Solo l’uscita dall’ipoteca penale può aiutare a scrivere finalmente quelle pagine bianche. Sarà poi la storia a dare il suo giudizio
Paolo Persichetti
Liberazione 14 febbraio 2010 (versione integrale)
Ad un certo punto del suo libro (scritto con Alesando Capponi, Sia folgorante la fine, Rizzoli 2010) Carla Verbano prende quasi per mano il lettore accompagnandolo lungo le strade che tracciano il quadrante nordest della Capitale. Un viaggio della memoria che si addentra per le vie dei quartieri Trieste, Salario, Nomentano, Montesacro, Talenti, Tufello, Val Melaina. La zona è tagliata in due dal ponte delle Valli che sul finire degli anni 70, come accadeva in molte altre strade o piazze d’Italia, «separava il bene dal male», segnava lo spartiacque politico tra i territori rossi e quelli neri. La “passeggiata” è costellata da tappe: marciapiedi, portoni, incroci, fermate d’autobus, bar, dove sono avvenuti scontri, attentati o sparatorie contro militanti di sinistra e di destra, giudici, poliziotti o persone ignare, uccise per sbaglio. Topologia di un conflitto, della sua parte più inutile, che ancora oggi la memoria ufficiale evita di nominare per quello che fu: una guerra civile strisciante. Senza contare i morti, ricorda la madre di Valerio Verbano: «Solo tra 1978 e 1979 tra Montesacro e Talenti ci sono stati 42 attentati dinamitardi a edifici, 87 aggressioni, 12 incendi ad automobili».
Il percorso che Carla Verbano propone, tenta di venire a capo della morte di suo figlio Valerio, diciannovenne militante dell’autonomia ucciso il 22 febbraio 1980. Dopo 30 anni i suoi assassini sono ancora senza volto. Un omicidio anomalo sul piano operativo, ma nel libro si ricorda un precedente, un ferimento realizzato da elementi dell’estrema destra avvenuto con le stesse caratteristiche ma dimenticato dalle indagini. Diversi sono i morti di quell’epoca rimasti senza responsabili: a cominciare da quelli commessi dalle forze dell’ordine, come Fabrizio Ceruso, ucciso il 5 settembre 1974 davanti ad un’occupazione di case a san Basilio, Pietro Bruno, morto nel 1975 nel corso di una manifestazione, Mario Salvi e Giorgiana Masi, entrambi colpiti alle spalle, il primo il 7 aprile 1976, la seconda il 12 maggio 1977. Nel pantheon della destra un posto particolare è riservato ai «martiri» che non hanno trovato esito giudiziario: Zicchieri, Cecchin, Mancia, Di Nella, i tre di Acca Larentia. A sinistra senza nome sono rimasti gli omicidi di Fausto Tinelli, Lorenzo Iannucci, Ivo Zini, uccisi tra il marzo e il settembre 1978. La lista ovviamente non pretende di essere esaustiva per nessuna delle parti.
A oltre trent’anni dai fatti, cosa è ancora possibile fare senza cadere nel culto cimiteriale della mistica vittimaria con cui, per esempio, la destra incensa i propri morti e che alcuni a sinistra tentano di imitare opponendo le proprie icone insanguinate in una sorta di guerra memoriale, prolungamento metaforico dello scontro con i fascisti degli anni 70? Questa costruzione postuma di un’identità vittimaria avvitata su se stessa, oltre a non essere rappresentativa del reale storico dell’epoca, ripropone in modo univoco e preponderante il paradigma antifascista come asse identitario e percorso prioritario dentro il quale ricostruire l’azione politica.
Forse c’è un solo percorso che può servire alla ricostruzione completa di quegli anni senza cadere nella trappola identitaria: un’amnistia. Solo l’uscita dall’ipoteca penale può aiutare a scrivere finalmente quelle pagine bianche. Sarà poi la storia che si occuperà di dare il suo giudizio.
La vera domanda è cosa sia la destra oggi e come combatterla. Pensare di riproporre analisi e modelli d’azione che ripescano il vecchio paradigma dell’antifascismo militante è quantomeno inadeguato, senza voler qui riaprire una vecchia querelle che pur merita di tornare ad essere affrontata. Già negli anni 70 sull’antifascismo militante come ideologia non vi era unanimità. Nato dall’impulso iniziale del Pci che tentò di convogliare sul pericolo neofascista la spinta dei movimenti sociali, venne fatto proprio da alcuni settori della nuova sinistra fino a divenire una sorta d’ideologia a sé che esorbitava dalla questione concreta delle violenze fasciste. Considerata da altre realtà politiche della sinistra rivoluzionaria come un diversivo che “sopravvalutava contraddizioni secondarie o arretrate”, l’ideologia ipostatizzata dell’antifascismo in tutte le sue varianti era criticata perché conteneva in nuce derive democraticiste, legalitarie, giustizieriste, complottistiche che allontanavano dalla centralità del conflitto anticapitalista. Il dibattito sembra oggi riproporsi e come sempre la memoria ci parla del presente.
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Oh bene, già così l’assassino sta al calduccio, si è fatto una famiglia e perché no una carriera e noi qui a guardare come ha messo il lardo sui fianchi. No spiacente proprio no VALERIO è MORTO. E il responsabile, I RESPONSABILI devono pagare. Sono stati fin troppo garantiti, direi COCCOLATI fino ad oggi.
parliamo di amnistia? qui ancora non c’è stato un processo e una condanna. Gente che si è nascosta per anni non merita amnestia ma solo pagare il conto. Si può parlare di amnistia per gli assassini di Renato Biagetti ma non credo che la signora zuccari sia d’accordo.
Da http://bellaciao.org/it/spip.php?article26029
Di CAO
19 febbraio 2010 – 09h25
Se prioritario è l’accertamento della verità sulla morte di Valerio Verbano a 30 anni dalla sua scomparsa (e in linea generale sulla vicenda degli anni 70), come mi sembra sia stato sostenuto dalla quasi totalità di coloro che sono intervenuti in questa surreale (ma istruttiva) discussione, che molto dice della catastrofe mentale in cui versa questo deposito residuale che potremmo chiamare genericamente “popolo di sinistra”, o “compagneria”; allora l’amnistia alla sudafricana, proposta nell’articolo apparso su Liberazione e tanto stigmatizzato (https://insorgenze.wordpress.com/2010/02/14/valerio-verbano-a-trentanni-d…), appare come una delle più classiche ipotesi scuola.
Proprio per questo non si capisce perché abbia suscitato tanto scandalo e livore, fino al punto da spingere molti a mostrare il peggio di sé lanciando le solite malevoli accuse di collusione col nemico, opportunismo, addirittura “conflitto d’interessi”… (ormai Berlusconi ha totalmente colonizzato i cervelli).
Forse perché oltre all’analfabetismo politico dominano oramai solo passioni torbide. Per intenderci: prima la parola “processo” indicava percorsi sociali d’autonomia politica che, a seconda degli ostacoli incontrati, potevano dispiegarsi in modo conflittuale o attraverso la costruzione di autorganizzazione e autoassociazione; il tutto all’interno di grandi narrazioni rivoluzionarie che miravano al cambiamento radicale del mondo, dei rapporti sociali e di produzione ecc. Ora la parola processo rimanda solo ai tribunali, i “soggetti sociali” arrivano a concepirsi non più come attori in cui risiede una potenza creatrice di società altra, ma unicamente come vittime il cui unico posto da occupare è quello dei banchi delle parti civili in attesa che un bravo “giudice democratico” soddisfi la loro sete di vendetta, che chiamano giustizia. Per poi lamentarsi, ma subito dimenticare, che quella stessa giustizia nemmeno fa uno straccio di processo, per rispettare le forme, sulla morte di Carlo Giuliani, e a Genova manda a casa i poliziotti e condanna ad oltre dieci anni di carcere un gruppo di manifestanti, trascelto come capro espiatorio tra centinaia di migliaia. Mi fermo qui.
Dicevo: a questa ipotesi di amnistia in cambio di verità riproposta dall’articolista all’attenzione generale, probabilmente in modo volutamente provocatorio perché non si riproponessero durante le iniziative previste per l’anniversario di Valerio i soliti discorsi e riti autoconsolatori, intrisi sempre più di vittimismo e retoriche celebrative che si allontanano dal percorso reale che fu di Verbano (e che magari oggi qualcuno confonde con quello del “popolo viola”), si è obiettato – a parte gli insulti – in due modi diversi: a) non esistono le condizioni; b) si tratta di una elargizione dello Stato che non possiamo volere, tantomeno accettare, con l’aggiunta della stigmatizzazione etica verso “quelli” (sottinteso i miserabili detenuti politici) che prima combattevano lo Stato e ora chiedono la sua clemenza (giudizio sprezzante che inevitabilmente si rivolge anche nei confronti della memoria di Verbano che quello Stato combatteva, che fece sette mesi di carcere per il possesso di una pistola non di “manette”, come magari qualcuno oggi potrebbe pensare e l’uso di un ordigno incendiario. Verbano non faceva girotondi e nemmeno lanciava statuette e treppiedi. Famose a capì.
Alla prima obiezione, che poi è sempre la stessa dal primo giorno, cioè circa 27 anni fa (1983), quando Scalzone lanciò da Parigi la proposta, e poi dal 1987, quando venne fatta propria da buona parte dei prigionieri politici, si potrebbe rispondere con la famosa frase di Seneca a Lucillo: “Non è perché le cose sono difficili che non osiamo, ma è perché non osiamo che diventano difficili”. Più che di una difficoltà della situazione, credo si sia trattato soprattutto di una malattia della volontà. Senza voler fare l’elogio dell’ipervolontarismo, le condizioni si creano. Per tante altre rivendicazioni e lotte le condizioni di realizzazione sono sempre state difficili, eppure non si desiste. Ma sull’amnistia non si è nemmeno mai cominciato. E certo che dopo 30 anni diventa quasi impossibile! Suppongo che chi abbia lanciato quella proposta lo sappia molto meglio dei suoi saccenti obiettori. Ma forse, molto più che all’amnistia pensava ad un nuovo dispositivo mentale, ad un nuovo modo di pensare le cose, agendo come se… si dovesse rivendicare l’amnistia.
A chi sostiene invece che l’amnistia sarebbe una resa politica, peggio una contaminazione, un cedimento etico, basterebbe consigliargli qualche utile rilettura delle pagine di storia del movimento operaio e dei movimenti rivoluzionari. Una riscoperta della vicenda della Comune di Parigi e dei suoi strascichi penali e poi delle lotte per amnistiare gli scampati alla repressione, rinchiusi nei bagni penali oltreoceano o in esilio, sarebbe molto salutare. Appartiene all’a b c di qualsiasi movimento politico l’esigenza di proteggere i propri militanti. Guardate quelli della Lega come sono stati abili: sono riusciti a depotenziare i reati di stampo fascista contro l’unità del territorio nazionale, quelli sulle camicie verdi, il corpo nazionale delle guardie padane. In passato, dopo ogni ciclo di lotte che comportava i suoi inevitabili strascichi penali, si aprivano vertenze per ottenere amnistie-indulti o comunque artifici di oblio e clemenza giudiziaria che preservassero i protagonisti delle lotte dalla repressione. Non foss’altro perché in questo modo era possibile riaprire un nuovo ciclo, avvalendosi anche dell’esperienza di chi aveva partecipato a quelli precedenti, preservando continuità, memoria eccetera. È stato così fino all’ultima amnistia politica del 1970. Tradotto, amnistia vuole dire preservare la possibilità di cicli di lotta futuri. Più che dimenticare il passato, amnistia vuole dire garantirsi il futuro. E infatti, terminati gli anni 70, anzi sconfitti gli anni 70, non è che ci sia stato molto futuro. Rivendicare l’amnistia è come lottare per il salario. Non è mica il comunismo. Si tratta di una mediazione antagonista necessaria all’interno di quest’ordine sociale, una mediazione conflittuale che smaglia la rete avversaria. Se lottare per più salario, meno lavoro a migliori condizioni, è ritenuta la ginnastica quotidiana della lotta di classe, l’amnistia serve a ridurre la forza della repressione, aprire le maglie della società, ottenere più agibilità politica. Per questo chi è contro l’amnistia è l’equivalente del crumiro che non sciopera.
Aggiungo un’altra cosa. Se, come dicevamo all’inizio, la verità è un’esigenza prioritaria ma persiste l’incapacità di arrivarvi autonomamente, allora esistono – dopo tre decenni – grosso modo solo due soluzioni: la prima è quella d’incentivare la delazione premiata. Si tratta della strada impiegata dalla magistratura, grazie al potente arsenale di leggi speciali costruito per reprimere le lotte degli anni 70. Appartiene alla pratica statale. È roba loro, insomma. Magari un giorno qualche “bravo giudice democratico”, tipo Salvini a Milano, riaprirà l’inchiesta, troverà il pentito di turno che racconterà la sua verità ottenendo la prescrizione grazie al gioco delle attenuanti ottenute con la collaborazione. Non è detto che alla fine si tratti della verità storica. Sarà una verità giudiziaria qualsiasi, come è avvento per Walter Rossi la cui morte alla fine è stata “aggiustata”, attribuita ad un defunto (Alibrandi) e un super pentito (Cristiano Fioravanti) che ormai non paga più nulla e vive sotto copertura. Tutti contenti. Il caso è risolto, le vittime rispettate, la legalità trionfato, lo stato di diritto imposto, la casella dei colpevoli riempita. Giovamento generale?
L’altra via è disincentivare l’omertà creando le condizioni per riportare trasparenza su vicende storiche ancora non chiarite. Quale che sia la soluzione tecnica di tipo amnistiale prescelta, questa strada prevede la fine delle ipoteche penali. Certo ogni vicenda ha peculiarità specifiche, ma si tratta di creare le premesse. E oltre alla verità e al risentimento tornerà d’attualità anche qualche altra cosa.
Ma mi è parso di capire che a questa discussione abbiano preso parte, invece, molti tifosi degli infami e dei crumiri. Forse per questo oggi la discriminante antifascista non ha più molto senso, se è vero che a dirsi antifascista è persino uno come Fini. Serve un chiarimento sul populismo, il giustizialismo, il penalismo, il legalitarismo. L’antifascismo si è dissolto all’interno di queste nuove correnti. Sono queste le nuove frontiere.
io non voglio l’amnistia per nessuno,chi ha ucciso deve pagare carla verbano