Ma cosa è successo alla sinistra radicale in Italia? Sono io che ho perso la bussola o sono altri che si sono dimenticati per strada un poco di concetti che ci accompagnavano nell’analisi della società? Ad esempio la magistratura, le forze dell’ordine, l’apparato repressivo dello Stato sono oggi nostri alleati nella lotta contro il Capitale? Io ricordavo altre cose. Ma la legalità, le leggi cosa sono se non un sistema di regole che serve a proteggere il più forte dal più debole? Non sono promulgate dallo stesso Stato che l’istante dopo accusiamo di essere classista, liberticida, guerrafondaio e repressivo? No, sembra da quello che sto leggendo oggi che sono io che mi sbaglio. In realtà noi viviamo in una democrazia perfettamente compiuta nella quale chi è nato figlio di un muratore a Casal di Principe e il figlio di Briatore e Gregoraci hanno perfettamente le stesse prospettive: entrambi se capaci si potranno fare strada nel lungo cammino della vita. Noi viviamo in un sistema economico capitanato da gente di cui a volte conosciamo i volti e altre no, ma che si fonda sul consumo. Possedere è essere felici. E questo bisogno di consumare, soprattutto in un momento di crisi come questo, viene cullato, coccolato, alimentato da tutto quello che è la cultura dominante oggi, dai media in primo luogo. Non hai il Suv? Sei un reietto. Non vesti firmato? Non ti fidanzerai. Non sei stato in crociera quest’estate? Sei un fallito. Vendere e ancora vendere. Ma non è che tutti si possano permettere, in maniera «perfettamente legale» di vivere come Veronica Lario, idolo di sinitrorsi perché in conflitto divorzistico col padrone d’Italia per eccellenza, il Signore del Male. E allora c’è della gente selvaggia, una feccia canagliesca che pretende oggi, con una violenza che appartiene ad un’altra epoca, l’epica era del baronaggio e della imprenditoria pioniera e aggressiva degli esordi, non solo di limitarsi a taglieggiare il piccolo commerciante o imporre il prezzo del lavoro di un giorno ad un immigrato in un campo di pomodori, ma addirittura di sedere nei lindi consigli di amministrazione. Ma per noi comunisti una volta questi signori non erano criminali alla stessa maniera? Non sono per noi le due facce della stessa medaglia? Come diceva Brecht «è più grave l’effrazione di una banca o la fondazione di una banca?». Ecco, la nostra bussola culturale, politica, oggi è ancora Brecht o è diventata Roberto Saviano? Chaplin diceva che il crimine paga solo alla grande. Infatti. Io nelle parole e gli scritti di Saviano non ho mai trovato queste sottili distinzioni. Mentre si rivolge in maniera educata e deferente al nostro Presidente del Consiglio, suo editore, con una «preghiera», ai tempi della legge sul processo brave, tuona contro le belve assetate di sangue sedute dietro una sbarra al processo «Spartacus». Sarà, ma io trovo il capitalismo italiano e i boss camorristici tragicamente simili. E non per dire, ma un Marchionne che chiude Termini Imerese (quando Fiat ha ricevuto contributi statali e europei per decenni) buttando sulla strada migliaia di famiglie sta aiutando chi e cosa, se non chi poi può andare a proporre un lavoro certamente un po’ più pericoloso, ma infinitamente più redditizio di un salario da operaio, a un giovane siciliano? Fa bene alla coscienza pensare che leggere un romanzo sulla camorra o gridare ’siamo tutti Saviano’ può fare paura a gente sanguinaria in perfetta collusione con buona parte di quello Stato che dovrebbe combatterli, invece secondo il mio modesto parere se ne strabatte. Comanda il denaro. E un libro è un libro. Una canzone è una canzone. Un film è un film. Ma poi la ricetta a tutto questo proliferare di organizzazioni criminali quale sarebbe? Per noi «sinistri radicali» nel 2010 è diventata l’indagine di Polizia, il processo e il carcere? Ma perché, messo dentro a vita uno Schiavone e i suoi compagni, non ci sarà qualcun altro a prenderne il posto? Se le condizioni sociali e politiche non cambiano ce ne saranno altri cento. E’ ovvio che non può essere il bastone la nostra e la loro liberazione. E soprattutto sarei io e il mio pensiero la stampella della criminalità organizzata? Scusatemi, io auguro a Saviano di vivere centanni e godersi quello che si è guadagnato. Ma lasciatemi per centanni la possibilità a me e ad altri pochi «deficienti invidiosi» di ragionare da comunista e di poterlo scrivere. Nel caso contrario, visto che la gogna è gia partita, la solidarietà della sinistra radicale voglio sperare che arrivi a me. Se no vuol dire che ho buttato via una vita di lotta militante per niente.
Non ho intenzione di difendermi dalle «critiche» per il mio libretto sul caso Gomorra-Saviano (anche perché si tratta, per lo più, non di critiche ma di esecrazioni e «vade retro»). Se si è interessati alla questione, mi si può leggere e giudicare di conseguenza. Intervengo invece sull’accusa di dissacrazione che alcuni (per esempio Violante e Flores d’Arcais) mi hanno gettato addosso, visibilmente senza aver letto il testo e, nel caso di Flores, incitando il pubblico a non leggerlo. Qui, come in altri casi (penso a Sofri) non c’è solo un appello alla censura preventiva (mi si critica non per quello che dico ma perché lo dico).
Appare anche un modo di pensare mitologico e autoritario, e quindi sostanzialmente papalino, il che fa specie in persone (parlo di Sofri e Flores) che passano per campioni della libertà di parola e del laicismo. È questa la cultura capace di opporsi a Berlusconi? Per Violante, il mio è un tipico caso di sinistra «iconoclasta». Ne deduco che per lui la sinistra deve adorare le icone. E non diversamente pensa Flores, quando invita a manifestare contro Berlusconi o a darsi al sesso o ad altre attività ricreative, piuttosto che leggermi quando critico Saviano. Insomma, guai a entrare nel merito di quello che Saviano scrive. E soprattutto, guai a interrogarci sul significato politico dell’identificazione di una parte consistente della sinistra nella sua figura e nella sua opera. È semplicemente quanto ho tentato di fare nel mio libro a tre livelli, narrativo, mediale e sociologico (tra parentesi, occuparmi di queste cose è esattamente il mio mestiere, diversamente da quanto Flores, che pure mi conosce da quasi trent’anni, fa credere ai lettori del Fatto quotidiano). Livello narrativo: ho analizzato la «verità» di Gomorra in base al testo e a nient’altro, ignorando qualsiasi pettegolezzo sulle sue fonti, ma portando alla luce il carattere tecnicamente auto-referenziale della narrazione («ci sono stato e ho visto, e quindi dico la verità»); livello mediale: ho discusso la costruzione, in buona parte dei media, dell’eroismo di Saviano, mostrando anche come lo scrittore, nei suoi interventi successivi a Gomorra, abbia in qualche modo fatto proprio il ruolo che gli veniva cucito addosso; livello sociologico (e se vogliamo, politico): che significa il processo di iconizzazione dello scrittore nella sfera pubblica del nostro paese? L’ultimo punto mi sembra decisivo e integra i primi due. La trasformazione di Saviano, a sinistra, in icona del bene contro il male (rappresentato dal crimine organizzato) sposta il conflitto politico in una dimensione morale e moralistica fondamentalmente diversiva e consolatoria. Una dimensione illusoria, in cui – ma questa è solo un’ipotesi – molti scaricano le frustrazioni di una sinistra che in buona parte non è più rappresentata, oppure è impotente di fronte al trionfo della destra. Il fatto interessante è che la categoria dell’eroismo è storicamente appannaggio della destra romantica (penso a Evola), e questo spiega la fortuna di Saviano tra i seguaci di Fini (si veda la fondazione Farefuturo e che cosa pensa di me). Di conseguenza, la classica accusa zdanoviana che mi rivolgono Sofri e Flores («a chi giova?») è risibile, un altro aspetto della loro reazione censoria.
Come si conviene a qualcuno che, volente o nolente, è stato trasformato in icona dell’eroismo, molto spesso le posizioni di Saviano su questioni di interesse pubblico sono unanimiste e apolitiche, e cioè buone per tutti (anche se nel libretto riconosco che talvolta prende posizione contro le derive più clamorose dell’attuale regime in materia di conflitto di interessi). Sostenere che la recente lotta degli studenti contro la distruzione della scuola e dell’università pubblica conta ben poco di fronte al crimine organizzato o ridurre la morte dei soldati in Afghanistan alla questione dei poveri ragazzi del sud che non hanno alternative, senza dire nulla del significato della guerra e dell’implicazione dell’Italia, è qualcosa che non si può passare sotto silenzio. Nessuno chiede a Saviano di occuparsi di questi problemi. Ma se ne scrive o ne parla, naturalmente è criticabile, come chiunque altro. Io trovo grottesco che qualcuno liquidi tutto questo, e cioè la critica di quello che Saviano dice, in termini di «invidia»: è come sostenere che se un critico cinematografico parla male di un film, è perché invidia il regista. Ma dietro tutte queste reazioni, volta per volta isteriche o moraliste, si profila un enorme problema politico: l’impotenza evidente di un’idea di alternativa basata quasi esclusivamente sull’opposizione all’anomalia Berlusconi, e non al blocco di interessi (e valori e simboli) che il cavaliere sintetizza. Di fatto, precari e pensionati, studenti e lavoratori, insegnanti e tutte le altre figure socialmente deboli (per non parlare di marginali, esclusi e stranieri) sono sostanzialmente soli sulla scena politica, in balia di questa destra. E, come le elezioni dimostrano, la mancanza di rappresentanza porta anche quote importanti di elettori di sinistra a votare per gli altri (un classico sintomo di un sistema sociale e politico in preda al populismo). La destra fa politica di classe, eccome, l’opposizione no. E questo è anche un effetto dello spostamento del conflitto in chiave simbolico-morale (e, sì, giustizialista), come dimostra l’ossessione unanime per la legalità. Ecco allora che il conflitto è evacuato, che tutto (dalla questione del lavoro all’ignobile condizione delle nostre carceri o al razzismo imperante) viene minimizzato o comunque messo in secondo piano. Ed è inevitabile se, in nome della legalità, ci mettiamo a priori dalla parte dell’ordine, politico o simbolico che sia. Di questo, ovviamente, a Saviano non imputo una particolare responsabilità, anche se lo critico, in base ai suoi scritti, per aver contribuito ampiamente alla retorica dell’eroismo. Ma forse i suoi seguaci a priori e a prescindere, le vestali della pubblica indignazione che pontificano dalle tribune mediali, non sono proprio innocenti della spoliticizzazione di cui parlo sopra. E pensando proprio a loro, mi chiedo chi rispetti di più, in ultima analisi, lo scrittore perseguitato dalla camorra: chi lo prende sul serio, discutendolo anche polemicamente, o chi si genuflette davanti alla sua icona.
Perché manifestolibri ha voluto pubblicare una decisa analisi critica (seria, rigorosa e diffusamente argomentata, come da più parti è stato riconosciuto) di Gomorra e di numerose, successive prese di posizione pubbliche del suo autore, Roberto Saviano? Ci sono diverse ragioni. La prima può essere messa in chiaro dal passo di un articolo che attacca furiosamente Eroi di carta, il libro di Alessandro Dal Lago edito da manifestolibri, pubblicato sul periodico della fondazione finiana Farefuturo: «Un paese che non ha bisogno di eroi è un paese che non ha esempi da seguire, che rinuncia a guardare il futuro con la speranza del cambiamento…». Da un siffatto «futuro», carico di richiami arcaici e inquietanti modelli, volentieri ci teniamo alla larga. È la discussione democratica, il confronto tra posizioni diverse, l’esercizio dello spirito critico e non l’emulazione di santi, martiri ed eroi a fare crescere una collettività. E, forse suo malgrado, Saviano è stato risucchiato proprio in questo genere di tristi retoriche che non vorremmo veder tornare a prevalere. È vero e molto rilevante il fatto che Roberto Saviano sia minacciato, esposto, in una pesante condizione di rischio. Questo dovrebbe spingere a proteggerlo, a cercare di assicurare rapidamente alla giustizia coloro che lo minacciano, a bandire i politici che si avvalgono dell’appoggio delle mafie. Ma non è in nessun modo un argomento che renda indiscutibili le sue «verità», inconfutabili le sue affermazioni, incontestabile la sua interpretazione del fenomeno camorra, sublime la sua scrittura. Certamente Berlusconi e l’ineffabile Fede hanno attaccato Saviano piuttosto volgarmente (con argomenti, precisa la stampa di destra, del tutto diversi da quelli del sovversivo Dal Lago), quando l’arbitrio e le opportunità del momento hanno suggerito loro di farlo, come in passato gli avevano suggerito di apprezzare lo scrittore campano e in futuro potranno tornare a suggerirglielo. Dobbiamo allora subordinare le nostre riflessioni e i tempi della loro espressione alle mutevoli esternazioni del cavaliere e della sua corte? E, del resto, quanti danni ha fatto la logica secondo cui «il nemico del mio nemico è mio amico»? Anche Adriano Sofri non dovrebbe averlo dimenticato. Ricorderà, spero, gli «amici» assai poco presentabili scelti da certo antiamericanismo. Se dovesse essere questo, come purtroppo sembra, uno dei principi dell’antiberlusconismo odierno (da Di Pietro a Murdoch?) lo considererei una grave iattura, per non dire di peggio. E, tuttavia, non si può negare che Saviano abbia meritevolmente attirato l’attenzione di una vasta opinione pubblica sulla criminalità organizzata in Campania. Ma si potrà pur ritenere, argomentandolo, che lo abbia fatto in forme spesso discutibili e che il mito che gli si è costruito intorno abbia indotto più a una sorta di innocua tifoseria (come dimostrano molte reazioni alle critiche di Dal Lago, emotive e del tutto ignare delle sue motivazioni) che all’impegno politico e sociale o alla comprensione di una realtà complessa e contraddittoria come quella meridionale. Come avranno letto Gomorra dalle parti della Lega? È lecito discuterne? Manifestolibri pensa di sì. È abbastanza evidente che la questione vada ben oltre il caso di Gomorra e del suo autore. Ma, allora, ci si chiederà, perché prendersela proprio con Saviano, viste le numerose controindicazioni? Perché ciò che si è raggrumato intorno alla sua figura è l’esempio più vivido, e al tempo stesso più scomodo, di mito che si sostituisce al ragionamento, di predicazione che prende il posto dell’analisi, di moda che subentra alla convinzione, in un paese in cui tutto ciò che non avviene sotto i riflettori, o nel regno delle alte tirature, semplicemente non esiste, e tutto ciò che da questi è invece illuminato assume i tratti incontestabili della verità e dell’oggettività, di un ordine invalicabile del discorso. In un paese in cui il darsi sulla voce nei talk show è diventato la quintessenza dell’agire comunicativo e l’esercizio della critica impiegando strumenti culturali non banali, una colpevole perdita di tempo. Così, almeno, sembra pensarla Paolo Flores d’Arcais che tuttavia ha inspiegabilmente sottratto una frazione (speriamo limitata) del suo prezioso tempo per mettere all’indice (quello dei libri proibiti) su tre colonne del Fatto quotidiano un libro che non ha letto e non intende leggere. Si possono condividere (e io personalmente le condivido), smontare o respingere le critiche che Dal Lago rivolge all’epopea di Gomorra, ma non censurarle o relegarle nella categoria, che a sinistra non dovrebbe avere cittadinanza, della bestemmia. Sono, alla fine, proprio queste reazioni, le quali rivelano una «sinistra» impregnata della retorica degli exempla virtutis, sempre più disposta a sacrificare la comprensione delle radici (legalissime e beneducate) dell’ingiustizia all’indignazione del telespettatore, alle emozioni forti del suddito in cerca di protezione (che è ben diverso dal cittadino in cerca di sicurezza), a testimoniare della necessità di confrontarsi con i temi importanti che Dal Lago pone. Qui a Berlusconia, tra fandonie e miti, tra spettri ed epifanie del Maligno, tra risentimenti e narcisismi (non stiamo più parlando, sia chiaro, di Saviano, ma dei fustigatori di Dal Lago) è in corso da un pezzo una vera e propria guerra all’intelligenza, dove ogni ragionamento di un qualche spessore è tacciato di sabotaggio o di spregio dell’umore popolare. Un antico scrittore puritano americano diceva che quanto più sei colto, arguto, intelligente, tanto più sei pronto a lavorare per Satana (la camorra?). Attenetevi dunque alle sacre scritture, ai sentimenti «sani», all’ammirazione della Virtù. Che questo imperativo provenga dalla sinistra la dice lunga sullo stato in cui versa. Per quanto ci riguarda continueremo a cercare di comprendere il mondo che ci circonda, a pubblicare e leggere libri che ci aiutino a farlo, anche a costo di mettere in questione, magari giovandogli, qualche idolo popolare.
Giampiero Mughini ha raccontato ieri al Corriere della Sera (articolo di Aldo Cazzullo) i suoi ricordi e le sue riflessioni sull’uccisione del commissario Luigi Calabresi (anno 1972), Mughini all’epoca era vicino al gruppo dirigente di Lotta Continua, e quindi basa la sua ricostruzione (ipotetica) dei fatti su ele-menti di conoscenza personale (di abitudini, idee, rapporti, modi di comportarsi di quel periodo). Mughini avanza l’ipotesi che Sofri non sia colpevole diretto, ma che sapesse. E che conosca i nomi di chi uccise Calabresi. Tesi che già in passato aveva sostenuto. Personalmente questa ricostruzione non mi convince. Penso che Sofri sia innocente. E constato che, in ogni caso, contro di lui non sono state raccolte prove, e i processi che si sono conclusi con la sua condanna erano processi indiziari, tutti fondati sulle dichiarazioni di un pentito (non verificate e non verificabili) il quale in cambio della condanna di Adriano Sofri ha ottenuto per se la libertà dopo pochissimi mesi di prigione (pur essendo stato condannato come autore materiale dell’uccisione).
Sono assolutamente convinto del principio secondo il quale in mancanza di prove non si può condannare. E credo che un certo numero dei processi che si sono svolti negli anni ’80 (e in parte ’90) contro gli imputati di lotta armata o di reati politici, siano stati processi “zoppi”, poco convincenti, senza garanzie.
Influenzati dal clima politico dell’epoca e condizionati da una legislazione speciale, basata sull’esaltazione del pentitismo, che non dava garanzie né di verità né di equanimità. Che le cose stiano così è abbastanza evidente. E ce ne accorgiamo ogni volta che le nostre autorità chiedono l’estradizione di qualcuno che fu condannato in quegli anni, con quei processi, e non la ottengono (recentissimo caso Battisti). Come mai non l’ottengono? Perché la Francia, il Brasile, il Canada, la Gran Bretagna, la Svezia, la Spagna eccetera, eccetera sono paesi filo terroristi? Non mi pare una spiegazione ragionevole. Non la ottengono perché i processi sono considerati non affidabili. Tutto qui. Vedete bene che il problema esiste, e va affrontato seriamente. In che modo? Riprendendo la riflessione su quegli anni di fuoco, nei quali la lotta politica, in Italia, convisse con la lotta armata; e trovando il modo dì uscire definitivamente da quel clima e da quella storia. C’è un solo modo di uscire da quel clima e da quella storia. Chiudendone tutti gli strascichi giudiziari e penali. Cioè con l’amnistia. Solo l’amnistia può relegare finalmente nel passato gli anni di piombo e di conseguenza permettere l’apertura di una discussione e di una riflessione seria. Quali sono gli argomenti contro l’amnistia? In genere se ne sentono tre. Il primo è il cosiddetto “diritto dei parenti delle vittime”. Il secondo è la certezza della pena e il rischio che gente che ha seminato il male non paghi per il male, la faccia franca. Il terzo è la paura che l’amnistia ci impedisca di scoprire cosa davvero è successo in quegli anni, cosa c’era dietro i delitti.
Il primo argomento mi sembra che non riguardi il diritto. Riguarda semmai la politica. I parenti delle vittime non hanno il diritto dì influire sulle pene dei colpevoli (o, talvolta, dei sospetti). Hanno il diritto ad essere risarciti, aiutati, assistiti. E spesso questo diritto non viene loro riconosciuto dallo Stato, ma l’amnistia non c’entra niente.
Il secondo argomento è sbagliato. Per un motivo molto semplice: la lotta armata degli anni settanta è l’unico capitolo della storia del delitto italiano che ha prodotto un numero altissimo di condanne e di pene. I ragazzi che furono coinvolti nella lotta armata, nella loro quasi totalità hanno pagato con anni e anni di galera. Non esistono altri “rami” del delitto dei quali si possa dire altrettanto. Qualcuno ha pagato per le stragi di Stato? Qualcuno per la corruzione politica? Qualcuno per le responsabilità dell’ecatombe sul lavoro? Ho fatto solo tre esempi, ì più clamorosi, ma potrei continuare. E allora è curioso che si chieda la certezza della pena per gli unici che la pena l’hanno scontata. Giusto? Il terzo argomento è il più controverso. E’ la famosa questione del complotto. Qual’è il problema? Una parte dell’opinione pubblica italiana (specialmente di sinistra) si era convinta, negli anni scorsi, che il fenomeno della lotta armata fosse troppo grande e vasto e potente per potere essere il semplice prodotto dell’impegno diretto e un po’ delirante di alcune migliaia di giovani. E che allora dovesse essere il risultato di un complotto nazionale o internazionale. Devo dire che per molti anni anche io mi ero convinto di qualcosa del genere. Avevo sospettato che il rapimento e l’uccisione di Moro fosse una losca congiura del potere. Però poi, di fronte alla realtà, bisogna arrendersi. I colpevoli sono stati tutti arrestati, sono state raccolte tonnellate di testimonianze, prove, documenti. Sono passati 30 anni. È chiaro che non ci fu complotto. Semplicemente avevamo sottovalutato la forza della rivolta armata. E allora perché negare l’amnistia con la scusa della ricerca della verità? È chiaro che le cose stanno in modo molto diverso. La verità che ancora non conosciamo, che vorremmo conoscere, è quella sulle stragi di Stato (da piazza Fontana 1969, fino alla Stazione di Bologna 1980). Cioè su quella parte di lotta armata (di controguerriglia) che fu organizzata direttamente dalle istituzioni e dal potere e che, tra l’altro, ebbe un peso forte nella nascita – per reazione – delle brigate rosse e delle altre formazioni eversive di sinistra. Nessuno è in prigione per quelle stragi (tranne alcuni estremisti di destra per la strage di Bologna, ma moltissimi esperti ritengono che essi siano innocenti). Con questi misteri l’amnistia non c’entra niente. E probabilmente se ci si decidesse a vararla potrebbe essere un aiuto per riaprire la discussione e la ricerca su quel buco nero della storia italiana.
Secondo Sofri l’uccisione di Calabresi si distinguerebbe dai successivi atti di lotta armata avvenuti nel corso degli anni 70-80 perché aveva un contenuto morale che alla lotta armata per il comunismo mancava
Risponde Scalzone che difficilmente una vendetta, un atto di giustizialismo politico, può rivendicare una superiorità morale
Caro Sofri, uccidere Calabresi fu giustizialismo politico
di Oreste Scalzone Liberazione 2 ottobre 2008
12 dicembre 1969 terrore di Stato, banca popolare di piazza Fontana dopo la strage
L’incontro patrocinato dal segretario dell’Onu in occasione del Memory day in favore delle «vittime del terrorismo» ha fatto saltare i nervi ad Adriano Sofri. In nome di una indistinta nozione della figura di vittima si è tenuta nelle scorse settimane una cerimonia attorno alla quale sono state raccolte vicende molto diverse tra loro, distanti e persino opposte nello spazio, nel tempo, financo nella loro fenomenologia, morfologia e eziogenesi, come i morti delle Twin Towers, gli scolari trucidati a Beslan, i morti delle stragi di piazza Fontana o l’uccisione del commissario di polizia Luigi Calabresi, per fare solo alcuni esempi.
Il commissario di polizia Luigi Calabresi
Condannato per quest’ultimo episodio, ma da sempre proclamatosi innocente, Sofri non ha sopportato l’accostamento. “Io terrorista, alla stregua dei sequestratori di Beslan? No, non ci sto!”. È stato questo il senso della sua indignata reazione per un qualcosa che esplicitamente ferisce il suo onore. Sofri ha giustamente contestato che un episodio come l’uccisione di Calabresi, arrivato al culmine di una sequenza che vide la morte dell’innocente Giuseppe Pinelli e la montatura contro gli anarchici con l’incriminazione di Pietro Valpreda, possa essere messo sullo stesso piano della strage di piazza Fontana, accorpato addirittura a massacri di bambini e deportazioni a volte vicine al genocidio. Sul Foglio del 13 settembre ha sollevato la pietra dello scandalo affrontando la semantica di una delle parole più stregate al mondo: «terrorismo». Termine tra i più compromessi, multiuso, impiegato essenzialmente per delegittimare, mostrificare, demonizzare l’avversario piuttosto che per definire un particolare uso della violenza. Occasione per questo di un infinito autismo comunicativo. Si potrebbe forse obiettare che non ha molto senso rincorrere sul terreno della stigmatizzazione linguistica chi bombarda o ordina martellamenti d’artiglieria e poi rivendica virtuose illibatezze, senza mancare di dare del terrorista ai ragazzini col cappuccio che lanciano sassi, rompono qualche vetrina o riempiono i muri di tag. Da alcuni anni una direttiva europea considera terrorismo il pirataggio informatico o la semplice occupazione illegale di piazze e edifici pubblici. Di fronte a ciò, è lecito chiedersi se si possa passare la vita lasciandosi ipnotizzare nel tentativo di raddrizzare i torti semantici, di (ri)prendersi la ragione rispetto a un intreccio infinito di mascalzonate statali d’ogni tipo…? Forse a questo punto l’unica cosa possibile è fare un’operazione di radicale Jugitzu semantico, come quella realizzata dai movimenti afro-americani, quando decisero di svuotare l’aggressività coloniale e razzista dello stigma negro appropriandosi essi stessi di quella definizione.
Giuseppe Pinelli, anarchico ucciso nella questura di Milano
La parola terrorismo nasce sulla base di una autodefinizione del rivoluzionarismo statalista-borghese nel drittofilo del diritto di resistenza e del «diritto-dovere a insorgere con le armi alla mano contro il despota e l’usurpatore». Teorie, come quella del tirannicidio, finemente elaborate dai gesuiti spagnoli del 600, Birenbaum e altri, per argomentare la legittimità dell’attentato contro la persona dell’imperatore, se questi entrava in conflitto con l’autorità papale. Dottrine poi riprese con fedeltà mimetica da quello che potremmo chiamare legittimismo del futuro prossimo venturo, di parte repubblicana; e poi di nuovo, alla rovescia, dal legittimismo tradizionalista anti-repubblicano. Termini, dunque, di doppia matrice, cattolica apostolica romana prima e poi – nella teologia politica, con perfetta spinta alla ritorsione mimetica – giacobina. Tanto che potremmo parlare con pertinenza di concetto catto-giacobino.
Che una traccia di filiazione con questa matrice ci sia anche nei vendicatori anarchici – dopo Felice Orsini e gli attentatori della «propaganda attraverso il gesto», i Gaetano Bresci, i Giovanni Passannante, i Sante Caserio, non deve stupire più di tanto. La stessa relazione conduce alle azioni dei populisti, gli amici del popolo, i Narodniki dell’attentato a Stoljpin; o ancora ai nazionalisti – e, se vogliamo distinguere il nazionalismo conculcato e irredentistico da quello già al potere, nazionalitarî; e ancora più in generale ai movimenti caratterizzati da ideologia-passione identitaria nutrita di martirio. La realtà è che le idee delle classi dominanti costituiscono un reticolo concettuale da cui non ci si libera sollevandosi per il codino, come il barone di Munchausen…
Pietro Valpreda, anarchico vittima della montatura giudiziaria
Per contro, non a caso il termine è ereditato senza complessi dal filone della sinistra della socialdemocrazia russa, i bolscevichi, e dal loro successivo costituirsi in Komintern. Quasi inevitabile riscontro degli effetti suscitati dalla contraffazione, oltreché lavorista e statalista, teorizzata da Ferdinand Lassalle. Nel programma di Gotha si stabiliva infatti una retrospettica filiazione non certo con l’Associazione internazionale dei lavoratori e la Comune di Parigi, ma proprio col giacobinismo, con certi passaggi dottrinari, in particolare di Robespierre e Saint-Just.
D’altronde Trotsky non ha complessi quando risponde con l’opuscolo Terrorismo e comunismo al pamphlet Comunismo e terrorismo di Kautsky. Nei resoconti delle sessioni del Komintern si dà documentazione dei dibattiti sull’opportunità di ricorrere in talune circostanze a combinazioni e dosaggi di terrore come ingrediente dell’azione. In alcuni suoi passi Lenin argomenta la necessità di instaurare forme di terrore poliziesco, anche come antidoto e argine a una violenza spontanea insorgente, che altrimenti avrebbe fatto scorrere fiumi di sangue ancor più grandi (vengono in mente in questo caso Bronte, la repressione spietata gestita da Bixio, e altrove le osservazioni di Foucault – nel Dialogo con i maoisti e in Microfisica del potere – sulla violenza rivoluzionaria che quando si istituzionalizza in tribunali e carceri si trasmuta nel suo contrario).
Ma queste cose Adriano Sofri le conosce meglio di me. Cionondimeno si è lasciato andare ad una stucchevole danza del ventre rivendicando non l’esistenza di una differenza (quella sì, fondata su una diversità di strategie e tattiche nell’uso della violenza politica, oltreché sugli obbiettivi), ma la presenza di una superiorità morale, di una qualità che distinguerebbe la vicenda Calabresi dai successivi atti di lotta armata avvenuti nel corso degli anni 70. A suo avviso il movente dell’indignazione – che per civetteria definisce «privata», ma che vuolsi chiamare civile – sarebbe stata moralmente superiore – e per questo esente dall’infamia d’essere una pratica ritenuta terrorista – a qualsivoglia altra motivazione politica, come quella legata alla pedagogia della «lotta armata per il comunismo». Egli sembra suggerire una definizione della categoria di terrorismo a partire dal movente, per cui l’omicidio ingenerato da indignazione civile ne sarebbe esente e dopo ripetute contorsioni, correzioni, rettificazioni e sfumature via, via aggiunte, arriva anche a precisare quanto da sempre sostenuto dal marchese di Lapalisse: esiste una violenza che non è violenza politica (vedi la strage di Erba), e una violenza politica che non è terrorismo (Corriere della sera del 16 settembre).
Addirittura per rafforzare il suo ragionamento cerca appoggi nelle parole dei giudici che lo hanno condannato, interpretando la mancata applicazione dell’aggravante per «fini di terrorismo ed eversione dell’ordine costituzionale» come il riconoscimento, anche da parte della magistratura, della natura «privata» e non eversivo-terroristica dell’omicidio Calabresi. Argomento, questo, ribadito con ancora maggiore nettezza da Giuliano Ferrara sul Foglio del 22 settembre: «Chi ha ucciso il commissario non aveva un piano terroristico per attaccare il cuore dello Stato, bensì vendicare la morte dell’anarchico Pinelli. Sono due cose completamente diverse, il terrorismo e l’assassinio di Luigi Calabresi».
volantino
Errore davvero macroscopico, visto che le leggi speciali dell’emergenza sono state varate sette anni dopo l’attentato, e che dunque la magistratura non poteva qualificare retroattivamente l’uccisione di Calabresi come un atto di sovversione dell’ordinamento costituzionale (come d’altronde avvenne anche per il sequestro Sossi e altri episodi analoghi fino al rapimento Moro), o applicare l’articolo 280 del codice penale, riscritto sempre nel 1979, (attentato con finalità di terrorismo o eversione), piuttosto che il generico 575, omicidio di diritto comune.
Come se non bastasse, nel tentare un parallelo Sofri non trova di meglio che richiamare una delle azioni gappiste più importanti della Resistenza: l’uccisione di Giovanni Gentile. Un episodio che nulla ha di “esclusivo” ma che si iscrive nella strategia della lotta armata urbana condotta dai Gap. Insomma se uno dei requisiti del terrorismo è quello di avere una strategia, e dunque una sua riproducibilità nella azioni – come pare voler suggerire Sofri –, quello dei Gap era terrorismo anti-nazifascista, né più né meno, come si è ritenuto che fosse – a partire da un certo momento in poi – per Prima linea e le Brigare rosse.
Toccherà agli storici futuri stabilire se la lotta armata degli anni 70 lo fu davvero, perché dal punto di vista del diritto non esiste una definizione universalmente riconosciuta, a meno che non si voglia prendere per buona quella offerta dai testi dell’Fbi o del Pentagono. Ciò che invece suscita sconcerto è il fatto che una vendetta, come l’uccisione di Calabresi, qualcosa che si apparenta ad una supplenza soggettiva della giustizia statale, all’epoca per giunta rifiutata da Sofri stesso, una sentenza di morte applicata sulla base di una colpevolezza stabilita sulla scorta di una vox populi, senza nemmeno la farsa di un processo popolare e addirittura considerata oggi un “errore giudiziario”, come lo stesso Sofri scrive, possa essere ritenuta un gesto più nobile degli attentati successivi.
Quello che già allora molti di noi ritennero una forma di giustizierismo politico ci fa orrore, tanto più quando in quell’episodio si arriva ad intravedere un segno del torvo giustizialismo impregnato del paradigma della colpa che sarebbe arrivato 36 anni dopo.
Scriveva Lissagaray, il comunardo che riuscì a scrivere una storia al presente della Comune di Parigi: «Chi diffonde tra il popolo false leggende rivoluzionarie, e lo diletta di storie cantanti, è altrettanto nocivo che il geografo che indirizzi ai naviganti delle carte nautiche che mentono».
L’aggravante di eversione dell’ordinamento costituzionale fu introdotta solo nel 1979
Paolo Persichetti Liberazione 2 ottobre 2008
Una legislazione antiterrorista e un diritto penale politico speciale in senso proprio nascono soltanto alla fine del 1979. Spiega Luigi Ferrajoli, nel suo ormai classico Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, che nel 1979 si opera un rovesciamento della strategia antiterrorista condotta dallo Stato. È la magistratura, non più la polizia, che ne assume per intero la supplenza. Vengono così rivitalizzati gli ampi strumenti normativi già presenti nel codice Rocco e introdotti nuovi dispositivi che daranno il via alla stagione dell’emergenza. Con il decreto-legge del 15 dicembre 1979, n. 625, convertito nella legge n. 15 del 6 febbraio 1980, viene introdotta la circostanza aggravante della «finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico» (successivamente corretta con la dizione “ordinamento costituzionale”). La nuova aggravante comporta un aumento di pena pari alla metà della pena edittale del reato base e l’esclusione delle attenuanti, oltre a modificare i criteri di cumulo di più circostanze aggravanti nel senso di un sostanziale aumento della quantità di pena irrogabile. Lo stesso decreto introduce nuove fattispecie criminose come «l’attentato per finalità terroristiche o di eversione» (nuovo testo dell’articolo 280 del codice penale) e «l’associazione con finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico» (articolo 270-bis del codice penale).
Tutti i reati con movente politico commessi prima dell’entrata in vigore della nuova aggravante antiterrorista vennero giudicati in base alla normativa preesistente, sulla scorta del principio di irretroattività della legge penale. Considerati episodi di natura eversiva solo dal punto di vista socio-storico ma non giuridico. Così avvenne per il sequestro Sossi (1974) che diede luogo a un’accesa disputa giurisprudenziale. Da una parte chi riteneva andasse inquadrato nella fattispecie del «sequestro semplice» e chi invece configurava nelle richieste politiche delle Br delle finalità di natura estorsiva. Analogo trattamento ebbero i reati politici commessi fino al 1979 (ivi compreso l’attentato a Coco) fatta eccezione per quelli ritenuti di «natura permanente» e protrattisi oltre la data di entrata in vigore delle nuove disposizioni di legge.
Libri – Il nemico inconfessabile. Sovversione sociale, lotta armata e stato di emergenza in Italia dagli anni Settanta a oggi, Odradek 1999
di Paolo Persichetti e Oreste Scalzone
1. Il processo Sofri è il risultato di un inusitato errore giudiziario? Oppure la prova ennesima di un modello giudiziario, di un nuovo paradigma indiziario che è presente nella società italiana ormai da un ventennio? Il primo omicidio politico di sinistra in Italia è stato l’attentato al commissario Calabresi. Un’azione che anticipa di quattro anni la decisione delle Br di «alzare il tiro» (1976).(1) L’attentato Calabresi impedisce di separare la storia degli anni 70 in due momenti distinti e, inamovibile come una montagna, è li a ricordare che a praticare livelli illegali e armati non c’erano solo i gruppi dichiaratisi combattenti fin dall’inizio. Per questo motivo Ovidio Bompressi(2), Giorgio Pietrostefani e Adriano Sofri sono gli ostaggi della cattiva coscienza di un’intellighenzia di sinistra che ha condotto fino al parossismo l’occultamento di una parte della storia degli anni 70. Sacrificati sull’altare di una innocenza assoluta, necessaria al bisogno d’innocenza di altri, sono vittime della linea di difesa scelta, e dell’arroganza della campagna di sostegno condotta in loro favore.
2. Poco dopo la sentenza definitiva della Cassazione(3) e l’incarcerazione di Bompressi e Sofri (Pietrostefani stava preparando il suo rientro dalla Francia)(4), l’italianista Jacqueline Risset invitava gli intellettuali francesi a intervenire sul caso Sofri. Nel suo articolo citava il giudice di Cassazione, Alfonso Malinconico, il quale aveva invitato a esaminare il caso Sofri «con molta attenzione», perché «situato socialmente e storicamente in una visione che non ha niente a che vedere con quella dei magistrati». Nel tentativo di delucidare il contesto in cui si era svolto, nel 1972, l’omicidio del commissario Calabresi, per il quale Sofri è stato condannato, Risset ricordava la «strategia della tensione»(5). Nessuna parola era impiegata per descrivere la dimensione radicale e l’estensione dei movimenti sociali di quel periodo, nelle fabbriche (occupazione della Fiat), nei quartieri popolari delle grandi città. Tuttavia, Lotta continua, all’inizio degli anni 70, era tra i protagonisti di queste lotte. Nessun cenno, inoltre, sull’uso generalizzato e sistematico che dei pentiti è stato e viene fatto, nella quasi totalità delle inchieste e dei processi, e sul modello giudiziario d’eccezione, di cui lo stesso Sofri ha finito per essere un’ulteriore vittima. La breve ricostruzione fatta da Risset gettava un’ombra che faceva apparire il caso Sofri come il risultato di una macchinazione: ultimo soprassalto di qualche rete residuale dei servizi segreti della prima Repubblica, paradossalmente presentata come alleata di quella stessa magistratura che l’ha affondata a colpi d’inchieste anticorruzione.
3. Lo storico Carlo Ginzburg, nel suo libro(6) sull’argomento, non esclude completamente l’ipotesi del complotto, ma in assenza di prove si attiene all’errore giudiziario, poiché non vuole avanzare «sul terreno delle congetture». Come egli stesso ammette: «Per parlare di dolo (che in questo caso implicherebbe anche, necessariamente, un complotto), ci vogliono delle prove irrefutabili. Io non ne ho».(7) “Insostenibile” però non vuole dire “impensabile”. E nel libro vi è ben più che un’allusione all’ipotesi del complotto, tant’è che Ginzburg stesso riferisce del dissenso che sul tema ha con Adriano Sofri.(8) Il complotto, la «teoria dei complotti», è per Ginzburg un modello ontologico valido seppur solo a certe condizioni.(9) Dimostrando efficacemente le «inquietanti coincidenze» del processo Sofri con i procedimenti dell’inquisizione, anch’egli rifiuta di trarre delle più ampie conclusioni sul sistema giudiziario dell’emergenza. Le frequentazioni con le «radici del paradigma indiziario» non lo hanno reso avvertito del fatto che un procedimento può essere l’indizio di un sistema ben più ampio. Per Ginzburg il solo «processo alle streghe» dell’Italia moderna è quello Sofri.(10)
4. Ma tra le differenti caratteristiche che distinguono l’attività dello storico da quella del giudice vi è l’analisi del «contesto», ovvero la presa in considerazione della dimensione storico-sociale da cui la ricerca storica non può in alcun momento prescindere, a differenza dell’attività giudiziaria che si occupa prioritariamente dell’azione individuale, cercando di definirne le singole responsabilità e i relativi risvolti penali, e solo secondariamente – in modo del tutto discrezionale – della dimensione storico-sociale (con strumenti di conoscenza e comprensione che restano largamente inadeguati). Perché, dunque, questa ossessiva reductio ad unum dell’intera impalcatura politico-giudiziaria che ha dato luogo al processo e alla condanna di Sofri e compagni? Perché questa volontà di circoscrivere la vicenda del processo Sofri alla dimensione del semplice errore giudiziario? Perché altrove il lavoro di analisi dei meccanismi dell’inquisizione del Cinquecento e del Seicento porta Ginzburg a non soffermarsi di fronte alle sole implicazioni metodologiche ma a indagare oltre, per ricercarne le implicazioni politiche, le complesse e profonde interrelazioni con la dimensione delle mentalità, per arrivare così a descrivere i meccanismi di una struttura che agisce come sistema e che svolge una decisiva funzione di controllo e repressione sociale? Sarebbe esatto considerare l’inquisizione come la semplice addizione di un gran numero di processi a streghe, maghi ed eretici impenitenti? Una somma incredibile di errori giudiziari che traversarono due secoli e diversi paesi d’Europa senza legami l’uno con l’altro? Sarebbe giusto considerare questa dimensione spaziale e temporale comune come un fatto puramente accidentale? Tutte le ricerche degli storici in materia, oltre che quelle pregiate di Ginzburg(11), mostrano il contrario. Allora, perché di fronte a un fatto come il processo Sofri, uno storico così avvertito viene meno, in modo tanto palese, al rigore del suo mestiere? Alla fine del suo libro, Ginzburg, districandosi tra storici e giudici che cercano la prova delle streghe, arriva soltanto a scoprire l’esistenza degli angeli. Angeli speciali che hanno sorvolato la storia degli anni 70.
5. La ragione la si ritrova nella scelta differenzialista che si iscrive dentro una lunga polemica sull’interpretazione e la legittimità delle anime politiche e culturali protagoniste del 68, nel tentativo di affermare una sorta di “qualità”, di “essenza”, di “specificità intrinseca”, che avrebbe fatto di Lotta continua una formazione oggettivamente incompatibile con la violenza politica e l’omicidio, in un contesto storico dove altri a sinistra, al contrario, hanno riconosciuto o rivendicato questo tipo di compatibilità. Tra i molti sostenitori di questa tesi vi sono Jean-Luis Fournel et Jean-Claude Zancarini, che in un articolo uscito su Les Temps Modernes,(12) si preoccupano degli effetti storiografici che il processo Sofri provoca nell’interpretazione delle vicende degli anni 70. Essi denunciano l’amalgama tra «terrorismo rosso» e «i gruppi radicali e contestatari, nati negli anni della rivolta studentesca del 67-68, oltre che l’accostamento con le lotte operaie dell’autunno caldo, del 1969». Ancora una volta si ripropone una lettura che separa l’origine delle formazioni sovversive dai movimenti sociali dei primi anni 70, riprodotti in forma caricaturale come fenomeni legalitari e pacifici. «Attribuendo a Lotta continua la responsabilità del primo omicidio politico dell’estrema sinistra – scrivono – si può giustificare la tesi degli “opposti estremismi” e spostare al 1972 il processo di costituzione del “terrorismo rosso”».(13) Ciò avvantaggerebbe «tutti coloro che vorrebbero cancellare le responsabilità dell’estrema destra e di una parte dell’apparato dello Stato in quella che fu chiamata la “strategia della tensione”».(14) Come si può già intuire, gli autori non vanno molto lontano e ripropongono la ritrita tesi del complotto, che vede i responsabili dell’attentato Calabresi situati negli ambienti dello stragismo e dei servizi deviati. A sostegno di questa loro tesi, essi affermano di poter escludere che «nella situazione politica italiana di quegli anni [primi anni 70] Lotta continua (come tutte le altre organizzazioni di estrema sinistra, anche quelle che da allora praticarono una pedagogia del passaggio alla lotta armata) possa aver potuto prendere la decisione di realizzare un assassinio politico». Argomento che costringe i due autori a rappresentare le stesse Br come una formazione «che allora non si considerava un gruppo armato clandestino», che «le Br dei primi anni 70 non dovevano forzatamente dare luogo a un gruppo armato clandestino che, dopo aver abbattuto Moro, si lancia in una fuga in avanti che le conduce a “colpire il cuore dello Stato”». Incidentalmente, per necessità logica, essi sono costretti a smentire il loro assunto iniziale e riportare le Br nell’alveo delle formazioni di estrema sinistra e non vedere in esse qualcosa di dissimile ed esterno ai gruppi politici che nascevano in quegli anni. Ma resta il mistero della morte di Calabresi, e qui, Fournel e Zancarini, dopo aver evocato «l’impossibilità di escludere l’ipotesi teorica dell’azione isolata di alcuni militanti di estrema sinistra», ci fanno comprendere che la vera pista da seguire, come in un bel giallo pieno di spie, doppiogiochisti, denaro sporco, commerci illeciti, mafiosi e politici corrotti, è quella di «un’azione dell’estrema destra per liberarsi di un commissario scomodo che indagava sui traffici d’armi». Ci spiegano inoltre che l’unica analogia possibile tra il processo Sofri e l’inchiesta 7 aprile (presa come emblema dei processi degli «anni di piombo») è l’utilizzo della «prova logica» a scapito delle prove fattuali. «Ma il paragone si ferma qui. La congiuntura politica nel 1972 […] non è la stessa di quella del 1979, quando, dopo il rapimento e l’assassinio di Moro, una parte dei militanti dell’estrema sinistra ha fatto la scelta della lotta armata contro lo Stato». Dovremmo intendere, dall’ambiguità di questa frase, una giustificazione del prevalere della «prova logica» su quella «fattuale», consentita dall’introduzione della giustizia d’eccezione? In ogni caso, Fournel e Zancarini fanno male a dimenticare che Bompressi, Pietrostefani e Sofri sono stati inquisiti nell’88, in un’epoca in cui la legislazione speciale, il ricorso al pentitismo, la giustizia d’emergenza, erano una prassi ben rodata da oltre un decennio. Non è forse questa l’analogia decisiva da considerare come una delle ragioni fondamentali delle successive condanne? O anche il sottoporre a critica la giustizia d’eccezione comporta un rischio di amalgama con la sovversione armata di sinistra?
6. Anche il premio Nobel Dario Fo, che ha scritto una commedia sulla vicenda(15), si è lanciato con tutte le sue forze in favore della tesi del complotto di servizi e fascisti, attribuito a dei giudici in realtà clerico-demo-sinistri (ex catto-comunisti), come Borrelli e D’Ambrosio, capi del «pool di mani pulite». Tutto ciò senza mai essersi reso conto della flagrante contraddizione che rappresenta il fatto di continuare a colmarli, altrove, di lodi per i loro meriti nella campagna anticorruzione. Questa rodomontesca entrata in scena, che ha portato fino al parossismo tutti i sofismi diffusi su questo caso giudiziario, si è rivelata un boomerang per lo stesso Sofri, alla stregua di una medicina che uccide il malato. Il presidente della Repubblica Scalfaro si è precipitato a rifiutare la grazia a Sofri e ai suoi coimputati, mentre un brillante editorialista lanciava l’allarme, titolando un suo articolo con una ironia glaciale: «Salvate Sofri da Dario Fo».(16) L’allusione al complotto, iscritta in una lettura fatta di pura dietrologia, non aiuta la comprensione di ciò che è accaduto in Italia durante gli anni 70 e ancora meno dell’attuale persistere delle sue conseguenze giudiziarie. Un complotto? Dopo 16 anni? Per vendicarsi di cosa e contro chi? Un gruppo sociale, i quadri e la struttura dirigente di Lotta continua, che nel 1976, dopo lo scioglimento dell’organizzazione (sotto la spinta della radicalizzazione e della militarizzazione del movimento del 77 che si avvicinava), ha iniziato la sua lunga marcia verso l’assimilazione nell’élite sociale (soprattutto dei media e della politica)? Molti dei vecchi aderenti a Lotta continua, dopo aver rotto con l’estremismo, sul modello dei nouveaux philosophes (scoperta dell’ideologia della «fine delle ideologie» e abitudine a fare l’autocritica degli altri), hanno stabilito, in questi ultimi quindici anni, una rete di relazioni trasversali, che ha permesso loro di frequentare senza problemi il potere, quale che fosse la maggioranza dominante, e di restare in permanenza con tutti i vincitori del momento. Gli anni 80, sulla scia del neoyuppismo ultraliberale, furono il momento degli uomini della stagione craxiana, all’ombra del potente impero mediatico di Berlusconi;(17) nella seconda metà degli anni 90, cavalcando l’ondata giustizialista, è venuto il turno dell’Ulivo e del Pds-Ds. Questo valzer ha attraversato indenne il terremoto politico-istituzionale delle inchieste sulla corruzione. Parlare di «complotto» in queste condizioni è piuttosto di cattivo gusto e assomiglia troppo allo scenario di un giallo scritto male.
7. Altri intellettuali sono intervenuti: tra questi il semiologo Umberto Eco, che nella rivista MicroMega, ha parlato di un «nuovo affare Dreyfus»(18), oppure lo scrittore Antonio Tabucchi, che ha indirizzato una lettera aperta al prigioniero Adriano Sofri(19), in risposta alla provocazione rivolta dallo stesso Eco (agli altri intellettuali) di «restarsene silenziosi quando non servono a niente». Un precedente scontro con Alberto Arbasino(20) aveva anticipato i contenuti di questa nuova polemica. Arbasino se la prendeva con gli intellettuali francesi che avevano manifestato contro l’obbligo di denunciare i sans-papiers(21), e con i pochi intellettuali italiani che, a dire il vero in modo molto più blando e sparso, avevano preso le parti dei rifugiati albanesi.(22) Tabucchi allora aveva difeso il ruolo dell’intellettuale presente al suo tempo; da qui la scelta a effetto di rivolgersi a un altro intellettuale, questa volta imprigionato, per parlare – malgrado le buone intenzioni – solo d’intellettuali, realizzando una paradossale caricatura di un impegno incapace di manifestarsi all’esterno di una cerchia ristretta e separata, intenta solo a polemizzare. Ritratto di uno specchio di narcisi che parlano di loro, tra loro. Tutti questi intellettuali hanno avuto come unica preoccupazione il fatto d’isolare il caso Sofri dagli avvenimenti storici degli anni 70, presentandolo come un ingiusto accidente giudiziario, senza mai mettere in causa il sistema della giustizia d’eccezione costituitasi come procedura ordinaria del sistema giudiziario.
8. In questo panorama di prese di posizione, tra intellettuali accreditati, Franco Fortini è stato il solo – poco dopo la messa in stato d’accusa di Sofri nel 1988 – ad avere criticato, in un articolo pubblicato dal Manifesto(23), questa ipocrisia generale. Una «congiura»(24) fondata su un arrogante pregiudizio d’innocenza assoluta e metafisica, che concerne – ben al di là dell’innocenza specifica sui fatti rimproverati a Sofri e ai suoi compagni – la perfetta e implacabile innocenza intellettuale e morale di tutta l’intellighenzia di sinistra. In realtà, quell’ambiente intellettuale che negli anni 70 ha vissuto in promiscuità con un certo fervore rivoluzionario, dietro l’icona immacolata di Sofri ha cercato di mostrare la propria innocenza e intoccabilità. Sofri è diventato obbligatoriamente l’angelo(25) che dietro le sue grandi ali deve nascondere la cattiva coscienza dell’epoca. La visione riduttiva del caso Sofri contiene l’occultamento di una parte decisiva della storia degli anni 70, del conflitto durissimo che ha opposto lo Stato e il padronato alla radicalità sovversiva dei movimenti sociali rimasti soli all’opposizione. Un occultamento che conduce direttamente alla falsificazione storica e facilita la rimozione di un passato scomodo per molti. Come ricordava Joyce Lussu, molti tra gli intellettuali e i vecchi dirigenti dell’estrema sinistra, che «la sera della morte di Calabresi avevano stappato lo champagne»,(26) cercano oggi attraverso questa rimozione una autoassoluzione post festum. Nel novembre 1980, sull’Espresso, Franco Piperno(27) scriveva: «la verità è che l’omicidio di Calabresi è l’inizio del terrorismo di sinistra in Italia», e aggiungeva: «interrogarsi radicalmente, riconoscere gli errori, rimettere tutto in discussione è operazione dolorosa ma saggia. Niente è più pericoloso che la tentazione di fare come se niente fosse accaduto. La verità, diceva Trotzki, conviene onorarla non per moralismo, ma per intelligenza: perché lascia nei fatti tracce multiple e indelebili, sicché occultarla diventa impresa che ingoia tutto, e alla fine ci si ritrova nella necessità di occultare perfino se stessi, la propria storia […] Il salto da vittime a carnefici è anche un salto culturale che lascia senza fiato; perché, al di là dell’identità personale dei terroristi che avevano sparato, la responsabilità politica di quella morte era interamente addebitabile al movimento extraparlamentare, non v’erano dubbi su questo».
9. Corollario di questo occultamento è l’incapacità di vedere negli effetti perversi del prolungamento dell’«emergenza» in Italia, la causa dell’affare Sofri. Parlare di errore giudiziario come di una fatalità del destino, o peggio, di un complotto e rifiutarsi di guardare la fabbrica che produce questi errori giudiziari, per paura di una pericolosa contaminazione con i gruppi sovversivi nel nome di una «incompatibilità culturale» della generazione di Lotta continua con gli «anni di piombo», non è stata finora una strategia di difesa molto efficace. Spostare il dibattito sulla «dimensione culturale», come è stato fatto nella campagna per la difesa di Sofri, significa accettare di esser giudicati sugli stati di coscienza piuttosto che sull’esistenza di prove. Non solo, ma questa posizione non sta in piedi storicamente, sia per il commento che il giornale Lotta continua diede dell’attentato Calabresi: «un atto nel quale gli sfruttati riconoscono la loro volontà di giustizia»;(28) che per gli avvenimenti successivi, i quali hanno dimostrato come molti militanti provenienti da Lotta continua abbiano dato vita a dei gruppi armati, come i Nap (Nuclei armati proletari), Prima linea, o siano entrati nelle Br. Se gli imputati avessero riconosciuto quello che era il clima politico del tempo, piuttosto che trincerarsi dietro un ipocrita «ma quando mai!», se avessero ricostruito quell’universo desiderante di decine di migliaia di militanti dell’estrema sinistra, che non avrebbe versato una lacrima per la morte di un qualunque Calabresi, dopo la strage di piazza Fontana e soprattutto dopo la morte dell’anarchico Pinelli,(29) l’argomento della plausibilità, della verosimiglianza di un atto, che sul piano storico valeva per almeno duecentomila persone che avevano sognato quel gesto, per alcune centinaia di dirigenti dei gruppi extraparlamentari, sul piano giudiziario sarebbe rimasto un puro argomento tipologico, fondato sulla teoria del «tipo d’autore».
10. Luigi Bobbio scrive nella sua storia di Lotta continua(30) della «svolta militarista di Rimini» del 1972. Il 4 marzo 1972, l’esecutivo milanese di Lc commentò positivamente il sequestro, avvenuto il giorno precedente, di Hidalgo Macchiarini, responsabile del personale Fiat, a opera delle Br. Nel 1971, l’allora Lotta continua settimanale inaugura la rubrica «I dannati della terra», con l’obiettivo di promuovere le lotte carcerarie. Attorno a questa esperienza si coagulano le forze che daranno vita, dopo il 1973, ai Nap.(31) Il 29 ottobre 1974, muoiono nel corso di un esproprio in una banca a Firenze Luca Mantini e Giuseppe Romeo, ex militanti di Lc divenuti nappisti. Lotta continua concluse la sua esperienza organizzativa al congresso di Rimini, tenutosi dal 31 ottobre al 5 novembre 1976, a causa delle lacerazioni profonde e delle istanze pressanti provenienti dal suo interno verso la lotta armata. Il problema della violenza politica fu in quel frangente la reale posta in gioco. Un indizio che può fornire l’idea di quella che era la temperatura al suolo è dato dal dibattito che si sviluppò sulle pagine dei Quaderni piacentini tra il 1972 e il 1973, ripreso sull’Espresso del 5 settembre 1996, pagine 73-74. Sul n. 47 datato luglio 1972, comparve un articolo intitolato «Contro il terrorismo» firmato da un certo Giancarlo Abbiati (presentato come «militante della sinistra rivoluzionaria»), pseudonimo sotto il quale si nascondeva l’identità di Luciano Pero, dirigente milanese di Lc ed esponente della linea moderata e legalista. Nel successivo n. 48-49, datato gennaio 1973, apparve la risposta inviata da un «compagno di Lotta continua» che si firmava Marcello Manconi, pseudonimo di Luigi Manconi, oggi senatore e portavoce dei Verdi. Riportiamo qui alcuni estratti dello scritto ripresi dall’Espresso che a sua volta cita parti della versione sintetizzata da Luigi Bobbio nel suo Lotta continua. Storia di un’organizzazione rivoluzionaria. Manconi scriveva: «L’uso del terrore e l’azione partigiana come forma organizzata e armata sono strumenti insostituibili della lotta di classe quando ne rispettano le esigenze […] Il terrorismo o è una degenerazione di questi strumenti (laddove violi queste condizioni) o è la risposta scorretta a una domanda corretta». Respingendo le critiche mosse alla posizione assunta da Lotta continua sull’attentato Calabresi, che partivano «da un presupposto indimostrato che l’omicidio politico appartenga al purgatorio premarxista», Manconi sosteneva ancora che «l’azione partigiana non è certo l’arma decisiva per l’emancipazione delle masse dal dominio capitalistico, così come l’azione armata clandestina non è certo la forma decisiva della lotta di classe nella fase che noi attraversiamo». Ma «l’arsenale del movimento rivoluzionario» spiegava «è ricco e duttile […] La violenza d’avanguardia è stata ed è puramente e semplicemente una necessità materiale, e non una compiaciuta scelta morale. Essa contribuisce a dare al programma proletario la certezza e la concretezza della sua realizzabilità […] Il proletariato […] non può fare a meno, per non restare schiacciato, in uno scontro che inevitabilmente procede verso la guerra di classe, di avere dei propri reparti avanzati che gli consentano di affrontare il nemico su ogni terreno […] A ogni fase dello scontro fra le classi corrisponde un grado specifico di violenza esercitata dalle masse, ed è questo che impone anche alle avanguardie l’esercizio di una quota determinata di violenza organizzata e diretta». Molti militanti del servizio d’ordine e della componente operaia si ritroveranno nei gruppi combattenti, soprattutto nel «mucchio selvaggio» di Prima Linea, altri nelle Br e ancora in altri gruppi. Renato Curcio, nel suo libro-intervista A viso aperto racconta, senza mai essere stato smentito, la storia di un incontro richiesto da alcuni esponenti di Lotta continua alle Br: «Nel 71, quando avevamo cominciato da poco le nostre azioni contro i capi reparto della Pirelli e della Sit-Siemens, diversi compagni di Lotta continua – che era allora il gruppo più attivo nelle fabbriche di Milano – si avvicinarono a noi e alcuni di loro entrarono nella nostra organizzazione. Un travaso che preoccupò non poco i dirigenti della formazione extraparlamentare. Al punto che a un certo momento, ci domandarono un incontro […] Mi vidi con due loro dirigenti, Giorgio Pietrostefani, responsabile del servizio d’ordine, e Ettore Camuffo, un compagno di Trento che avevo conosciuto all’epoca dell’università. Volevano sondare la possibilità di un’eventuale ipotesi di “fusione”. O più esattamente, la nostra disponibilità a integrarci nel loro gruppo. Lotta continua è un’organizzazione politica forte a livello nazionale, mi dissero in sostanza, mentre le Br sono un gruppuscolo senza grandi possibilità di sviluppo. Venite con noi e fate quello che sapete fare meglio: organizzate il nostro servizio d’ordine. Ci proponevano, in pratica, di diventare il loro “braccio armato”». Offerta assai maldestra che le Br rifiutarono bruscamente. (32)
11. Lo scrittore Erri De Luca, ex responsabile per la città di Roma del servizio d’ordine di Lotta continua e accusato di reati connessi, poi caduti in prescrizione, nel processo per la morte del commissario Calabresi, ha fatto sentire la sua voce discordante rivolgendosi a Ovidio Bompressi, in uno scambio di lettere pubblicate su MicroMega e riprese in parte dal Corriere della Sera, con il titolo «Tutti noi potevamo uccidere Calabresi».(33) De Luca sottolinea di parlare in difesa di Bompressi e non «degli altri due, imputati di essere due padrini, mandanti con le mani in tasca»; e più in là aggiunge: «La linea del “ma quando mai?”, la linea dei trasecolati, era buona per i mandanti che così non si dichiaravano dirigenti di un’organizzazione compatibile con un omicidio, ma non era buona per te, perché ti isolava dal mucchio di tutti noi, da cui eri stato estratto come nostro esempio […] Quella difesa ti metteva in croce. Tagliava il tuo legame col mucchio in cambio della rispettabilità di tutti i non imputati. Così fu scelto e tu hai acconsentito: per rispetto dei capi di allora, per tua dannata modestia, per tuo bisogno di sentirti ancora parte di quella comunità, dodici anni dopo che si era sciolta […]. Il mio chiodo era che si doveva ammettere l’evidenza che quell’accusa era compatibile con ognuno di noi, con la febbre da insorti che avevamo. Ma a dire questo, qualcuno e molti che nel frattempo avevano addomesticato il loro passato a sbronza di stagione sarebbero arrossiti, sarebbero stati in difficoltà sulle sedie imbottite che si erano intanto procurati. Compatibili con un omicidio: che guaio per la carriera […]. Lascia che ti condannino, Ovidio, che la tua vita si inchiodi sulla loro porta, sulla loro vendetta di esecutori di una rappresaglia […]. Tu sei estraneo all’accusatore e all’accusa, ma non sei innocente. Dal lancio della prima pietra non siamo stati più innocenti […]. E, non c’è più tempo né voglia di un’altra inutile linea di difesa, ma fai ancora in tempo a non sentirti solo, perché non lo sei. Tutte le persone che furono quella comunità e che poi ebbero esilio nell’Italia degli anni Ottanta, hanno te per orgoglio e per sipario sugli anni migliori della loro vita. E questa lettera io voglio lasciarla aperta perché la leggano loro, quelli che non hanno più avuto voglia di parlare: perché, la sottoscrivano o la straccino, ti facciano avere il loro: “come te anch’io”».
12. Nello sforzo di riscrittura e angelicazione della storia politica di Lotta continua vi è stata una riuscita operazione di captatio benevolentiae nei confronti del sistema politico. A partire dal 1976, Lc è divenuta il grande «convertito collettivo», il «pentito sociale» contro la sovversione e la lotta armata.(34) Una riscrittura mistificata di una parte del passato, dove demoni e cattivi stavano tutti da una parte, sembrava sufficiente per non sentirsi implicati nella spirale della giustizia d’eccezione. Ma così non è stato. La generazione degli ex dirigenti di Lc si è trovata in qualche modo in contropiede per aver pensato di averla scampata con l’emergenza. Credevano che essa avrebbe riguardato sempre e solo gli altri. Se ne sentivano al riparo. Avevano fatto della differenziazione una carta di rispettabilità. Un passato rimosso li ha recuperati.
NOTE 1– L’8 giugno 1976, il giudice Francesco Coco e la sua scorta subiscono un attentato mortale a Genova. 2– Nell’aprile 1998, Ovidio Bompressi ha ottenuto la sospensione della condanna per motivi di salute. 3– 22 gennaio 1997. 4– In alcune interviste rilasciate nei giorni immediatamente precedenti alla sua decisione di rientrare, Pietrostefani si era lasciato andare ad alcune dichiarazioni piuttosto infelici: «chi fugge è colpevole». Allora, l’editorialista Giorgio Bocca, forse perché scrive su Repubblica, si è preso per Platone e non ha esitato a scrivere l’apologia di un “novello Socrate” che rinuncia alla fuga, per bere la cicuta. Ma Socrate non è fuggito di fronte alla condanna perché sottraendosi a essa pensava di confermare la sua colpevolezza, al contrario, con la forza drammatica del suo gesto sacrificale auspicava un cambiamento della legge ingiusta. Non voleva singolarizzare il suo dramma personale, ma, con lo scandalo di quel suo gesto, sottomettendosi al principio della legge, voleva spingere il paradosso fino a un punto estremo che portasse gli ateniesi a cambiare quella legge ingiusta. Ma nel rientro di Pietrostefani non vi è stato nulla della nobiltà tragica del dialogo con Critone. L’imponente fronte massmediatico e le larghe simpatie nel ceto politico istituzionale in favore dei tre condannati hanno, al contrario, accentuato alcuni loro toni arroganti e di sfida fino al delirio di potenza, all’azzardo pockeristico miserabilmente sbriciolatosi nei mesi successivi di fronte ai cancelli della prigione rimasti chiusi. Pietrostefani non ha mosso parola contro la legislazione sui pentiti, ha parlato per sé mettendo in dubbio soltanto il valore delle dichiarazioni di Marino e dimenticando il resto ha aggiunto: «chi scappa è un crumiro». Allora il Critone si è rivelato un cretino. Che vuol dire «crumiro»? Lavoratore che rifiuta di scioperare o accetta di lavorare in luogo degli scioperanti. Il crumiro abbassa il potere di ricatto dello sciopero, la sua forza collettiva. Se uno della banda del cavalcavia avesse rifiutato di lanciare pietre sarebbe stato un crumiro? Nel caso ipotetico in cui il monte pena, all’uopo di essere individuale, fosse stato collettivo, cioè cumulato sulle spalle dei soli imputati detenuti, allora non rientrare sarebbe stata una forma di crumiraggio. In tal caso, Pietrostefani sottraendosi avrebbe lasciato soli i suoi due compagni a scontare i complessivi sessanta anni di reclusione divisi per due e non per tre, cioè trenta a testa. Ma così non è, e rientrando nessuno dei suoi due compagni vede la sua pena ridotta. Venti anni ciascuno erano e venti anni restano. Se no, perché non fare un appello agli altri ex-Lc, affinché si presentino tutti davanti alle porte del carcere, così quei 21.900 giorni ripartiti per tutti quanti diventerebbero un giorno o un’ora a testa? E comunque, se il dibattito si sposta sul costituirsi o sottrarsi: il senatore a vita Giulio Andreotti non si è dato latitante, dunque solo per questo ne dovremmo dedurre che è innocente! Mentre Mazzini, Pertini, i fratelli Rosselli, Bertolt Brecht, sono stati tutti dei crumiri. 5– Definita come uno strumento usato dalla «classe dirigente dell’epoca con la complicità dei servizi segreti, degli estremisti di destra e di poteri occulti di diversa origine, con delle alleanze internazionali segrete». Risset aggiungeva che «non esisteva allora uno Stato neutrale, ma un “governo invisibile” (secondo l’espressione di Norberto Bobbio) più forte del governo ufficiale», Le Monde, 29 gennaio 1997. 6– Le juge et l’historien, Paris, Verdier, 1997, trad. dall’edizione italiana, Einaudi, 1991, con una nuova prefazione dell’autore. 7– Ibidem, cap. XVII, p. 101. 8– Nella Memoria presentata ai giudici e pubblicata dall’editore Sellerio sotto lo stesso titolo, Adriano Sofri scrive a p. 139: «Bisogna stare attenti alla teoria del complotto perché offusca l’intelligenza, e sfocia spesso in una spiegazione comoda». 9– Le juge et l’historien, op. cit.; trad. italiana, 1991, cap. XIV, pp. 64-68. 10– Un episodio per tutti: al Salon du Livre di Parigi, presentando l’uscita del suo libro, Carlo Ginzburg ha risposto a Toni Negri (il quale faceva notare di avere anch’egli «subito un processo alle streghe»), che non c’era ragione di comparare i due casi, poiché «Sofri era veramente innocente e Negri colpevole». Per quello specchio distorto della realtà che è la «verità giudiziaria» i due sono colpevoli allo stesso modo, ma Ginzburg frequentando l’universo delle streghe ha appreso l’arte magica che permette, a lui solo, di essere partecipe dei segreti della «verità storica». 11– Carlo ginzburg, «Traces. Racines d’un paradigme indiciaire» (1979), Mythes, emblèmes, traces: morphologie et histoire, tr. fr. M. Aymard et al., Paris, Flammarion, 1989, p.139-180; «Prove e possibilità», prefazione ed. italiana di N. Zemon Davis, Il ritorno di Martin Guerre, Torino, 1984; «Montrer et citer», Le Débat, n° 56 (settembre-ottobre 1989), pp. 43-54. 12– “Des historiens peu prudents, l’enjeu historiographique de l’affaire Bompressi, Pietrostefani, Sofri”, Les Temps Modernes, n. 586, nov.-dec. 1997. 13– Perché tanta paura? È storia largamente assodata che il discorso combattente e il processo di costituzione dei primi gruppi armati abbia avuto inizio ben avanti il 1972. 14– Per paura che la «strategia della tensione» venga giustificata a posteriori come reazione alla presenza della lotta armata di sinistra – in questa variante gauchista della riscrittura della storia –, si pretende di dimostrare che la lotta armata sia nata come reazione alla «strategia della tensione». A parte Giangiacomo Feltrinelli, che aveva costituito i Gruppi armati partigiani (Gap) per prevenire l’approssimarsi del rischio di un golpe, la propaganda armata delle Br, l’attività combattente dei Nap o la concezione insurrezionalista di gruppi interni all’area di potere Operaio, offrivano al contrario una visione completamente offensiva e non reattiva della sovversione. Propaganda armata e altre tendenze militari si svilupparono a prescindere dalla «strategia della tensione» e dalle stragi. Esse avevano tutt’al più svolto un ruolo sul piano della ragione etica dei singoli militanti, resi consapevoli del livello elevato di scontro militare imposto dallo Stato e che faceva della vita umana, ancor più che in passato, carne da macello. I movimenti sociali dell’«autunno caldo» e gli scioperi operai erano ampiamente sufficienti a quei settori atlantici, interni ed esterni all’apparato statale, per scatenare la strategia del terrore contro le moltitudini. 15– Dario Fo, Liberate Marino. Marino è innocente, Torino, Einaudi, 1998. Leonardo Marino è il pentito che accusa Sofri. 16– Francesco merlo, Corriere della Sera, 27 ottobre 1997. 17– Negli anni 80, Silvio Berlusconi era stato il mecenate di Reporter, giornale che ha vissuto lo spazio di un mattino. Il suo direttore era Enrico Deaglio, già alla guida del giornale Lotta continua, oggi direttore di Diario, settimanale lanciato come inserto dell’Unità, ex giornale del Pci-Pds. Adriano Sofri (che ha collaborato anch’egli a Reporter) è stato uno stretto consigliere di Claudio Martelli, delfino di Craxi e cambusiere del psi. Al momento dell’apertura dell’inchiesta e del provvisorio arresto di Sofri, Bompressi e Pietrostefani, Martelli cumulava le cariche di vicesegretario del Psi, di vice primo ministro e di guardasigilli. Più tardi anch’egli è stato implicato e inquisito in numerose inchieste di «mani pulite». 18– Se le parole hanno un senso (chi meglio di Umberto Eco può saperlo?), richiamare l’affare Dreyfus conduce a evocare inevitabilmente qualche cosa che va oltre il semplice errore giudiziario. Attorno all’affare Dreyfus si è costituito in Francia l’antisemitismo moderno, un paradigma storico che ha condotto ad Auschwitz. Pretendere, come fa Eco, ma anche altri come Giuliano Ferrara, che il processo Sofri contenga un paradigma della stessa forza dell’affare Dreyfus, dovrebbe portare quantomeno a denunciare le aberrazioni del sistema dello stato d’emergenza in Italia. Conseguenza che Eco, e gli altri, evitano accuratamente di trarre. 19– La gastrite de Platon, Mille et Une Nuits, Paris, 1997. 20– Alberto Arbasino, sofisticato scrittore, modello d’intellettuale cortigiano, un po’ dandy, sempre infastidito dai rumori e forse dagli odori provenienti dalla vita reale delle moltitudini, che arrivano talvolta fin nei salotti dei piani alti del Palazzo. 21– Immigrati clandestini, dunque senza documenti. 22– In occasione della manifetazione tenutasi a Parigi il 22 febbraio 1997 contro le leggi Debré-Pasqua-Méhaignerie. L’articolo di Arbasino è apparso su Repubblica del 15 marzo 1997. Tabucchi risponde il 1° aprile 1997 sul Corriere della Sera (“Intellettuali copritevi, ora piovono pietre”), Arbasino replica su Repubblica e Corriere della Sera, il 2 e 3 aprile 1997 (“Ma non chiedeteci anche la predica”). Tabucchi risponde ancora una volta sempre sul Corriere della Sera con un lungo articolo (“L’albanese sono io”), il 7 aprile 1997. 23– Il Manifesto dell’agosto 1988. Si veda anche Oreste scalzone nella sua “Lettera aperta a Adriano Sofri”, pubblicata dal Mattino, nell’agosto 1988; e l’intervista al settimanale L’Espresso, del settembre 1988, intitolata: “È anche colpa mia”. Altri testi di riflessione sono stati pubblicati, nel corso degli anni successivi, dal giornale Tempi supplementari. Nel 1997, diverse interviste sull’argomento sono apparse nel Corriere della Sera. 24– Jean Baudrillard, “La congiura degli imbecilli”, in Libération del 7 maggio 1997, definisce in questo modo l’attuale dimensione culturale della sinistra: «mentre la destra incarnava i valori morali, e la sinistra al contrario una certa esigenza storica e politica contraddittoria, oggi, quest’ultima, spogliata di ogni energia politica, è diventata una pura giurisdizione morale, incarnazione dei valori universali, campione del regno della Virtù e detentrice dei valori museali del Bene e del Vero, giurisdizione che può chiedere dei conti a tutti senza dovere rendere conto a nessuno». 25– Fino a ora è stato solo l’agnello sacrificale. 26– Letteralmente: «sabré le champagne», in Libération, 7 febbraio 1997. 27– Fisico, leader del ’68, fondatore con Negri e Scalzone di Potere operaio, nel 1969, condannato ad alcuni anni di prigione durante gli anni 80. 28– Lotta continua, del 18 maggio 1972. 29– 15 dicembre 1969, Giuseppe Pinelli, ferroviere anarchico, muore cadendo da una finestra dell’ufficio del commissario Luigi Calabresi, situata al quarto piano della questura di Milano. Egli era illegalmente detenuto e interrogato da tre giorni. La versione ufficiale parla di suicidio dovuto alla disperazione a causa delle prove schiaccianti contro di lui nell’attentato di Piazza Fontana. L’episodio suscita un’enorme emozione. Lotta continua, insieme alla gran parte della sinistra extraparlamentare, è persuasa che Pinelli sia rimasto vittima di un interrogatorio violento e che il suo suicidio sia una messa in scena. Dopo un lungo iter l’inchiesta è chiusa nell’ottobre 1975 dal giudice Gerardo D’Ambrosio, che esclude l’omicidio e il suicidio e introduce la tesi del «malore attivo». 30– Luigi bobbio, Lotta continua. Storia di un’organizzazione rivoluzionaria, Savelli, Roma, 1979. Nel documento preparatorio al III convegno nazionale di Lc, 1-3 aprile 1972 era scritto: «È necessario preparare il movimento a uno scontro generalizzato, che ha come avversario lo Stato e come strumento l’esercizio della violenza rivoluzionaria, di massa e d’avanguardia». 31– «Dopo la svolta del 1973, in cui Lotta continua rifiutò ogni prospettiva di uscita dalla legalità, molti militanti abbandonarono quella organizzazione. È di questo periodo la formazione delle prime aggregazioni, a Firenze (nel collettivo J. Jackson), e a Napoli, dei militanti che daranno vita ai Nuclei Armati Proletari, organizzazione particolarmente interessata ai movimenti dei soggetti sociali maggiormente emarginati: proletari prigionieri, proletariato marginale e del Sud», in Progetto Memoria. La mappa perduta, cit. 32– Renato curcio, A visage découvert, Lieu Commun, Paris, 1993, “Calabresi tu sera suicidé”, pp. 99-100; A viso aperto, Milano, Mondadori, 1993, intervistato da Mario Scialoja. Contrariamente a quanto venne raccontato negli anni successivi, le br erano molto corteggiate. Lo stesso Toni Negri, dopo la rottura di Potere Operaio e la fine dell’occupazione di Mirafiori, nel 1973, aprì un confronto politico con le br che sfociò nella realizzazione in comune della rivista Controinformazione (si leggano le risposte di Toni Negri a Sergio Zavoli in Id., La notte della Repubblica, Mondadori, Milano, 1992, pp. 262-263). 33– Corriere della Sera, del 14 maggio 1996. 34– Argomento che è stato suggerito in filigrana in un articolo di Luigi Bobbio su Repubblica e poi in una intervista a Carlo Panella sul Corriere della Sera del 18 febbraio 1997.