Caffarella e Quartaccio: l’uso politico dello stupro

La cronaca è da sempre un interessante rivelatore sociale. La cronaca nera lo è ancor più da quando la politica ha fatto della paura, dell’insicurezza fisica, della criminalità, uno strumento di governo. Si è già osservato come il termine “insicurezza” abbia lentamente mutato senso venendo ad indicare non più il timore verso un futuro incerto legato all’aumento del costo della vita, alla precarietà sociale, all’impossibilità di crescere in modo decente i propri figli assicurando loro una istruzione pubblica, degli studi superiori efficaci e magari un percorso universitario, alla difficoltà di pagare l’affitto o il mutuo, al carovita, bollette, benzina, abbigliamento, alla quasi impossibilità di uscire la sera per andare a mangiare una pizza, bere un bicchiere, vedere un film, ascoltare un concerto, guardare uno spettacolo teatrale. L’insicurezza di cui si parla non riguarda la fragilità dei posti di lavoro, i salari che perdono sistematicamente potere d’acquisto, i ticket sulle medicine e le cure ospedaliere, gli assegni sociali che un tempo aiutavano ed ora sono scomparsi con lo sfaldamento del welfare. L’insicurezza che preoccupa non riguarda la mancanza di nuovi posti di lavoro o l’offerta sul mercato di lavori a bassa remunerazione, senza garanzie, senza contributi, senza diritti sindacali, copertura malattie, pensione. L’insicurezza che ossessiona non si rivolge ad un futuro dove la pensione sarà sempre più un miraggio e avremo una società di persone anziane ridotte alla povertà. No, per fare schermo a tutto ciò si diffonde un’ansia da insicurezza costruita sulla base di continui allarmi sociali dovuti a una presunta crescita della criminalità, anche se poi ciò non corrisponde al vero. Rapine e omicidi sono in calo, come le aggressioni, tuttavia la percezione sociale del rischio criminalità è in continuo aumento grazie ad un’informazione ipertrofica che amplifica e spettacolarizza i fatti di cronaca nera fino a renderli totalizzanti.
La cronaca nera è un rivelatore delle trasformazioni della politica, dei suoi linguaggi, delle strategie messe in campo. Negli ultimi anni il tema degli stupri, delle aggressioni sessuali legate strumentalmente alla figura dello straniero, dell’immigrato clandestino, sono diventati argomenti centrali del marketing politico e dell’immaginario sociale. Il caso Reggiani, la donna uccisa per aver resistito ad una rapina trasformatasi in violenza sessuale, lo stupro di una turista olandese in un casale abbandonato del Portuense, nelle periferia nord-est della capitale, lo stupro di Guidonia sempre a ridosso di Roma, episodi che hanno visto responsabili degli immigrati dell’est europeo, hanno creato un terreno fertile intanto per coprire le centinaia di altre violenze quotidiane realizzate da italiani contro donne (italiane e straniere), il più delle volte in famiglia, in luoghi ritenuti sicuri, affidabili, per poi scatenare campagne xenofobe, di odio puro.
Il tema della sicurezza è stato il leitmotiv che ha aiutato la vittoria del candidato Alemanno al posto di sindaco di Roma; la brutale violenza della Caffarella contro una minorenne è servita al governo per varare l’ennesimo pacchetto sicurezza.
Per questa ragione abbiamo deciso di pubblicare una serie di post con articoli di commento e cronaca sulle indagini che hanno interessato lo stupro della Caffarella e del Quartaccio (Primavalle). Le due vicende, molto probabilmente senza alcun legame tra loro, sono un esempio di prim’ordine per comprendere l’uso politico che di questi episodi è stato fatto, nonché per cogliere l’azione condotta da una molteplicità di attori intervenuti nelle due vicende: investigatori della squadra mobile, questore, polizia romena, ministero degli Interni, sindaco, gruppi politici della destra, media.

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Vittorio Rizzi, capo della squadra mobile durante la trionfale conferenza stampa in cui annuncia la cattura dei due responsabili dello stupro alla Caffarella, scagionati poi dal Dna

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Giustizia: non è stato “disguido”, ma imbroglio quasi perfetto

Lucia Annunziata
La Stampa
, 5 marzo 2009

Francamente non so se bisogna benedire o maledire quello che è successo. Sia ben chiaro: la scoperta che i due immigrati romeni accusati di essere i colpevoli dello stupro della Caffarella in realtà non lo sono, è un vero e proprio schiaffo alla nostra coscienza nazionale.
Vogliamo davvero lasciar passare questo episodio come un ennesimo “disguido” delle Istituzioni del nostro Bel Paese, o vogliamo fermarci un attimo a chiederci come sia stato possibile, e chi ne sia responsabile? Perché, prima ancora che si sappia bene quel che è accaduto, una cosa è certa: questo è un tipico caso in cui almeno un responsabile va trovato e deve pagare.
Vediamo intanto perché la vicenda Caffarella si presenta come più grave dei pur molti errori simili. Le indagini italiane non sono un esempio di efficacia. Questa affermazione si fa molto spesso a proposito di iniziative “audaci” da parte di magistrati che indagano sulla politica. In questi casi, c’è un’attenzione quasi parossistica al tema da parte sia dei giornali che del Parlamento.
La verità però è che le indagini italiane sono ampiamente carenti anche quando si tratta di crimini comuni. La prova? La confusione e le lungaggini in cui si sono insabbiati alcuni grandi delitti, quasi tutti dati per altro come “chiariti”: ci trasciniamo ancora fra il pigiama e gli zoccoli di Anna Maria Franzoni nella villetta di Cogne, fra il computer e i pedali della bici di Alberto Stasi, fra le tracce di Amanda e Raffaele sul reggipetto di Meredith.
Quasi tutti i maggiori delitti del Paese, anche quelli non politici, periodicamente rigurgitano una nuova prova persa, avvilita, trascurata o smarrita. Ad esempio, Profondo Nero, un recente libro di Giuseppe Bianco e Sandra Rizza (ed. Chiarelettere) riapre l’inchiesta sull’assassinio di Pasolini, collegandolo alla morte di Mattei e del giornalista De Mauro, proprio in base a nuove testimonianze.
A differenza dei casi che riguardano la politica, però, gli italiani non sembrano indignarsi troppo degli errori nelle indagini di “nera”. Anzi: la confusione è diventata una sorta di nuovo genere di “soap” giornalistica che si sviluppa nel tempo e con grande godimento di tutti. Lo stupro della Caffarella presenta una forte novità, figlia di questi nostri tempi: è un fatto di violenza, dunque di nera, che assume però una fortissima valenza sociale per il contesto in cui avviene. Un caso “transgender” che scavalca le tradizionali distinzioni fra cronaca e politica.
Della delicatezza della situazione siamo stati consapevoli tutti fin dal primo momento. E ci siamo fidati. Fidati, sì. Perché in Italia, nonostante si ami dilaniarsi su tutto fra Guelfi e Ghibellini, resiste una profonda fiducia nelle nostre istituzioni. Ogni volta è come se fosse la prima, per la nostra opinione pubblica. Ci siamo tanto fidati che quando la polizia ci ha presentato i suoi mirabolanti risultati, nessuno di noi ha sollevato un dubbio. Nonostante le Amande, gli Alberti, le Annamarie e gli Azouz, abbiamo applaudito e gridato al miracolo. Se non è fiducia nelle istituzioni questa!
Poi le smentite, e infine la certezza dell’errore. E non si sa se benedire il disvelamento, o se maledire la nostra stupidità collettiva. Tutti convinti da parole come “materiale organico” e “Dna”, nonché ammiratori del metodo. La polizia ha avuto anche l’impudenza di presentarci (in una conferenza stampa!) il racconto di un’inchiesta esemplare, svolta in collaborazione internazionale con la polizia romena, con foto e pedinamenti, il metodo tradizionale. Approfittando così (tanto per colorare di più la valenza politica del risultato) per dare una bastonata polemica all’uso delle intercettazioni.
Ora, di fronte alle smentite, si dice: “La politica ha messo fretta”. Ma non è questo lo scandalo: la politica fa sempre fretta, ha sempre bisogno di presentare, usare, mangiare. Scandalosa è l’incoscienza dei corpi dello Stato che hanno accettato questa fretta. E scandaloso è soprattutto il risultato: l’intero Paese si è visto condurre per il naso verso una direzione che conferma il razzismo più frettoloso e più rozzo. Cui nessuno è riuscito a sottrarsi, nemmeno i democratici più convinti.
Qualcuno dei nostri lettori potrebbe alzare la mano e porre una domanda molto opportuna: ma voi giornalisti? Perché anche voi vi siete accucciati? È un rimprovero giusto. Troppo spesso noi giornalisti facciamo da acritica cassa di risonanza delle indagini. Una responsabilità che ci è stata già rinfacciata. E che ci prendiamo.
Ma come dubitare di un teatrino perfetto, come quello messo in piedi dalle nostre istituzioni? Siamo di fronte a una vera e propria frode. Qualcuno deve pagare per il clima che l’episodio lascia in tutto il Paese, di amaro in bocca e di sgomento.

Link
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