Il processo contro Sud Ribelle: la filosofia di una inchiesta degna dell’inquisizione

E’ diventata definitiva l’assoluzione per i 13 militanti di Sud Ribelle accusati nel 2002 di associazione sovversiva e attentato agli organi costituzionali. Ieri sera la quinta sezione penale della corte di cassazione, accogliendo la richiesta del procuratore generale, ha respinto il ricorso della procura generale di Catanzaro contro la sentenza con cui la corte d’assise d’appello della città calabrese aveva confermato le assoluzioni dei 13 imputati nel luglio 2010, già pronunciate in primo grado dalla corte d’assise di Cosenza, nell’aprile 2008. 
L’indagine costruita dal Ros di Ganzer aveva fatto il giro delle procure d’Italia senza trovare credito fino a quando, nel novembre 2002, venne accolta dalla procura di Cosenza che spiccò gli ordini di perquisizione e arresto.
Grazie ad una testimonianza di Eva Catizzone (che cito qui sotto), all’epoca sindaco di Cosenza, ho scoperto solo oggi che tra gli oggetti sequestrati agli imputati c’erano alcuni miei libri. Non so che uso ne abbiano poi fatto i Ros e la procura nel corso dell’inchiesta. Posso immaginare: con la mia consegna straordinaria alle autorità italiane da parte della polizia francese, avvenuta nell’agosto precedente, ero stato trascinato nel cuore dell’inchiesta sulla morte di Marco Biagi, grazie ad una montatura orchestrata dal duo Vittorio Rizzi-Paolo Giovagnoli (il primo alla guida del gruppo di inquirenti che indagava sull’episodio; il secondo titolare dell’inchiesta nonostante l’intima amicizia e il lungo legame di famiglia con la vittima). Quei libri servivano a condire il contesto e suggerire immediate equazioni.
Ripropongo l’articolo che, ignaro di tanto interesse,
scrissi dalla cella d’isolamento del carcere di Marino del Tronto per Liberazione subito dopo gli arresti.  

La testimonianza di Eva Catizzone: «Mi svegliai, quella mattina, con la telefonata del Dottore (Francesco Francesco Febbraio) e col rumore degli elicotteri sulla testa della città. Ero Sindaco. Quando lessi l’ordinanza ne colsi subito il tentativo maldestro. Entrarono, di notte, gli uomini di Ganzer, col passamontagna nero calato sul volto, nelle case dei cosentini e delle cosentine. Sequestrarono i libri di Paolo Persichetti e i ragazzi furono portati a Trani, nel supercarcere. Poi venne quella straordinaria giornata di partecipazione, di libertà, di civiltà, vissuta insieme a Franco Piperno, Luca Casarini, Nichi Vendola e 100 mila altri. Era un sud diverso, libertario e ribelle, che resisteva all’omologazione del pensiero. Oggi viene resa giustizia. E’ finito un incubo, per molti personale (penso alle famiglie), per tanti collettivo. Mi resta ancora impresso nella memoria l’odore dei fiori lanciati, dall’alto dei balconi, al nostro passaggio».

Venerdì 15 novembre 2002, esattamente una settimana dopo il Forum sociale di Firenze e la manifestazione nazionale contro la guerra che vide scendere in strada quasi un milione di persone, venti militanti della rete Sud Ribelle vengono arrestati. Si trattava di una operazione preparata da tempo e mediaticamente congeniata, intervenuta alcune ore prima dell’incontro previsto davanti ai cancelli tra gli operai siciliani della Fiat di Termini Imerese, collocati dall’azienda in cassa integrazione. Il provvedimento di detenzione cautelare emesso dal Gip di Cosenza, ispirato da un famoso rapporto del Ros dei Carabinieri, precedentemente rifiutato dai magistrati di Genova e Napoli, affermava di perseguire atti di «sovversione contro l’ordinamento economico dello Stato». Le accuse specifiche richiamavano gli avvenimenti del marzo 2001, a Napoli, e del luglio 2001, a Genova.

La filosofia di una inchiesta degna dell’inquisizione

Paolo Persichetti
Liberazione
, mercoledì 27 novembre 2002

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Le motivazioni impiegate dal Gip del tribunale di Cosenza nel concedere la liberazione di alcuni militanti No Global arrestati nei giorni scorsi confermano come l’inchiesta condotta da quella procura sia solo una torva avventura inquisitoria. I provvedimenti di rimessa in libertà si giustificherebbero – secondo il magistrato – «per il venir meno della pericolosità sociale desunta dalla sopravvenuto» – o almeno supposto tale – «ripudio della violenza pronunciato nel corso degli interrogatori». sud-ribelle1 Ora, ci sembra che se in questo episodio esiste una vera confessione spontanea e totale, essa viene da quanto scrive il magistrato. Parole che confermano come la detenzione cautelare venga usata come una forma di sanzione delle opinioni dell’indagato e l’abiura (do you remember dissociation?) il requisito essenziale per ottenere la libertà.
Di questa vicenda, come di altre, non interessano le eventuali risposte strappate a chi, sottoposto a pressione coercitiva, è stato messo in condizione d’inferiorità. Cos’altro è il carcere preventivo, appesantito dalla situazione d’isolamento giudiziario disposto in un istituto di massima sicurezza, se non un tentativo d’intimidazione psicologica, di minorizzazione dell’indagato?
Ci interessano invece le domande dell’inquisitore, di colui che si trova in posizione di vantaggio, privo di condizionamenti se non quelli della propria coscienza (se mai ne ha una), fresco e riposato, sostenuto dall’ausilio della forza coercitiva di cui dispone, dalle informazioni raccolte durante mesi di violazione della sfera privata del suo ostaggio, e di cui ha disposto il saccheggio della vita e dei beni, la perquisizione della casa, infrangendone l’intimità, invadendo e appropriandosi d’oggetti a lui cari, di strumenti di lavoro, dei segreti e dei ricordi, appunti e sogni, ed a cui vorrebbe – dopo tutto ciò – curare l’anima, rieducare la coscienza, misurare i valori etici, raddrizzare la morale, arrogarsi il diritto di giudicare il percorso personale svolto nel fetore di una putrida cella di sicurezza.
Non vorremmo esser tornati ai tempi delle edificanti parabole nelle quali l’inquisitore indulgeva nel ruolo di confessore, raccogliendo i peccati, assolvendo le anime e confiscando i corpi. La proliferazione dei reati associativi, ben sette quelli presenti nel nostro codice penale, la solida permanenza dei reati d’opinione, altrimenti detti «politici», reati di fine e di pericolo, facilita la concezione inquisitoria del ruolo della magistratura. Interpretazione che ha incentivato brillanti carriere politiche e istituzionali. Scompaiono in questo modo le domande sui fatti specifici e circostanziati, sui comportamenti concreti e si moltiplicano le richieste sulle proprie idee, opinioni, posture dell’anima e intenti del pensiero. S’intavolano processi alle intenzioni, vere, presunte, supposte, attribuite, persino inconsce.
Ma le motivazioni addotte dalla dottoressa Plastina nella sua ordinanza di rimessa in libertà sollevano numerose altre riflessioni sulla cultura politica e civile ormai imperante non solo nel nostro paese. Esse ci interpellano su quella sorta di richiamo all’ordine che viene rivolto non solo ai nuovi movimenti, ma alle possibilità che ciascuno di noi ha, in pubblico come in privato, di pensare, avere dubbi, esercitare critica senza costrizioni, intimidazioni, ipoteche e minacce.
Argomentando in questo modo le scarcerazioni, il magistrato di Cosenza ha dato prova di una notevole quanto abile dose di malizia. Affermando che l’adesione esplicita ai principi della nonviolenza priverebbe l’indagato di un qualsiasi profilo di pericolosità sociale, la dottoressa Plastina ha introdotto una micidiale quanto perfida equazione tra nonviolenza e legalità. toto-peppino-e-fiordalisi1Mettiamo ora da parte la domanda legittima che questa circostanza induce: ovvero se la funzione di magistrato attribuisca un magistero sulla verifica delle dottrine morali e filosofiche seguite dagli individui. A che titolo un operatore della giustizia, che si avvale quotidianamente di quella dose di forza coercitiva normata (diritto), ritenuta necessaria alla regolazione sociale, può sindacare moralmente sul grado di violenza altrui? Domandiamoci, invece, se è possibile, in punto di dottrina ed esperienza storica, accettare una simile confusione tra nonviolenza e legalità?
Per quanto ci risulta, Thoreau, Gandhi e Luther King, concepivano e praticavano la nonviolenza come disobbedienza alle regole, dunque alla legge, per lottare contro situazioni di ingiustizia. La dottoressa Plastina fa molto bene il suo lavoro riassumendo la nonviolenza all’interno del paradigma della legalità. Conduce in questo modo, all’insegna di quella che fu la magistratura combattente durante l’emergenza degli anni Settanta, una battaglia su due fronti: quello giudiziario e quello del senso, ovvero sulla visione legittima delle cose da imporre. Stupisce, invece, che i nonviolenti non abbiano avuto in proposito nulla da obiettare. Sorprende tanta timidezza e tanto silenzio. Dobbiamo pensare che dietro vi sia soltanto il segno di una superficiale distrazione oppure che il magistrato di Cosenza tutto sommato abbia ragione?

Link
Sud Ribelle, una lettera di Claudio Dionesalvi
Genova G8, violenze, torture e omertà: la cultura opaca dei corpi di polizia
Carlo Giuliani, quel passo in più mentre tutti gli altri andavano indietro
Aporie della nonviolenza-1/continua
Esilio e castigo, retroscena di una estradizione

2 pensieri su “Il processo contro Sud Ribelle: la filosofia di una inchiesta degna dell’inquisizione

  1. Caro Paolo,
    ho deciso di scriverti per due o tre motivi. Sono attento lettore ed estimatore dei tuoi scritti. Ammiro e rispetto i compagni e le compagne che, come te, hanno pagato con la vita e la libertà il prezzo delle proprie scelte.
    La ripubblicazione su Insorgenze dell’articolo da te scritto dieci anni fa, all’indomani dell’operazione contro il sud ribelle che portò al mio arresto ed alla cattura di un’altra ventina di attivisti ed attiviste, forse mi offre la possibilità di scrivere la parola “fine” sotto una delle pagine più sofferte di quella bizzarra vicenda: le nostre scarcerazioni per presunta “abiura della violenza”. Mi riferisco in particolare alla conclusione del tuo testo: “(…) Stupisce, invece, che i nonviolenti non abbiano avuto in proposito nulla da obiettare. Sorprende tanta timidezza e tanto silenzio. Dobbiamo pensare che dietro vi sia soltanto il segno di una superficiale distrazione oppure che il magistrato di Cosenza tutto sommato abbia ragione?”
    In verità le cose non andarono proprio così. Sì, mi spinge a precisarlo una forma di orgoglio personale, ma soprattutto il rispetto nei confronti delle tante persone che scesero in piazza a sostenere la causa della nostra liberazione. Nel corso di quegli interrogatori né io né Gianfranco abiurammo un bel niente. Oggi sono le sentenze dei tribunali a confermarlo, qualora ce ne fosse ancora bisogno.
    Non mi sono mai riconosciuto nella categoria del “nonviolento”. Considero la violenza una circostanza che può verificarsi nella vita di una persona. Né la ripudio né l’esalto. Chiunque può trovarsi nella condizione di subirla o praticarla. Se nel carcere speciale di Viterbo rispondemmo alle domande del GIP, fu solo a causa della confusione che regnava in quelle ore. Alcuni degli arrestati rispondemmo, altri tacquero. Ci fu chi andò davanti al giudice ad urlare e chi, come me, scelse l’arma del sarcasmo. Oggi possiamo affermare che paradossalmente forse fu anche questo comportamento a confermare l’inesistenza di un’associazione. Se fossimo stati associati, il nostro atteggiamento in quella fase sarebbe stato meno disarticolato.
    Come ben sai, in questi casi i magistrati cercano, con mille espedienti, di “ricostruire il ruolo” del prigioniero, unendo alla tortura psicofisica della carcerazione preventiva, gli strumenti retorici della provocazione. All’inizio dell’interrogatorio, la giudice Plastina mi disse che io ero accusato di aver agito in sinergia con non meglio precisate “organizzazioni armate”, che io e gli altri arrestati avremmo pianificato e messo in atto la rivolta di Genova nei minimi dettagli, e mi accusò di essere stato uno dei responsabili della morte di Carlo Giuliani e del ferimento delle centinaia di persone finite all’ospedale durante gli scontri. Di fronte a quest’enormità, avvertii l’umano impulso di difendermi, prima ancora di affidare ai nostri legali il compito di farlo. Ma durante la “conversazione”, né io né la giudice dedicammo alcun cenno al tema della violenza. La questione fu sfiorata solo in merito ad uno dei capi d’accusa, relativo alla nostra occupazione temporanea della sede di Obiettivo Lavoro. Fui io a chiederle come fosse possibile, sul piano razionale, che per un banale sit-in si configurasse il reato di “turbativa violenta del possesso di beni immobili”. La GIP fece spallucce. Si vedeva che provava imbarazzo, sembrava una bambina sorpresa a rubare marmellata. Presi coraggio: le dissi che se avevo qualcosa da rimproverarmi, caso mai era l’atteggiamento troppo morbido che avevamo avuto nei confronti di Obiettivo Lavoro e dei poliziotti intervenuti sul posto durante la nostra manifestazione: … quella fu una pantomima. A momenti prendevamo il caffè insieme alla digos….
    Il mio interrogatorio si concluse con le parole: “… Carlo Giuliani, vittima della violenza dello Stato”.
    Allora qual era l’obiettivo della GIP che ci scarcerò con quella formuletta odiosa? Lo spieghi benissimo anche tu nel tuo articolo. È chiaro, era quello che da sempre perseguono gli apparati repressivi di questo Stato: prima ancora di “sorvegliare e punire”, vogliono DIVIDERE. Una cosa però è certa: ottennero l’effetto contrario. Con gli altri compagni e compagne arrestati quella notte, nonostante molti nemmeno ci conoscessimo, nei dieci anni successivi al blitz abbiamo assunto una posizione unitaria nelle aule “di giustizia”.
    E senza timore d’essere smentito, né Gianfranco né io rimanemmo in silenzio nei giorni successivi alle nostre scarcerazioni. Scrivemmo e divulgammo subito un documento in cui attaccavamo la procura, chiarivamo il senso reale dei nostri interrogatori, chiedevamo l’immediata liberazione dei compagni e delle compagne ancora detenuti. Quel documento fu acquisito agli atti. E negli anni successivi, nella tormentata vicenda giudiziaria che ne seguì, la procura ha fatto di tutto per smentire il riferimento all’abiura, contenuto nel dispositivo emesso dalla GIP. So bene che per noi non ha alcun valore politico. Ma ai fini della ricostruzione storica dei fatti, il conseguente carteggio ne è indiscutibile testimonianza. Basta prenderne visione. Le carte del Riesame, la chiusura indagini (415), la requisitoria del PM, dicono tutte la stessa cosa: Dionesalvi è un cattivo. A Tallarico invece chiediamo scusa, abbiamo sbagliato ad arrestarlo.
    Poi in questo psicodramma interverrà addirittura la sentenza della corte d’Assise: … Dionesalvi è un presuntuoso, parla come un fanatico. È un Ultrà del Cosenza Calcio.
    Alla fine, dunque, quel che conta è che si sono avverate le previsioni del compianto compagno avvocato Peppino Mazzotta. Subito dopo la scarcerazione, venne ad abbracciarmi, e lesse nei miei occhi l’odio in luogo del sollievo. Capì il mio stato d’animo. Non auguro a nessuno, neanche al peggior nemico, quel che provai nelle ore successive alla mia liberazione. In questa vita, a parte le malattie incurabili, c’è soltanto un’esperienza più brutta del carcere: essere scarcerato per “abiura”, soprattutto quando tu non l’hai mai resa. Peppino mi disse: “stai tranquillo. Non hai nulla da rimproverarti. Tutto si chiarirà. Alla fine saranno loro a fare abiura”. Così è stato. Quella GIP oggi non è più giudice. Lavora nel chiuso di un ufficio del ministero, sommersa da scartoffie. Buon per noi e per l’umanità intera. Quel capo della digos non è più né capo né digos. E il PM, alla fine della requisitoria con la quale chiedeva per noi tutti una sessantina di anni di galera, ha ammesso di essere “inadeguato”.
    Di certo, quel dispositivo basato sul concetto di abiura, nonostante ricalcasse una modalità di lavoro abituale per le galere e i tribunali italiani, apparve subito inverosimile agli occhi di chi, come te, conosce bene la storia di questo Paese. Il nostro sarebbe stato il primo caso, nella storia moderna e contemporanea, di “abiura” in assenza di ammissione di colpa e condanna. Non vorrei istituire paragoni blasfemi, ma in quest’ottica appare illuminante il processo a Galileo: venne prima la condanna, quindi la ritrattazione e l’abiura, infine la grazia.
    Noi invece, dopo dieci lunghi anni, siamo stati assolti. Auguro la medesima sorte a tutti gli altri compagni e compagne perseguitati per le lotte sociali e politiche. E spero di poterti avere nostro ospite a Cosenza, al più presto, da uomo libero, per abbracciarti di persona.
    A pugno chiuso.
    Claudio Dionesalvi

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