita” che il movimento ha riscontrato negli ultimi anni, soprattutto dopo la frantumazione della sinistra. In sala erano presenti 3.607 delegati, in rappresentanza di quasi 100 mila iscritti (secondo i dati forniti e che sarebbero raddoppiati nell’arco di un anno) e di 24 deputati, 12 senatori, 7 europarlamentari. Soprattutto il congresso si apre sull’onda di sondaggi molto favorevoli che consoliderebbero per le prossime elezioni regionali l’8% conquistato nelle elezioni europee di un anno fa. Dichiarazioni di voto che hanno spinto alcuni esponenti di punta dell’Idv, come il pm Luigi De Magistris, eletto come indipendente con un numero di voti superiore a quello dello stesso Di Pietro e ritenuto lo sfidante potenziale, ad avanzare l’obiettivo del 10% nell’ottica di un allargamento verso Rifondazione, SeL, noglobal e “popolo viola”. Non a caso all’apertura dei lavori hanno partecipato tutti gli attuali segretari di partito della sinistra, da Pierluigi Bersani a Paolo Ferrero, da Nichi Vendola al segretario della Cgil, Guglielmo Epifani. Una delle decisioni finali del congresso dovrebbe essere quella di togliere il nome di Di Pietro dal simbolo per segnalare che la fase della personalizzazione del partito sarebbe finita. La sostanza della discussione dovrebbe portare, invece, sulle alleanze da costruire e sulla scelta dei territori politici sui quali estendere l’influenza dell’Idv: verso il Pd  o più a sinistra? Uomo di destra, portatore di valori ultramoderati, Di Pietro ha sfoderato tutto il cinismo politico possibile invadendo i territori tradizionali della sinistra popolare e operaia, allargando i temi d’intervento politico, modificando il linguaggio, prestando attenzione non più solo ai temi della legalità ma anche alle questioni sociali sociali e ambientali, alla crisi economica, ai licenziamenti che stanno colpendo i posti di lavoro. Un uomo chiave di questo restyling “operaista” è stato Maurizio Zipponi, già segretario della Fiom di Brescia, uscito da Rifondazione, che gli ha aperto la via nelle roccaforti operaie del nord.  De Magistris, che non sembra avere fretta, all’apertura dei lavori ha subito indicato che voterà la mozione del presidente facendo capire però che lui rappresenta il futuro. Scontato a questo punto l’esito finale del congresso. Nonostante tutto il deputato campano Francesco Barbato si è candidato alla segreteria con un documento che sostiene una «diversa visione del partito costruita su un movimento civico dal basso», senza «i signori delle tessere, la parentopoli dell’Idv, con incarichi a parenti in linea diretta, discendenti e ascendenti, intere famiglie per non dire clan che si sono accasati nell’Idv con doppi e tripli incarichi». Posizione che echeggia il durissimo attacco venuto dalle pagine di Micromega lo scorso settembre con un’inchiesta devastante che metteva in luce un partito di eletti costituito da lobby, cacicchi locali, capibastone. Un sottobosco che ricorda il ceto politico giolittiano del primo Novecento che Salvemini non aveva esitato a definire «malavitoso». Un partito fatto di notabili «a cui mai darei la mano», dice Barbato e segnalano documentatissime inchieste, ma ciò non scalfisce l’immagine di un Di Pietro immacolato difensore delle virtù pubbliche. E’ singolare che la sinistra radicale lo rincorra con l’unico risultato di lasciarsi assorbire, abbandonando alla destra il dovere della battaglia. Una destra un po’ ingrata che deve a Di Pietro e “Mani pulite” lo sdoganamento politico che le ha aperto l’autostrada del potere.

Link
Di Pietro: “Noi siamo la diarrea montante”
Retroscena di una stagione: Di Pietro e il suo cenacolo
La sinistra giudiziaria
Dipietrismo: malattia senile del comunismo?
Genesi del populismo penale e nuova ideologia vittimaria
Populismo penale, una declinazione del neoliberismo
Populismo penale

Avanza il populismo di sinistra

Dipietrismo, malattia senile del comunismo?

Paolo Persichetti
Liberazione-Queer
19 ottobre 2008

Nel 2001 l’Italia dei valori, la sigla politica di cui Antonio Di Pietro è proprietario, aveva mancato per pochi voti il quorum. Impresa che invece è  59-queer-dipietro11 riuscita nelle politiche dell’aprile scorso, quando l’Idv ha raggiunto il 4,4% su scala nazionale, con punte molto significative nel feudo storico dell’ex pm, il Molise, dove il logo di famiglia ha conquistato il 27%. Un risultato di gran lunga superiore a quello del Pd, fermo al 17%. In Abruzzo è arrivato al 7,1% nelle liste del senato mentre gli ultimi sondaggi delineano addirittura la possibilità di un raddoppio del bottino elettorale. Su scala nazionale tutti gli indicatori attuali segnalano una ulteriore progressione, che alcuni quantificano intorno a una forbice che oscilla tra il 6 e l’8%. La scomparsa della sinistra radicale, marxista e antagonista dalla rappresentanza parlamentare ha ulteriormente amplificato la portata politica di questo successo, garantendo a Di Pietro l’apertura imprevista di uno spazio politico enorme. La politica ha orrore del vuoto e così Di Pietro è subito corso a riempirlo. Mera logica del mercato politico, tanto più quando l’avventura dipietrista è ispirata da ragioni d’imprenditoria politica ovvero di chi costruisce la propria offerta sulla base della domanda che gli si pone davanti, dove idealità, valori, cultura, concezione del mondo, progetti globali di società non esistono o hanno un profilo molto basso e strumentale. E bene Di Pietro non si è lasciato sfuggire questa opportunità e così l’incubo del populismo giustizialista s’addensa sui territori un tempo occupati dai partiti del movimento operaio.
Questa preoccupante novità è il rivelatore di una mutazione più profonda che da oltre un quindicennio erode la base sociale e la conformazione ideologico-politica del «popolo di sinistra». A livello di massa si è operata una lenta trasmutazione della cultura politica, dell’universo valoriale e dei modelli d’azione tipici che appartenevano alla storia del movimento operaio. Le tradizionali dinamiche protestatarie e contestatarie, la coesistenza d’ipotesi riformiste per un verso o di spinte antisistema nell’altro, hanno via, via lasciato il passo a sentimenti antipolitici, lasciando emergere un qualunquismo di tipo nuovo, il qualunquismo di sinistra. Una conseguenza di questa deideologizzazione è stato il passaggio da forme di discorso più strutturate al prevalere di stati d’animo, di pulsioni volatili, incerte, confuse che possono variare dall’antipolitica tradizionale, alla critica verso il deficit di rappresentatività dei partiti d’opposizione, ai panegirici sulla società civile incontaminata, luogo del giusto e del vero, alla richiesta nei confronti della magistratura di sostituirsi alle forze politiche. Posizioni che trovano una sintesi in un antiberlusconismo che è etico prim’ancora d’essere politico. Una rivolta populista che ricorda alcuni tratti del «diciannovismo», quando a scendere in campo erano i ceti della piccola borghesia con parole che denunciavano la plutocrazia del capitale e il riformismo imbelle.
A ben vedere l’attuale qualunquismo di sinistra esprime una composizione sociale mutata. L’anima operaia e i ceti più bassi guardano al modello leghista: un populismo che rielabora accenti del poujadismo e del boulangismo, si incentra sul vittimismo fiscale, la polemica contro i costi dell’assistenzialismo statale e l’inefficienza dei servizi pubblici, l’ostilità razzista verso l’immigrazione, la preferenza etnica. Il fenomeno dei Girotondi e le piazze elettroniche grilline raccolgono quello che è stato definito «ceto medio riflessivo», secondo una formula coniata senza intenzioni umoristiche dallo storico Paul Ginsborg, che riprendeva un’espressione del guru della «terza via» Anthony Giddens. Anche qui l’innovazione delle forme di mobilitazione è mirata a marcare nettamente la propria differenza dai tradizionali cortei e dalle manifestazioni tipiche della sinistra politica, del movimento operaio, delle forze sindacali.
Di Pietro, il campione della «rivoluzione giudiziaria» mai riuscita, l’uomo di destra che ha spianato la strada del governo alle destre, si candida a coalizzare questa «sinistra moralista». Ripetute sono le voci che parlano della possibilità di una federazione elettorale che raccolga le liste civiche di Grillo, i Girotondi irriducibili di Pancho Pardi e Paolo Flores D’Arcais, la componente ulivista del Pd guidata da Parisi. Altre indiscrezioni raccontano della possibilità che venga fuori anche un giornale che dia voce a tutto ciò, realizzato mettendo insieme la “fabbrica Travaglio”, l’industria editoriale che ruota attorno al giornalista, all’editore di Chiarelettere Fazio e che dovrebbe avvalersi di alcune grandi firme transfughe dell’Unità . Probabilmente queste voci vengono diffuse ad arte per sondare il terreno, vedere se l’idea riscontri successo. Certo è che un’ipotesi del genere necessita ancora di alcune verifiche: le elezioni abruzzesi e poi la scadenza europea. Ma se l’avventura raccogliesse i necessari consensi elettorali probabilmente ogni prudenza verrebbe meno.
Descritto negli studi sull’argomento (molto pochi) come «espressione di un populismo allo stato puro», di fronte alla prospettiva di una definitiva consacrazione Di Pietro ha cominciato ad adattare il suo discorso politico per renderlo meno monotematico, introducendo timidi accenni alle questioni sociali. Nel pieno della vertenza Alitalia, il giorno in cui la trattativa dei sindacati con la Cai è precipitata, ha arringato nelle vesti di un consumato agit-prop, piloti e personale di terra promettendo giustizia, non sociale ma penale. «Li processeremo tutti» è stato il suo messaggio, per poi approvare l’accordo. Silenzio sui licenziamenti, il mancato rinnovo dei contratti per i precari, il taglio drastico degli stipendi. Il rimborso simbolico di una galera per i manager che mai verrà è il pane con cui sfamare chi lavora. Nutritevi di risentimento e vivrete meglio. Un banchetto per la raccolta delle firme in favore del referendum contro il lodo Alfano era presente sul tragitto del corteo nazionale dei Cobas, Rdb e Cub, tenutosi durante lo sciopero generale di venerdì scorso. L’importante è diventare compatibile, farsi accettare, lui, l’uomo dell’opposizione alla politica professionale, il «nemico dei riciclati e degli inquisiti», quello del «legame indissolubile tra etica e politica», fonte battesimale della legalità che può separare gli «onesti dai disonesti» e un tempo censurava la «propensione a delinquere degli albanesi».
Di Pietro è il presidente-padrone di un partito che non c’è. Non un partito-azienda come quello berlusconiano, ma un partito formato famiglia, un partito da camera da letto, suo e di sua moglie. In perfetto stile Seconda repubblica, ultraleggero, ma costruito come una specie di Spa quotata in borsa, una piccola matrioska che cela al proprio interno il segreto. Recita l’articolo 2 dello statuto: «L’associazione Italia dei Valori – composta da Antonio Di Pietro, la moglie e la tesoriera Silvana Mura – promuove la realizzazione di un partito nazionale». L’articolo 10 precisa: «La presidenza nazionale del partito spetta al presidente dell’associazione», ovvero Antonio Di Pietro. L’uomo anticasta, quello della «democrazia riconsegnata ai cittadini» ha messo in piedi il partito personale, lo scrigno riservato. La politica per Di Pietro non è il luogo di una comunità partecipata. Si celebrano i congressi regionali, si eleggono persino dei delegati ma non si decide nulla perché, come accade per Forza italia, non si tengono congressi nazionali. Ogni decisione è in mano al sovrano-proprietario-presidente che si avvale tuttalpiù di qualche suo fidato consigliori di fiducia. Uno di questi, Elio Veltri, suo gostwriter fin dalle origini della sua entrata in politica, estensore di manifesti, discorsi, articoli, vero ideologo del dipietrismo, se n’è andato disgustato accusandolo di razzolare molto male, di essere lo specchio di quella casta della politica che ha perseguito come pm e dileggia come politico, fino a non disdegnare le tradizionali pratiche della politica clientelare. Insomma la vecchia storia dei vizi privati e delle pubbliche virtù.
Nonostante ciò Di Pietro ha successo, sfonda a sinistra, il suo sgangherato italiano sembra un irresistibile canto delle sirene per gli elettori delusi e indignati. Suscita simpatie anche nei militanti, persino in alcuni quadri dirigenti. Siamo allora destinati a morire tutti dipietristi oppure riusciremo a trovare la strada per venire fuori da questa sciagura che sta travolgendo ciò che resta della sinistra?
Ma dove sta la soluzione? Nel tatticismo senza respiro di chi propone di mutuarne linguaggi, atteggiamenti, trovate referendarie, pensando che possa essere una salvezza rivaleggiare sullo stesso terreno della demagogia e del risentimento? Nella subalternità culturale e ideologica di chi non vede che dietro il mito della giustizia penale c’è il cimitero della giustizia sociale? Di chi lascia irresponsabilmente credere che l’illegalismo sistemico delle élite possa essere contrastato dalla magistratura senza pervenire a delle modifiche strutturali? Di chi attribuisce qualità salvifiche al potere giudiziario rinunciando alla critica dei poteri? Di chi addirittura dissotterra l’eticismo berlingueriano per trovare una coerenza ideologica che ricolleghi idealmente il dipietrismo con la nefasta e fallimentare stagione valoriale del compromesso storico, quella dell’austerità seguita poi dalla questione morale? Ma non fu Di Pietro, con la sua inchiesta sulle tangenti distribuite per i lavori nella metropolitana milanese, che distrusse il mito della diversità dell’amministratore comunista forgiato da Berlinguer? Il (simpatico) compagno Greganti docet?
Trasformare le piazze in enormi banchi delle parte civili, dove le lotte sociali, sindacali e politiche si troverebbero declinate con gli ultimi ismi in circolazione, non più quello del comunismo ma del populismo e del vittimismo, darebbe il colpo di grazia finale a quel po’ di speranze nella trasformazione sociale che restano.

Giustizia o giustizialismo? Dilemma nella Sinistra

Il giustizialismo è ormai diventato un potere come gli altri, con un suo preciso ordine del discorso teso ad aizzare le masse contro un sovrano per creare consenso verso un altro sovrano

Anna Simone
L
iberazione Queer 19 ottobre 2008


Tra gli effetti perversi di ciò che alcuni denominano come crisi dello stato di diritto e altri come fine del medesimo vi sono almeno due fenomeni degni di una seria riflessione: da una parte il rafforzamento dei poteri esecutivi e 59-queer-dipietro2 amministrativi tesi a criminalizzare la cosiddetta “marginalità sociale” a colpi di decreti e ordinanze amministrative (contro accattoni, lavavetri, prostitute, trans etc.); dall’altra un processo di trasformazione delle cosiddette teorie della giustizia in giustizialismo. Ovverosia in quell’ideologia politica post-garantista che tende a vedere nel legalismo e nel contenimento del rafforzamento del potere esecutivo l’unica forma di politica possibile. Ci riferiamo, evidentemente, al successo del dipietrismo-travaglismo e al buon esito di consenso mediatico e non che essi riescono ad avere. L’ossessione giustizialista, però, spesso declinata come anti-berlusconismo, non sempre, per non dire mai, riesce ad attraversare anche gli ambiti del garantismo “per tutti” e quindi si traduce in un potere che non distingue i soggetti coinvolti nella dinamica. Non distingue cioè l’ingiustizia sociale, trasformatasi ormai in politica penale contro gli ultimi, dallo scontro ormai titanico tra potere esecutivo e potere giudiziario. Di conseguenza passano quasi inosservati i “pentitismi” sull’indulto, i no secchi all’amnistia, il totale silenzio sulla persecuzione nei confronti di migranti, prostitute e quant’altro, l’avallo incondizionato dato nei confronti di qualsiasi processo di criminalizzazione preventiva. In poche parole è ovvio e ragionevole che qualsiasi tentativo di rafforzamento, di potenziamento dell’esecutivo debba preoccupare tutti, ma non è altrettanto ovvio che ciò avvenga attraverso l’innalzamento virile del vessillo giustizialista. La cosiddetta teoria del bilanciamento dei poteri, sancita anche dalla costituzione, che a giusto titolo prevede oltre alla funzione legislativa ed esecutiva anche quella giudiziaria, appare in realtà sempre più sbilanciata verso un giustizialismo sommario, sino ad essere divenuta il “grande tema” della politica contemporanea di cui discutere nei vari salotti televisivi, a dispetto di chi ne paga le conseguenze reali sulla propria pelle (precari senza possibilità di accedere ad uno straccio di diritto, tossicodipendenti a cui vengono negate le misure alternative, trans rinchiusi nei cpt etc.). Prima della nascita dello stato moderno non si ha memoria di sistemi politici che differenziavano i poteri per poter giustiziare gli stessi diritti e lo stesso potere esecutivo, qualora fossero colti in flagranza di abuso, dal momento che la pubblica messa a gogna del capro espiatorio di turno riusciva a soddisfare il sadico piacere della vendetta di massa. I molti si sfogavano sull’uno ma non sul sistema accentratore e assolutistico che produceva il capro espiatorio. Poi ci sono state le rivoluzioni, a seguire è nata la democrazia nonché il potere giudiziario il quale fu posto, seppure tra mille contraddizioni e conflitti, a svolgere il ruolo terzo di controllo sul potere esecutivo e legislativo in modo tale da poter garantire una forma di giustizia attraverso l’assoggettamento alla legge financo dell’autorità politica di turno. Nacque, cioè, lo stato di diritto. Ma se da una parte la giustiziabilità del potere esecutivo avrebbe dovuto garantire il famoso principio della “legge uguale per tutti”, dall’altra i sistemi di welfare avrebbero dovuto consentire lo sviluppo di una giustizia parallela, quella sociale. Oggi, venuta a mancare quest’ultima, ci ritroviamo dinanzi ad un potere giudiziario tradotto troppo spesso in giustizialismo e in un reale abuso del potere esecutivo, ma entrambi i poteri distorti si muovono sullo stesso crinale pur essendo contrapposti: la legge non è uguale per tutti sia per gli uni che per gli altri. Perché Di Pietro è ossessionato dal lodo Alfano ma non spende parola alcuna sulle migliaia di migranti che popolano i centri di detenzione costruiti ad hoc per contenere la miseria e la disperazione del mondo? Perché i cosiddetti giustizialisti, tra cui senz’altro mettiamo anche Travaglio non aprono bocca dinanzi al decreto sulla sicurezza voluto da Maroni e poi convertito in legge che consente la carcerizzazione di massa e l’espulsione facile di migliaia di persone? Perché nessuno apre bocca sull’ipocrisia perbenista e falsamente morale del ddl Carfagna sulla prostituzione? Perché tutti oggi negano l’efficacia dell’indulto sui maggiori quotidiani italiani nonostante vi siano saggi scientifici che dimostrano il contrario (si veda a tal proposito il lavoro fatto da Antigone)? Eppure questi ultimi fenomeni ci pongono dinanzi alla crisi dello stato di diritto nel medesimo modo del lodo Alfano. Qualsiasi persona ragionevole, infatti, vedrebbe il fenomeno nel suo duplice volto se avesse un minimo di coscienza di quanto possa essere fuorviante trasformare la dea della giustizia, la bellissima Minerva, in un giustiziere monomaniaco che trasforma l’idea democratica del bilanciamento dei pubblici poteri in un meccanismo che fa di due pesi, due misure. Il giustizialismo, infatti, e non la giustizia è ormai diventato un potere come gli altri, con un suo preciso ordine del discorso teso ad aizzare le masse contro un sovrano per creare consenso verso un altro sovrano, per costruire nuove ed inedite forme di populismo difficilmente collocabili sia a destra che a sinistra. D’altronde non è un’operazione politica così difficile dati i tempi che corrono, ma non è neppure un’operazione sana perché in fin dei conti spara nel mucchio, nella mucillaggine in cui tutti siamo immersi, senza distinguere più tra i sommersi e i salvati. Nel famoso film di Nanni Moretti, Il Caimano, il sipario si chiudeva con l’immagine di un Tribunale che avrebbe salvato l’Italia. Il dipietrismo, con il supporto della lingua biforcuta e scaltra di Travaglio, cerca di trasformare questa immagine in una forma della politica contemporanea, ma sia anche chiaro a tutti che il rovescio di questo fenomeno non risiede nel ripristino di un diritto per tutti. Tutt’altro. Risiede nella tendenza contemporanea dei poteri di trasformare tutto ciò che toccano in politica penale, come se tutti ormai stessimo in una nuova e gigantesca gogna mediatica. Sarà per questo che Di Pietro “tira”, come si dice in gergo?

Link
Ho paura dunque esisto
Dipietrismo: malattia senile del comunismo?
Il populismo penale una malattia democratica
Badiou, Sarkozy il primo sceriffo di Francia in sella grazie alla doppia paura
Curare e punire
Il governo della paura
Genesi del populismo penale e nuova ideologia vittimaria
Populismo penale, una declinazione del neoliberismo