Violante al congresso di Md, «basta con il garantismo»

Archivi – L’ex pm Luciano Violante da poco eletto parlamentare nelle liste del Pci chiede a Magistratura democratica di mettere da parte il garantismo. «Non preoccupa – sosteneva – l’uso strumentale delle garanzie processuali, ma il richiamo al garantismo come formadi rafforzamento delle organizzazioni terroristiche». Intervento apparso sull’Unità del 27 settembre 1979

Mentre volgeva al termine l’intensa stagione di conflittualità che aveva favorito importanti conquiste sociali, miglioramenti economici, nuove tutele, spazi di democrazia reale nei luoghi di lavoro, migliori condizioni di vita per le classi lavoratrici, allargando la platea dei diritti e dei bisogni rivendicati e fatto emergere nuovi soggetti sociali e nuovi movimenti, si apriva ad Urbino, alle fine del settembre 1979 il quarto congresso di Magistratura democratica, i giudici di sinistra per intenderci. Suddivisi in diverse correnti animate da un dibattito che aveva traversato le passioni dei due precedenti decenni, i magistrati erano davanti ad un bivio: la penetrazione del diritto nei processi sociali ed economici, il ruolo di supplenza affidato loro dalla politica per reprimere la stagione della sovversione sociale e della lotta armata, avevano attribuito alla magistratura una funzione sempre più centrale. Cosa dovevano farsene? Quale erano i nuovi campiti per la nuova stagione che la retata del 7 aprile di pochi mesi prima aveva annunciato con forza?
Luciano Violante, ex pm alla procura di Torino poi agli uffici legislativi del ministero della giustizia, dove si era occupato delle attività di contrasto giuridico al terrorismo, divenuto parlamentare del Pci da pochi messi, spiegava sulle pagine dell’Unità, senza tanti giri di parole, che il garantismo aveva fatto ormai il suo tempo. Era alle porte la stagione della «repressione disciplinare», come la definirà Giovanni Palombarini, ma soprattutto il Pci, convinto dell’attualità della propria candidatura alla guida del Paese, riteneva ormai d’intralcio il garantismo e l’uso alternativo del diritto. Il mutamento di rotta era drastico e il dibattito sul significato del garantismo che aveva visto confrontarsi in passato tre linee, cambiava di segno. Alla precedente scuola della “creazione giuridica”, che attraverso un uso dell’interpretazione e delle fonti mirava al reintegro del dettato costituzionale di fronte all’inerzia o al sabotaggio legislativo della politica conservatrice e restauratrice, attività che trasformava la magistratura da vecchio organo burocratico asservito alle gerarchie dello Stato-apparato a «soggetto istituzionale indipendente, operante come momento di raccordo fra lo Stato e la società civile», si opponeva un ritorno alla certezza del diritto, inteso come ruolo conservativo della funzione giurisdizionale di fronte alle modificazioni della società o all’emergere di equilibri più avanzati o nuove domande e bisogni sociali. Le altre due linee, quella che riteneva il garantismo uno baluardo per difendersi dallo Stato, e la terza, minoritaria, che vi vedeva uno strumento per l’organizzazione della lotta di classe, soccombevano davanti ad una rivalutazione della funzione coercitiva dello Stato, posizione che apprezzava la nuova legislazione d’emergenza purché ricondotta «nell’alveo della solidarietà e della mobilitazione democratica». Si stavano lentamente creando i presupposti che, confermando l’iperattivismo giudiziario, vedranno alla fine del decennio ottanta il passaggio dalla figura del giudice «guardiano della costituzione» al «giudice sceriffo», investito di un ruolo di supplenza «del potere giudiziario, in caso di assenza o di carenze del legislativo», che rivendicherà per sé un ruolo politico decisivo e una competenza illimitata che minerà i parametri classici della tripartizione dei poteri.
Si chiudeva così la parabola avviata decenni prima. Di fronte al richiamo della statualità l’originario impianto della teoria dell’interferenza escogitato con iniziali intenti progressisti si risolveva nel suo contrario: un efficiente apparato concettuale impiegato per definire modelli di regolazione disciplinare della società.

La giustizia è in crisi che fanno i giudici?

Luciano Violante
L’Unità, 27 settembre 1979

Il quarto congresso di Magistratura Democratica che inizia domani ad Urbino. può costituire un’occasione di particolare importanza per avviare in termini nuovi una riflessione sullo stato della giustizia, sui compiti e sulle responsabilità dei giudici.
[…]
La difficoltà di costruire una nuova egemonia ha frenato la cultura delle riforme istituzionali proprio quando si trattava di tradurre la progettualità teorica della prima metà degli anni settanta in quei meccanismi di spostamento di potere che sono tipici di un effettivo processo riformatore; l’impasse ha favorito la produzione di leggine settoriali ed ha prodotto nelle leggi più organiche elementi di ambiguità o addirittura silenzi su questioni di particolare rilievo: ciò è avvenuto ad esempio, per la legge sull’equo canone e per quella sull’aborto. Contemporaneamente l’attuazione di alcuni fondamentali principi della Costituzione, la novità dei processi sociali, l’emergere di nuovi soggetti politici hanno prodotto radicali mutamenti nella struttura stessa del partito. Appaiono sempre più superate le tradizionali distinzioni tra diritto pubblico e diritto privato. L’attuazione della riforma regionale e lo svilupparsi delle autonomie locali hanno dato vita ad un diritto amministrativo assai diverso da quello precedente, non più rotante attorno ad un rapporto di particolare prevalenza dello Stato nei confronti del cittadino, ma ancora privo di stabili coordinate. Gli studiosi del diritto privato hanno constatato lo sgretolamento dell’impianto concettuale del codice civile a causa del moltiplicarsi delle sedi di produzione legislativa (da quella comunitaria a quelle regionali) e perché la tutela degli interessi privati richiede sempre più spesso, oltre all’azione dei soggetti privati, l’intervento di organi pubblici: è un sistema di reciproci impegni tra interi pubblici e soggetti privati assai diverso dai vecchi capisaldi dell’autorizzazione e della concessione amministrativa, ma con linee di evoluzione ambigue, come dimostra la storia dell’intervento pubblico nell’economia.
[…]
Il diritto è uno strumento di tutela, di partecipazione e di governo ed incide profondamente nella vita sociale e nel costume politico; la crisi del diritto può aprire la strada ad importanti trasformazioni sociali se si ha la forza e la volontà di dirigerla. Ma spesso in questi momenti, attorno alla vecchia scienza giuridica si accorpano interessi potenti, che puntano alla riscoperta delle tranquillizzanti mitologie della neutralità del diritto e del giurista per servirsene come mezzo per la ricomposizione delle proprie contraddizioni e di superamento della propria crisi. Non è impossibile che forze conservatrici si muovano in questa direzione per ricondurre la crisi del vecchio sistema alla non-controllabilità dei giudici, denunciando la loro indipendenza e proponendone limitazioni. Gli approcci, per ora indiretti, alla questione della responsabilità politica, della responsabilità cioè delle scelte discrezionali del giudice, indicano questo come il terreno sul quale potranno avvenire i primi a fondo. Magistratura Democratica è consapevole di questi problemi? Ha colto che è in atto una durissima lotta tra vecchio e nuovo Stato, e che la giustizia può essere uno dei terreni privilegiati per questo scontro? Con quali idee e con quali analisi va al suo congresso? I punti fermi della relazione del segretario Salvatore Senese restano la giurisprudenza alternativa e il garantismo. D’accordo: ma bisogna entrare più nel merito delle questioni perché si tratta di politiche istituzionali alle quali occorre dare un obiettivo per non farne pure e semplici etichette. La giurisprudenza alternativa, non come giurisprudenza di colore, ma come interpretazione del diritto alla luce dei fondamentali diritti costituzionali, poteva avere di per sé un significato di rottura dieci anni fa, quando dall’altra parte c’era il monolitismo della Cassazione, l’ideologia della neutralità del diritto e del giudice; ma oggi? Anche quei magistrati che andando ben oltre le proprie prerogative, hanno sindacato atti di pura discrezionalità politica, potrebbero rivendicare l’alternatività della loro giurisprudenza e forse con qualche ardimento linguistico riuscirebbero a trovare nella costituzione perfino un puntello formale. Il garantismo è insieme una filosofia dei rapporti tra i cittadini e tra cittadini e stato, una politica istituzionale e una tecnica interpretativa delle leggi: ma in un sistema a maglie così larghe come il nostro può essere usato per le finalità più diverse. Non preoccupa certo l’uso strumentale delle garanzie processuali che fanno alcuni imputati, è un loro diritto. Preoccupa invece il richiamo al garantismo come forma di rafforzamento delle organizzazioni terroristiche cui fanno riferimento alcuni documenti dell’Autonomia organizzata (vedi «Lotta Continua» del 25 luglio). […]

Il retroscena della cattura di Cesare Battisti, l’inchiesta sporca che nessuno vi racconterà mai

Pubblichiamno alcuni estratti del libro “La polizia della storia, la fabbrica delle false notizie nell’affaire Moro”, all’interno del quale si raccontano i retroscena della cattura di Cesare Battisti in Bolivia, la clonazione del telefono del suo avvocato e l’intercettazione dell’intera attività difensiva, condotta dalla digos su mandato della procura milanese, una volta incarcerato in Italia

«L’attività che ha condotto alla cattura di Cesare Battisti – scriveva la Digos in un rapporto del 24 gennaio 2019 – ha avuto inizio il 16 ottobre 2018 con la richiesta di delega alla Procura generale per l’espletamento dell’attività tecnica»(1). Dodici giorni prima della elezione del leader della destra Jair Bolsonaro alla Presidenza della repubblica brasiliana si erano attivate le intercettazioni sulle linee telefoniche in uso a Battisti ma dopo il 31 ottobre queste risultavano silenti. L’irreperibilità ufficiale di Battisti veniva accertata il 13 dicembre 2018, quando funzionari della Polizia italiana si erano recati a San Paolo per prenderlo in consegna dopo che Bolsonaro aveva revocato l’asilo concesso dall’ex Presidente Lula, incarcerato nel frattempo a seguito di una sorta di «golpe giudiziario».

L’informatore
Secondo la Polizia Battisti si era allontanato nel mese di novembre. Ricorrendo a servizi tecnici «esterni» – è scritto sempre nel rapporto – veniva ricostruito il percorso effettuato dall’ultimo telefono cellulare di Battisti. L’informazione decisiva perveniva però attraverso un metodo classico, la delazione: da un account di posta elettronica dal nome estremamente evocativo, «judas3636@gmail.com», martedì 4 dicembre 2018, alle ore 16.32, giungeva all’ufficio visti delle sede diplomatica italiana di La Paz il seguente messaggio: «Buon giorno, potremmo fornire informazioni preziose su una persona che state cercando da molto tempo, ciò che vorremmo sapere è cosa potrebbe guadagnare la persona che prende il rischio di fornire informazioni sulla sua posizione esatta. Stiamo parlando di Cesare Battisti. Buona giornata». Il giorno successivo l’autore del messaggio veniva identificato: viveva a Santa Cruz de la Sierra, dove immediatamente si concentrarono le indagini. Il rapporto citava il nome di un altro cittadino boliviano che pare avesse preso in consegna Battisti al suo ingresso nel paese. Le verifiche accertarono che «Judas» e questo secondo uomo erano in contatto e che insieme avevano raccolto Battisti dalla frontiera brasiliana per condurlo in un hotel di Santa Cruz, dove aveva soggiornato dal 16 novembre al 21 dicembre. «Il 7 gennaio perveniva una segnalazione della Digos di Milano concernente la possibile presenza del ricercato nella città di La Paz», a scriverlo in un secondo rapporto erano la Dcpp e lo Scip(2). Le indagini si spostarono nella capitale boliviana, dove Battisti cercava di ottenere protezione da parte delle autorità attraverso contati con settori politici. Appariva chiaro che il suo ingresso in Bolivia era avvenuto in modo precipitoso senza un’adeguata preparazione con contatti politici di livello. Grazie al controllo di una serie di telefoni intestati a prestanome, l’uso d’informazioni d’intelligence che utilizzavano fonti molto informate e servizi di appostamento in settori precisi della città, la trappola attorno al ricercato si chiudeva inesorabilmente, finché nel pomeriggio del 12 gennaio 2019 veniva riconosciuto in strada da agenti della polizia locale e tratto in arresto.

La Digos clona il telefono dell’avvocato
Nel mese di gennaio, mentre si stringeva il cerchio attorno al latitante, la Digos milanese lavorava sul telefono di un suo familiare italiano da lui più volte contattato. Dopo l’iniziale intercettazione della linea telefonica, come da prassi erano stati chiesti al gestore i tabulati con il traffico pregresso. Infine il telefonino era stato clonato, una tecnica che consente di poter leggere da remoto tutte le conversazioni via social che sfuggono alle normali intercettazioni della linea telefonica. Dall’analisi del traffico degli ultimi due anni, trattenuti per legge, emergevano dei contatti tra me e il familiare risalenti all’ottobre del 2017, quando Battisti era stato fermato vicino alla frontiera boliviana e arrestato con l’accusa di esportazione della valuta che aveva con sé. Avevo sentito questa persona per consigliarle di prendere un avvocato ed essere pronta al peggio, nel caso Battisti fosse stato ricondotto in Italia, come sembrava in quel momento. Quando mi chiese aiuto per trovare un legale la misi in contatto con l’avvocato Davide Steccanella, mio amico, che si era reso disponibile a prenderne la difesa nella malaugurata ipotesi di una sua estradizione. Le passai anche il numero del Garante nazionale dei detenuti, perché immaginavo – vista la mia personale esperienza dopo la riconsegna all’Italia nel 2002 – che il trattamento penitenziario riservatogli sarebbe stato dei peggiori. Non avevo tutti i torti, visto quel che poi è accaduto una volta ricondotto in Italia. Avevo conosciuto Battisti a Parigi, anche se non c’era tra noi una frequentazione personale. Ci incontravamo con altri rifugiati più che altro in situazioni di «crisi», quando c’erano discussioni politiche sul da farsi. Avevo invece seguito tutte le vertenze estradizionali, la sua e quella di Marina Petrella, perché ne scrivevo, sia quando ero in carcere che in semilibertà, in particolare quando iniziai a lavorare presso il quotidiano «Liberazione». Al giornale mi avevano affidato anche questo incarico: ho scritto più di settanta articoli sulle vicende dell’esilio, delle estradizioni e della cosiddetta dottrina Mitterrand. Sono stato il primo a intervistare in Italia Tarso Genro, il Ministro della Giustizia brasiliano che aveva concesso la prima forma di asilo a Battisti, e che tutti denigravano senza nemmeno ascoltare le sue argomentazioni(3). Sono bastati questi pochi contatti telefonici con alcuni familiari di Battisti per indurre la Digos ambrosiana a ritenere che io fossi a capo di un «rete» che forniva sostegno ai latitanti sparpagliati in mezzo mondo, una sorta di nuovo «Soccorso rosso internazionale», e l’avvocato Steccanella gestisse dall’Italia la latitanza di Battisti fornendogli contatti in loco. Nella richiesta di acquisizione del traffico telefonico pregresso e delle tracce lasciate dai cellulari e schede trovate addosso a Battisti, datata 28 gennaio 2019, venivamo descritti in questo modo: «si tratta di soggetti che almeno dall’ottobre 2018 avevano costantemente seguito e coadiuvato la latitanza di Battisti con informazioni logistiche, consentendogli di trovare ospitalità e mezzi di trasporto, tramite conoscenti, in terra sudamericana ovvero reperire e utilizzare strumenti di comunicazione idonei a mantenere la rete di contatti in una sorta di “cordone sanitario” della propria latitanza». Il 10 gennaio 2019 la Procura generale dispose la clonazione del telefono dell’avvocato Steccanella con l’obiettivo di poter «reperire ulteriori e più circostanziati elementi utili alla esatta localizzazione del latitante», avvalendosi di una giovane società del settore, la BitCorp, che nel preventivo di spesa (500 euro al giorno) forniva chiarimenti sulle modalità di clonazione, ottenuta effettuando: «una serie di “interrogazioni” ai webservice che servono le applicazioni all’interno del sistema che prendiamo come obiettivo. […] In tale modo si è in grado di ricevere in tempo reale ogni flusso di traffico dati generato o transitato attraverso il dispositivo target, in quanto gli stessi webservice ci riconoscono quali legittimi destinatari del flusso»(4). Di questa clonazione l’avvocato Steccanella è venuto a sapere soltanto nel 2021 quando, dopo aver esaminato il fascicolo, l’ho informato personalmente. La clonazione del cellulare dell’avvocato Steccanella è uno – non il solo – degli episodi più sconcertanti e paradossali di questa inchiesta, poiché era avvenuta quando le stesse indagini avevano accertato che Battisti si era avvalso di contatti locali, dimostratisi del tutto inaffidabili, persino estranei a circoli politici. Molto probabilmente la scelta di indirizzare l’inchiesta verso «complici italiani» rispondeva a input politico-ministeriali e a una sorta di effetto doping che la cattura di Battisti aveva suscitato negli apparati di polizia e nella Procura milanese. Una sorta di rottura dei freni inibitori che aveva lasciato via libera alle pulsioni più paranoiche e alla voglia di regolare i conti con quei pochi che in Italia avevano sempre sostenuto pubblicamente le battaglie contro le estradizioni degli esuli degli anni Settanta.

«L’intercettazione dell’attività difensiva»
Quando, il 14 gennaio, Battisti nominò come suo legale di fiducia l’avvocato Steccanella, che da quattro giorni aveva il telefono clonato, nella Procura di Milano deve esserci stato grande imbarazzo e forse anche qualcosa di più. Con il passaggio formale dell’inchiesta dalla Procura generale, che aveva esaurito la propria competenza con la cattura del latitante e la notifica del provvedimento di esecuzione pena, la direzione delle indagini perveniva nelle mani del Coordinatore della sezione distrettuale antiterrorismo, Alberto Nobili, che apriva una inchiesta per identificare i «complici italiani della latitanza di Battisti», ipotizzando il reato di «assistenza ad appartenenti ad associazione sovversiva» (270 ter). Evaso dal carcere di Frosinone il 4 ottobre del 1981, Cesare Battisti era stato lontano dall’Italia trentotto anni: approdato inizialmente in Francia, si era trasferito in Messico per ritornare a Parigi nel 1990, nel 2004 fuggire di nuovo in Brasile e infine nel 2018 approdare per pochi settimane in Bolivia. Nonostante avesse vissuto buona parte della propria esistenza tra Nord Europa e Centro-Sud America, secondo la Digos e la Procura di Milano i complici della sua libertà, quelli che lo avrebbero appoggiato per decenni, stavano in Italia, anzi stavano nelle carceri italiane. Mentre Battisti era in Francia e in Brasile, dal 2002 al 2014 mi trovavo in un cella italiana a da lì – secondo la Digos milanese – l’avrei appoggiato, senza aver mai conosciuto altri paesi fuorché l’Italia e la Francia, senza parlare una parola di portoghese e spagnolo e saper nulla del Sud America, trovandogli rifugio e contati in Brasile e Bolivia. Appena la Procura prese in mano le redini della nuova inchiesta fece «omissare» dall’indagine i risultati della clonazione effettuata sul telefono dell’avvocato Steccanella e il 24 gennaio 2019 dispose «con precedenza assoluta» l’intercettazione e localizzazione delle utenze del mio intero nucleo familiare e dei familiari di Battisti, che si protrarrà fino al maggio successivo. L’ avvocato Steccanella si era gettato anima e corpo in questa nuova impresa, nel frattempo Battisti era stato rinchiuso nel carcere di Oristano dove, col pretesto dei sei mesi di isolamento diurno previsti nella sentenza di condanna (una pena accessoria eredità dell’epoca fascista), era stata aperta un’ala solo per lui. Di fatto gli era stata costruita attorno una piccola sezione di 41 bis abusivo, nonostante l’ordinamento non consentisse questo regime detentivo per la sua fascia di reato. Non ero per nulla stupito di questo trattamento: nel corso delle conversazioni telefoniche che scambiavo col mio amico avvocato spiegavo che ai rifugiati ricondotti in Italia veniva fatta scontare una pena supplementare, che non stava scritta da nessuna parte, il «reato di esilio». Gli raccontavo la mia esperienza, la condizione di «trofeo della repubblica» sul quale si erano sfogati decenni di frustrazioni suscitate nei vertici delle forze di polizia e della magistratura dal rifiuto delle estradizioni e dalla politica di Mitterrand. Gli ricordavo quel povero magistrato bolognese che durante un interrogatorio mi disse che la Francia da decenni tramava contro la democrazia italiana fornendo riparo agli esuli degli anni Settanta e per questo aveva trasformato Parigi in un «santuario della lotta armata». Era la fine del 2002, e mentre in Parlamento si legiferava sulla stabilizzazione normativa del 41 bis, mi avevano già condotto in isolamento a Marino del Tronto, penitenziario di massima sicurezza dove era presente un importante reparto con regime 41 bis. Se non fosse stato per l’ostinata battaglia di una pattuglia di parlamentari garantisti le nuove norme mi avrebbero spedito sotto quel regime detentivo per il resto della pena.
Il rientro di Battisti in Italia era avvolto da un vuoto giuridico: la Bolivia non lo aveva estradato e la procedura di espulsione non era stata rispettata. E siccome il vuoto in diritto non può esistere, l’unico titolo giuridico che faceva testo era il provvedimento di estradizione brasiliano a cui si ancorava l’accordo bilaterale sulla commutazione della pena dall’ergastolo a trent’anni, concluso dal Ministro della Giustizia Andrea Orlando con l’omologo brasiliano il 7 ottobre 2017. Accordo che aveva sbloccato l’estradizione. Intanto Digos e Polizia di prevenzione ascoltavano le nostre conversazioni telefoniche che riferivano al Pm. Per tutti quei mesi l’intera strategia difensiva costruita dall’avvocato Steccanella è stata intercettata permettendo alla Procura di conoscerla in anticipo ed entrare nei segreti della difesa. Ricorrendo agli strumenti dell’indagine difensiva, l’avvocato Steccanella ottenne dal Ministero della Giustizia copia dell’accordo di commutazione della pena pubblicato dall’«Adnkronos» il 7 maggio 2019, ma le sue richieste davanti alla Corte d’appello di Milano non ottennero successo anche se i giudici sottolinearono che i reati di Battisti non impedivano l’accesso ai benefici di legge.

Note
1/ Questura di Milano, Digos, «Riepilogo attività delegata che ha condotto alla cattura del latitante Battisti Cesare» a firma Vice Ispettore Ivan Pavesi, Vice Questore Cristina Villa, 24 gennaio 2019.
2/ Direzione centrale della Polizia di prevenzione e Servizio per la cooperazione internazionale della polizia, «Relazione di servizio», a firma Giuseppe Codispoti, Emilio Russo, Sandro Chiatto, 23 gennaio 2019.
3/ P. Persichetti, Caso Battisti, parla Tarso Genro: «Anni Settanta in Italia, giustizia d’eccezione non fascismo», «Liberazione», 11 ottobre 2009, anche in, https://insorgenze.net/2009/11/12/caso-battisti-parla-tarso-genro-%c2%abanni-70-in-italia-giustizia-d%e2%80%99eccezione-non-fascismo%c2%bb/; e ancora in, P. Persichetti, «Battisti, Genro: L’italia si è dimostrata autoritaria e arrogante», «Liberazione», 14 novembre 2009, in https://insorgenze.net/2009/11/14/battisti-genro-litalia-e-stata-autoritaria-e-arrogante/.
4/ BitCorp, «Offerta per servizio di intercettazione telematica ibrida e localizzazione su dispositivi mobili», Milano, 8 gennaio 2019.

I mal di pancia dell’ex procuratore Giancarlo Caselli

Per l’ex procuratore capo di Torino Giancarlo Caselli, oggi in pensione, la decisione della corte di Cassazione francese, che ha confermato il rigetto delle domande di estradizione pronunciato in precedenza dalla corte di Appello di Parigi dei dieci rifugiati italiani, ex militanti delle formazioni della sinistra armata degli anni 70, sarebbe solo un gesto di «arrogante intolleranza», figlio della irresistibile tentazione francese di «insegnare a tutti gli altri (gli italiani in particolare modo) come si sta al mondo».
I contenuti giuridici della decisione – sempre secondo l’ex pm – oscillerebbero tra «il paradossale e l’incredibile». In particolare Caselli non sembra digerire l’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti umani, richiamato dai giudici parigini per tutelare i diritti acquisiti nel corso della pluridecennale permanenza sul suolo francese dei dieci esuli italiani, sulla scorta di decisioni giudiziarie, politiche e amministrative, pronunciate nel tempo dalla autorità del posto. Tutto ciò – a detta dell’ex procuratore – non avrebbe alcun valore. Per il diritto interno francese tutte le pene sono prescritte dopo un periodo massimo di venti anni, ciò vale anche per l’ergastolo, che nel nostro ordinamento è diventato invece imprescrittibile, al pari di un crimine contro l’umanità. Nell’ordinamento italiano, il periodo massimo oltre il quale scatta la prescrizione delle pene temporali è pari a trent’anni. Regola che l’autorità giudiziaria ha aggirato in tutti i modi mettendo in campo una serie di sotterfugi e artifici vergognosi pur di impedire che la prescrizione venisse riconosciuta a due dei dieci ex militanti richiesti. In un caso si è addirittura ricorsi ad una fraudolenta dichiarazione di pericolosità sociale, a quaranta anni dai fatti-reato, nei confronti di una persona ormai ultrasettantenne e che nel frattempo ha mantenuto una condotta penalmente irreprensibile sul suolo francese, pur di scongiurare l’applicazione della prescrizione.
Nella dottrina classica del diritto, il decorso del tempo faceva venire meno l’interesse punitivo dello Stato nei confronti del reo. Questo assunto traeva il suo fondamento penalistico dalla convinzione che fuori dal contesto sociale che lo aveva generato, il reato attenuava se non perdeva la sua portata lesiva dell’ordine sociale e politico infranto, perdeva la carica di allarme sociale in esso contenuta e il reo vedeva inevitabilmente modificarsi la sua personalità a distanza di trenta anni dai fatti. A questa concezione Caselli antepone la «punizione infinita», per altro strettamente limitata ai reati di natura politica e di contestazione sociale, secondo una visione etica dello Stato molto vicina ai presupposti culturali dell’attuale maggioranza di governo, a cui senza dubbio può dare molte lezioni.
Ai giudici francesi non è sfuggito questo atteggiamento generale della autorità politiche e giudiziarie italiane, nonché della grande stampa, tanto da aver ritenuto che il via libera alle estradizioni, a fronte dei ripetuti propositi meramente vendicativi enunciati e praticati da parte italiana, avrebbe comportato per gli estradandi un trattamento sproporzionato e iniquo, una violazione insanabile della vita familiare e privata acquista da molti decenni in Francia, infrangendo il percorso di recupero sociale realizzato.
A rendere ancora più furibondo Caselli è stato poi il richiamo al giusto processo, sancito dall’articolo 6 della Cedu. Norma finalizzata a garantire che la persona a rischio di estradizione non sia esposta, nello Stato richiedente, a un flagrante diniego di giustizia che può derivare, in particolare, dall’impossibilità di ottenere una nuova pronuncia giudiziaria sul merito dell’accusa nonostante la condanna sia stata pronunciata in sua assenza. Diverse richieste di estradizione riguardavano, infatti, persone processate e condannate in contumacia. Chi ha seguito tutte le udienze davanti alla corte di appello di Parigi sa bene che i giudici hanno ripetutamente chiesto chiarimenti e garanzie alla parte italiana affinché una volta riconsegnate, le persone condannate in contumacia potessero avere garantito il diritto a un nuovo processo. Per tutta risposta le autorità italiane hanno balbettato, tergiversato a lungo perché incapaci di fornire delle garanzie inesistenti nel nostro ordinamento processuale. Atteggiamento che ha definitivamente convinto la corte francese a rifiutare le domande di estradizione.
Per Caselli tutto ciò sarebbe solo una prova della supponenza d’Oltralpe e non una manifesta deficienza italiana, una incapacità a comprendere che la cultura della eccezione giudiziaria che ha dominato la fase repressiva della lotta armata non è sovrapponibile alle altre culture giuridiche europee a cui sfugge questa eterna riproposizione di logiche d’eccezione originate da contesti non più attuali, conclusi da oltre trent’anni.
Alla ricerca disperata di argomenti per puntellare le proprie tesi, Caselli ricorre ad un esempio surreale, il processo di Torino al nucleo storico delle Brigate rosse, definito un modello del rispetto dei diritti degli imputati. Oggi sappiamo che fu la federazione del Pci torinese a reclutare i giudici popolari di quel processo, come ha raccontato Giuliano Ferrara che quella operazione gestì in prima persona. Sono noti anche i rapporti stretti che Caselli teneva con la federazione torinese del partito comunista, in nome di quella concezione schierata e combattente del ruolo della magistratura che contrasta con la pretesa di dare lezioni morali al mondo, soprattutto se poi è la sua ex procura, in linea con le autorità di governo francesi (cosa c’entra la magistratura di Parigi che per altro nel dossier estradizioni non si è piegata ai diktat dell’Eliseo), a perseguire con uno zelo facinoroso quegli attivisti che sostengono i migranti alla frontiera tra i due paesi.

Rapimento Moro, quei complottisti a caccia di fantasmi…

Via Gradoli, al posto di Moro un paio di stivali con il dna della brigatista Faranda e dentro la 128 bianca con targa diplomatica, che bloccò in via Fani il convoglio dello statista, il dna del proprietario. Daniele Zaccaria riprende su il Dubbio le ultime novità presenti nel volume La polizia della storia, Derviveapprodi, maggio 2021, sulla sesta inchiesta aperta dalla procura romana sul rapimento e l’uccisione del leader democristiano da parte delle Brigate rosse.


Daniele Zaccaria, Il Dubbio 19 marzo, 2023

Sono passati quarantacinque anni esatti dal sequestro di Aldo Moro e dalla strage della sua scorta, ma i dietrologi e gli illusionisti di ogni risma non riescono proprio ad accettare il fatto che a rapire e a uccidere il presidente della Democrazia cristiana furono le Brigate rosse e nessun altro. A quasi mezzo secolo di distanza da quei tragici eventi continuano infatti ad evocare cospirazioni, manipolazioni, regie occulte, disturbati dal pensiero che un piccolo manipolo di operai e studenti di bassa estrazione sociale abbia tenuto sotto scacco lo Stato e i suoi apparati per così tanto tempo. La chiamavano “geometrica potenza” delle Br una bella suggestione letteraria, in altri termini il nome che lo Stato aveva dato alla sua incapacità di comprendere e contrastare il fenomeno brigatista, ma quell’immagine di efficienza militare attribuita dalla politica e dal circo mediatico all’organizzazione comunista armata ha alimentato con enorme successo il filone del complottismo.

Un flusso di opinione qualunquista e gelatinoso alimenta la dietrologia
Non stiamo parlando solamente del flusso di opinione qualunquista e gelatinoso che scorre sui social, dei discorsi da bar o delle ossessioni degli “specialisti” della congiura come Sergio Flamigni o Paolo Cucchiarelli che su questi giochetti di ombre cinesi agitate attorno all’affaire Moro hanno costruito una discreta carriera.
La caccia ai fantasmi di via Fani è purtroppo uno sport ancora in voga anche ai più alti livelli politici e istituzionali. Illuminante in tal senso è stato il lavoro della Commissione Moro II con la sua fissazione di voler scovare a tutti i costi il Dna di individui estranei alle Br sul luogo dell’attentato per suffragare l’ipotesi di complotto.
Come nel plot twist di un film hollywoodiano i commissari di Palazzo San Macuto speravano di far emergere verità scottanti e inconfessabili, magari illuminando la longa manus dei servizi segreti, o addirittura quella delle centrali di intelligence straniere: la Cia, il Kgb, e persino gli israeliani del Mossad come sostenne l’ex Pubblico Ministero di Genova Luigi Carli in una memorabile audizione davanti alla Commissione.
Un fronte di indagine, quello genetico, affidato al Reparto investigazioni speciali dei carabinieri, il celebre Ris, che ha messo a confronto le tracce biologiche rinvenute in via Fani con quelle presenti nel covo brigatista di via Gradoli 96. Le analisi però non confermano nessun sospetto evocato dalla Commissione, al contrario denudano diverse fake news che negli anni hanno tentato di smontare senza successo la “versione ufficiale”.

Via Gradoli, al posto di Moro un paio di stivali con il dna della Faranda
In primo luogo nel covo non è stato ritrovato nessun frammento del Dna di Moro ( i quattro profili genetici isolati dal Ris, due maschili e due femminili, non coincidevano con quelli prelevati ai familiari dello statista Dc), il che smentisce chi afferma che il leader democristiano fosse stato imprigionato o comunque avesse transitato anche per via Gradoli: in tutti i 55 giorni del sequestro rimase nella “prigione del popolo” di via Montalcini come hanno sempre affermato i brigatisti coinvolti.
Inoltre nei reperti di via Gradoli emerge una «compatibilità biologica» con il l Dna della brigatista Adriana Faranda, un’altra conferma di quanto sostenuto dai protagonisti: nella base avevano vissuto infatti tre coppie, Carla Maria Brioschi e Franco Bonisoli, Adriana Faranda e Valerio Morucci, Barbara Balzerani e Mario Moretti, questi ultimi proprio durante i giorni del rapimento dopo che l’appartamento di Piazzale Vittorio Poggi in cui vivevano si era “bruciato”. Anche l’inseguimento dei “tabagisti” sulla scena del delitto si è rivelato un flop: le analisi dei 39 mozziconi ritrovati nella Fiat 128 targata corpo diplomatico utilizzata in via Fani per bloccare le automobili di Moro e della sua scorta isolano infatti le tracce genetiche di Nando Miconi, il proprietario del mezzo rubato, su alcuni mozziconi ci sono invece le tracce miste di Miconi e di un ignoto, con ogni probabilità un suo amico o conoscente. Sono soltanto dieci i mozziconi riconducibili a sei ignoti, ma poiché nessuno ha mai visto uscire sei persone dalla Fiat 128 la mattina del 16 marzo 1978, con tutta evidenza le tracce sui mozziconi appartenevano anch’esse a conoscenti del proprietario.
Nel 2021 il fascicolo sui tabagisti viene ereditato dalla procura di Roma la quale convoca quei brigatisti che inizialmente si erano rifiutati di fornire alla Commissione i loro profili genetici. Un accanimento che secondo Enrico Triaca, il “tipografo” delle Br «è un tentativo di distrarre l’attenzione dalle vere verità come le torture». Arrestato il 17 maggio del 1978, otto giorni dopo la morte di moro, Triaca venne in effetti torturato dal funzionario di polizia Nicola Ciocia, il cosiddetto “professor De Tormentis” che lo sottopose al waterboarding, la stessa tecnica utilizzata dalla Cia per far parlare i sospetti jihadisti e proibita da qualsiasi convenzione internazionale.
Convocazioni pittoresche quelle della procura romana, basti pensare a Corrado Alunni, fuoriuscito dalle Br addirittura nel 1974 o a Giovanni Senzani che non è mai stato un fumatore. In tutto furono una dozzina abbondante gli ex Br convocati, la maggior parte condannati in via definitiva per il sequestro e l’omicidio di Aldo Moro.
Cercando di comprendere l’utilità di simili test, siamo ancora in attesa degli esiti dei nuovi accertamenti genetici visto che l’inchiesta della procura è ancora in corso.
Un altro brutto autogol della Commissione riguarda il testimone Alessandro Marini: nessuno aveva sparato contro di lui in via Fani e il parabrezza del suo motorino Boxer Piaggio si era rotto a causa di una caduta dal cavalletto avvenuta nei giorni precedenti.
Peraltro, e questo particolare la dice lunga su quanto il furore cospirazionista flirti con il cinismo, il presidente della Commissione Fioroni non hai mai contattato la procura perché avviasse la revisione delle condanne per il tentato omicidio di Marini, tentato omicidio che logicamente non è mai avvenuto.

Punire il pensiero è la vera ragione del 41 bis per Alfredo Cospito

Un appello siglato da intellettuali, giuristi e personalità ha chiesto la revoca del regime penitenziario 41 bis a cui è stato sottoposto l’anarchico Alfredo Cospito in sciopero della fame dal 20 ottobre scorso. Tra i firmatari Alex Zanotelli, Donatella Di Cesare, Moni Ovadia, Massimo Cacciari, Luigi Ferrajoli, ma anche ex magistrati in pensione: tra questi Gherardo Colombo, Beniamino Deidda, Domenico Gallo, Nello Rossi, Livio Pepino, Franco Ippolito e l’ex presidente della Corte costituzionale Giovanni Maria Flick. E’ un fatto di indubbia novità che alcune di queste figure abbiano preso pubblicamente posizione su un tema del genere.

Un salto nella escalation repressiva
L’applicazione del 41 bis a Cospito rappresenta un nuovo stadio nella escalation repressiva, un ulteriore passaggio nella politica di differenziazione penitenziaria. In questo caso infatti mancano tutti i requisiti generalmente indicati per l’applicazione di queste misura: l’interruzione del legame organizzativo con gli associati e la possibilità di ottenere informazioni.
All’inizio del decennio 90 il 41 bis (l’abolizione di ogni spazio vitale in carcere e l’ostatività a permessi, lavoro esterno, semilibertà e liberazione condizionale, evoluzione del precedente articolo 90) venne introdotto per interrompere i legami organizzativi mantenuti tra reclusi appartenenti a gruppi mafiosi e le associazioni criminali esterne di appartenenza. Successivamente nei primi anni 2000 la stessa misura venne estesa anche a tre militanti delle cosiddette “nuove Br”, condannati per degli attentati realizzati nel 1999 e nel 2002.

Nessun legame organizzativo da interrompere
Ciò che colpisce nella vicenda di Cospito è l’assenza del legame organizzativo. Cospito è in carcere da dieci anni per fatti che al momento della condanna non comportarono il ricorso al 41 bis, misura che gli è stata applicata solo nel 2022, a 16 anni di distanza. Dai fatti reato che gli sono attribuiti è trascorso un lungo periodo, nel frattempo non ci sono stati nuovi reati né una nuova organizzazione sovversiva è emersa che lo veda coinvolto, né ci sono state azioni illegali della stessa portata o dimensione per cui era finito in carcere, tali da giustificare un nuovo allarme sociale. A ciò si deve aggiungere che il settore anarchico di riferimento (Federazione anarchica informale) non era una organizzazione con una gerarchia, un organigramma, dei legami definiti e strutturati ma una pulviscolo di singole persone o nuclei separati e indipendenti l’uno dall’altro. Secondo la loro ideologia ognuno poteva agire come meglio credeva a prescindere dall’azione dell’altro. La misura del 41 bis pertanto non potrebbe interrompere nessun flusso informativo/organizzativo presunto o possibile in entrata e in uscita per il semplice fatto che semmai questa area – silente ormai da molti anni – dovesse agire, lo farebbe a prescindere dalla esistenza di Cospito e dalle sue personali posizioni. Alla resa dei fatti la misura del 41 bis risulta del tutto ineffettuale: non interromperebbe legami organizzativi che non sussistono; non bloccherebbe flussi informativi non previsti.
La permanenza del 41 bis anche in assenza del legame organizzativo non è una singolarità che riguarda solo Cospito. Anche per i tre ex appartenenti alle “nuove Br”, Marco Mezzasalma, Nadia Lioce e Roberto Morandi, il regime detentivo in 41 bis si protrate da circa 20 anni nonostante la scomparsa dell’originario gruppo politico di appartenenza.

Spezzare il legame con la società
Secondo la retorica riabilitativa la pena deve essere volta alla risocializzazione e questo perché gran parte dei comportamenti devianti sono ritenuti una conseguenza della marginalizzazione sociale. Nel caso dei detenuti politici la punizione ha l’obiettivo opposto: la militanza politica presuppone la presenza di reti sociali, connessioni e forte socializzazione. In questo caso è l’internità sociale che va rotta: desocializzare, isolare, spezzare i legami sociali è il vero obiettivo della sanzione che porta alla differenziazione carceraria, ai diversi regimi di isolamento in alta sicurezza ed ora in 41 bis.

Estorcere dichiarazioni
L’altra ragione richiamata per l’applicazione del 41 bis è la collaborazione con la giustizia, indurre il recluso a rivelare fatti e circostanze: altrimenti detto estorcere dichiarazioni. Una tortura bianca più lenta e silenziosa, diluita nel tempo e meno impattante per la sensibilità pubblica. Nella vicenda di Cospito anche questa possibilità viene a mancare poiché i fatti-reato per i quali è stato condannato sono stati accertati e sanzionati e lo stesso Cospito li ha riconosciuti. Oltretutto gli episodi-reato per i quali è stato condannato risultano di modesta gravità nonostante l’entità delle pene ricevute: una gambizzazione (lesioni), degli attentati dinamitardi che hanno prodotto danni lievi a cose. L’ipersanzione non è dovuta quindi alla portata effettuale dei fatti commessi ma alla loro valenza simbolico-politica: antistatale e antisistema. Non sfugge in questo caso la disparità di trattamento penale e penitenziario rispetto chi ha realizzato in questi anni reati di natura stragista, aggravati dal movente razziale, sanzionati con pene molto lievi che non prevedono il medesimo trattamento carcerario.

Il 41 bis serve a punire il pensiero
Appare chiaro che l’applicazione del 41 bis nei confronti di Alfredo Cospito mira a colpire la sua personalità, il suo pensiero, opinioni espresse pubblicamente, per altro senza aver mai violato le regole carcerarie poiché fino a ieri non era sottoposto censura o altra limitazione ma esercitava del tutto legittimamente la sua libertà di pensiero. Nel caso l’autorità penitenziaria avesse ravvisato la presenza di pericolosità nelle sue esternazioni, avrebbe avuto la facoltà di intervenire attraverso i normali strumenti del codice penale, denunciando eventuali reati di istigazione o apologia per i quali, se effettivamente riscontrati dalla magistratura, comunque non è prevista nessuna reclusione in regime di 41 bis ma un eventuale aggravio di pena. L’applicazione del regime di 41 bis costituisce in questo caso un attacco diretto ed esclusivo all’identità politica del detenuto.

Roma di piombo “diario di una lotta” (Sky TV)

Recensione – Un documentario di cinque puntate trasmesso da Sky ricostruisce l’attività di contrasto condotta dal giugno 1978 fino al 1989 da parte della Sezione speciale dei carabinieri della Capitale contro la colonna romana delle Brigate rosse

Davide Steccanella

Documentario in 5 puntate (ideato da Paolo Colangeli, scritto da Michele Cassiani con Egilde Verì e regia di Francesco Di Giorgio), tratto dal libro “Il lungo assedio” (Melampo editore) scritto dall’ex colonnello dei carabinieri Domenico Di Petrillo per ricostruire con interviste e immagini d’epoca come il Nucleo speciale, istituito dopo il sequestro Moro su indicazione del Generale Dalla Chiesa, riuscì ad arrestare la gran parte dei brigatisti rossi della colonna romana in un periodo che va dal 1980 al 1989.
Si apprende così, dalla viva voce dei protagonisti diretti di quella storia, che tutto partì a seguito dell’omicidio genovese di Guido Rossa del 24 gennaio 1979 allorché l’allora PCI di Berlinguer decise di collaborare attivamente con le forze dell’ordine per combattere più efficacemente quella che, visti i numeri e il senno di poi, può essere definita una vera e propria guerra in corso e che infatti ci vorranno altri dieci anni per poterla dichiarare storicamente chiusa con l’arresto (o la fuga all’estero) di tutte le migliaia di militanti armati di quegli anni.
Fu il Colonnello Bonaventura del Nucleo di Milano a fornire ai colleghi romani, che ai tempi – va detto – brancolavano nel buio più totale, una sorta di “infiltrato” sui generis, che verrà soprannominato “Fontanone”, il quale aveva contatti con alcuni militanti del movimento romano, e che venne fotografato da un furgone camuffato in vari incontri con diversi soggetti dell’estrema sinistra capitolina, fino a quello con un tizio corpulento che nella primavera del 1980 il noto pentito Patrizio Peci individuò come “un judoka della colonna romana”.
Ricercando negli elenchi delle varie palestre romane si arrivò ad identificarlo in Francesco Piccioni, seguendo il quale venne fotografato un incontro in un ristorante periferico con altri tre militanti importanti della colonna (Laura Braghetti, Salvatore Ricciardi e Renato Arreni). Nel maggio del 1980 scattò dunque un blitz in cui il 27 venero arrestati Braghetti e Ricciardi in un Bar nel centro di Roma (insieme a Gianantonio Zanetti, ex militante delle Formazioni Comuniste combattenti di Corrado Alunni) e il 10 giugno Piccioni nella base di via Silvani 7. Fra pedinamenti falliti e interventi talvolta intempestivi alternati ad arresti significativi che si protrarranno per poco meno di 10 anni – mentre nel frattempo l’intero Paese metteva da parte un periodo storico ventennale socialmente, prima ancora che politicamente, concluso ancora agli inizi degli Ottanta “da bere” – il documentario si sofferma in particolare su quattro importanti operazioni di polizia ripartite nel tempo. 1) l’arresto nel 1987 (fotografando Paolo Persichetti vicino a una cabina telefonica) di tutti i militanti che nel 1984/85 avevano formato un nuovo gruppo armato (Unione Comunisti Combattenti) che si era reso responsabile il 21 febbraio 1986 dell’attentato a Antonio Da Empoli – nel corso del quale era stata uccisa la militante Wilma Monaco -, nato in dissenso dalle BR del Partito Comunista combattente (a sua volta divisosi dal Partito Guerriglia fondato nel 1981 da Giovanni Senzani e che era stato interamente sgominato nel 1982), 2) l’arresto il 19 giugno del 1985 a Ostia di Barbara Balzerani (fotografata mentre si incontrava con il pedinato Gianni Pelosi), 3) l’arresto il 25 gennaio 1988 di Antonino Fosso, ritenuto uno dei principali dirigenti della colonna che aveva compiuto gli omicidi Tarantelli, Conti e la sanguinosa rapina del 14 febbraio 1987 in via Prati di papa in cui erano morti due agenti e infine 4) il blitz del 7 settembre del 1988 contro i militanti ritenuti responsabili dell’ultimo omicidio targato BR, quello del senatore democristiano Ruffilli a Forli del 12 maggio 1988, che determinerà una pubblica dichiarazione del 23 ottobre dei brigatisti in carcere in un documento a più firme (tra cui quelle di Gallinari, Piccioni e Seghetti), dove si afferma che le Brigate Rosse coincidono con i prigionieri politici delle Brigate Rosse, perché spiega nel documentario Piccioni: “Non potevamo lasciare, in un Paese abituato ai complotti e ai misteri, che altri che non c’entravano con la nostra storia usassero quel ‘marchio’”, anche se l’anno dopo verrà effettuata, il 5 settembre 1989, un’ultima operazione in Francia coordinata con la locale gendarmeria con l’arresto dei brigatisti residui.

I principali membri di quel nucleo speciale raccontano a distanza di 40 anni quel periodo vissuto, dicono, in clandestinità come i loro obiettivi, e i disagi familiari che tutto ciò ha comportato anche attraverso il ricordo delle loro mogli, e a mitigare la ricostruzione palesemente fatta da una parte sola delle due in contesa, il documentario offre lunghe interviste anche a due ex brigatisti, Francesco Piccioni e Paolo Persichetti, che hanno modo così di raccontare anche la loro storia dall’altra parte. La scelta dei due, probabilmente dettata anche dal fatto che altri si sono rifiutati di partecipare, si rivela azzeccata e in certo senso spiazzante, immagino, per chi dovesse vedere il documentario senza una adeguata preparazione storica su quel periodo oppure condizionato dalla “vulgata” che ce lo ha raccontato, perché i due ex sbaragliano ogni ritratto tipo che fino ad oggi ci era stato tramandato sul “terrorista, feroce assassino”. Piccioni è un interlocutore di rara empatia e arguzia romana che tutto sembra tranne che un mostro impunito e Persichetti ha una pacatezza da intellettuale e storico nel raccontare, e soprattutto spiegare, i fatti, che è impossibile non riflettere su quanto dice anche se non necessariamente condividerlo. Anche il finale è un po’ spiazzante, perché dopo avere decantato per 5 puntate i meriti di quei carabinieri oggi in pensione, comprensibilmente orgogliosi di quanto a suo tempo fatto “per servire il proprio paese”, si coglie in loro una certa amarezza di fondo nelle dichiarazioni conclusive su quanto poi è accaduto nei successivi 40 anni in Italia “Un Paese che oggi non mi rappresenta molto”, dice uno di loro e persino i coniugi Di Petrillo si lasciano andare a riflessioni tipo “era uno scontro generazionale anche noi avevamo la loro età ed eravamo come loro pieni di ideali”, dice lui, e “molti dei loro ideali li condividevo anche io”, dice lei.
Insomma, l’onore delle armi riconosciuto agli sconfitti al termine di una guerra vinta e questo credo sia il messaggio più importante di questo lavoro perché, come dice Piccioni “quando c’è una guerra il nemico o lo uccidi durante il conflitto o dopo che si è conclusa trovi una soluzione per i tanti prigionieri per dichiarare chiusa una fase di Storia”, e invece, come si è potuto vedere anche in casi recenti di assurde polemiche sul regime di cella di detenuti anziani per fatti commessi oltre 40 anni fa, l’Italia quella guerra non l’ha mai voluta chiudere, preferendo semplicemente negare che ci fosse stata.

«Il Tipografo», Le torture della repubblica in un film di Stefano Pasetto

«Il Tipografo», il lungometraggio realizzato da Stefano Pasetto che racconta le torture praticate contro le persone arrestate per fatti di lotta armata tra la fine degli anni 70 e i primi anni 80, in particolare la storia di Enrico Triaca arrestato il 1978 maggio 1978 perché gestiva una tipografia delle Brigate rosse, vince il premio Miglior Lungometraggio Italiano Visioni dal Mondo 2022 con la motivazione: «è un’opera molto interessante sia come testimonianza che come occasione di riflessione su un periodo complesso della nostra storia recente anche perché quanto accaduto viene presentato con una molteplicità di testimonianze non necessariamente univoche».
Una scelta coraggiosa quella della giuria che non ha avuto paura di porre all’attenzione pubblica un tema da sempre occultato, quello della tortura. Recentemente anche Sky ha messo in onda una docuserie di quattro puntate sul sequestro Dozier in cui si ricostruisce senza censure l’attività svolta tra la fine degli anni 70 e i primi anni 80 da un apparato del Ministero dell’Interno specializzato nella pratica del waterboarding per estorcere dichiarazioni agli arrestati. Un segnale importante che si spera spinga a fare piena luce su quegli anni sfatando la narrazione ufficiale che racconta l’insorgenza politica e sociale di quel periodo sconfitta solo con gli strumenti dello Stato di diritto.

https://www.rai.it/raicinema/news/2022/09/I-vincitori-dell8-Festival-Internazionale-del-Documentario-Visioni-dal-Mondo-c9c1a341-e7b4-4368-ab96-3c7bee2ff0bf.html?fbclid=IwAR1igkb2pVuSigiuzEOKaZFdIXIFljfr1CY-TUyCazl1al7LN9wt4Rulrd4

La proposta indecente: verità sulle torture solo se gli irriducibili vengono in commissione Moro

La morte dell’ex ministro dell’Interno Virginio Rognoni che nel 1982 diede il via libera all’uso della tortura contro le persone arrestate per fatti di lotta armata, decisione deliberata dopo una riunione del Comitato interministeriale per l’informazione e la sicurezza dell’8 gennaio 1982, rimette al centro dell’attenzione un episodio accaduto durante i lavori della Commissione Moro 2. Un baratto fu proposto da alcuni esponenti di rilievo della Commisssione parlamentare d’inchiesta che stava nuovamente indagando sul sequestro e l’uccisione dello statista democristiano: l’organo parlamentare d’inchiesta si sarebbe occupato per la prima volta delle torture inferte a Enrico Triaca, il tipografo delle Brigate rosse romane arrestato il 17 maggio 1978, e della struttura del ministero dell’Interno guidata da Nicola Ciocia, alias professor De Tormentis, che praticò in maniera sistematica il waterboarding e altre violenza durante gli interrogatori contro gli inquisiti per lotta armata arrestati nel corso del 1982. In cambio si chiedeva agli ex brigatisti «irriducibili» (non dissociati e non collaboranti) che in passato avevano rifiutato ogni contatto con le commisssioni parlamentari d’inchiesta di mutare atteggiamento accetando le convocazioni. La proposta appariva tanto più ipocrita perché formulata proprio da quei settori politici che con più forza denunciavano l’esistenza di un patto di omertà stipulato in passato tra brigatisti e settori dello Stato, accordo che avrebbe «tombato la verità sul sequestro Moro».
La vicenda è stata raccontata nei dettagli nel volume La polizia della storia, la fabbrica delle fake news nell’affaire Moro. pp. 209-219.

La proposta indecente

ll 21 gennaio 2016 il deputato Fabio Lavagno depositò in Commissione una richiesta di audizione di undici testimoni sul tema delle torture. «Come anticipato in varie sedi – scriveva Lavagno – ritengo che il tema delle torture sia d’interesse per la Commissione». Nel testo si chiedeva la convocazione dell’ex tipografo Enrico Triaca, torturato il 17 maggio 1978 nell’ambito delle indagini sul sequestro Moro. Si indicava il nome di Nicola Ciocia, che in diverse circostanze ammise di essere stato il torturatore di Triaca: ex funzionario dell’Ucigos in pensione, conosciuto col soprannome di «De Tormentis», titolo di un trattato medievale che regolamentava l’uso delle torture per realizzare gli interrogatori.(1) Il nomignolo gli era stato attribuito da Umberto Improta, (anch’egli importante dirigente dell’Ucigos, protagonista delle inchieste contro i gruppi armati), per le indiscutibili competenze dimostrate da Ciocia in materia di interrogatori non ortodossi. Immortalato alle spalle di Cossiga, in via Caetani, davanti al cadavere di Moro rannicchiato nel portabagagli della Renault 4 color amaranto, Ciocia era un indubbio personaggio: di simpatie dichiaratamente fasciste, nel gennaio 2001 su un mensile massonico, «Il razionale», aveva esaltato le tesi del giurista del regime mussoliniano Giorgio Del Vecchio, elogiando lo Stato etico («il diritto è il concentrato storico della morale»), rivendicando per la polizia i «poteri di fermo, interrogatorio e autonomia investigativa». Nel 2004 aveva avuto rapporti con Fiamma tricolore di cui era stato commissario per la Federazione provinciale di Napoli e, dulcis in fundo, aveva partecipato come difensore di un funzionario di polizia, tra il 1986-87, ai processi contro la colonna napoletana delle Br-Partito guerriglia, che non molto tempo prima aveva lui stesso smantellato senza risparmio di metodi “speciali”. Una singolare commistione di ruoli tra funzione investigativa, emanazione del potere esecutivo, e funzioni di tutela all’interno di un iter che appartiene al sistema giudiziario, che solo in uno stato di eccezione, come quello italiano, si è arrivati a consentire. Su Ciocia raccolsi uno sconcertante aneddoto dalla voce di Massimo Bordin, compianto conduttore della rassegna stampa di Radio radicale e memoria storica dei maxi processi dell’emergenza antiterrorismo. Massimo mi spiegò che l’ex questore, divenuto avvocato, Nicola Ciocia aveva tenuto la difesa di un poliziotto, suo subordinato quando era ancora in servizio, nel processo sul rapimento Cirillo: «Come si può dimenticare quel personaggio!», esclamò quando gli chiesi di lui. Ciocia – mi raccontò Bordin – «aveva iniziato il controinterrogatorio di un imputato che lui stesso aveva interrogato durante le indagini. Con fare aggressivo lo incalzava dicendogli: – ma come, non ti ricordi quando con le lacrime agli occhi mi dicevi queste cose? E l’imputato: – Avvoca’ ma quelle non erano lacrime, erano i suoi sputi!». (2) In una intervista parlando delle torture inflitte ai brigatisti, Ciocia dichiarò: «la tortura – se così si può definire – è l’unico modo, soprattutto quando ricevi pressioni per risolvere il caso, costi quel che costi. Se ci sei dentro non ti puoi fermare, come un chirurgo che ha iniziato un’operazione devi andare fino in fondo. Quelli dell’Ave Maria esistevano, erano miei fedelissimi che sapevano usare tecniche “particolari” d’interrogatorio, a dir poco vitali in certi momenti». (3) Tra le richieste di convocazione c’erano anche tre giornalisti: Matteo Indice, Nicola Rao e Fulvio Bufi, che avevano svolto un importante lavoro d’inchiesta sulle torture; (4) altri due poliziotti, Carlo De Stefano e Michele Finocchi, che gestirono Triaca prima e dopo il waterboarding; (5) il magistrato Imposimato che ignorò le sue denunce. C’erano, inoltre, il nome dell’avvocato Romeo, che si era occupato di far riconoscere dalla Corte di appello di Perugia l’uso della «tecnica dell’annegamento simulato», impiegato contro Triaca durante l’interrogatorio realizzato nella notte del 17 maggio 1978; (6) infine Marco Pannella, che aveva denunciato, in Parlamento e fuori, la stagione delle torture e raccolto le ammissioni del Ministro dell’Interno dell’epoca, Virginio Rognoni: «Ricordo – aveva scritto Pannella – la mattina in cui, dinanzi al tabaccaio di noi deputati, a Montecitorio, incontrai il Ministro dell’Interno e “amico” Virginio Rognoni. Gli dissi che avevamo registrato la sera prima una tribuna autogestita, con Emma Bonino che aveva dietro di sé una gigantografia, che la sovrastava, con il membro torturato di Cesare Di Leonardo, un brigatista arrestato e torturato nelle ultime ore del rapimento del generale americano Dozier. Gli chiesi se fosse a conoscenza del fatto, e dei documenti che noi in tal modo rendevamo televisavamente “pubblici”. Virginio mi ascoltava rabbuiato e attento, e dopo un istante sbottò: “Questa è una guerra. E il primo dovere, per difendere la legge e lo Stato, è quello di coprire, di difendere i nostri uomini…”. La tribuna autogestita andò in onda. Nessuno, ripeto nessuno, sulla grande stampa, in Parlamento, nella magistratura, a sinistra e a destra, sembrò accorgersene». (7) Nicola Ciocia era sfuggito alle poche inchieste della magistratura che si erano occupate delle violenze contro i fermati e gli arrestati. Nelle maglie degli ingranaggi processuali finirono invece Salvatore Genova, un commissario della Digos genovese che aveva contribuito alle indagini e alcuni agenti dei Nocs che avevano direttamente partecipato alla liberazione del generale James Lee Dozier, il 28 gennaio 1982. Il generale americano vicecapo della Fatse, il Comando delle forze terrestri della Nato per il Sud Europa, era stato rapito dalla colonna veneta delle Brigate rosse il 17 dicembre 1981. L’inchiesta accertò le violenze commesse contro Cesare Di Lenardo, catturato insieme a Emanuela Frascella, Emilia Libèra, Giovanni Ciucci e Antonio Savasta, all’interno della base di via Pindemonte 2 a Padova, dove era tenuto prigioniero il generale statunitense. Di Lenardo, che ha raggiunto il suo quarantesimo anno di detenzione in una struttura di Massima sicurezza, fu portato all’esterno della caserma della celere di Padova, dove era trattenuto con gli altri quattro coimputati, e sottoposto a una finta fucilazione, a un tentativo di waterboarding che gli causò una rottura del timpano, a ripetute bruciature di sigaretta e posizionamento di elettrodi sul corpo e sui genitali in particolare. (8)
Salvatore Genova nel 2007 ruppe il si lenzio sulla vicenda e iniziò a raccontare quanto era accaduto durante le indagini che portarono alla liberazione di Dozier: rivelò nel corso del tempo l’esistenza di un apparato del Ministero dell’Interno dedito agli interrogatori non ortodossi, ricostruì alcuni episodi precedenti la liberazione del generale Usa. Le torture vennero impiegate a largo raggio durante i rastrellamenti negli ambienti dell’Autonomia veneta per raccogliere informazioni che portassero sulla pista giusta. In un villino, un residence tra Cisano e Bardolino, vicino al lago di Garda, di proprietà del parente di un poliziotto (lo ha rivelato al quotidiano «L’Arena» del 12 febbraio 2012 l’ex ispettore capo della Digos di Verona, Giordano Fainelli, circostanza confermata dallo stesso Genova) furono condotti e «trattati» Nazzareno Mantovani e successivamente Ruggero Volinia, che aveva svolto il ruolo di autista nel sequestro del generale Dozier. A condurrre l’interrogatorio a base di acqua e sale Nicola Ciocia e la sua fedelissima squadra della Mobile napoletana, detti nell’ambiente gli «acquaiuoli». Volinia, dopo il waterboarding condusse la polizia sotto la base-prigione di via Pindememonte dove era tenuto Dozier. Si torturava anche all’ultimo piano della questura di Verona, requisita dalla struttura speciale coordinata da Umberto Improta, diretta dall’allora capo dell’Ucigos Gaspare De Francisci, su mandato del capo della Polizia Giovanni Coronas che rispondeva al Ministro dell’Interno Virginio Rognoni. Qui – ha raccontato sempre Salvatore Genova – fu seviziata da Oscar Fiorolli la brigatista Elisabetta Arcangeli. Ultimamente, anche alcuni degli agenti dei Nocs, il reparto speciale delle Polizia di Stato che fece irruzione nell’appartamento dove era trattenuto Dozier, hanno abbandonato il riserbo e iniziato raccontare nuovi particolari sulle violenze praticate contro i brigatisti catturati. Si è venuto a sapere che le torture realizzate contro Ennio Di Rocco e Stefano Petrella, appartenenti al Partito guerriglia, arrestati in via della Vite nel centro di Roma, dove da alcuni giorni erano appostati per tentare di rapire Cesare Romiti, Amministratore delegato della Fiat, avvennero all’interno di una caserma di Monterotondo.La commissione avrebbe potuto offrire un importante servizio alla storia italiana se avesse squarciato la cortina di silenzio calata su questi aspetti della lotta contro le formazioni della sinistra armata. Una rimozione che ha visto la complicità estesa della magistratura, salvo rare eccezioni, la copertura del sistema politico e il bavaglio messo ai media che provarono a denunciare gli episodi venuti alla luce e che assomigliò pericolosamente, in alcuni momenti, a quanto succedeva nello stesso momento in Argentina.Si arrivò addirittura all’arresto di due giornalisti, PierVittorio Buffa e Luca Villoresi, che in due articoli apparsi su «l’Espresso» del 28 febbraio 1982 dal titolo evocativo, «Il rullo confessore», e su «Repubblica» del 18 marzo successivo, «Ma le torture ci sono state? Viaggio nelle segrete stanze. Quei giorni dell’operazione Dozier», avevano raccolto da fonti interne alla Polizia indisponibili ad accettare il ricorso alla tortura le informazioni per denunciare quanto stava accadendo.

Il baratto della verità
Inizialmente la richiesta delle audizioni sulla tortura non sortì reazioni, poi trapelò una singolare offerta di scambio: la Commissione avrebbe convocato Triaca e Ciocia se i brigatisti «irriducibili» avessero accettato di venire a testimoniare. La responsabilità di avviare finalmente il riconoscimento della stagione delle torture ricadeva dunque sulle loro spalle, non sul mandato istituzionale che la Commissione d’indagine parlamentare si era dato. L’offerta che arrivò, a me e a Marco Clementi perché ce ne facessimo carico e la comunicassimo agli ex brigatisti, con cui eravamo in contatto nel periodo di preparazione del volume sulla storia delle Brigate rosse, era ovviamente irricevibile. Né io, né Clementi, riferimmo la proposta. Approfondire la vicenda delle torture, convocare Triaca e Ciocia, interrogarli e ricostruire quel periodo, fare luce sugli organigrammi, risalire la scala delle responsabilità, oltretutto ormai penalmente prescritte, per sapere da dove venne l’ordine di impiegare anche mezzi illeciti di interrogatorio, perché fu presa quella scelta, il ruolo e le connivenze col mondo politico e la magistratura, il peso avuto dagli Stati Uniti, spettava alla Commissione. Prevalse invece la cultura del sotterfugio, l’anima torbida di un potere che si percepisce al disopra del bene e del male. Nel gennaio 2020 Nicola Ciocia è deceduto portando con se i segreti di quella stagione: «Non sono segreti che riguardano la mia persona – aveva spiegato a Nicola Rao nel 2011 – sono segreti che riguardano qualcosa di ben più grande e di molto più importante: sono segreti che riguardano lo Stato […] Quelli dell’Ave Maria esistevano, erano miei fedelissimi che sapevano usare tecniche “particolari” d’interrogatorio, a dir poco vitali in certi momenti […] non sono cose mie, ma sono cose che riguardano lo Stato, non posso dire nulla di più di quello che ho detto. Me le porterò nella tomba».

Note
1 P. Persichetti, «Liberazione», 11 dicembre 2011, Nicola Ciocia, alias professor “De Tormentis”, è venuto il momento di farti avanti, in https://insorgenze.net/2011/12/10/de-tormentis-e-venuto-il-momento-di-farsi-avanti/.
2 P. Persichetti in, https://insorgenze.net/2019/04/18/massimo-bordin-e-quel-ricordo-di-un-torturatore/.
3 M. Indice, «Il Secolo XIX», Così ai tempi delle Br dirigevo i torturatori, 24 giugno 2007.
4 M. Indice, «Il Secolo XIX», interviste a Salvatore Genova, 17 giugno 2007; De Tormentis, 24 giugno 2007; Virginio Rognoni, 25 giugno 2007; N. Rao, Colpo al cuore, Sperling & Kupfer, Milano 2011; F. Bufi, Sono io l’uomo della squadra speciale anti Br, «il Corriere della Sera», 10 febbraio 2012. Tutte queste interviste e altro materiale sulla storia delle torture si possono trovare nella rubrica «Le torture della repubblica» in, https://insorgenze.net/la-polizia-della-storia/.
5 P. Persichetti, https://insorgenze.net/2012/03/29/le-bugie-del-governo-le-torture-possibili-del-sottosegretario-allinterno-prefetto-carlo-de-stefano/.
6 Corte di appello del Tribunale di Perugia, numero sentenza 1130/13. Reg. 70/2013 rev. del 15 ottobre 2013. Si può leggere in, https://insorgenze.net/2014/01/17/gli-anni-spezzati-dalla-tortura-per-la-seconda-volta-una-sentenza-della-magistratura-riconosce-luso-della-tortura-contro-gli-arrestati-per-fatti-di-lotta-armata/.
7 M. Turco, S. D’Elia, Prefazione di M. Pannella, Tortura democratica – Inchiesta sulla comunità del 41 bis reale, Marsilio 2002.
8 Per una esposizione completa delle torture contro Cesare Di Leonardo si rinvia a Le torture affiorate, Sensibili alle foglie pp. 275-308, (Prima edizione ottobre 1998, seconda edizione febbraio 2002), dove sono presenti alcuni atti istruttori del procedimento penale n. 1040/82A PM e 253/82A GI, tra questi la perizia e il supplemento di perizia medio legale, la requisitoria dl Pm Vittorio Borraccetti e la sentenza-ordinanza di rinvio a giudizio del Gi Mario Fabiani.

Il rapimento Moro e l’uso pubblico della storia

Una recensione a La polizia della storia di Anna Di Gianantonio apparsa su http://www.pulplibri.it – L’uso politico della memoria serve dunque a dimostrare che nessuna strategia, nessuna organizzazione, nessuna motivazione politica che nasce dal basso può esprimersi senza essere manipolata e resa inefficace dalla presenza dei poteri dello Stato. In questo modo gli anni Settanta sono diventati anni di piombo da cui siamo usciti grazie all’azione determinata della politica della fermezza e della difesa della legalità (Paolo Persichetti, La polizia della storia. La fabbrica delle fake news nell’affaire Moro, Derive Approdi, pp. 240)

Anna Di Gianantonio 15 luglio 2022
https://www.pulplibri.it/paolo-persichetti-la-dietrologia-sul-caso-moro-e-le-domande-a-cui-non-ce-risposta/

Il libro di Paolo Persichetti spiega il disagio di chi, appassionato alle vicende degli anni Sessanta e Settanta, legge i numerosi lavori usciti recentemente – grazie alla desecretazione delle carte decisa dal governo Renzi – sulla cosiddetta “strategia della tensione” e osserva che molte pubblicazioni, invece di chiarire, talvolta complicano il contesto. Per quanto riguarda le stragi di Ordine Nuovo si conoscono i nomi degli esecutori, ma su quelli dei mandanti vi sono molte e diverse ipotesi. Con il passare del tempo e con la produzione di inchieste televisive, film e nuove ricerche, il lettore ha la sensazione di trovarsi alle prese non tanto con pubblicazioni che, utilizzando fonti inedite, si avvicinano alla verità, ma utilizzando generi letterari simili alle spy-story o ai noir.

Per le Brigate Rosse il quadro è ancora più complesso: in un intreccio di fake news, luoghi comuni e veri e propri falsi storici. Il libro di Persichetti è un accurato e complesso smontaggio delle false notizie sul delitto Moro, che si basa sul suo lungo lavoro di ricerca e su quello di una nuova generazione di storici – tra cui Marco Clementi e Elena Santalena con cui ha scritto il primo volume sulla storia delle BR – che intende analizzare gli anni Settanta con gli strumenti della storia, senza sensazionalismi e false piste. Nel testo l’autore fa nomi e cognomi di famosi autori che sulla vicenda del sequestro e della morte di Moro hanno creato una vera e propria fortuna editoriale, alimentando false ipotesi e complottismi.

Di tutte le complesse questioni della vicenda Moro è impossibile fare una sintesi: è necessario leggere le carte e le prove che porta l’autore. Persichetti rovescia innanzitutto l’immagine di Moro traghettatore illuminato che voleva portare i comunisti al governo, illustrando i colloqui che lo statista ebbe con l’ambasciatore americano Richard Gardner. In quelle occasioni fu proprio Moro, spaventato dal consenso del PCI e convinto che le Brigate Rosse destabilizzassero il paese favorendo i comunisti, a chiedere  all’ambasciatore una maggiore attenzione e un attivismo statunitense in Italia. Per rassicurare il diplomatico, Moro garantì che nel nuovo governo Andreotti non ci sarebbe stato alcun ministro di sinistra, smentendo clamorosamente le assicurazioni che erano state fatte al PCI e che riguardavano la presenza di almeno tecnici di area nel nuovo esecutivo.

La scelta di Moro di depennarli dagli incarichi fu contestata dallo stesso futuro presidente del consiglio Andreotti e dal segretario nazionale Zaccagnini che si dimise dalla carica. Il PCI, furioso per la decisione, votò la fiducia solo dopo la notizia del rapimento dello statista. Dunque Moro non fu affatto l’uomo del compromesso storico o delle larghe intese, come fu rappresentato post mortem, quando lo si descrisse come lungimirante antesignano di politiche inclusive mentre durante la prigionia venne considerato incapace di formulare pensieri autonomi.

Altro luogo comune diffuso ancor oggi è la “leggenda nera” su Mario Moretti, considerato una personalità ambigua e legata in qualche modo ai servizi. Moretti sta scontando il quarantaduesimo anno di esecuzione di pena e dunque difficilmente può essere considerato un uomo al servizio dello Stato. I sospetti su di lui vennero diffusi da Alberto Franceschini e Giorgio Semeria, smentiti da indagini interne che rivelarono l’inattendibilità delle accuse, ugualmente utilizzate da ricercatori come Sergio Flamigni che sulla figura di Moretti e sui suoi presunti legami con i poteri forti ha costruito la sua fortuna politica ed editoriale.

La dietrologia sul caso Moro si è esercitata sulla presenza in via Fani di altri soggetti, in particolare su due motociclisti in sella a una Honda, visti sulla scena del rapimento dal testimone Alessandro Marini. I motociclisti scatenarono mille ipotesi sulla loro presunta identità di uomini dei servizi, killer professionisti o agenti di servizi esteri, dando luogo a nuove pubblicazioni. Fu il lungo e minuzioso lavoro storico di Gianremo Armeni nel saggio Questi fantasmi. Il primo mistero del caso Moro che mise in luce in luce l’inattendibilità della testimonianza. In via Fani c’erano solamente le dieci persone indicate nei processi come responsabili del sequestro e dell’uccisione della scorta, tutte appartenenti alle Brigate Rosse.

Con una nutrita serie di documenti e di analisi Persichetti denuncia anche le incongruenze della seconda commissione Moro, istituita nel maggio del 2014 con la presidenza di Giuseppe Fioroni. Pur utilizzando tecniche di indagine nuove, come l’analisi del DNA e le ricostruzioni laser della scena del delitto, non si è giunti a nuove conclusioni.

Persichetti sostiene dunque che:

Cinque anni di processi, decine e decine di ergastoli erogati insieme a centinaia di anni di carcere, due commissioni parlamentari, le testimonianze dei protagonisti, alcuni importanti lavori storici, non hanno scalfito l’ossessione cospirativa e il pregiudizio storiografico che da oltre tre decenni alligna sul sequestro Moro e l’intera storia della lotta armata per il comunismo...

Qual’è il pregiudizio storiografico cui l’autore fa riferimento? Molto semplicemente l’idea che un gruppo armato abbia potuto, senza aiuti esterni, compiere un’azione di quel tipo mentre la lettura “politica” di quegli anni vuole dimostrare che dietro le lotte di massa degli anni Sessanta e Settanta c’erano strategie di potere orchestrate da forze occulte legate allo Stato, ai servizi segreti, a dinamiche internazionali.

L’uso politico della memoria serve dunque a dimostrare che nessuna strategia, nessuna organizzazione, nessuna motivazione politica che nasce dal basso può esprimersi senza essere manipolata e resa inefficace dalla presenza dei poteri dello Stato. In questo modo gli anni Settanta sono diventati anni di piombo da cui siamo usciti grazie all’azione determinata della politica della fermezza e della difesa della legalità.

Secondo Persichetti quali domande sarebbe lecito invece porsi sul caso Moro? Innanzitutto andrebbe fatta un riflessione sull’uso della tortura sui detenuti e sulle detenute delle BR ad opera del funzionario dell’UCIGOS Nicola Ciocia, chiamato professor De Tormentis, che applicò sui prigionieri, soprattutto sulle donne, azioni violente ed umilianti per costringerli a parlare, pur in presenza di una legislazione speciale che consentiva abbondanti sconti di pena a pentiti, collaboratori di giustizia, dissociati. Inoltre: perché la linea della fermezza fu mantenuta sino all’esito tragico della morte di Aldo Moro? Perché i due partiti di massa, DC e PCI, non intervennero per la sua salvezza, nonostante le BR si accontentassero di un riconoscimento della natura politica della loro azione? Perché Fanfani, che doveva pronunciare un discorso di minima apertura e riconoscimento, non parlò, tradendo l’impegno preso con il PSI che si adoperava per una trattativa?

Due ultime considerazioni. L’archivio di Paolo Persichetti, sequestrato l’8 giugno 2021 da agenti della Digos con accuse pretestuose deve essere  restituito al legittimo proprietario. Persichetti ha scontato la sua pena ed è l’unico a poter raccogliere testimonianze dei protagonisti di quegli anni avendo gli strumenti per ragionarci sopra. Non può esistere in Italia un organismo di “polizia di prevenzione” che intervenga sulla ricerca storica per orientarla in direzioni prestabilite. Scandaloso è il fatto che pochi intellettuali si siano mossi a difesa della libertà della ricerca storica, minacciata non solo per quanto riguarda gli anni Settanta. Si pensi alla criminalizzazione degli studiosi delle foibe, passibili del reato di negazionismo.

Infine un’osservazione. È doverosa la ricostruzione storica ma è necessaria anche una riflessione politica su quegli anni. Leggendo il volume, alcune figure di brigatisti come Franceschini emergono per la loro inadeguatezza politica e umana. A mio avviso il terreno autobiografico e psicologico non è un elemento secondario nel fare un bilancio di una fase storica. Inoltre vi sono stati degli errori: innanzitutto, come afferma l’autore, l’aver pensato che il rapimento avrebbe causato contraddizioni forti tra base e dirigenti del PCI riguardo al compromesso storico, contraddizioni che  vennero ridimensionate anche a causa del rapimento. L’uccisione di Guido Rossa nel 1979 non fece che rafforzare la condanna contro le azioni armate e prosciugare quella zona grigia che non si schierava con lo Stato. Sulla questione delle ragioni del consenso e sul tema della violenza sarebbe necessaria una discussione molto articolata.

Aldo Moro e le Brigate rosse, in un libro i retroscena dell’inchiesta che vuole sequestrare la storia

La recensione di Davide Steccanella

Confesso che dopo 13 anni in cui credevo di avere letto di tutto e di più sulle BR e su quello che viene definito nel sottotitolo «l’affaire Moro» (citando un libro di Sciascia), avevo poca voglia di imbarcarmi in un ennesimo volume di smentita alle miriadi di «fake news» (altra definizione del sottotitolo) che da sempre circolano intorno all’azione armata più famosa degli anni ’70.
Tanto più che sono anni che l’autore dedica al tema scritti e controscritti, ivi compreso un imponente volume scritto a tre mani (con Marco Clementi e Elisa Santalena) e pubblicato qualche anno fa dalla medesima casa editrice.
E invece, sorpresa, proprio quest’ultimo lavoro di Paolo Persichetti, che neppure cita la parola Br nel titolo – che invece richiama la kafkiana vicenda giudiziaria che lo ha visto (e lo vede tuttora) vittima di quella che in prefazione Donatella Di Cesare definisce «polizia di prevenzione» – è probabilmente il miglior libro mai scritto sulla più importante organizzazione armata italiana, e che meglio di ogni altro potrebbe far capire a chi ai tempi manco era nato come fu possibile che in un paese occidentale a capitalismo avanzato migliaia di militanti abbiano potuto “resistere” per oltre 10 anni in clandestinità agendo in pieno giorno in città urbanizzate e non nascosti sui monti della Sierra Nevada.

Lo schema del libro non è semplice perché travolgendo ogni regola saggistica salta da un argomento all’altro partendo dall’oggi per tornare a ritroso – ma anche qui senza seguire alcun ordine cronologico – a quel periodo storico che «la polizia della storia», questo il titolo, imputa all’autore di voler ricostruire secondo verità e non secondo quanto imposto in questi anni dalla vulgata dei “vincitori”.
In estrema sintesi, la trama del libro potrebbe essere descritta così: un bel mattino un Pm di Roma decide di sequestrare l’intero archivio di uno storico che da anni si occupa del sequestro Moro seguendo una metodologia antitetica a quella delle varie commissioni parlamentari che tutti noi cittadini ritualmente paghiamo per non approdare mai a nulla di rilevante, e poiché ogni tentativo da parte dell’indagato (neppure si capisce per cosa) di ottenere giustizia si scontra con l’ottusità di una magistratura distratta e poco incline a ostacolare le iniziative della Procura, lui decide di scrivere esattamente quel libro che gli si voleva impedire di scrivere, partendo dal racconto in prima persona della vicenda che lo ha visto coinvolto.
Una vicenda che mi procura disagio perché all’inizio aveva visto coinvolta anche la mia persona, come si riferisce nel paragrafo «La Digos clona il telefono dell’avvocato», quando ero del tutto ignaro che in Italia fosse consentita «l’intercettazione dell’attività difensiva» (titola un successivo paragrafo).
E’ per questa ragione che Paolo mi ha scritto sulla dedica «una volta tanto non avvocato ma ‘complice‘» prima di aggiungere «con affetto e stima», gli stessi sentimenti che io provo per lui e nello stesso ordine, perché per prima cosa è un amico e poi è uno degli storici più scrupolosi che esistano.
Paolo, a differenza mia, è un professore che si occupa di quella Storia da studioso, anche se la vulgata preferisce altre definizioni di comodo che nulla c’entrano con quanto scrive (e basterebbe leggerlo per rendersene conto), ma credo che abbiamo in comune un medesimo approccio di partenza.
Quello, cioè, di volere apprendere i fatti passati attraverso lo studio delle fonti e la diretta testimonianza dei protagonisti prima di scrivere stronzate, e questo fatto appare così tanto poco comprensibile all’esterno da richiedere necessarie catalogazioni “ad usum delphini”, per cui lui è per forza e per «l’ex brigatista» (anche se per pochi mesi nell’arco di una vita intera piena di mille altre cose) e io «l’avvocato dei terroristi», e va da se che se per ipotesi ci incontriamo un pomeriggio a Milano (lui diretto a Parigi) per parlare dei cazzi nostri, per la Digos stiamo cospirando insurrezioni armate organizzando «soccorsi rossi» internazionali per abbattere lo Stato capitalista nel bel mezzo del terzo millennio (sic!).
Però Paolo è uno bravo e li ha fregati, perché in questo libro c’è tutto quello che si dovrebbe sapere su quello che è successo in Italia oltre 40 anni fa, e tutti dovrebbero leggerlo dalla prima all’ultima riga prima di dire anche solo un’ulteriore parola su quella storia oggetto delle attenzioni della nostrana Polizia.
Invece di farsi attrarre dai tanti libri strenna che hanno in copertina la stella a cinque punte o la faccia sofferente di Moro, alla cui figura politica (e anche umana) – per inciso – questo libro è uno dei pochi a restituire quella giusta dignità che la diffusa “dietrologia” scandalistica gli ha sempre tolto.