Stupro della Caffarella: quando il teorema vince sulle prove

Quando il teorema vince sulle prove

Anita Cenci
Liberazione
5 marzo 2009

«La politica ha messo fretta». Achille Serra, una lunga esperienza in polizia, riassume cosi le disastrose indagini sullo stupro della Caffarella. Un giudizio ancor più netto quando scende sul piano tecnico: «mi sembra che l’accertamento scientifico sia stato sottovalutato a favore del riconoscimento fotografico». Ma forse occorre fare un passo indietro per capire cosa sia successo nell’inchiesta che ha portato all’arresto di Alexandru Isztoika e Karol Racs, i due romeni poi scagionati dalla prova del Dna.
Il 30 ottobre 2007, Nikolay Mailat, un cittadino romeno di 24 anni che viveva in un tugurio sulle rive del Tevere, nei pressi della stazione di Tor di Quinto, violenta e uccide Giovanna Reggiani. L’episodio dà il via a una lunga campagna sulla sicurezza. Il marketing della paura alimenterà tutta la successiva campagna elettorale. A Roma, il sindaco Veltroni avvia gli sgomberi degli insediamenti abusivi dove trovano riparo migranti provenienti dall’est europeo. Il governo di centrosinistra vara un primo decreto sicurezza carezzando l’idea che la destra possa essere sconfitta sul suo stesso terreno. Nel frattempo i cittadini romeni e tra loro i paria Rom vengono additati al pubblico ludibrio. Nonostante le statistiche ufficiali dicano che soltanto lo 0,27% di loro violi la legge, diventa senso comune associarli ai crimini peggiori. La psicosi dello zingaro aggressore, violentatore e ladro di bambini si diffonde. In diversi angoli d’Italia, madri di famiglia denunciano tentativi di rapimento dei loro bambini da parte di nomadi, anche se tutto crolla di fronte ai primi riscontri. Queste leggende metropolitane alzano un muro di odio verso la comunità romena, quella che ha rimpiazzato nella gerarchia del disprezzo i polacchi di una volta, i magrebini e gli albanesi venuti dopo. Ora tocca a loro, gli ultimi in ordine d’arrivo.
Arriviamo così all’inizio di quest’anno. La destra governa indisturbata, l’opposizione quasi non c’è più e quella che si fa sentire è ancora più forcaiola del governo. A Roma Alemanno è diventato sindaco con la promessa di ridare sicurezza alla città. Un ministro del suo stesso partito ha messo i militari a presidiare semafori e strisce pedonali. Non servono a nulla ma abituano l’occhio alle mimetiche e alle armi spianate. Il messaggio è chiaro: «Siamo in guerra». Gli stupri però non calano. Non scendono quelli commessi da italiani: padri, fidanzati e mariti nel chiuso poco rassicurante delle mura domestiche (quasi il 60,9%). I media però continuano a parlare soltanto di quelli che vedono coinvolti cittadini stranieri. Un altro stupro, al Quartaccio, nella periferia nord della Capitale crea il panico. Si pensa subito a due stranieri «dell’est con la pelle scura». Un eufemismo per dire «zingari romeni». Lì vicino ci sono delle capanne tirate su tra cespugli e fango. Chi vi trova riparo è identificato e fotosegnalato. Tra loro anche i due accusati dello stupro alla Caffarella. Probabilmente l’errore che ha viziato l’indagine nasce qui. La polizia ha cercato ciò che la politica voleva che si trovasse. Subito dopo la stupro, il sindaco Alemanno dichiara: «Ho parlato col questore, sono due persone con accento dell’est, di carnagione scura, probabilmente rom», e di seguito «domani ci saranno degli sgomberi a sorpresa». Indagini e politica, un intreccio fatale. La giovane vittima parla di un tipo dai capelli chiari. Le mostrano delle foto in cui appare Isztoika. Non è strano?
Aveva piccoli precedenti per furto, non per reati sessuali e viveva all’altro capo della città. Se si cerca un biondo tra i fotosegnalati romeni il campo si restringe inevitabilmente, ma anche la percentuale di errore si moltiplica enormemente. Ciò si spiega soltanto con la convinzione che i romeni identificati nelle baracche del Quartaccio fossero coinvolti nello stupro di via Andersen. Insomma le indagini hanno imboccato subito una direzione univoca, perché così volevano le pressioni della politica.
Ma al primo errore se ne sono aggiunti altri: quella «confessione» di Isztoika, risultato di una percorso che il comunicato congiunto emesso ieri sera da questura e procura non chiarisce affatto. Vecchia storia quella delle confessioni rese dagli indagati. Difficile da estirpare dalla cultura questurina che continua a considerarle ancora – nonostante le nuove tecniche investigative – la prova più suggestiva. L’inquisito resta il cuore dell’inchiesta e del giudizio. L’animale confessante è volentieri ritenuto la fonte stessa della prova, – come ammette il giurista Franco Cordero nella suo Procedura penale. Certo, «essendo rare le effusioni spontanee, bisogna stimolarle: gli inquisitori manipolano anime. L’opera richiede un ambiente, luoghi chiusi; presto appare diverso da com’era fuori, irriconoscibile; gli shock da tortura incidono meno del lavoro profondo. Quando sia infrollito al punto giusto, un niente lo smuove».
Prima della confessione davanti alla videocamera cosa è successo? È vero o no che un poliziotto romeno si è occupato del biondino? In alcuni retroscena riportati dalla stampa, fonti anonime parlano di un incontro di almeno un’ora, dove si è parlato solo in romeno e che avrebbe scosso profondamente il giovane, spingendolo ad autoaccusarsi. Per gli inquirenti Isztoika sarebbe a conoscenza dei fatti (ma fornisce solo elementi già noti all’indagine) perché copre qualcuno. Al punto da rischiare una condanna pesantissima? Non è illogico?
Infine, perché non attendere le risultanze scientifiche prima di lasciarsi sfuggire quel «meno uno»? Forse la troppa ansia di successo, la voglia di dire «da oggi non sono più il nipote di Vincenzo Parisi» (capo della Polizia alla fine degli anni 80), come dichiarato dal capo della mobile dopo la cattura dei due romeni, hanno giocato un brutto scherzo alla verità. Gli stupratori sono ancora in giro.

Link
Quartaccio-Caffarella, l’uso politico dello stupro
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L’inchiesta sprofonda
Tante botte per trovare prove che non ci sono
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Negativi i test del dna fatti in Romania
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