Stronzi con la scorta

Scontento perché il figlio non sa sparare, Saviano senior porta il pargolo ad addestrarsi nell’uso della pistola. Soddisfatto della prova gli regala un pallone con la faccia di Maradona. La scena si svolge sul litorale domizio, al Villaggio Coppola dove sorgeva uno dei più grandi mostri d’abusivismo edilizio d’Europa. La spiaggia è un cimitero colmo di spazzatura e vecchie ferraglie arrugginite. Bersaglio due bottiglie di Peroni sul tetto di una 127 bruciata. L’arma è una Beretta 92Fs, versione civile della pistola in uso alle forze di polizia di mezzo mondo che l’autore descrive così: «Era tutta graffiata, sembrava brizzolata, una vecchia signora pistola. Tutti la conoscono come M9 non so perché. La sento sempre citare con questo nome: “Ti metto una M9 tra gli occhi, devo cacciare l’M9? Cavolo, mi devo prendere un M9”. Mio padre mi mise in mano la Beretta. La sentii pesantissima. Il calcio della pistola è ruvido, sembra di carta vetrata, ti si appiccica nel palmo e quando ti sfili la pistola di mano sembra quasi che ti graffi con i suoi microdenti. Mio padre mi indicava come togliere la sicura, armare la pistola, stendere il braccio, chiudere l’occhio destro se il bersaglio era a sinistra e puntare»

Dopo gli spari segue un dialogo in cui si filosofeggia sull’ontologia umana:

“Robbé, cos’è un uomo senza laurea e con la pistola? ”
“Uno stronzo con la pistola.”
“Bravo. Cos’è un uomo con la laurea senza pistola?”
“Uno stronzo con la laurea…”
“Bravo. Cos’è un uomo con la laurea e con la pistola?”
“Un uomo, papà!”
“Bravo, Robertino”

L’episodio è evidenziato da Alessandro Dal Lago a pagina 61 del suo, Eroi di carta, il caso Gomorra e altre epopee, Manifestolibri 2010.
La scena si trova alle pagine 185-187 di Gomorra, Mondandori 2006, prima edizione

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Alessandro Dal Lago: “La sinistra televisiva? Un berlusconismo senza Berlusconi”

“Non si scherza con i santi”

Roberto Santoro
L’Occidentale Web, 8 Dicembre 2010


Mesi fa avevamo intervistato il sociologo Alessandro Dal Lago su “Eroi di carta”, un piccolo ma deflagrante pamphlet su Roberto Saviano. Nel frattempo l’autore di “Gomorra” è sbarcato in televisione con Fabio Fazio, come pure di novità, nello scenario politico nazionale, ce ne sono state tante. Così abbiamo pensato di risentire il professor Dal Lago, un uomo di sinistra che alla sua parte politica, come pure al governo e ai mezzi di comunicazione di massa, non ne lascia passare una. Abbiamo scoperto che i nostri dubbi su “Vieni via con me” non erano così infondati: mentre i giovani vanno in cerca di eroi come Saviano, e gli uomini politici si atteggiano a grandi moralizzatori, sono in pochi ad accorgersi dei rischi finanziari che corre l’Italia in un momento di grande incertezza politica.

Professor Dal Lago, com’è andata con “Eroi di Carta”?
E’ uscita da poco una seconda edizione del libro, con una postfazione intitolata “Non si scherza con i santi. Una postilla sul declino dello spirito critico in Italia”.

San Saviano?
Sono intervenuto sulle polemiche successive alla pubblicazione del saggio. La postilla è un testo che risale allo scorso luglio e che in parte mi è servito come ponte per la ricerca che sto preparando adesso, un lavoro sulla “sinistra televisiva”.

Saviano da eroe di carta a eroe catodico.
Francamente, non m’interessa più parlare di lui. Ormai è un personaggio codificato nel ruolo dello showman. D’altra parte, anche il mio libretto non era un attacco al personaggio, ma una riflessione su certi meccanismi mediali e letterari.

Era meglio lo scrittore?
In televisione la resa di Saviano non è stata granché, come hanno osservato anche alcuni critici televisivi. La tv non è il suo mezzo, mi è parso molto ingessato.

Ha attaccato la Camorra.
Tutto quel parlare sulle origini mitologiche della Camorra, come se fosse chissà quale rivelazione… informazioni che si trovano ovunque, basta aprire Wikipedia, se non si ha voglia di leggere un libro di uno storico serio.

Eppure “Vieni via con me” ha fatto oltre il 30 per cento di share, sorpassando il “Grande Fratello”.
Nello show è emerso come vero regista della liturgia Fabio Fazio, è lui il nuovo grande cerimoniere della televisione italiana. Vespa mi sembra al tramonto.

Qual è la sinistra televisiva, quella dei salotti?
I salotti di sinistra non esistono più, erano una roba degli anni sessanta e settanta. Ha presente “La terrazza” di Scola?

Sì, ma adesso cosa c’è al loro posto?
Direi che la sinistra televisiva è quella che pensa di creare consensi con un mezzo, la tv, che per tanto tempo è stata governata dal modello berlusconiano. Un berlusconismo senza Berlusconi. L’audience a cui mira Fazio è un pubblico particolare, un elettorato che voterebbe per il Pd ma è affascinato da Fini e magari non disdegna Casini. Un pezzo di “società civile”, fluttuante, giovanile, delusa, contraria al governo, anche se credo si tratti in fondo di una minoranza.

Parliamo dei politici invitati a “Vieni via con me”.
E’ un discorso che riguarda la comunicazione politica tradizionale: la tv impone certe regole a cui i politici debbono adeguarsi; così, tutto si equivale. Restano le contrapposizioni puramente formali, non i contenuti o le idee. “Vieni via con me” aggiunge un aspetto inedito: il piccolo schermo vince sulla politica.

In che senso?
I politici si subordinano a un copione già scritto, che non è il loro, sotto lo sguardo tra l’ironico e compunto di Fazio. Penso agli “elenchi” di Fini e Bersani, al ministro Maroni che prima attacca Saviano e poi va ospite in trasmissione e legge il suo elenchino di successi, subordinandosi anche lui al frame mediatico.

Cosa c’è di così pericoloso?
Stiamo assistendo a un processo di desemantizzazione del linguaggio politico. Ho riletto gli “elenchi” recitati dagli ospiti durante lo show e in particolare quelli di Bersani e Fini, che mi sembrano, se non proprio uguali, complementari… L’aspetto più preoccupante di questo fenomeno è l’adesione giovanile verso dei miti ingenui e naif. Il riconoscimento, l’identificazione del pubblico in questo o quell’altro eroe televisivo, mi sembra qualcosa di profondamente irrazionale.

Nella nostra precedente intervista concludeva dicendo che i ragazzi di oggi non si accorgono dei loro problemi concreti: la casa, il lavoro. Intanto sono andati sui tetti.
Se è per questo ci sono andati anche Bersani e Granata. Trovo che il comportamento di quest’ultimo sia veramente curioso: prima sale sui tetti con gli studenti e poi vota per far passare il Dl Gelmini.

Vendola invece dice che la gestione dell’ordine pubblico nelle ultime settimane è stata “criminale”, evocando il Cile di Pinochet.
Il governatore della Puglia esagera, ma fa il suo mestiere, si infila in un vuoto lasciato dal Pd anche se non credo che alla fine ci riuscirà. Ma trovo che la polizia italiana sia spesso incapace di gestire l’ordine pubblico, questo me lo lasci dire. E che i politici contribuiscano a diffondere un’isteria radicale: gli studenti lanciano qualche uovo e subito si parla di terrorismo, “atti di inaudita violenza” secondo il Presidente Schifani e così via.

Vendola evoca l’esempio di Aldo Moro spiegando che il leader della DC impedì che il Sessantotto finisse nella repressione.
Nel Sessantotto io c’ero e le manganellate le ho viste e un paio ne ho anche prese.

Lei insegna all’università. Che ne pensa della riforma?
Trovo che aspetti teorici della riforma come l’idoneità nazionale, la chiamata diretta da parte dei dipartimenti, al limite anche il “4+4” per i ricercatori se fosse seguito da concrete possibilità di carriera – come il tenure track, cioè un percorso che porta al posto fisso -, potrebbero anche essere accettati, e in fondo c’è un buon numero di docenti che concordano.

Ma?
La questione è un’altra, i tagli voluti da Temonti e accettati dal ministro Gelmini. Personalmente sono contro i tagli (ricordo che l’Università italiana è agli ultimi posti tra i paesi Ocse per quota di finanziamenti sul Pil), contro l’ingresso dei privati nei cda degli atenei (senza che i privati versino un euro), contro l’idea che i cda divengano più importanti del Senato accademico.

Tremonti ha promesso che i fondi arriveranno.
Vado e vengo dagli Stati Uniti. Negli Usa in molte università hanno tagliato il 10% dello stipendio ai professori, presto lo farà anche Zapatero e non si capisce come si troveranno i fondi in Italia con l’aria che tira.

C’è un collegamento con “Vieni via con me”?
Mentre nel mondo parallelo della tv i ragazzi dicono “io sono Saviano” – basta dare un’occhiata ai blog – e i politici si atteggiano a moralisti catodici, autorevoli quotidiani economici come il Wall Street Journal scrivono che la situazione economica dell’Italia è sull’orlo del baratro, in un contesto in cui lo scandalo di WikiLeaks ha indebolito il premier Berlusconi davanti ai suoi alleati.

Faremo la fine della Grecia?
Gli speculatori potrebbero prendere di mira l’Italia ma il nostro mercato rappresenta una quota troppo importante di quello europeo e l’Unione non può permettersi una crisi di sistema. E’ evidente che la debolezza del governo Berlusconi non permette di gestire quel piano di austerity richiesto dall’Europa per tenere sotto controllo il debito senza deprimere troppo la crescita e i consumi. Questa mi sembra la vera cifra dell’attuale crisi, e in fondo un governo d’emergenza, diciamo, così per celia, da Letta a Tremonti a Fini e Casini, magari con ‘appoggio esterno’ del Pd, è quello che farebbe alla bisogna…

L’ha visto il sequel di Wall Street? Anche Gordon Gekko è diventato obamiano.
Gli anni ottanta furono l’epoca delle grandi speculazioni private. Stavolta l’esposizione bancaria e la crisi dei mutui americani hanno bruciato enormi ricchezze pubbliche. La speculazione attacca gli stati. In ogni caso, se l’Italia dovesse andare in default sarà l’Occidente stesso a pagarne le conseguenze.

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La libertà negata di criticare Saviano
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Buttafuoco, “Saviano agita valori e codici di destra, non regaliamo alla sinistra”

Pagliuzze, travi ed eroi

Risposta a Severino Cesari, direttore editoriale di Einaudi-Stile libero (cioè Mondadori, casa editrice di Roberto Saviano)

Alessandro Dal Lago
il manifesto 17 giugno 2010

Severino Cesari («Non prendiamocela con una fiaccola nel buio», il manifesto 11 giugno) entra nel merito del mio «pamphlet» sul fenomeno Gomorra-Saviano) e lo stronca in base ai miei errori fattuali. In sostanza, avrei riportato cose che Saviano, in Gomorra e altri testi, non dice. Da qui, evidentemente, l’infondatezza di quanto scrivo. Come è detto in una delle amabili e-mail non firmate che ho ricevuto (e che ovviamente conservo gelosamente), le mie sarebbero tutte «stupide fandonie», ecc..
Si rassicurino tutti i lettori indignati: non ho alcun problema a confessare i miei delitti cartacei. Eccone alcuni. Come Cesari mi rimprovera, è verissimo che, laddove Saviano scrive «stivaletti», io cito «stivali». Chiedo venia. Vuol dire che un giorno o l’altro, se Cesari vorrà, in un pubblico dibattito discuteremo sulla classe logica degli oggetti «calzature». Uno «stivaletto» appartiene alla classe «stivali», come io malignamente faccio intendere, o «scarpe sportive», come ritiene Cesari sulla scorta di Saviano? Il dibattito sarà senz’altro appassionante. Secondo Cesari, inoltre, ho citato affermazioni di Saviano, riportate da un giornalista, in occasione di una «manifestazione anticamorra», e avrei dovuto citare «una trasmissione televisiva». Mi dichiaro touché, dottor Cesari. Se mai il mio libretto avrà una riedizione, correggerò con «dichiarazioni anti-camorra durante una trasmissione televisiva». È soddisfatto? Lei dice anche che io attribuisco a Saviano la parola «olocausto», a proposito dei morti di camorra, mentre invece è nel titolo di un articolo a firma Dario Del Porto. Qui, temo, è lei a essere un po’ frettoloso. Infatti, io cito esattamente l’articolo in questione, con tanto di nome del giornalista (Eroi di carta, p. 25, nota 11).
Mi fermo qui, perché a me le contro-critiche di Cesari sembrano solo considerazioni notarili, allo scopo evidente di emarginare i miei argomenti, evidentemente imbarazzanti. «Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello, e non t’accorgi della trave che è nel tuo? Come puoi dire al tuo fratello: permetti che tolga la pagliuzza che è nel tuo occhio, e tu non vedi la trave che è nel tuo?». Così recita un noto passo del Vangelo, che mi sembra assai pertinente in queste discussioni, e non su stivali o stivaletti, note a pié di pagina, titoli fraintesi e qualsiasi altra «fandonia», ma sul senso di Gomorra e dei suoi effetti, sulla straordinaria figura pubblica del suo autore, su gran parte dei media che ne assumono la difesa preventiva e censoria contro chicchessia e, di conseguenza, sulla cultura politica e letteraria del nostro paese. Lei su tutto questo, caro Cesari, non ha detto proprio nulla. E voglio aggiungere, prima di passare a una cosa molto più seria, che io offro ai miei lettori citazioni assai estese degli scritti di Roberto Saviano e numerosi esempi del suo stile (che io ritengo mediocre, a torto o ragione, ma su cui lei glissa). Cito anche brani di interviste a Saviano, ma sì, che fino a prova (o smentita) contraria sono strumenti legittimi di lavoro per un critico. Almeno per uno, come me, che interpreta quello che legge, bene o male che sia, e lo cita, ciò che il Saviano «indagatore» del crimine organizzato non fa, almeno in Gomorra.
A proposito di pagliuzze, travi, «fandonie», interpretazioni, invenzioni e documentazioni, che mi dice della pagina iniziale di Gomorra, in cui si parla del famoso caso dei «cinesi che non muoiono mai»? Lei sa bene che l’incipit di un romanzo (o qualsiasi altra cosa sia Gomorra) è decisivo per creare la Stimmung, e cioè l’atmosfera emotiva, di un libro e quindi la sua verità presso i lettori. Ora, lei dovrebbe sapere che sia in un libro-inchiesta sui cinesi in Italia (da me citato, in Eroi di carta, p. 69, n.47), sia nel sito delle Associazioni dei cinesi in Italia (idem), la storia dei cinesi è stata giudicata semplicemente una leggenda metropolitana. E questo, per di più, in un paese in cui l’immagine degli stranieri non è esattamente rosea…
Io mi limito a ribadire: se Gomorra è un testo d’invenzione letteraria, lo giudicheremo – liberamente – in base al suo stile. Ma se è un testo che pretende di dire la «verità» fattuale o morale su Napoli, il crimine, la camorra ecc., la storia dei cinesi getta un’ombra lunga sulla sua «verità». E quindi mi aspetto, prima o poi, delle risposte, magari da lei, sulle domande tipiche del buon giornalismo d’inchiesta: «chi», «quando», «dove»? Ecco il problema dell’ambiguità della narrazione in Gomorra, se uno ha letto veramente quello che ho scritto.
Lei, dottor Cesari, è nel suo pieno diritto di ignorare gli argomenti sostanziali di Eroi di carta ed estrarre le pagliuzze dai miei occhi. Ma io sono nel mio, quando confermo che nel saggio si discute soprattutto del rapporto tra un testo e l’apparato retorico, editoriale e mediale che l’ha fatto proprio. Ma vi si discute anche della povertà di idee della sinistra italiana e, naturalmente, di letteratura. Per inciso, solo i moralisti da prima pagina (che esistono solo in Italia) possono aver frainteso il titolo del mio saggio per un insulto a Saviano, mentre è il rimando alla mia riflessione sul significato dell’eroismo in una cultura governata dai media (in cui rientrano, appunto, anche i bestseller «letterari»).
Questa polemica, così come si è sviluppata, è durata abbastanza. È partita dall’ingenua esecrazione di chi ha ordinato di non leggermi, con l’evidente effetto opposto. E anche la sua «lettura», dottor Cesari, non aggiunge molto: è la comprensibile (ma solo in Italia) stroncatura, da parte di un editore, di chi critica un proprio autore. Ma, al di là delle polemiche, il caso Gomorra-Saviano, in termini mediali, resta di grande interesse e invita a ulteriori ricerche e riflessioni. Perché non si tratta tanto di «una fiaccola nel buio», come è titolato il suo pezzo contro di me, quanto di un faro abbacinante che illumina non tanto la «realtà» della camorra, quanto il paese culturale e mediale in cui viviamo.

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Ma dove vuole portarci Saviano?
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Saviano, l’idolo infranto
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Alla destra postfascista Saviano piace da morire

Saviano, l’idolo infranto

Daniele Sepe
il manifesto 6 Giugno 2010


Ma cosa è successo alla sinistra radicale in Italia? Sono io che ho perso la bussola o sono altri che si sono dimenticati per strada un poco di concetti che ci accompagnavano nell’analisi della società? Ad esempio la magistratura, le forze dell’ordine, l’apparato repressivo dello Stato sono oggi nostri alleati nella lotta contro il Capitale? Io ricordavo altre cose. Ma la legalità, le leggi cosa sono se non un sistema di regole che serve a proteggere il più forte dal più debole? Non sono promulgate dallo stesso Stato che l’istante dopo accusiamo di essere classista, liberticida, guerrafondaio e repressivo? No, sembra da quello che sto leggendo oggi che sono io che mi sbaglio. In realtà noi viviamo in una democrazia perfettamente compiuta nella quale chi è nato figlio di un muratore a Casal di Principe e il figlio di Briatore e Gregoraci hanno perfettamente le stesse prospettive: entrambi se capaci si potranno fare strada nel lungo cammino della vita. Noi viviamo in un sistema economico capitanato da gente di cui a volte conosciamo i volti e altre no, ma che si fonda sul consumo. Possedere è essere felici. E questo bisogno di consumare, soprattutto in un momento di crisi come questo, viene cullato, coccolato, alimentato da tutto quello che è la cultura dominante oggi, dai media in primo luogo. Non hai il Suv? Sei un reietto. Non vesti firmato? Non ti fidanzerai. Non sei stato in crociera quest’estate? Sei un fallito. Vendere e ancora vendere. Ma non è che tutti si possano permettere, in maniera «perfettamente legale» di vivere come Veronica Lario, idolo di sinitrorsi perché in conflitto divorzistico col padrone d’Italia per eccellenza, il Signore del Male. E allora c’è della gente selvaggia, una feccia canagliesca che pretende oggi, con una violenza che appartiene ad un’altra epoca, l’epica era del baronaggio e della imprenditoria pioniera e aggressiva degli esordi, non solo di limitarsi a taglieggiare il piccolo commerciante o imporre il prezzo del lavoro di un giorno ad un immigrato in un campo di pomodori, ma addirittura di sedere nei lindi consigli di amministrazione. Ma per noi comunisti una volta questi signori non erano criminali alla stessa maniera? Non sono per noi le due facce della stessa medaglia? Come diceva Brecht «è più grave l’effrazione di una banca o la fondazione di una banca?». Ecco, la nostra bussola culturale, politica, oggi è ancora Brecht o è diventata Roberto Saviano? Chaplin diceva che il crimine paga solo alla grande. Infatti. Io nelle parole e gli scritti di Saviano non ho mai trovato queste sottili distinzioni. Mentre si rivolge in maniera educata e deferente al nostro Presidente del Consiglio, suo editore, con una «preghiera», ai tempi della legge sul processo brave, tuona contro le belve assetate di sangue sedute dietro una sbarra al processo «Spartacus». Sarà, ma io trovo il capitalismo italiano e i boss camorristici tragicamente simili. E non per dire, ma un Marchionne che chiude Termini Imerese (quando Fiat ha ricevuto contributi statali e europei per decenni) buttando sulla strada migliaia di famiglie sta aiutando chi e cosa, se non chi poi può andare a proporre un lavoro certamente un po’ più pericoloso, ma infinitamente più redditizio di un salario da operaio, a un giovane siciliano? Fa bene alla coscienza pensare che leggere un romanzo sulla camorra o gridare ’siamo tutti Saviano’ può fare paura a gente sanguinaria in perfetta collusione con buona parte di quello Stato che dovrebbe combatterli, invece secondo il mio modesto parere se ne strabatte. Comanda il denaro. E un libro è un libro. Una canzone è una canzone. Un film è un film. Ma poi la ricetta a tutto questo proliferare di organizzazioni criminali quale sarebbe? Per noi «sinistri radicali» nel 2010 è diventata l’indagine di Polizia, il processo e il carcere? Ma perché, messo dentro a vita uno Schiavone e i suoi compagni, non ci sarà qualcun altro a prenderne il posto? Se le condizioni sociali e politiche non cambiano ce ne saranno altri cento. E’ ovvio che non può essere il bastone la nostra e la loro liberazione. E soprattutto sarei io e il mio pensiero la stampella della criminalità organizzata? Scusatemi, io auguro a Saviano di vivere centanni e godersi quello che si è guadagnato. Ma lasciatemi per centanni la possibilità a me e ad altri pochi «deficienti invidiosi» di ragionare da comunista e di poterlo scrivere. Nel caso contrario, visto che la gogna è gia partita, la solidarietà della sinistra radicale voglio sperare che arrivi a me. Se no vuol dire che ho buttato via una vita di lotta militante per niente.

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Il diritto di criticare l’icona Saviano

Alessandro Dal Lago
il manifesto 3 giugno 2010


Non ho intenzione di difendermi dalle «critiche» per il mio libretto sul caso Gomorra-Saviano (anche perché si tratta, per lo più, non di critiche ma di esecrazioni e «vade retro»). Se si è interessati alla questione, mi si può leggere e giudicare di conseguenza. Intervengo invece sull’accusa di dissacrazione che alcuni (per esempio Violante e Flores d’Arcais) mi hanno gettato addosso, visibilmente senza aver letto il testo e, nel caso di Flores, incitando il pubblico a non leggerlo. Qui, come in altri casi (penso a Sofri) non c’è solo un appello alla censura preventiva (mi si critica non per quello che dico ma perché lo dico).
Appare anche un modo di pensare mitologico e autoritario, e quindi sostanzialmente papalino, il che fa specie in persone (parlo di Sofri e Flores) che passano per campioni della libertà di parola e del laicismo. È questa la cultura capace di opporsi a Berlusconi? Per Violante, il mio è un tipico caso di sinistra «iconoclasta». Ne deduco che per lui la sinistra deve adorare le icone. E non diversamente pensa Flores, quando invita a manifestare contro Berlusconi o a darsi al sesso o ad altre attività ricreative, piuttosto che leggermi quando critico Saviano. Insomma, guai a entrare nel merito di quello che Saviano scrive. E soprattutto, guai a interrogarci sul significato politico dell’identificazione di una parte consistente della sinistra nella sua figura e nella sua opera. È semplicemente quanto ho tentato di fare nel mio libro a tre livelli, narrativo, mediale e sociologico (tra parentesi, occuparmi di queste cose è esattamente il mio mestiere, diversamente da quanto Flores, che pure mi conosce da quasi trent’anni, fa credere ai lettori del Fatto quotidiano). Livello narrativo: ho analizzato la «verità» di Gomorra in base al testo e a nient’altro, ignorando qualsiasi pettegolezzo sulle sue fonti, ma portando alla luce il carattere tecnicamente auto-referenziale della narrazione («ci sono stato e ho visto, e quindi dico la verità»); livello mediale: ho discusso la costruzione, in buona parte dei media, dell’eroismo di Saviano, mostrando anche come lo scrittore, nei suoi interventi successivi a Gomorra, abbia in qualche modo fatto proprio il ruolo che gli veniva cucito addosso; livello sociologico (e se vogliamo, politico): che significa il processo di iconizzazione dello scrittore nella sfera pubblica del nostro paese? L’ultimo punto mi sembra decisivo e integra i primi due. La trasformazione di Saviano, a sinistra, in icona del bene contro il male (rappresentato dal crimine organizzato) sposta il conflitto politico in una dimensione morale e moralistica fondamentalmente diversiva e consolatoria. Una dimensione illusoria, in cui – ma questa è solo un’ipotesi – molti scaricano le frustrazioni di una sinistra che in buona parte non è più rappresentata, oppure è impotente di fronte al trionfo della destra. Il fatto interessante è che la categoria dell’eroismo è storicamente appannaggio della destra romantica (penso a Evola), e questo spiega la fortuna di Saviano tra i seguaci di Fini (si veda la fondazione Farefuturo e che cosa pensa di me). Di conseguenza, la classica accusa zdanoviana che mi rivolgono Sofri e Flores («a chi giova?») è risibile, un altro aspetto della loro reazione censoria.
Come si conviene a qualcuno che, volente o nolente, è stato trasformato in icona dell’eroismo, molto spesso le posizioni di Saviano su questioni di interesse pubblico sono unanimiste e apolitiche, e cioè buone per tutti (anche se nel libretto riconosco che talvolta prende posizione contro le derive più clamorose dell’attuale regime in materia di conflitto di interessi). Sostenere che la recente lotta degli studenti contro la distruzione della scuola e dell’università pubblica conta ben poco di fronte al crimine organizzato o ridurre la morte dei soldati in Afghanistan alla questione dei poveri ragazzi del sud che non hanno alternative, senza dire nulla del significato della guerra e dell’implicazione dell’Italia, è qualcosa che non si può passare sotto silenzio. Nessuno chiede a Saviano di occuparsi di questi problemi. Ma se ne scrive o ne parla, naturalmente è criticabile, come chiunque altro. Io trovo grottesco che qualcuno liquidi tutto questo, e cioè la critica di quello che Saviano dice, in termini di «invidia»: è come sostenere che se un critico cinematografico parla male di un film, è perché invidia il regista. Ma dietro tutte queste reazioni, volta per volta isteriche o moraliste, si profila un enorme problema politico: l’impotenza evidente di un’idea di alternativa basata quasi esclusivamente sull’opposizione all’anomalia Berlusconi, e non al blocco di interessi (e valori e simboli) che il cavaliere sintetizza. Di fatto, precari e pensionati, studenti e lavoratori, insegnanti e tutte le altre figure socialmente deboli (per non parlare di marginali, esclusi e stranieri) sono sostanzialmente soli sulla scena politica, in balia di questa destra. E, come le elezioni dimostrano, la mancanza di rappresentanza porta anche quote importanti di elettori di sinistra a votare per gli altri (un classico sintomo di un sistema sociale e politico in preda al populismo). La destra fa politica di classe, eccome, l’opposizione no. E questo è anche un effetto dello spostamento del conflitto in chiave simbolico-morale (e, sì, giustizialista), come dimostra l’ossessione unanime per la legalità. Ecco allora che il conflitto è evacuato, che tutto (dalla questione del lavoro all’ignobile condizione delle nostre carceri o al razzismo imperante) viene minimizzato o comunque messo in secondo piano. Ed è inevitabile se, in nome della legalità, ci mettiamo a priori dalla parte dell’ordine, politico o simbolico che sia.  Di questo, ovviamente, a Saviano non imputo una particolare responsabilità, anche se lo critico, in base ai suoi scritti, per aver contribuito ampiamente alla retorica dell’eroismo. Ma forse i suoi seguaci a priori e a prescindere, le vestali della pubblica indignazione che pontificano dalle tribune mediali, non sono proprio innocenti della spoliticizzazione di cui parlo sopra. E pensando proprio a loro, mi chiedo chi rispetti di più, in ultima analisi, lo scrittore perseguitato dalla camorra: chi lo prende sul serio, discutendolo anche polemicamente, o chi si genuflette davanti alla sua icona.

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Attenti, Saviano è di destra. Criticarlo serve alla sinistra
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Alla destra postfascista Saviano piace da morire

La libertà negata di criticare Saviano

Eroi di carta

Marco Bascetta
il manifesto 30 maggio 2010

 

Idee di scorta

Perché manifestolibri ha voluto pubblicare una decisa analisi critica (seria, rigorosa e diffusamente argomentata, come da più parti è stato riconosciuto) di Gomorra e di numerose, successive prese di posizione pubbliche del suo autore, Roberto Saviano? Ci sono diverse ragioni. La prima può essere messa in chiaro dal passo di un articolo che attacca furiosamente Eroi di carta, il libro di Alessandro Dal Lago edito da manifestolibri, pubblicato sul periodico della fondazione finiana Farefuturo: «Un paese che non ha bisogno di eroi è un paese che non ha esempi da seguire, che rinuncia a guardare il futuro con la speranza del cambiamento…». Da un siffatto «futuro», carico di richiami arcaici e inquietanti modelli, volentieri ci teniamo alla larga. È la discussione democratica, il confronto tra posizioni diverse, l’esercizio dello spirito critico e non l’emulazione di santi, martiri ed eroi a fare crescere una collettività. E, forse suo malgrado, Saviano è stato risucchiato proprio in questo genere di tristi retoriche che non vorremmo veder tornare a prevalere. È vero e molto rilevante il fatto che Roberto Saviano sia minacciato, esposto, in una pesante condizione di rischio. Questo dovrebbe spingere a proteggerlo, a cercare di assicurare rapidamente alla giustizia coloro che lo minacciano, a bandire i politici che si avvalgono dell’appoggio delle mafie. Ma non è in nessun modo un argomento che renda indiscutibili le sue «verità», inconfutabili le sue affermazioni, incontestabile la sua interpretazione del fenomeno camorra, sublime la sua scrittura. Certamente Berlusconi e l’ineffabile Fede hanno attaccato Saviano piuttosto volgarmente (con argomenti, precisa la stampa di destra, del tutto diversi da quelli del sovversivo Dal Lago), quando l’arbitrio e le opportunità del momento hanno suggerito loro di farlo, come in passato gli avevano suggerito di apprezzare lo scrittore campano e in futuro potranno tornare a suggerirglielo. Dobbiamo allora subordinare le nostre riflessioni e i tempi della loro espressione alle mutevoli esternazioni del cavaliere e della sua corte? E, del resto, quanti danni ha fatto la logica secondo cui «il nemico del mio nemico è mio amico»? Anche Adriano Sofri non dovrebbe averlo dimenticato. Ricorderà, spero, gli «amici» assai poco presentabili scelti da certo antiamericanismo. Se dovesse essere questo, come purtroppo sembra, uno dei principi dell’antiberlusconismo odierno (da Di Pietro a Murdoch?) lo considererei una grave iattura, per non dire di peggio. E, tuttavia, non si può negare che Saviano abbia meritevolmente attirato l’attenzione di una vasta opinione pubblica sulla criminalità organizzata in Campania. Ma si potrà pur ritenere, argomentandolo, che lo abbia fatto in forme spesso discutibili e che il mito che gli si è costruito intorno abbia indotto più a una sorta di innocua tifoseria (come dimostrano molte reazioni alle critiche di Dal Lago, emotive e del tutto ignare delle sue motivazioni) che all’impegno politico e sociale o alla comprensione di una realtà complessa e contraddittoria come quella meridionale. Come avranno letto Gomorra dalle parti della Lega? È lecito discuterne? Manifestolibri pensa di sì. È abbastanza evidente che la questione vada ben oltre il caso di Gomorra e del suo autore. Ma, allora, ci si chiederà, perché prendersela proprio con Saviano, viste le numerose controindicazioni? Perché ciò che si è raggrumato intorno alla sua figura è l’esempio più vivido, e al tempo stesso più scomodo, di mito che si sostituisce al ragionamento, di predicazione che prende il posto dell’analisi, di moda che subentra alla convinzione, in un paese in cui tutto ciò che non avviene sotto i riflettori, o nel regno delle alte tirature, semplicemente non esiste, e tutto ciò che da questi è invece illuminato assume i tratti incontestabili della verità e dell’oggettività, di un ordine invalicabile del discorso. In un paese in cui il darsi sulla voce nei talk show è diventato la quintessenza dell’agire comunicativo e l’esercizio della critica impiegando strumenti culturali non banali, una colpevole perdita di tempo. Così, almeno, sembra pensarla Paolo Flores d’Arcais che tuttavia ha inspiegabilmente sottratto una frazione (speriamo limitata) del suo prezioso tempo per mettere all’indice (quello dei libri proibiti) su tre colonne del Fatto quotidiano un libro che non ha letto e non intende leggere. Si possono condividere (e io personalmente le condivido), smontare o respingere le critiche che Dal Lago rivolge all’epopea di Gomorra, ma non censurarle o relegarle nella categoria, che a sinistra non dovrebbe avere cittadinanza, della bestemmia. Sono, alla fine, proprio queste reazioni, le quali rivelano una «sinistra» impregnata della retorica degli exempla virtutis, sempre più disposta a sacrificare la comprensione delle radici (legalissime e beneducate) dell’ingiustizia all’indignazione del telespettatore, alle emozioni forti del suddito in cerca di protezione (che è ben diverso dal cittadino in cerca di sicurezza), a testimoniare della necessità di confrontarsi con i temi importanti che Dal Lago pone. Qui a Berlusconia, tra fandonie e miti, tra spettri ed epifanie del Maligno, tra risentimenti e narcisismi (non stiamo più parlando, sia chiaro, di Saviano, ma dei fustigatori di Dal Lago) è in corso da un pezzo una vera e propria guerra all’intelligenza, dove ogni ragionamento di un qualche spessore è tacciato di sabotaggio o di spregio dell’umore popolare. Un antico scrittore puritano americano diceva che quanto più sei colto, arguto, intelligente, tanto più sei pronto a lavorare per Satana (la camorra?). Attenetevi dunque alle sacre scritture, ai sentimenti «sani», all’ammirazione della Virtù. Che questo imperativo provenga dalla sinistra la dice lunga sullo stato in cui versa. Per quanto ci riguarda continueremo a cercare di comprendere il mondo che ci circonda, a pubblicare e leggere libri che ci aiutino a farlo, anche a costo di mettere in questione, magari giovandogli, qualche idolo popolare.

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