Francia, amnistia per fatti commessi in occasione di movimenti sociali, attività sindacali e rivendicative

Ecco il testo della proposta di legge d’amnistia sociale presentata davanti al senato francese dal Pcf e dal Fronte de Gauche per fatti commesi prima del 6 maggio 2012 passibili di condanne fino a 10 anni di reclusione in occasione di conflitti sui posti di lavoro, attività sindacali o rivendicative, movimenti collettivi rivendicativi, associativi o sindacali relativi a problemi legati all’educazione, la sanità, le lotte per la casa, l’ambiente, i diritti dei migranti, ivi comprese le manifestazioni di piazza o in luoghi pubblici; per sanzioni disciplinari sui luoghi di lavoro, per le agitazioni studentesche anche all’interno degli istituti scolari e universitari che hanno dato luogo a sanziopni disciplinari, in questo caso l’amnistia comporta anche il reintegro in istituto nel caso fosse stata comminata l’espulsione

 

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Dopo le pesanti condanne per devastazione e saccheggio confermate dalla cassazione torniamo a parlare di amnistia (un libro per riflettere: politici e amnistia, tecniche di rinuncia alla pena per i reati politici dall’Unità d’Italia ad oggi)
Movimento 5 stelle, non basta appoggiare la lotta no tav dovete battervi anche per l’amnistia in favore dei reati contestati durante le lotte sociali e la difesa dei territori
Stéphan Gacon, L’Amnistie, Seuil, Paris 2002, pp. 424
L’Amnistia Togliatti, Mimmo Franzinelli, Mondadori, Milano 2006, pp. 392

Une histoire politique de l’amnistie a cura di Sophie Wahnich Puf, Parigi, aprile 2007, pp. 263

Il processo contro Sud Ribelle: la filosofia di una inchiesta degna dell’inquisizione

E’ diventata definitiva l’assoluzione per i 13 militanti di Sud Ribelle accusati nel 2002 di associazione sovversiva e attentato agli organi costituzionali. Ieri sera la quinta sezione penale della corte di cassazione, accogliendo la richiesta del procuratore generale, ha respinto il ricorso della procura generale di Catanzaro contro la sentenza con cui la corte d’assise d’appello della città calabrese aveva confermato le assoluzioni dei 13 imputati nel luglio 2010, già pronunciate in primo grado dalla corte d’assise di Cosenza, nell’aprile 2008. 
L’indagine costruita dal Ros di Ganzer aveva fatto il giro delle procure d’Italia senza trovare credito fino a quando, nel novembre 2002, venne accolta dalla procura di Cosenza che spiccò gli ordini di perquisizione e arresto.
Grazie ad una testimonianza di Eva Catizzone (che cito qui sotto), all’epoca sindaco di Cosenza, ho scoperto solo oggi che tra gli oggetti sequestrati agli imputati c’erano alcuni miei libri. Non so che uso ne abbiano poi fatto i Ros e la procura nel corso dell’inchiesta. Posso immaginare: con la mia consegna straordinaria alle autorità italiane da parte della polizia francese, avvenuta nell’agosto precedente, ero stato trascinato nel cuore dell’inchiesta sulla morte di Marco Biagi, grazie ad una montatura orchestrata dal duo Vittorio Rizzi-Paolo Giovagnoli (il primo alla guida del gruppo di inquirenti che indagava sull’episodio; il secondo titolare dell’inchiesta nonostante l’intima amicizia e il lungo legame di famiglia con la vittima). Quei libri servivano a condire il contesto e suggerire immediate equazioni.
Ripropongo l’articolo che, ignaro di tanto interesse,
scrissi dalla cella d’isolamento del carcere di Marino del Tronto per Liberazione subito dopo gli arresti.  

La testimonianza di Eva Catizzone: «Mi svegliai, quella mattina, con la telefonata del Dottore (Francesco Francesco Febbraio) e col rumore degli elicotteri sulla testa della città. Ero Sindaco. Quando lessi l’ordinanza ne colsi subito il tentativo maldestro. Entrarono, di notte, gli uomini di Ganzer, col passamontagna nero calato sul volto, nelle case dei cosentini e delle cosentine. Sequestrarono i libri di Paolo Persichetti e i ragazzi furono portati a Trani, nel supercarcere. Poi venne quella straordinaria giornata di partecipazione, di libertà, di civiltà, vissuta insieme a Franco Piperno, Luca Casarini, Nichi Vendola e 100 mila altri. Era un sud diverso, libertario e ribelle, che resisteva all’omologazione del pensiero. Oggi viene resa giustizia. E’ finito un incubo, per molti personale (penso alle famiglie), per tanti collettivo. Mi resta ancora impresso nella memoria l’odore dei fiori lanciati, dall’alto dei balconi, al nostro passaggio».

Venerdì 15 novembre 2002, esattamente una settimana dopo il Forum sociale di Firenze e la manifestazione nazionale contro la guerra che vide scendere in strada quasi un milione di persone, venti militanti della rete Sud Ribelle vengono arrestati. Si trattava di una operazione preparata da tempo e mediaticamente congeniata, intervenuta alcune ore prima dell’incontro previsto davanti ai cancelli tra gli operai siciliani della Fiat di Termini Imerese, collocati dall’azienda in cassa integrazione. Il provvedimento di detenzione cautelare emesso dal Gip di Cosenza, ispirato da un famoso rapporto del Ros dei Carabinieri, precedentemente rifiutato dai magistrati di Genova e Napoli, affermava di perseguire atti di «sovversione contro l’ordinamento economico dello Stato». Le accuse specifiche richiamavano gli avvenimenti del marzo 2001, a Napoli, e del luglio 2001, a Genova.

La filosofia di una inchiesta degna dell’inquisizione

Paolo Persichetti
Liberazione
, mercoledì 27 novembre 2002

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Le motivazioni impiegate dal Gip del tribunale di Cosenza nel concedere la liberazione di alcuni militanti No Global arrestati nei giorni scorsi confermano come l’inchiesta condotta da quella procura sia solo una torva avventura inquisitoria. I provvedimenti di rimessa in libertà si giustificherebbero – secondo il magistrato – «per il venir meno della pericolosità sociale desunta dalla sopravvenuto» – o almeno supposto tale – «ripudio della violenza pronunciato nel corso degli interrogatori». sud-ribelle1 Ora, ci sembra che se in questo episodio esiste una vera confessione spontanea e totale, essa viene da quanto scrive il magistrato. Parole che confermano come la detenzione cautelare venga usata come una forma di sanzione delle opinioni dell’indagato e l’abiura (do you remember dissociation?) il requisito essenziale per ottenere la libertà.
Di questa vicenda, come di altre, non interessano le eventuali risposte strappate a chi, sottoposto a pressione coercitiva, è stato messo in condizione d’inferiorità. Cos’altro è il carcere preventivo, appesantito dalla situazione d’isolamento giudiziario disposto in un istituto di massima sicurezza, se non un tentativo d’intimidazione psicologica, di minorizzazione dell’indagato?
Ci interessano invece le domande dell’inquisitore, di colui che si trova in posizione di vantaggio, privo di condizionamenti se non quelli della propria coscienza (se mai ne ha una), fresco e riposato, sostenuto dall’ausilio della forza coercitiva di cui dispone, dalle informazioni raccolte durante mesi di violazione della sfera privata del suo ostaggio, e di cui ha disposto il saccheggio della vita e dei beni, la perquisizione della casa, infrangendone l’intimità, invadendo e appropriandosi d’oggetti a lui cari, di strumenti di lavoro, dei segreti e dei ricordi, appunti e sogni, ed a cui vorrebbe – dopo tutto ciò – curare l’anima, rieducare la coscienza, misurare i valori etici, raddrizzare la morale, arrogarsi il diritto di giudicare il percorso personale svolto nel fetore di una putrida cella di sicurezza.
Non vorremmo esser tornati ai tempi delle edificanti parabole nelle quali l’inquisitore indulgeva nel ruolo di confessore, raccogliendo i peccati, assolvendo le anime e confiscando i corpi. La proliferazione dei reati associativi, ben sette quelli presenti nel nostro codice penale, la solida permanenza dei reati d’opinione, altrimenti detti «politici», reati di fine e di pericolo, facilita la concezione inquisitoria del ruolo della magistratura. Interpretazione che ha incentivato brillanti carriere politiche e istituzionali. Scompaiono in questo modo le domande sui fatti specifici e circostanziati, sui comportamenti concreti e si moltiplicano le richieste sulle proprie idee, opinioni, posture dell’anima e intenti del pensiero. S’intavolano processi alle intenzioni, vere, presunte, supposte, attribuite, persino inconsce.
Ma le motivazioni addotte dalla dottoressa Plastina nella sua ordinanza di rimessa in libertà sollevano numerose altre riflessioni sulla cultura politica e civile ormai imperante non solo nel nostro paese. Esse ci interpellano su quella sorta di richiamo all’ordine che viene rivolto non solo ai nuovi movimenti, ma alle possibilità che ciascuno di noi ha, in pubblico come in privato, di pensare, avere dubbi, esercitare critica senza costrizioni, intimidazioni, ipoteche e minacce.
Argomentando in questo modo le scarcerazioni, il magistrato di Cosenza ha dato prova di una notevole quanto abile dose di malizia. Affermando che l’adesione esplicita ai principi della nonviolenza priverebbe l’indagato di un qualsiasi profilo di pericolosità sociale, la dottoressa Plastina ha introdotto una micidiale quanto perfida equazione tra nonviolenza e legalità. toto-peppino-e-fiordalisi1Mettiamo ora da parte la domanda legittima che questa circostanza induce: ovvero se la funzione di magistrato attribuisca un magistero sulla verifica delle dottrine morali e filosofiche seguite dagli individui. A che titolo un operatore della giustizia, che si avvale quotidianamente di quella dose di forza coercitiva normata (diritto), ritenuta necessaria alla regolazione sociale, può sindacare moralmente sul grado di violenza altrui? Domandiamoci, invece, se è possibile, in punto di dottrina ed esperienza storica, accettare una simile confusione tra nonviolenza e legalità?
Per quanto ci risulta, Thoreau, Gandhi e Luther King, concepivano e praticavano la nonviolenza come disobbedienza alle regole, dunque alla legge, per lottare contro situazioni di ingiustizia. La dottoressa Plastina fa molto bene il suo lavoro riassumendo la nonviolenza all’interno del paradigma della legalità. Conduce in questo modo, all’insegna di quella che fu la magistratura combattente durante l’emergenza degli anni Settanta, una battaglia su due fronti: quello giudiziario e quello del senso, ovvero sulla visione legittima delle cose da imporre. Stupisce, invece, che i nonviolenti non abbiano avuto in proposito nulla da obiettare. Sorprende tanta timidezza e tanto silenzio. Dobbiamo pensare che dietro vi sia soltanto il segno di una superficiale distrazione oppure che il magistrato di Cosenza tutto sommato abbia ragione?

Link
Sud Ribelle, una lettera di Claudio Dionesalvi
Genova G8, violenze, torture e omertà: la cultura opaca dei corpi di polizia
Carlo Giuliani, quel passo in più mentre tutti gli altri andavano indietro
Aporie della nonviolenza-1/continua
Esilio e castigo, retroscena di una estradizione

Ho paura, dunque esisto

La paura è diventata un grande fantasma collettivo, un elemento immaginifico, una sindrome del mentale, una psicopatologia sociale

Paolo Persichetti
Liberazione 10 giugno 2008

paura fantasmiDal vecchio penso dunque sono cartesiano siamo passati al più prosaico ho paura dunque esisto. Sembra quasi d’essere tornati ad uno dei precetti dell’empirismo che riduceva l’essere alla sua capacità di percepire, esse est percipi. Secondo questa scuola filosofica la realtà non ha vita in sé, non prescinde dalla nostra capacità percettiva ma esiste soltanto per il mezzo della nostra conoscenza. La percezione non è dunque lo strumento che ci consente di entrare in relazione con la realtà circostante ma ciò che l’inventa, la costruisce, la crea. Da qui il passo molto breve verso una concezione meramente soggetivistica del mondo.
È un po’ quel che accade oggi con questa storia dell’insicurezza percepita. La realtà, nel nostro caso il fatto sociale, non esiste, o meglio esiste soltanto in quanto vi è la capacità di percepirlo, di rercepirlo molto male sarebbe il caso di aggiungere come dimostra l’ennesimo sondaggio sulla “paura percepita” dagli italiani, pubblicato da Repubblica (9 giugno 2010) con il commento di Ilvo Diamanti.
Nulla di nuovo: nonostante il decremento degli omicidi, delle rapine e delle violenze registrato nell’ultimo decennio nel nostro Paese, 9 italiani su 10 sono persuasi che la criminalità sia in aumento. Approfondendo meglio l’analisi ci si accorge che lì dove sono maggiori gli indici di sicurezza, cioè minore il numero di reati consumati e più alto il livello di sicurezza sociale (tutele, previdenza, welfare, buona amministrazione), corrisponde paradossalmente un’amplificazione dell’allarme sociale. La paura è dunque un grande fantasma collettivo, un elemento immaginifico, una sindrome del mentale, una psicopatologia sociale.
Questo panico innesca a sua volta una spirale perversa fatta d’effetti d’annuncio repressivi da parte delle autorità di governo locale e centrale, miranti a rassicurare l’opinione pubblica, col risultato di suscitare un effetto d’accredito della paura e del suo fondamento reale.
Le politiche penali rispondono spesso ad imput di natura politico-ideologica che risentono del contesto storico, di quella che è la soglia di legalità tollerata dalla società in un momento dato, seguendo una direzione opposta all’andamento dei reati denunciati. Per ragioni diverse l’attenzione degli organi repressivi dello Stato può attenuarsi oppure rivolgersi verso altri fenomeni. Come spiega Salvatore Verde nel suo, Massima sicurezza. Dal carcere speciale allo stato penale (Odradek), nel 1990 il numero degli omicidi, dei sequestri e dei furti subisce un notevole incremento rispetto al quinquennio precedente ma in compenso le persone denunciate all’autorità giudiziaria si dimezza passando da quasi 700 mila a 350 mila.
Ciò che abbiamo di fronte è una profonda mutazione antropologica. I miti contrattualistici del passato ci hanno tramandato una concezione della paura che cercava risposte politiche attraverso la creazione di patti fondativi. La liberazione della paura stava alla base del contratto che sorreggeva l’adesione alla comunità. Ciò non eliminava le asperità, al contrario la società era animata da uno spietato ma ancora creativo conflitto tra capitale e lavoro.
Nella paura di oggi, invece, c’è un risentimento torvo che ha bisogno di designare un nemico, un colpevole tra noi. È una passione triste. Si è persa la voglia di progettare, di costruire percorsi, di perlustrare il nuovo. La ricerca di capri espiatori è tornata la soluzione più semplice. L’orgasmo triste della vendetta incarognita, la libidine impotente della cattiveria antropologica sono diventati il viatico di una competizione vittimaria che si avvita su se stessa alla ricerca di un appagamento che non verrà mai.

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Una banda armata chiamata polizia

Ciò che legittima il preteso monopolio dello Stato nel ricorso a mezzi coercitivi (vedi la nota definizione di Max Weber) e lo distingue da una qualunque banda, cosca, ‘ndrina, clan, branco è il principio di autolimitazione e automoderazione. Più l’uso della forza è normato, più la violenza è regolamentata, ridotta ai minimi termini, ai momenti più estremi, maggiore è il grado di legittimazione che la forza pubblica acquisisce. Ma nel momento in cui la violenza istituzionale abbandona questi requisiti, lo Stato ed i suoi appparati tornano ad essere una banda come le altre, non la banda legittima ma soltanto la banda più forte… finché dura.


Libri – autorecensione. Rabbia, odio, spirito di corpo. Nel libro di Carlo Bonini, Acab, Einaudi, i duri delle forze dell’ordine raccontati a partire dalle loro discussioni segrete sul Web. Quello che i celerini non dicono ma fanno

di Carlo Bonini
Repubblica
16 gennaio 2009

“Le violenze alla Diaz dopo il G8 di Genova? Non mi vergogno di nulla. L’Italia non è uno stivale. È un anfibio di celerino”.
Clic 9788806194697g

“Cari colleghi, riteniamo giusto rammentare, per senso di responsabilità, che DoppiaVela è uno spazio per i poliziotti messo a disposizione dalla polizia di Stato. Le critiche, le lamentele, le segnalazioni di disservizi, anche se esternate in modo aspro ma corretto, fanno parte delle normali dinamiche di dialogo tra l’amministrazione centrale e i singoli dipendenti. Trovano dunque una sede naturale all’interno del portale che non può, però, garantire spazi che la normativa vigente attribuisce ad altri soggettii”.
Clic.

Ogni volta che entrava in quella benedetta chat intranet, Drago ne gustava la dimensione perversa. A cominciare da quel nome un po’ ingessato – DoppiaVela, la sigla della centrale operativa nelle comunicazioni radio – e dal post politicamente corretto che metteva sull’avviso i naviganti. Perché la verità era che lì dentro si poteva finalmente essere un po’ guardoni e un po’ scorpioni. Masturbarsi dietro un avatar, leggendo l’illeggibile o scrivendo l’inconfessabile. Divorarsi a vicenda – sì, proprio come scorpioni in bottiglia – soltanto per scoprirsi più soli nella propria rabbia. Finita sulle prime pagine dei giornali con sei rotondi anni di ritardo, la “macelleria messicana” del dottor Fournier era stato un potente lassativo. Il forum era impazzito. Genova, troppo lontana e spaventosa per sembrare ancora vera, era diventata solo l’occasione per un outing collettivo. La prova, ammesso ce ne fosse bisogno, che il tempo era stato una pessima medicina. Che odio chiama odio.
Clic.

G. DA ROMA Ecco che spunta fuori un nostro bel funzionario, che da buon samaritano riaccende fiamme polemiche e propositi dinamitardi. Che, sicuramente, nelle prossime manifestazioni gli antiglobal metteranno in atto perché più autorizzati che mai. Ma quando la finiremo di fare sempre queste mere figure e inizieremo a tenere la bocca chiusa?
Per Aspera ad astra.
N. DA ANZIO Fournier poteva e doveva risparmiarsi la frase a effetto, “macelleria messicana”. Adesso, per i colleghi ci sarà la solita Santa Inquisizione mediatico-politica.
Unus sed leo.
I. DA GENOVA Ma questo Fournier dov’era durante gli scontri? Ancora non l’ho capito. Era fra i manifestanti? Ha respirato lacrimogeni? O aveva una mascherina? Secondo me si è messo a cantare perché non gli hanno dato nessuna promozione.
P. DA BARI È ancora in polizia o ha chiesto di passare alla politica?
Sono pronto a mostrare il petto e non voglio essere bendato. Ma tu hai il coraggio di guardarmi negli occhi? E che cazzo, mostra ai più di essere uomo. Barcollo ma non mollo.
D. DA LA SPEZIA Colleghi, basta di parlare di questo soggetto. È penoso e noi lo stiamo aiutando nella sua viscida campagna elettorale.
A. DA CAGLIARI Genova, presente con orgoglio e senza nulla da nascondere. Posso testimoniare di Bolzaneto! Non si tratta di essere grandi e non è veramente falsa modestia è solo servizio! Ero al VI reparto mobile di Genova.
L. DA SALUZZO Io c’ero. VI reparto mobile. Tanto orgoglio, tanta rabbia!
Clic.
(…)
C. DA ROMA Non capisco perché non vogliate parlare degli errori commessi. Qui si tratta di dire chiaramente:
I colleghi che gridavano Sieg Heil ci fanno vergognare, o no?
I colleghi che avrebbero minacciato di stupro le signorine antagoniste meritano la nostra esecrazione, o no?
I colleghi che si accanivano con trenta manganellate sul primo che passava senza sapere se era solo un povero illuso pacifista o un violento vero, hanno sbagliato, o no?
La collega che al telefono con il 118 di Genova, riferendosi alla Diaz, parla di “Uno a zero” dimostra di essere intelligente?
Su queste cose non ci può essere ambiguità!!!
L’esistenza è battaglia e sosta in terra straniera.
Clic.
E bravo il nostro C., pensò Drago. Stai a vedere che ora gli vanno addosso i padovani. Se ne stanno zitti da troppo tempo. Ma è più forte di loro. Se c’è da far vedere chi ce l’ha più duro, loro non sanno resistere. Rinfrescò la chat. Solo per vincere una scommessa troppo facile.
Clic.


E. DA PADOVA Caro C., rispondo alle tue domande:
“I colleghi che gridavano Sieg Heil ci fanno vergognare, o no?”
No. Non mi vergogno del fatto che in polizia ci siano dei coglioni. Non più del fatto che ci siano in Italia. Sono fiero di essere celerino e italiano, nonostante loro!
“I colleghi che avrebbero minacciato di stupro le signorine antagoniste meritano la nostra esecrazione, o no?”
No. Per questa domanda, oltre a valere la risposta sopra, concedimi anche il beneficio del dubbio. Chi prenderebbe seriamente un tentativo di violenza a una capra malata? Il popolo antagonista non brilla certo per l’attaccamento all’igiene! Non credo a quello che, sicuramente in malafede, sostengono questi personaggi!
“I colleghi che si accanivano con trenta manganellate sul primo che passava senza sapere se era solo un povero illuso pacifista o un violento vero, hanno sbagliato, o no?”
No. Pur essendo convinto assertore della totale inutilità di infierire su un manifestante inerme (questo è l’unico sbaglio, sprecare le forze su uno solo), sappi che è impossibile farsi rivelare dal manifestante durante la carica, se è un “povero illuso pacifista” o meno. È inoltre abbastanza difficile, dopo ore di sassaiole subite, magari con fratelli feriti anche gravemente, beccare uno dei personaggi che ti stanno avanti e picchiarli solo un pochettino. Quello che dico è che il povero illuso, visti gli stronzi che stavano con lui, poteva tornarsene a casa invece di manifestarci insieme! Se gli è andato bene fare da scudo per questi delinquenti, allora non si può lamentare di subirne le conseguenze! Che poi qualche collega si sia comportato come un qualsiasi essere umano sotto stress non mi sembra né incomprensibile né disdicevole. Sicuramente qualcuno avrà commesso sbagli. Sai quanti poliziotti c’erano a Genova? Di sicuro non mi vergogno per i loro errori!
“La collega che al telefono con il 118 di Genova, riferendosi alla Diaz, parla di “Uno a zero” dimostra di essere intelligente?” No. Ma come si dice a Roma, sti cazzi! Hanno messo a ferro e a fuoco una città, rischiando di farci fare una figura di merda a livello internazionale, provocando danni, feriti, spese enormi e si preoccupano della frase di una telefonista? Non mi vergogno per quello che ha detto. Mi vergogno perché oggi la madre di un teppista imbecille, dimostrando una mancanza di scrupoli e un cinismo degni di una Kapò, è riuscita a farsi eleggere senatrice della Repubblica; perché un partito italiano ha fatto intitolare un’aula all’imbecille!
Non voglio i soldi di questi politici. Non voglio i soldi da questo governo (e da un altro come questo). A difendermi ci penso da me, con l’aiuto di Dio e dei fratelli celerini, che mi stanno accanto e non mi tradiscono nel momento del bisogno.
Once in the Celere, always in the Celere.
C. DA ROMA Quindi, per te, avere al fianco un cretino non è un problema?
Lo dico serenamente: due che tengono e uno che mena non mi sembra da eroi. E poi ti rispondo da romano: “sti cazzi un par di palle”. Tu non lavori nel Cile di Pinochet e non ti pagano con lo stipendio in pesos messicani (forse è di cattivo gusto visto il titolo del thread di discussione, “macelleria messicana”, e me ne scuso con quanti si sentono feriti). Il giuramento che hai prestato parla di far rispettare le leggi, non di fartene di tue. In quanto al rischio della “figura”, mi pare che l’abbiamo fatta e basta. E le responsabilità, lo dico da mesi, non sono di chi stava in strada, ma di chi ha permesso che si arrivasse a questo. Siamo stati mandati lì, sapendo quello che ci avrebbero fatto e sapendo come avremmo reagito. Ti piace questo? Ti piace essere una pedina e poi pagarti l’avvocato? Io questo vorrei evitare. Vorrei capire come si può evitare che un collega mandato a fare il proprio dovere si ritrovi indagato in due processi e, dopo la Maddalena, forse anche nel terzo. Scusate la lunghezza.
L’esistenza è battaglia e sosta in terra straniera.
P. DA BARI Scusate, il Sig. Dott. Funz. Uff. Fournier quando lo faranno santo?
Sono pronto a mostrare il petto e non voglio essere bendato. Ma tu hai il coraggio di guardarmi negli occhi? E che cazzo, mostra ai più di essere uomo. Barcollo ma non mollo.
E. DA FIUMICINO Io penso che questi degni eredi di quei cattivi maestri che dicevano in piazza “Uccidere uno sbirro non è reato” ci considererebbero picchiatori fascisti anche se andassimo in servizio di Op vestiti di rosa e con un mazzo di fiori in mano.
B. DA PADOVA Quando alcune centinaia di ultras o di autonomi sono schierati a cinquanta metri da te con spranghe, catene, bombe carta e coltelli, io ritengo opportuno fargli così tanto schifo e paura che non devono pensare di poterci attaccare senza lasciarci le ossa!
L’Italia non è uno stivale. È un anfibio di celerino.
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Violenza di Stato non suona nuova
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