Carrero Blanco come Moro, la fine della dittatura franchista spiegata dai cospirazionisti

Il 20 dicembre 1973 era un giovedì. Verso le 9,30 del mattino il reverendo padre Turpin stava leggendo come suo solito il breviario nel convento dei gesuiti situato sulla calle Claudio Coello a Madrid, quando improvvisamente dalla sua finestra, collocata in uno dei piani alti del palazzo, vide salire verso il cielo una macchina nera. Era la Dodge Dart blindata dell’ammiraglio Louis Carrero Blanco, capo del governo e fedelissimo del dittatore Francisco Franco. Una esplosione di circa ottanta chili di Goma 2 (miscela gelatinosa largamente impiegata nelle miniere spagnole) collocato da un commando dell’Eta in un tunnel scavato sotto la strada l’avevano proiettato con la sua automobile e le due guardie del corpo verso il cielo, a 35 metri di altezza oltre il tetto del convento, facendolo atterrare su una terrazza posta sul lato opposto del palazzo. Inizialmente Carrero Blanco doveva essere rapito per chiedere uno scambio di prigionieri ma un incidente mise in pericolo la sicurezza della casa dove doveva essere nascosto. I proprietari dell’appartamento si accorsero che l’affittuario era basco, circostanza che spinse il commando a rinunciare al progetto (qui potete leggere il racconto dell’azione).
Quella mattina si apriva il processo (passato alla storia come Processo 1001) contro nove sindacalisti delle Comisiones obreras (il sindacato d’ispirazione comunista), accusati di «attività sovversive». L’udienza venne subito interrotta appena giunse la notizia.
Carrero Blanco, soprannominato “Ogro”, per il suo aspetto, era una figura chiave della dittatura franchista, come scrisse l’Eta nel comunicato ufficiale di rivendicazione diffuso verso le 21 dello stesso giorno: «Luis Carrero Blanco (…) era una figura chiave del sistema franchista, il garante della sua continuità e della sua stabilità; con la sua scomparsa le tensioni che opponevano le diverse tendenze del regime fascista di Franco si accentueranno mettendo a rischio il potere». L’Eta aveva ragione, l’assunzione in cielo di Carrero Blanco fu un colpo durissimo per il regime franchista che ne accelerò il declino.

Le tesi cospirazioniste
Molti nella destra spagnola tramortita dal colpo al cuore ricevuto, ma anche – come vedremo più avanti – nella sinistra italiana, non si arresero all’idea che gli indipendentisti della sinistra basca dell’Eta avessero potuto portare a termine un colpo del genere. Cominciarono così a proliferare diverse teorie dietrologiche che chiamavano in causa il ruolo della Cia o del Kgb per la realizzazione di un attentato ritenuto troppo sofisticato per i mezzi impiegati e gli obiettivi politici ricercati. Secondo l’estrema destra spagnola l’eliminazione di Carrero Blanco conduceva ad una responsabilità diretta degli Stati Uniti che in questo modo contavano di riportare la Spagna nell’alveo della Nato. Anche la presenza dell’ambasciata Usa sul tragitto compiuto ogni mattina da Carrero Blanco per raggiungere il palazzo del governo divenne per i complottisti una circostanza che provava il coinvolgimento statunitense. Tuttavia – come ha riportato Le journal du Pays Basque in un articolo che prendeva in esame le narrazioni cospirazioniste sulla morte dell’ammiraglio1 – i documenti apparsi su Wikileaks hanno dimostrato la sorpresa delle autorità Usa davanti alla notizia dell’attentato. Non solo, secondo l’Eta era proprio Carrero Blanco che «stava giocando un ruolo essenziale nella realizzazione di accordi per l’istallazione di basi militari Usa sul territorio iberico», circostanza che esclude alla radice il movente agitato dai cospirazionisti.
Lo stesso giornale basco citava anche l’intervista di un ex responsabile dei servizi segreti spagnoli, Ángel Ugarte, apparsa su El Pais il 15 dicembre 2013, secondo il quale «l’attentato contro Carrero Blanco fu realizzato dall’Eta con il supporto logistico di comunisti spagnoli»2. In effetti ad aiutare il commando Eta giunto a Madrid fu Eva Forest, militante del partito comunista spagnolo che fornì ad Argala, nome di battaglia di José Miguel Beñarán, il ventiquattrenne capo del commando dell’Eta, le informazioni necessarie per individuare Carrero Blanco. Eva Forest giocò un ruolo prezioso anche nei movimenti del commando basco a Madrid, fece da staffetta e favorì la loro fuga dopo l’azione. Nel 1974, sotto lo pseudonimo di Julien Agirre, la Forest scrisse Operación Ogro: Cómo y por qué ejecutamos a Carrero Blanco, edito in clandestinità in Francia e pubblicato in Italiano nel 1975 (Operazione Ogro. Come e perché abbiamo giustiziato Carrero Blanco, Alfani, Firenze 1975 [1974]). Successivamente il governo spagnolo tentò di ottenere l’estradizione dei militanti baschi coinvolti nell’attentato e della stessa Forest, ma la Francia dove erano riparati non rispose .Le autorità spagnole non ebbero mai alcun dubbio sulla paternità dell’attentato, tanto che durante la cosiddetta (sic) «transizione democratica», diedero vita a degli “squadroni della morte”, composti da ex membri delle forze speciali spagnole e membri dell’estrema destra, che operavano in territorio francese per eliminare i rifugiati dell’Eta. Il 21 dicembre 1978 una di queste squadre, il «Battaglione basco-spagnolo», uccise Argala facendo esplodere la vettura dove era appena salito.

«Operazione Ogro», il film politicamente scorretto di Gillo Pontecorvo
L’attentato a Carrero Blanco ha sempre avuto vita difficile in Italia. Un esempio di tirannicidio la cui vicinanza geografica e temporale lo sovrapponeva pericolosamente con le vicende italiane di quegli anni. Il film girato nelle settimane del rapimento Moro anche se narrava un episodio di lotta armata contro un regime dittatoriale evocava l’ombra lunga degli avvenimenti italiani col rischio di legittimarli. Almeno questo era il timore dell’intellighenzia di sinistra, e non solo, con la quale Pontecorvo dovette fare i conti nel tentativo di portare a termine, dopo La Battaglia di Algeri del 1966 e Queimada del 1969, la sua trilogia sulle lotte di liberazione anticoloniali e antiautoritarie. Per rendere il film politicamente corretto, Pontecorvo dovette allontanarsi dal libro della Forest che narrava la vicenda introducendo una discontinuità pedagogica: un prima che racconta la dittatura e l’attentato e un dopo, la “transizione democratica”, i cui limiti e complessità nel film nemmeno vengono sfiorati, dove i protagonisti si dividono sul proseguimento della lotta armata e la clandestinità, ritenuta non più giustificata e dunque un grave errore politico. Questa «cattiva coscienza», come la definirà lo stesso autore, minò alla radice il film trasformandolo in un confronto tra tesi avverse che gli tolse la forza dei due film precedenti, anch’essi realizzati quando i fatti narrati erano conclusi ma senza il ricatto di un presente che non doveva più legittimare forme di lotta ritenute non più giustificate. Ed anche se alla fine Pontecorvo realizzò un film che narrando l’attentato a Carrero Blanco in realtà stava condannando il rapimento di Moro, la sorte dell’opera cinematografica risultò comunque segnata. La forza evocatrice delle immagini del grande salto di Carrero Blanco erano troppo forti, valga in questo caso un ricordo personale, quando il film proiettato nella sala romana dell’Augustus vide il cinema deflagrare al momento dell’ascensione della vettura di Carrero Blanco: applausi, slogan, cori di consenso, urla liberatorie interruppero la proiezione per alcuni minuti, tanto che si accesero le luci. Alla spicciolata mezzo movimento romano si era radunato in quel cinema senza essersi dato appuntamento. Nel’Italia del 1979, Operazione Ogro era un film troppo scorretto, e se ai dirigenti del Pci metteva inquietudine preoccupati erano anche i carabinieri.

I timori per il «cinema sovversivo»
In un appunto del secondo reparto, stato maggiore, ufficio operazione del comando generale dell’arma dei carabinieri, datato 2 dicembre 1981, dedicato a «Terrorismo, cinema e televisione», si affermava che l’esame dei documenti prodotti dalle formazioni eversive aveva consentito di delineare con «sufficiente chiarezza» l’importanza «da esse attribuite ai mezzi di informazione». Questi non erano visti come veicoli di notizie, ma come vero «palcoscenico sul quale recitare il tragico spettacolo del terrorismo rivoluzionario». Concetti come la propaganda armata erano divenuti di comune accezione, ma più di recente si registrava il fatto che il terrorismo si era trasformato anche in «soggetto cinematografico e televisivo di crescente peso e diffusione». La prima pellicola girata era ritenuta il film “Ogro” sull’attentato a Carrero Blanco, fino a giungere a “Maledetti vi amerò” e “La caduta degli angeli ribelli”. Pellicole che non avevano registrato grande afflusso di pubblico ma destato una certa curiosità, così come il lungometraggio della regista tedesca Margareth Von Trotta “Anni di Piombo” sulla storia di Gudrun Eslin. Si citava anche il film “La festa perduta”, che tendeva a dimostrare che una delle cause del terrorismo era la repressione dello Stato. Tra i registi che in un futuro avrebbero potuto continuare il soggetto del terrorismo nei loro film erano citati Renzo Rossellini e Petri: «il rischio è che l’informazione-violenza del terrorismo e sul terrorismo, specie se trasmessa in televisione, rappresenti una funzione di incitamento e di potenziale contagio». Si chiedeva attenzione da parte della Commissione parlamentare di vigilanza sulle trasmissioni radiotelevisive e del Consiglio dell’Ordine dei giornalisti.3

Carrero Blanco come Moro, la tesi dei dietrologi italiani
L’ex senatore del Pci Sergio Flamigni, membro della Commissione Moro 1 e in più legislature della Commissione stragi, nel volume La tela del ragno (p. 165) scrive che l’attentato dinamitardo contro Louis Carrero Blanco «causò una strage» (sic!) oltre all’uccisione del generale nel centro di Madrid. Come è noto non ci fu alcuna strage, ma solo la morte dell’ammiraglio, del suo autista e dell’uomo di scorta, membri della guardia civil. Tecnicamente si trattò di un omicidio plurimo, non di una strage. Secondo Flamigni, in base al piano iniziale che prevedeva il sequestro di Carrero Blanco, poi abbandonato come abbiamo visto sopra, «la prigione destinata all’ostaggio era stata approntata nel centro della città all’interno di un “insospettabile” edificio appartenente a un generale della “Falange” al potere». Insomma sulla base di un copione ampiamente abusato per le vicende italiane, anche l’attentato contro Carrero Blanco era sospetto, inquinato, frutto di una congiura interna al potere più che risultato di un’azione di guerriglia armata.
A mettere in dubbio la paternità dell’Eta è intervenuto anche l’ex giudice istruttore Rosario Priore, magistrato che si è occupato di molte istruttorie su fatti di lotta armata. In una audizione tenutasi il 17 dicembre 2014, davanti alla commissione Moro 2, presieduta da Giuseppe Fioroni, ha proposto un parallelo tra la morte di Carrero Blanco e quella di Moro: «Moltissimi Paesi erano interessati alla morte di Moro. Era un periodo in cui c’era una sorta – è brutto dirlo – di politica del far sparire tutti coloro che seguivano un certo orientamento. Ricordiamoci che il caso Moro avviene quasi in coincidenza con il l’uccisione del capo del governo spagnolo, l’ammiraglio Carrero Blanco, a Madrid. Fu un attentato clamorosissimo, in quanto erano riusciti a piazzare una carica di esplosivo eccezionale in un determinato tombino sopra il quale doveva passare l’auto di Carrero Blanco. Tutti dicevano sempre che erano stati soltanto quelli dell’ETA, ma io non ci ho mai creduto, poiché è stato un attentato raffinato, in un certo senso organizzato bene (anche se è brutto dire che un attentato è organizzato bene, potrebbe sembrare cinico). Quello che a me ha fatto impressione è che Carrero Blanco seguiva una politica che si avvicinava molto a quella di Moro. Era un filoarabo, forse come il suo superiore, il Caudillo: lo stesso Francisco Franco infatti aveva tendenze filoarabe».

Note
1. «Il y a quarante ans, ETA faisait “voler” le franquisme», 20 dicembre 2013.
2. https://elpais.com/politica/2013/12/13/actualidad/1386951906_963822.html.
3. AISE 2-50-6 f.0213 c0004 d0040. Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri, II Reparto, SM Ufficio Operazioni, protocollo 5/249-4 R, «Appunto; Terrorismo, cinema e televisione. 2 dicembre 1981»

Le protezioni israeliane del neofascista Alibrandi

Inedito – Un documento rinvenuto recentemente presso l’archivio centrale dello Stato getta nuova luce sugli appoggi internazionali ai gruppi della estrema destra italiana degli anni 80

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Le continue indiscrezioni sul lodo Moro (il protocollo segreto messo a punto nel 1973 dai Servizi di sicurezza italiani con le forze della resistenza palestinese, Olp-Fplp, che trasformava l’Italia in una zona franca dove le forze palestinesi si astenevano dal commettere azioni armate in cambio del libero passaggio di loro esponenti e di armi e del sostegno politico-diplomatico, italiano alla loro causa), e la campagna della Destra sulla cosiddetta «pista palestinese» nella vicenda della strage di Bologna, hanno fortemente condizionato l’opinione pubblica, deformando la percezione attuale del contesto storico presente agli inizi del decennio 80 del secolo scorso. Una semplificazione che ha ridotto l’estrema complessità della realtà mediorientale all’interno della quale non operavano solo le forze palestinesi e arabe ma avevano un peso ed un ruolo, certamente non meno significativo se non forse più decisivo, altri Paesi la cui attività resta ancora oggi sottovalutata e poco studiata. Mi riferisco, ad esempio, al ruolo giocato dallo stato d’Israele, un attore della scena mediterranea che ha inciso non poco, stando anche ad alcune inchieste condotte dalla magistratura, in alcuni momenti chiave del nostro Paese, cercando di condizionare la politica energetica e l’orientamento della politica estera italiana.

I neofascisti italiani e le milizie maronite
E’ nota da tempo la presenza, a partire dall’estate del 1980, di un nutrito gruppo di militanti dell’estrema destra triestina e romana, questi ultimi appartamenti ai Nar, tra le fila delle milizie cristiano-maronite in Libano.
Una testimonianza di Gabriele De Francisci, esponente dei Nar, raccolta da Nicola Rao in La fiamma e la celtica, Sperling & Kupfer, (p. 881), riferisce come dopo l’esplosione della bomba alla stazione di Bologna iniziò la diaspora nera: esponenti, tra cui alcuni dirigenti di Terza posizione, ripararono in Gran Bretagna, molti altri – tra cui una pattuglia dei Nar – trovò rifugio in Libano. Il soggiorno libanese era stato anticipato già nel 1979 dall’arrivo dei triestini (Roberto Cetin, Grilz, Capriati, Lippi, Biloslavo, Gilberto Paris Lippi, futuro vice-sindaco di Trieste, Ciro e Livio Lai). Nel settembre 1980, quando la retata della magistratura seguita all’attentato alla stazione di Bologna contro l’area di Terza posizione fece tabula rasa della rete logistica romana e delle connivenze che avevano facilitato la sopravvivenza dei Nar fino a quel momento, si trasferirono anche i romani Walter Sordi, Pasquale Belsito, Stefano Procopio e Alessandro Alibrandi, tutti latitanti o quasi. Sempre nella testimonianza resa a Rao, De Francisci racconta che in quel frangente Alibrandi fu colpito «dall’efficenza militare degli israeliani. Del resto lui e gli altri si addestravano nei campi della Falange, ma gli istruttori erano israeliani. Lui era innamorato di Tsahal, le forze armate con la stella di Davide, e della sua spregiudicatezza».

La polizia sapeva
Ecco apparire, dunque, la prima ombra della presenza israeliana: istruttori militari di Tsahal addestrano latitanti della estrema destra già ricercati per rapine ed omicidi. La presenza tra le milizie maronite libanesi dei neofascisti italiani era nota alle forze di polizia italiane, in una relazione della questura di Bologna, inserita nell’istruttoria per la strage del 2 agosto 1980, si spiega come «il nucleo più agguerrito del Fdg triestino si è recato a più riprese in Libano» usando come tramite le comunità dei cristiano maroniti in Italia che «alla perenne ricerca di combattenti per la loro causa contro i palestinesi (…) fornirebbero indicazioni e documenti a chi faccia richiesta di recarsi in Libano – previo accertamento sulla effettiva militanza di destra» dei volontari (l’accertamento, spiegano gli inquirenti, veniva effettuato «tramite controlli con il Msi-Dn o qualche organizzazione parallela», quindi funzionando da «centrali di smistamento e reclutamento» per chi volesse recarsi in Libano, ed indirizzati all’ambasciata libanese di Atene per il visto d’ingresso, in Claudio Tonel, Dossier sul neofascismo a Trieste, Dedolibri 1991, p. 157. Per altro, Alessandro Alibrandi, che restò in Libano fino al giugno 1981, non mancò di rassicurare i propri famigliari: «numerose telefonate sono intercettate, anche se i controlli subiscono frequenti, immotivate interruzioni», Ugo Mari Tassinari, Fascisteria, Sperling & Kupfer, p. 177.

Le protezioni israeliane di Alibrandi
Fin qui abbiamo riassunto una storia già nota. Ma c’è un fatto nuovo che riapre la questione proponendo nuovi scenari tutti da indagare: una nota del Sisde del 25 giugno 1981, che porta in calce la firma di Vincenzo Parisi, presente tra le carte rese accessibili dalla Direttiva Renzi (vedi in basso la documentazione completa), riporta le informazioni pervenute da una fonte non ancora sperimentata (il servizio scrive di «non valutabile attendibilità») che «si è recentemente recata in Israele». La precisazione è importante poiché lascia intendere che la fonte in questione non era araba o libanese, ma con molta probabilità israeliana o comunque di posizione a questa vicina, in ogni caso in grado di muoversi liberamente all’interno del territorio israeliano, che «effettuando anche un viaggio ai confini libanesi» ha consentito l’acquisizione di una serie di informazioni: una piantina del Libano meridionale dove sarebbero ubicati alcuni campi di addestramento di Fedayn nei quali sarebbero presenti anche stranieri: la fonte parla di italiani, tedeschi, francesi, spagnoli e sudamericani. E fin qui, ancora una volta, nulla di particolarmente nuovo. Più avanti, invece, la fonte riferisce un’informazione assolutamente inedita:

«Gli elementi di destra, combattenti a fianco dei cristiano-maroniti eventualmente feriti in Libano, sarebbero trasportati all’ospedale militare israeliano di Nahariya, dove sarebbe stato ricoverato anche il noto Alessandro Alibrandi; il medico militare che curerebbe questi feriti avrebbe studiato in Italia e si chiamerebbe Lukacs».(1)

Questa informazione, se trovasse conferma, avrebbe senza dubbio un valore dirompente: è impensabile credere, per la grande qualità informativa dell’intelligence israeliana, che la reale identità di Alibrandi non fosse nota al momento del suo ingresso in territorio israeliano per essere curato in un ospedale militare. Non abbiamo trovato traccia delle modalità di lavorazione di questa notizia, e dunque non possiamo permetterci per il momento considerazioni più assertive, salvo sottolineare la presenza di santuari, questi sì invalicabili, indicibili e imperscrutabili a differenza d’altri di cui si vocifera in continuazione.

Note
1. Direttiva Renzi (2014)/ Ministero dell’Interno/ Direzione centrale della polizia di prevenzione/ stazione di Bologna 1980/ Procedimento penale 344/80 [1980-1988]/ Corrispondenza varia. Accertamenti e istruttoria é1980-1986]/ Organizzazione lotta per la Palestina (OLP) (1980-1982)/ 2: Campi di addestramento Alibrandi (1980-1981)/ 2: Trasmissione appunto pervenuto al Sisde (1981 giugno 26) / 1: Appunto con cartina del libano meridionale indicante i campi di addestramento di Fedayn (1981 giugno 25).

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Strage di Bologna, fu Delle Chiaie a lanciare per primo la pista di sinistra accusando Mauro Di Vittorio

Rivelazioni e depistaggi – Nel 1983 in una intervista rilasciata al quotidiano Boliviano El Meridiano, Stefano delle Chiaie scaricava sull’estrema sinistra la responsabilità della bomba del 2 agosto 1980, «Tra i cadaveri, furono rinvenuti i corpi di due estremisti di sinistra: uno spagnolo, con falsa identità, tale Martinez ed un italiano che, secondo sue precedenti affermazioni avrebbe dovuto trovarsi a Londra, mentre è stato identificato dalla famiglia. Questa pista non è mai stata presa in considerazione»

Strage BolognaL’indagine e i processi per la strage alla Stazione di Bologna del 2 agosto 1980 sono stati costellati da incredibili depistaggi. In un articolo apparso sul Resto del Carlino dell’8 aprile 2012 (leggi qui), l’ex carabiniere missino, allora parlamentare di Futuro e Libertà, Enzo Raisi, annunciando l’imminente uscita di un suo libro sulla vicenda, puntò l’indice accusatorio contro una delle vittime della strage. Secondo il parlamentare postfascista, a portare la valigia con l’esplosivo sarebbe stato «un ragazzo di Autonomia operaia». Raisi fece il nome solo successivamente: Mauro Di Vittorio, ventiquattrenne romano, proveniente dal quartiere popolare di Torpignattara, trasferitosi a Londra (leggi qui il diario del suo ultimo viaggio ritrovato all’interno della sua borsa tra le macerie della stazione). In realtà Mauro D Vittorio non era affatto un militante dell’autonomia romana di via dei Volsci (leggi qui), come Raisi, ex membro anche della commissione Mitrokhin, insinuava maldestramente, ma un giovane con idee di sinistra che non militava in nessuna organizzazione politica e che da tempo viveva in una periferia londinese dove lavorava nei ristoranti (leggi qui un suo ritratto), anche se era molto conosciuto dai frequentatori della sezione di Lotta continua del suo quartiere.

Stefano delle Chiaie e la pista di sinistra per la strage di Bologna, un depistaggio che viene da lontano
In realtà il primo a tirare in ballo la responsabilità della sinistra nella strage non fu Raisi, e tanto meno lo furono Gabriele Paradisi, Gian Paolo Pelizzaro e François de Quengo de Tonquédec che lavorando su una precedente consulenza per la commissione Mitrokhin di Lorenzo Matassa e Gian Paolo Pellizzaro, tirarono fuori il ruolo di due militanti della sinistra armata tedesca all’interno della cosiddetta “pista palestinese”.
Il primo in assoluto fu Stefano Delle Chiaie, in una intervista apparsa sul quotidiano boliviano El Meridiano il 17 luglio 1983. Il che getta una luce ancora più inquietante sulla genesi di questo squallido depistaggio.
Fondatore di Avanguardia nazionale, in rapporto con l’Uarr di Federico D’Amato fina dai primi anni 60, il neofascista Delle Chiaie dopo lo scioglimento del suo gruppo fuggì inizialmente nella Spagna franchista, per poi trovare riparo nel Cile di Pinochet, dove dal 1976 collaborò col regime militare, passando successivamente in Argentina e poi in Bolivia. Coinvolto nell’operazione Condor (il piano concepito per dare la caccia su scala continentale ai militanti della sinistra sfuggiti alle diverse dittature militari che imperversavano in Sud America), divenne nel 1980 insieme al nazista Klaus Barbie consigliere politico della dittatura militare in Bolivia, dove fu accusato anche di essere stato un torturatore dei militanti di sinistra arrestati.
Implicato nelle inchieste giudiziarie sulla strage di piazza Fontana, Italicus e stazione di Bologna, nell’intervista rilasciata a El Meridiano affermò che dopo l’esplosione della bomba nella sala d’aspetto di seconda classe della stazione ferroviaria di Bologna, «Tra i cadaveri, furono rinvenuti i corpi di due estremisti di sinistra: uno spagnolo, con falsa identità, tale MARTINEZ ed un italiano che, secondo sue precedenti affermazioni avrebbe dovuto trovarsi a Londra, mentre è stato identificato dalla famiglia. Questa pista non è mai stata presa in considerazione. Al contrario, tutti hanno continuato ad accusare il movimento nazionale rivoluzionario»1.

1 Delle Chiaie accusa Di Vittorio

2 Delle chiaie Di vittorio
Delle Chiaie mentiva, faceva il suo consueto mestiere. Se Mauro Di Vittorio non era un militante politico, come abbiamo già accennato, non lo era nemmeno il ventitreenne Francisco Gomez Martinez, che non aveva affatto una falsa identità. Impiegato in una azienda tessile, viveva con una sorella e la mamma in provincia di Barcellona. Aveva cominciato a lavorare a 16 anni, era appassionato di arte. Durante l’anno risparmiava i soldi per viaggiare. In cima alla sua lista c’erano la Grecia e l’Italia. Era partito il 29 luglio, voleva visitare Bologna. Il 2 agosto era appena sceso dal treno.

La smentita a età
Il 9 aprile del 1987, nel corso della sua prima audizione parlamentare di fronte alla prima commissione d’inchiesta su stragi e terrorismo, presieduta da Gerardo Bianco, Delle Chiaie smentì di aver mai rilasciato interviste al Meridiano, affermando «No so che giornale sia». Che Delle Chiaie non fosse a conoscenza di questo giornale è una circostanza per nulla convincente, visto il ruolo politico di primo piano avuto nella società boliviana ai tempi della feroce dittatura militare. Prendendo per buona l’ipotesi che non stesse mentendo, si può ipotizzare che durante l’audizione sia incorso in un malinteso, poiché la domanda rivoltagli faceva solo un generico riferimento alla testata Meridiano, senza specificare la nazionalità del giornale, ed il quesito posto non riguardava la strage di Bologna ma le infiltrazioni del suo gruppo negli apparati dello Stato italiano. D’altronde nessuno dei commissari che lo audivano avevano mostrato di avere chiara cognizione che si trattasse di un quotidiano boliviano, tanto che il missino Franco Franchi chiese se si trattasse del Meridiano d’Italia, ricevendo una ulteriore risposta negativa du Delle Chiaie che chiarì di aver parlato solo con un giornalista di Panorama. Insomma la smentita fu molto relativa, come è una fatto che negli anni precedenti Delle Chiaie non aveva mai preso le distanze dalle dichiarazioni apparse sul quotidiano boliviano. Nel 1982 la situazione politica in Bolivia era mutata, il regime militare era caduto e le protezioni per Delle Chiaie, come per Barbie, erano venute meno tanto che nell’ottobre di quell’anno c’era stato un tentativo di cattura finito con l’uccisione del suo braccio destro PierLuigi Pagliai, mentre Barbie era stato estradato in Francia. Con quella intervista Delle Chiaie aveva cercato di mostrarsi come perseguitato di fronte alla opinione pubblica boliviana. In ogni caso ogni dubbio sull’intervista del 1983 è stato fugato dall’autobiografia apparsa nel 2012, dove Delle Chiaie ricalca a pagina 273 l’accusa contro «il militante italiano di sinistra» e lo spagnolo Martinez, lasciando intendere che fosse un membro dell’Eta.

Autobiografia

Note
1
. L’intervista qui sotto, gentilmente concessa dallo storico Giacomo Pacini, si trova nel faldone H-b-2 del processo per la strage di Brescia, digitalizzato dalla Casa della memoria di Brescia, alle pp. 373-386, e fa parte dell’allegato 225 della prima perizia di Giannuli realizzata per l’inchiesta di Salvini.

1 Delle Chiaie 1 Bologna

Delle chiaie 23 Delle chiaie 34 Delle Chiaie 4 Bologna Di Vittorio

Argentina, ecco le foto inedite dei voli della morte

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LA GUACAMAYA ROJA, 25 gennaio 2020

Di recente sono state rese pubbliche immagini che testimoniano i cosiddetti voli della morte compiuti dall’ESMA. Questi documenti si aggiungono alle testimonianze, come quella di Adolfo Scilingo, ex capitano di questi voli, che da giorni si aggira libero per le strade di Madrid.
Nel 2011, la Commissione interamericana per i diritti umani (IACHR) ha fornito per la prima volta 130 immagini che supportano le testimonianze del maxi processo “i voli della morte” (Vedi qui http://sitiosdememoria.uy/recurso/266).
Tutto è iniziato nel 2011, quando il giudice federale Sergio Torres, incaricato di investigare sui crimini commessi dall’ESMA, si è recato negli Stati Uniti per consultare la documentazione del fascicolo relativo all´IACHR, in particolare quello legato alla visita di tale agenzia in Argentina nel 1979. C’erano più di trenta faldoni che sembravano non essere stati più aperti da allora. Il giudice li ha esaminati uno ad uno ed è lì che ha trovato una cartella gialla con un centinaio di fotografie che accompagnavano i rapporti su corpi apparsi, da quel che sembra, tra il 1976 e il 1978, nei pressi di diverse città lungo la costa del vicino Uruguay: Colonia, Carmelo, José Ignacio, Balizas, Laguna de Rocha, Laguna de Garzón, Piriápolis, Solana del Mar, La Paloma.
Il materiale proviene dai documenti redatti da Daniel Rey Piuma, un marinaio che disertò nel 1980 e rese pubbliche le relazioni fatte dai servizi di intelligence e dagli agenti di polizia.
Le immagini sono agghiaccianti. Appare il corpo di una donna, con le unghie smaltate e i segni di stupro. È stato trovato a Laguna de Rocha, che sbocca sul mare, in Uruguay, il 22 aprile 1976. Un’altra donna aveva un documento di identità tra i suoi vestiti, che riportava la data di nascita, 1954. Nelle tasche degli abiti indosso ad alcuni corpi c´erano monete e banconote di quel tempo in Argentina.
La prova inconfutabile dei “voli della morte” è venuta alla luce nel 2005, quando l’équipe di antropologia forense argentina (EAAF) ha identificato i corpi apparsi nel 1977 sulla costa di Buenos Aires. Si trattava della fondatrice delle Madri di Plaza de Mayo, Azucena Villaflor de Devincenti, delle sue compagne Esther Ballestrino de Careaga, Esther Ballestrino de Careaga e Angela Aguad, e della suora francese Leonie Duquet, rapita tra l’8 e il 10 dicembre. I corpi apparvero sei giorni dopo il sequestro sulle spiagge di Santa Teresita, trascinati dalla corrente, e furono sepolti come NN nel cimitero General Lavalle.

Dichiarazione di Scilingo
Nel 1995, Scilingo confessa al giornalista Horacio Verbitsky di aver partecipato e di essere il responsabile di due voli in cui furono gettate vive nel vuoto 30 persone. È la prima testimonianza di un repressore dopo la dittatura. Scilingo descrive i suoi atti come «cose peggiori dei nazisti».
La parola di Scilingo avviene in un contesto avverso al recupero della memoria, fissato da due leggi: Ley del Punto final (anche detta “Estinzione dell’azione penale”) e Ley de obediencia devida (Legge dell´obbedienza dovuta).
Nella sua testimonianza racconta anche degli elenchi di coloro che si appropriarono dei figli delle detenute desaparecidas in stato di gravidanza. E riferisce anche il fatto che membri della chiesa li consegnassero ai carnefici.
Negli incontri con Verbitsky, il repressore ha fornito dettagli su come funzionavano questi voli.
Nel 1998 Scilingo ritratta la sua confessione. Pinochet era stato arrestato da Baltasar Garzón, lo stesso che aveva processato Scilingo, la strategia è di screditare il giudice.
E qui Scilingo fa uno spettacolo patetico, fa uno sciopero della fame, entra in campo su una barella, come se dormisse.
Sono stato citato come testimone dal tribunale nazionale di Madrid.
Racconto che dal carcere di Carabanchel mi ha inviato lettere dove mi dà maggiori dettagli di quello che è successo. I giudici le guardano, si mettono le mani tra la testa, si guardano l’un l’altro, bisbigliano tra loro, chiamano Scilingo, Scilingo si avvicina alla cattedra del tribunale, gli mostrano le lettere, indicano la firma. Scilingo annuisce, Scilingo mi guarda, guarda in basso e dice: Sì, è proprio come ha appena detto il signor Verbitsky.
Fine della ritrattazione, il processo riprende, viene condannato a 600 anni di carcere …

Horacio Verbitsky, Care with the Dog: Chapter 5

Attualmente Scilingo è stato condannato a più di 1000 anni, irrevocabili. Eppure anche così, ha ottenuto flessibilità per la sua condanna e gode della libertà di camminare per le strade a condizione di dormire in un centro di reinserimento sociale. Varie organizzazioni per i diritti umani hanno espresso il loro ripudio.

Le foto declassificate dell’IACHR:
La carta d’identità di María Cristina Cámpora, figlia di Juan Carlos Cámpora, scomparsa nel 1977 per mano del terrorismo di stato. Secondo il racconto di Rey Piuma, si presume che i militanti scomparsi avessero documenti di identificazione dei parenti, per questo motivo i documenti di Maria Cristina compaiono negli archivi.

La cartella completa con le fotografie è consultabile in http://sitiosdememoria.uy/recurso/266

Fonti: http://www.infojusnoticias.gov.ar/ / “El Vuelo” Horacio Verbitsky

Apparso su https://bresciaanticapitalista.com/2020/01/30/compaiono-foto-inedite-dei-voli-della-morte-argentini-durante-la-dittatura-militare/

 

CasaPound «un’associazione che vuole rilanciare il Fascismo». Il Gip di Roma ridimensiona l’informativa del Viminale

Archiviazione 1Il gip di Roma Vilma Passamonti scrive quello che la polizia di prevenzione nella sua infornativa sui “bravi ragazzi di CasaPound” aveva in tutti i modi evitato di dire. E lo fa nella maniera più oggettiva possibile, ovvero citando le stesse parole che le tartarughine di via Napoleone III  utilizzano sul loro sito per definire se stessi e i propri obiettivi: «l’associazione si propone di sviluppare in maniera organica un progetto e una struttura politica nuova, che proietti nel futuro il patrimonio ideale e umano che il Fascismo italiano ha costruito con immenso sacrificio». Il passaggio appena citato fa parte del provvedimento reso noto nel pomeriggio di oggi [ieri 5 febbraio 2016 ndr] con il quale il giudice ha archiviato la querela (la trovate qui) che Gianluca Iannone aveva presentato contro un mio articolo apparso su Liberazione dell’8 maggio 2010 (lo potete leggere qui). La denuncia puntava l’indice contro un passaggio del testo in cui riferiva delle «aggresioni, spedizioni punitive, iniziative contro i disabili, xenofobia e brindisi alla Shoà», compiute da esponenti di CasaPound. Episodi ritenuti da Iannone non veritieri e lesivi della onorabilità dell’associazione. Nel corso delle varie memorie depositate dalla parte querelante si invitava ripetutamente il magistrato a richiedere informazioni alla digos per avere chiarimenti sull’operato dell’organizzazione. Un singolare dimostrazione di fiducia o di chiromanzia verso le informative della polizia nonostante l’esistenza di centinaia di denunce e decine di arresti. Questa strategia dispiegata anche in altre cause alla fine ha sortito la richiesta del giudice del tribunale civile di Roma dove pendeva la denuncia dalla figlia di Erza Pound, da cui è scaturaita la nota informativa della polizia di prevenzione (la trovate qui) che tanto ha fatto discutere in questi giorni.
Nel provvedimento redatto il gip sostiene che nell’articolo messo sotto accusa non solo il diritto di cronaca è stato correttamente rispettato ma – aggiunge – che i fatti riportati sono veri: nello scritto «un nucleo essenziale di veridicità dei fatti… sussiste con certezza secondo quanto documentato anche da articoli giornalistici dell’epoca, attenendo dunque o trovando la propria fonte in fatti anche pubblicamente conosciuti». La querela è dunque senza fondamento.
Da rilevare come nel citare i singoli episodi che attestano le «aggresioni, spedizioni punitive, iniziative contro i disabili, xenofobia e brindisi alla Shoà», il magistrato indirettamente faccia emergere uno degli aspetti più sconcertanti della nota informativa della polizia di prevenzione, ovvero la mancata risposta ad alcuni «precisi questiti posti dal Tribunale civile di Roma» (come potete leggere più avanti nel testo integrale della risposta scritta alla interrogazione presentata da SI).
Oltre ai «dati conoscitivi sull’associazione» e «informazioni sull’articolazione della struttura organizzativa anche a livello periferico», dal Tribunale civile erano venute richieste di notizie «sull’eventuale diretto coinvolgimento del sodalizio in procedimenti penali o attività d’indagine, sfociate in denunce o rapporti informativi all’Autorità giudiziaria per fatti di violenza o per manifestazioni politiche non autorizzate, segnatamente di carattere antisemita e/o nazista».
Se le violenze e le aggresioni sono state esposte con una sintassi minimalista, per altro concentrandole all’interno delle tifoserie ultras e trovando per esse una pseudogiustificazione nella presenza dell’attivismo politico della parte avversa, senza dare notizia adeguata delle numerose indagini e decisioni di giustizia, sui comportamenti a carattere antisemita e/o nazista la nota ha taciuto ogni notizia. Spiega il ministero, prendendo con prudenza le distanze, che la nota in questione «non costituisce un documento di analisi o di valutazione sul movimento». E allora di che si tratta? Certamente di un testo pesantemente omissivo.

Di seguito potete leggere il dispostivo integrale del gip di Roma, la risposta scritta dal Viminale alla interrogazione parlamentare di SI, e subito dopo i link della documentazione presenti nella memoria difensiva redatta dall’avvocato Francesco Romeo

Archiviazione 1

Archiviazione 2 Archiviazione 3

La replica del ministero

Risposta ministero 1

Ministero 2

Link riportati nella memoria difensiva

http://roma.repubblica.it/dettaglio/casa-pound-slogan-choc-contro-i-disabili/1608090

http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2009/02/06/un-brindisi-all-olocausto-fanzine-choc-dei-neonazisti.html

http://iltirreno.gelocal.it/prato/cronaca/2011/04/23/news/consigliere-del-pdl-fa-l-elogio-di-hitler-1.2447259

http://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/napoli/notizie/politica/2011/23-aprile-2011/se-candidato-municipalita-fa-auguri-adolf-hitler-190497830024.shtml

http://www.tusciaweb.it/notizie/2009/settembre/24_5volantini.htm

http://www.tusciaweb.it/notizie/2009/settembre/25_3scritte.htm http://www.newtuscia.it/archivio/rassegna-stampa/2009/09/24/scritte-offensive-contro-larci-picchiarelli-e-ascanio-celestini-interviene-il-presidente-mazzoli.asp

http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2014/11/29/casapound-ferma-i-bimbi-rom-a-scuola15.html

http://www.romagnaoggi.it/cronaca/predappio-picchio-carabiniere-condannato-leader-della-destra-radicale.html

http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2012/07/15/la-vendetta-dei-fascisti-di-casa-pound.024la.html

http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2014/06/15/si-oppose-alla-perquisizione-a-processo-il-capo-di-casapoundRoma08.html

http://roma.corriere.it/roma/notizie/cronaca/12_luglio_9/zippo-casa-pound-condanna-201938275553.shtml

http://www.lettera43.it/attualita/36236/casa-pound-brinda-alla-morte-di-saviotti.htm

http://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/salerno/notizie/cronaca/2013/24-gennaio-2013/banda-armata-attentati-aggressioniarrestati-esponenti-estrema-destra-2113686177952.shtml

http://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/napoli/notizie/cronaca/2013/24-gennaio-2013/arrestati-estremisti-destrac-anche-figlia-florino-2113688177241.shtml

http://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/napoli/notizie/cronaca/2013/24-gennaio-2013/savuto-camere-gas-mai-esistite-ma-non-bisogna-dirlo-pubblicamente-2113693718121.shtml

http://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/napoli/notizie/cronaca/2013/26-gennaio-2013/frasi-odio-che-schifo-ebreo-la-kippah-2113721169342.shtml

http://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/napoli/notizie/politica/2013/29-gennaio-2013/inchiesta-casapound-napolitano-miserabile-paccottiglia-risposta-dura-2113757375301.shtml

Per saperne di più
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La querela di Casapound, non siamo violenti, facciamo solo il bene del prossimo
Più case meno pound
Casapound non gradisce che si parli dei finanziamenti ricevuti dal comune di Roma
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Sbagliato andare a Casapound, andiamo nelle periferie

Il documento shock del ministero dell’Interno, «CasaPound? Solo bravi ragazzi»

Rivelazioni – La sconcertante nota informativa della Polizia di prevenzione che sdogana i neofascisti di CasaPound

 

Pol prev 1 copiaUna organizzazione di bravi ragazzi molto disciplinatii, con «uno stile di militanza fattivo e dinamico ma rigoroso nel rispetto delle gerarchie interne» sospinti dal dichiarato obiettivo «di sostenere una rivalutazione degli aspetti innovativi e di promozione sociale del ventennio». Chi scrive non è uno storico ma un funzionario della polizia di Stato. Si tratta di un documento (protocollo N.224/SIG. DIV 2/Sez.2/4333) della Direzione centrale della Polizia di prevenzione che porta la data dell’11 aprile 2015, con sigla in calce del direttore centrale, prefetto Mario Papa, allegato dal legale di CasaPound Italia in una causa civile che oppone la figlia di Erza Pound, signora Mary Pound vedova de Rachewiltz, a Gianluca Iannone. La signora Pound contestava l’uso del nome del poeta da parte dei «fascisti del terzo millennio», allora il legale di CasaPound ha chiesto al giudice di acquisire informazioni sulla natura del gruppo politico al ministero dell’Interno. Dall’ordinanza emessa dalla giudice Bianchini è scaturita la nota della Polizia di prevenzione che i fascisti di via Napoleone III stanno tentando di utilizzare come un biglietto da visita anche in altre cause.
Il testo della informativa che potete leggere in integrale qui sotto fa ricorso ad un’abile strategia linguistica che tende ad eufemizzare i passaggi più scomodi. Non viene opportunamente mai citato il termine fascismo, né tantomeno si precisa che fu una dittatura, al suo posto si usa un sinonimo neutralizzante come «ventennio», di cui si da acriticamente atto della possibilità di rivalutarne «gli aspetti innovativi di promozione sociale».
La prosa, del tutto inusuale per una nota informativa degli organismi di Polizia, lascia trasparire una chiara empatia, quasi una sorta di compiacimento che rasenta l’agiografia quando si valorizzano le capacità politiche del gruppo «facilitato dalla concomitante crisi delle compagini della destra radicale e dalla creazione di ampi spazi politici che Casa Pound si è dimostrata pronta ad occupare». Il passaggio successivo è piaggeria pura: «Il risultato è stato conseguito anche attraverso l’organizzazione di innumerevoli convegni e dibattiti cui sono frequentemente intervenuti esponenti politici, della cultura e del giornalismo anche di diverso orientamento politico».
Ma il meglio deve ancora venire. L’autore del testo nel periodo che segue valorizza la «progettualità» chiaramente xenofoba del gruppo «tesa al conseguimento di un’affermazione del sodalizio al di là dei rigidi schemi propri delle compagini d’area», come se in passato tra le “compagini d’area“ non ci fossero state alleanze politico-elettorali con il centrodestra. Prova ne sarebbero – prosegue la nota – «le recenti intese con la Lega Nord, di cui si condividono le istanze di sicurezza e l’opposizione alle politiche immigratorie, con la creazione della sigla “Sovranità – Prima gli Italiani” a sostegno della campagna elettorale del leader leghista».
Dal punto di vista politico è questo il fulcro della informativa, redatta in prossimità di quello che i giornali hanno definito il «patto del Brancaccio», al momento della venuta di Salvini a Roma.
Precauzioni semantiche di un funzionario che guarda avanti e non vuole avere guai in futuro? Operazione di restyling preparata a tavolino?
Forse qualcuno tra i banchi del parlamento e sui giornali dovrebbe chiedere al ministro dell’Interno Alfano una spiegazione in proposito.
Non è finita qui!
La nota informativa ci riserva altre sorprese quando l’estensore, quasi immerso in un brodo di giuggiole, descrive «l’impegno primario» di CasaPound volto alla «tutela delle fasce deboli attraverso la richiesta alle amministrazioni locali di assegnazione di immobili alle famiglie indigenti, l’occupazione di immobili in disuso, la segnalazione dello stato di degrado di strutture pubbliche per sollecitare la riqualificazione e la promozione del progetto “Mutuo Sociale”».
E se non li conoscete: «L’attenzione del sodalizio è stata rivolta anche alla lotta al precariato ed alla difesa dell’occupazione attraverso l’appoggio ai lavoratori impegnati in vertenze occupazionali e le proteste contro le privatizzazioni delle aziende pubbliche».
La strategia dissimulativa e imitativa di CasaPound viene descritta nella nota come un ampliamento delle tematiche di intervento «in passato predominio esclusivo della contrapposta area politica, quali il sovraffollamento delle carceri, o la promozione di campagne animaliste contro la vivisezione e l’utilizzo di animali in spettacoli circensi» e per finire ci sono pure gli aspetti ludici. Davvero non manca nulla!

A questo punto vorremmo sapere se esiste una analoga nota informativa che descrive con le stesse modalità linguistiche la pluiridecennale attività dei movimenti di estrema sinistra e dei Centri sociali in favore della lotta per la casa, delle occupazioni di immobili abbandonati, contro la speculazione edilizia, contro tutte le forme di precariato, le carceri, ecc. Attività duramente perseguite con accuse addirittura di racket e richiamo di reati associativi. E sì,  perché comunque la si voglia mettere dal punto di vista del codice penale si tratta di azioni illegali, che tuttavia se commesse da CasaPound perdono questa connotazione per divenire unicamente esempi di azioni verso il prossimo.

E la violenza? Le azioni squadristiche, le spedizioni punitive che hanno visto coinvolti non solo i militanti ma soprattutto i quadri dirigenti, centrali e locali, del gruppo?
Anche qui la tecnica narrativa è quella di ridimensionare e scindere le responsabilità individuali da quelle organizzative. In sostanza CasaPound, associazione «rigorosa nel rispetto delle gerarchie interne», non c’entra. La colpa è di alcuni suoi militanti indisciplinati (e le gerarchie?), in particolare quelli infiltrati «nel mondo delle tifoserie ultras calcistiche, ambito in cui l’elemento identitario si coniuga a quello sportivo divenendo spesso il pretesto per azoni violente nei confronti di esponenti di opposta ideologia anche fuori dagli stadi».
Dunque «anche fuori dagli stadi», il lapsus è sfuggito alla penna dell’estensore che subito corre ai ripari: «il sodalizio organizza con regolarità, sull’intero territorio nazionale, iniziative propagandistiche e manifestazioni nel rispetto della normativa vigente e senza dar luogo ad illegalità e turbative dell’ordine pubblico».
Purtroppo ci sono delle mele marce che rovinano il cesto e l’estensore del testo deve rilevare «che all’interno del movimento militano elementi inclini all’uso della violenza, intesa come strumento ordinario di confronto e di affermazione politica oltre che quale metodo per risolvere controversie di qualsiasi natura».
Come possano degli individui, che le cronache spesso ci raccontano posti ai vertici delle strutture centrali e locali, agire così indisciplinatamente all’interno di una organizzazione descritta per la sua apicalità, e «rispetto delle gerarchie interne», vorremmo capirlo?
La contraddizione nel testo è palese ed esplode perché tutti i tentativi di eufemizzazione alla fine devono confrontarsi con i fatti. E i fatti urlano!

 

Pol prev 1 copia

Pol prev CasaPound 2 copia

Pol prev CasaPound 3 copia

 

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La querela di CasaPound, «Non siamo violenti. Facciamo solo il bene del prossimo» 1/continua

Querela Iannone 1Forse è il segnale che ormai il renzismo ha raggiunto davvero lo stadio dell’egemonia in questo Paese perché un po’ tutti, compresi i «fascisti del terzo millennio», come amano essere definiti i militanti dell’organizzzione politica di estrema destra CasaPound, vogliono apparire alla stregua di un club di giovani marmotte, un’associazione di volontariato che si occupa di sociale, di ambiente, di situazioni disagiate, animata da empatia per il prossimo, l’altro, il diverso. Insomma una panna montata di buoni sentimenti che fanno impallidire gli anni del veltronismo e sembrare un ricordo lontano i testi delle canzoni degli Zetazeroalfa, «nel dubbio mena e vedrai vivrai di più», oppure «primo mi sfilo la cinta; due: inizia la danza; tre: prendo la mira; quattro: cinghiamattanza» o ancora in Accademia della sassaiola una sorta di metafisica del sasso che infrange la vetrina, per non parlare dell’elogio dell’irruenza con cui si invita ad entrare a spinta nell’arena e nella vita senza mai dimenticare di portare con sè quell’«asso di bastoni calmiere d’arroganza che ridona umiltà». Tempi lontani, versi dimenticati, note musicali da cancellare. E sì, abbiamo tutti capito male, della lunga e noiosa lista di pestaggi, aggressioni fisiche, denunce e condanne non serve nemmeno parlare: i fascisti del terzo millennio erano solo un giniceo di educande, una sacrestia di chierichetti come dimostra la loro ansia attuale di essere accolti persino nel family day. E il programma di san Sepolcro? Il fascismo di sinistra antiborghese e laicista, il futurismo? Pura estetica comunicativa: al patto del Brancaccio stipulato con Salvini si deve sacrificare ogni cosa, pure l’anima che un tempo cantavano pura e incontaminata dalla politica del Palazzo. Ora nel Palazzo vogliono entraci veramente dalla porta principale, basta le adunate nel cortile del passato.

E’ questo il succo della querela per diffamazione a mezzo stampa (di cui potete leggere alcuni stralci sotto questo articolo) vecchia di 5 anni e mezzo, ma di cui ho avuto notifica pochi giorni fa, che CasaPound nella veste del signor Gianluca Iannone, ugola degli Zetazeroalfa e ristoratore romano, mi ha rivolto per un articolo da me scritto su Liberazione l’8 maggio 2010 (leggi qui).
Nel testo della denuncia l’avvocato, nonché militante di CasaPound Italia Domenico Di Tullio, individua la presenza di un profilo diffamatorio in un passaggio in cui si fa riferimento alla «lunga lista di aggresioni, spedizioni punitive, iniziative contro i disabili, xenofobia, brindisi alla Shoa». Tali «sconsiderate affermazioni – sostiene la parte querelante – non trovano alcun riscontro nella realtà ed hanno un evidente e grave effetto diffamatorio per la reputazione dell’associazione».
La querela è stata rigettata dal pm che ne ha chiesto l’archiviazione sostenendo che l’articolo attaccato era privo di animus diffamandi poiché «non involge profili di rilevanza penale in quanto trattasi di succinta analisi storico-politica […] ivi compresa qualche riflessione sui rapporti con l’apparato governativo di centro-destra allora in carica». Il Gip ha accolto la richiesta ed archiviato la denuncia senza notificare la decisione alla parte querelante. Il successivo ricorso, da questa avanzato in cassazione per difetto di notifica, ha riaperto la procedura che dopo una serie ulteriore di rimbalzi è finalmente arrivata davanti ad un nuovo gip che dovrà pronunciarsi sulla richiesta di archiviazione il prossimo 3 febbraio.
E’ nota la strategia delle querele a raffica da sempre messa in campo da CasaPound. Un po’ come Saviano (leggi qui). Chiunque osi parlare in modo non agiografico e apologetico della loro attività politica e non si presti a fare da cassa di risonanza della loro propaganda viene attaccato in sede giudiziaria (penale e civile) con un chiaro intento intimidatorio finalizzato a ridurre lo spazio di parola non gradito, elevando in questo modo il costo sociale di una discussione libera.
Concludo, per ora, sottolinenado come il senso di quel mio intervento, uscito di spalla a due articoli di cronaca sulla manifestazione nazionale del Blocco studentesco, anticipata nei giorni precedenti come una “marcia su Roma”, che rendevano la temperatura al suolo di quei giorni, aveva un significato politico molto chiaro. In redazione si era discusso sulla linea da tenere riguardo alla polemiche che l’annuncio magniloquente della manifestazione aveva suscitato. Erano emerse posizioni diverse che rappresentavano la divisione che si era aperta nella sinistra.
Personalmente, come si può leggere nel testo, sia pur breve, non condividevo (come mi è successo di scrivere anche in altre circostanze) la linea dell’antifascismo giustizialista che si appellava a questura, prefettura e magistratura per vietare la manifestazione (una posizione abbastanza contraddittoria se promossa da chi divieti e limitazioni del genere li subisce quotidianamente); ancora di più ritenevo una forma di grave ingenuità portata fino alla piaggeria, in altri casi addirittura una forma di connivenza,  l’appello di chi si era levato in difesa del diritto di manifestare, sposando la strategia vittimaria di CasaPound, confondendo in questo modo una organizzazione che aveva entrature nell’allora maggioranza di governo e che raccolse il sostegno di una trentina di deputati della destra, con la popolazione esclusa di un campo Rom.
Sarebbe interessante sapere se quegli stessi che firmarono l’appello allora hanno qualcosa da dire oggi!

Di seguito potete leggere la prima pagina della querela, subito dopo il testo dell’articolo presente su Insorgenze.net fin dal maggio 2008 (con un titolo scelto da me), e la versione cartacea dello stesso apparsa su Liberazione.

Querela Iannone 1

Più case meno Pound

Preceduto da polemiche e appelli contrapposti, finisce in un flop il raduno nazionale del Blocco studentesco patrocinato da CasaPound. Tanto rumore per nulla

Paolo Persichetti
Liberzione 8 maggio 2010


Quarantaquattro gatti in fila per sei col resto di due
. E’ finita proprio così, come recita la filastrocca che vinse lo zecchino d’oro nel 1968, il sit-in nazionale del Blocco studentesco, emanazione di CasaPound, che si è tenuto ieri a Roma. Poche centinaia di militanti raggruppati nell’angolo di una piazza troppo grande per loro. In giro nemmeno l’ombra delle migliaia che avrebbero dovuto marciare sulla Capitale, come preannunciato alla vigilia. Era dunque infondato, oltre che molto discutibile, l’allarme lanciato nei giorni scorsi dall’Anpi (per altro ritiratasi all’ultimo momento dopo aver acceso la miccia), ripreso da un folto gruppo d’intellettuali e personalità che chiedevano l’esclusione del Blocco studentesco dalle elezioni universitarie, dalle forze politiche di sinistra e dai Centri sociali che hanno dato vita ad un presidio di protesta, anche questo senza grande partecipazione. La forte opposizione della sinistra romana aveva spinto la Questura a vietare il corteo chiesto dai «fascisti del terzo millennio» e autorizzato in precedenza dalla Prefettura. Scelta molto “maliziosa” che ha accresciuto le polemiche e acceso i riflettori su una vicenda che con tutta probabilità sarebbe passata quasi inosservata. La sinistra si è divisa, Piero Sansonetti e Massimo Bordin hanno firmato un appello in difesa del diritto di manifestare per chiunque, dunque anche per chi si richiama apertamente ad una delle tante sfumature del fascismo, in questo caso quello del programma di san Sepolcro. Ma quelli di CasaPound non sono gli abitanti di un campo Rom, di tanta solidarietà non avevano gran bisogno perché nel frattempo era arrivato l’appoggio di un bel pezzo di maggioranza, 32 parlamentari del Pdl (molti dei quali finiani), e di due fedeli consiglieri capitolini del centrodestra, Ugo Cassone e Luca Gramazio. Ricevuti dal comprensivo sottosegretario agli Interni, Alfredo Mantovano, hanno ottenuto la possibilità di una manifestazione stanziale, conclusasi prima del previsto. Tuttavia l’accorta messa in scena disposta in piazza, l’assenza di vessilli e cimeli del fascismo storico, le bocche chiuse e la comunicazione affidata solo ai portaparola ufficiali, lo sfoggio di retorica giovanilista e vitalista con un target studentesco ben preciso, l’estetismo autocontemplativo, il «siamo belli come il sole», «17 anni tutta la vita», «giovinezza al potere» che rinviano ad una sorta di impoliticità ormonale, di onanismo ideologico, di acne militante, le canzoni di Rino Gaetano e Vasco Rossi, non cancellano la lunga lista di aggressioni, iniziative contro i disabili, xenofobia e brindisi alla Shoa. Contrariamente a quanto accadeva alla destra radicale non stragista degli anni 70, questa formazione non vive ai margini del sistema ma è la micropropagine ultima del blocco politico-sociale attualmente al governo. Il 20 marzo aveva suoi uomini tra i ranghi del servizio d’ordine della manifestazione che il Pdl ha tenuto in piazza san Giovanni. Dietro l’aria scapigliata e le imitazioni futuriste s’intravede la voglia di poltrone negli assessorati e le municipalizzate. In attesa appalta per conto del Pdl, dietro copertura politica e sostegno materiale, il tentativo di penetrazione nel sociale e nelle scuole e racimola fondi grazie alle delibere comunali e ai servizi d’attacchinaggio durante la campagna elettorale. Insomma quelli di CasaPound non sembrano proprio avere l’aspetto d’un gruppo di perseguitati, al contrario frequentano i salotti buoni, addirittura aspirano a diventare uno di questi. Finito il raduno e svuotata la piazza sul selciato disadorno è rimasta solo una domanda: c’era davvero così bisogno di sollevare tanto allarme?

Articolo 8 maggio

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Oreste Scalzone, «Delle Chiaie mente su i fatti di Valle Giulia del 1968. E’ un manipolatore, sono pronto a sfidarlo pubblicamente»

Il fondatore di avanguardia nazionale, autore di un’autobiografia edulcorata che sorvola sui servigi prestati alla Spagna franchista e alle dittature militari latinoamericane per reprimere gli oppositori politici – in passato – ricorda Oreste Scalzone, insieme a Mario Merlino ha più volte sostenuto che la battaglia di Valle Giulia, nata dalla resistenza opposta dagli studenti al tentativo di sgombero della facoltà di architettura da parte della polizia, sarebbe stata preceduta da un incontro tra neofascisti e il comitato d’Ateneo della Sapienza del quale facevano parte, oltre a Scalzone e Roberto Gabriele, anche Franco Russo, Paolo Mieli, Paolo Flores D’Arcais, i fratelli Petruccioli, Alberto Olivetti, Luca Meldolesi e altri ancora. L’episodio è un falso storico clamoroso, ribatte Scalzone: «Delle Chiaie è un pessimo personaggio, un manipolatore che non merita nemmeno di esssere gratificato come nemico»

Camillo Giuliani
Calabria ora 28 settembre 2012

A prescindere dalla temperatura esterna, si prospetta un pomeriggio da autunno caldo a Cosenza. Il giorno dopo Renato Curcio arriva in città l’uomo nero, Stefano Delle Chiaie, e non sono pochi quelli che, da giorni, annunciano su internet manifestazioni per impedirgli di presentare “L’aquila e il condor”, il libro in cui il 76enne esponente della destra radicale racconta la sua versione su una stagione politica di cui fu (in)discusso protagonista. Ne abbiamo parlato con un altro primattore di quegli anni, Oreste Scalzone, fondatore di Potere Operaio. «È difficile trovare due uomini più agli antipodi tra loro», il suo commento iniziale. Nonostante abbiano in comune l’attivismo politico – su sponde e con metodi differenti – e una lunga latitanza all’estero per sottrarsi alla giustizia italiana, Scalzone e Delle Chiaie, il rosso e il nero, sono come due rette parallele che non trovano mai un punto d’incontro.

Cosa pensa di Delle Chiaie?
«Sono solito parlare in modo critico di sistemi e non di singoli, ma quando si tratta di uomini pubblici con responsabilità come le sue un giudizio è doveroso: credo – anche sulla base di un riscontro pratico, dettaglio sintomatico – sia un pessimo personaggio».

Quali riscontri?
«Lui e Mario Merlino hanno fatto circolare falsità quale quella che prima di Valle Giulia loro avessero preso contatto col Comitato d’agitazione d’ateneo alla Sapienza, e che quindi quella fosse stata un’impresa comune. Un episodio che mostra inequivocabilmente l’indole manipolatrice di questo personaggio che ama rimestare nel torbido».

I fascisti con Valle Giulia non c’entrano?
«Basta aver letto, che so… Malaparte, per sapere che in una piazza in tumulto può esserci di tutto. Certo è che se c’erano i fascisti, il movimento non se ne accorse».

Che differenza c’era tra ribelli di sinistra e di destra?
«Molti giovani, anche per opporsi a un antifascismo trasformatosi in regime, diventarono fascisti pensando di ribellarsi all’ordine costituito. La ritengo una forma, certo malintesa – un tragico equivoco –  di ribellione vera. Delle Chiaie con loro non c’entra, la cosa peggiore è che abbia lavorato per i servizi segreti del Paraguay di Stroessner».

Franco Piperno ha definito i terroristi “delle ottime persone, anche se hanno ucciso”. Che ne pensa?
«Condivido il suo giudizio per quanto riguarda coloro che, a torto o ragione, si ribellano all’ordine costituito, dal basso verso l’alto. Camus diceva che “non ci sono angeli di luce e idoli di fango; gli umani vivono così, a mezz’altezza”. Ma quando qualcuno si comporta in tutta la carriera come un gerarca dalla parte di coloro che schiacciano altri, non vedo come gli si possano concedere riconoscimenti di una qualche nobiltà, quantomeno d’intenti».

Ha letto “L’aquila e il condor”?
«Ci sono tante cose che non si riescono a leggere nella vita, mancanze che lasciano un rimorso, ma ammetto che difficilmente troverò il tempo di dedicarmi al libro di Delle Chiaie. Potrebbe anche avere un qualche interesse, tutto può essere. Ma la vicenda del Paraguay, ciò che si dice tra gli stessi fascisti di quest’individuo, il piccolo riscontro personale di cui sopra, mi fanno dubitare che in quelle pagine ci sia qualcosa di pregevole».

Scenderebbe in piazza per impedirne la presentazione?
«I movimenti sovversivi avrebbero ben altro da fare che impigliarsi in sceneggiate per vietare la parola a personaggi che converrebbe invece gratificare con un disinteresse e un silenzio eloquenti. Meglio sarebbe occuparsi di dare il fatto suo a gente più significativa, a partire dal dottor Marchionne».

Ha vissuto situazioni come quella che si attende per Delle Chiaie?
«Dopo il rientro ho ricevuto diverse contestazioni. All’università di Palermo lanciarono pietre contro le vetrate dell’aula dove si svolgeva l’assemblea, sembrava un cattivo remake del 16 marzo del ’68 alla Sapienza. L’onorevole signorina Meloni andava straparlando  di “bombaroli”, imitata da un tale Volontè deputato Udc…la sinistra di Stato annuiva. Quelle contestazioni, però, avevano origine nelle stanze del potere, non c’erano folle che si riunivano spontaneamente. Spero che i compagni cosentini non finiscano a chiedere alla questura di vietare l’evento, sarebbe una vera contraddizione in termini!».

Perché nemmeno una polemica per l’arrivo di Curcio?
«Il generale Dalla Chiesa, strenuo avversario delle BR, disse di Renato che era “uno che andava, non mandava”, manifestandogli quel rispetto che si concede a un nemico, nel senso più alto del termine. Lo stesso rispetto che Cossiga mostrò per Prospero Gallinari o Maurizio Ferrari che oggi, dopo 32 anni di prigione, è di nuovo rimesso e tenuto in galera per manifestazioni di lotta da un piccolo Vichinskij  (l’inquisitore per eccellenza della Russia di Stalin, ndr) come il procuratore Caselli. Ecco, l’intero percorso di Delle Chiaie non mi sembra suscettibile di raccogliere un rispetto della stessa natura».

Delle Chiaie è un suo nemico?
«Qualcuno ha detto che si è, o si diventa sempre un po’ alla misura del nemico che ci si sceglie. L’inimicizia, anche assoluta, è una relazione alta e non richiede di considerare l’altro un “sotto-uomo” – “Untermensch”, termine squisitamente nazista – o un demone. Escludendo dunque la passione triste ed autolesiva del risentimento o della diabolizzazione, non è necessario, tuttavia, gratificare qualcuno che non la meriti di una relazione simile. Comunque, se oggi qualcuno vuole telefonarmi per avere un confronto pubblico tra Delle Chiaie e me sulla questione di Valle Giulia, accetto la sfida di buon grado».

 

2 agosto 1980, la telefonata di smentita delle Brigate rosse sulla strage Bologna – Radio Popolare

Pomeriggio del 2 Agosto 1980, a poche ore dalla strage della Stazione di Bologna, la colonna milanese delle Brigate rosse “Walter Alasia” telefona in diretta a Radio Popolare per smentire  la rivendicazione, falsa, fatta nelle ore precedenti a nome della Brigata “Francesco Berardi” di Genova.
Telefonata di smentita che venne ritenuta attendibile da tutte le forze di polizia.
Come potrete ascoltare, il tono del militante delle Brigate rosse – che ebbe l’incarico dall’organizzazione di compiere la smentita ufficiale – è estremamente perentorio verso la redazione di Radio popolare rimproverata per aver accreditato con ingiustificata superficialità la falsa rivendicazione telefonica giunta poche ore prima.
Questo documento – non certo inedito e presente in rete da tempo – torna ad acquistare nuova rilevanza oggi, di fronte al tentativo condotto da alcuni ambienti della destra postfascista (vedi le sortire dell’ex carabiniere missino, oggi parlamentare Fli,  Enzo Raisi, o le “riscoperte” di vecchi atti d’indagine spacciati per nuove rivelazioni da alcuni vecchi arnesi della commissione Mitrokhin
) di attribuire l’orrenda strage ai “rossi”, attraverso un metodico lavoro di riscrittura – o come qualcuno ha recentemente scritto, «ristyling» – dell’immagine stragista della destra italiana del dopoguerra.
Tentativo perseguito ricorrendo allo stesso modello discorsivo che per decenni ha ispirato la grammatica della dietrologia, del peggiore complottismo sulla storia degli anni 70: una sintassi che fa ricorso a salti logici, correlazioni arbitrarie, ricostruzioni lacunose, errori, manipolazioni, invenzioni, bugie, per nulla diverse da quella pronunciata dall’autore della telefonata che il 2 agosto 1980 tentò di attribuire la strage alle Brigate rosse

Link utili
Strage di Bologna, la storia di Mauro di Vittorio vittima dell’attentato che Enzo Raisi e Giusva Fioravanti vorrebbero trasformare in carnefice
Strage di Bologna, in arrivo un nuovo depistaggio. Enzo Raisi, Fli, tira in ballo una delle vittime
Strage di Bologna, i depistaggi sono la continuazione dello stragismo con altri mezzi. Risposta a Enzo Raisi
Strage di Bologna: Daniele Pifano sbugiarda il deputato Fli, Enzo Raisi “Mauro Di Vittorio non ha mai fatto parte del Collettivo del policlinico né  dei Comitati autonomi operai di via dei Volsci
La smentita di Daniele Pifano
Stazione di Bologna, una strage di depistaggi

Strage di Bologna, “I depistaggi sono la continuazione dello stragismo con altri mezzi”. Risposta a Enzo Raisi

Pubblichiamo la risposta di Sandro Padula alla replica e alle malevole insinuazioni che il deputato di Futuro e Libertà Enzo Raisi, amico della coppia Mambro-Fioravanti, gli aveva rivolto sul sito www.fascinazione.info (oppure qui), dopo un articolo che lo stesso Sandro aveva pubblicato su Ristretti orizzontirispreso su questo blog.

Nella replica Raisi fa apertamente il nome della vittima della strage di Bologna che a suo avviso poteva essere coinvolta in qualche modo nell’attentato: si tratta di Mauro Di Vittorio, 24 anni, originario del quartiere di Torpignattara a Roma. Un ritratto del giovane con simpatie di sinistra è stato proposto da Ugo Maria Tassinari sul suo blog (vedi qui). Ne consigliamo la lettura poiché dimostra quanto infondato, cinico e strumentale, sia stato il sospetto lanciato dal deputato finiano.

Aggiungiamo unicamente una postilla: troviamo davvero singolare il fatto che due persone che si fregiano di lavorare per un’associazione denominata “Nessuno tocchi Caino”, si dimenino al punto da sfoggiare un cinismo senza limiti che, pur di approdare (pretesa ovviamente legittima) alla revisione della propria condanna, si mostra disponibile a seminare senza scrupoli sul proprio cammino ulteriori capri espiatori. La ricerca della verità non consiste nel sostituire un capro espiatorio con un altro. Un simile atteggiamento dimostra che, almeno sul piano etico, la distanza con la cultura stragista è inesistente

 

Strage di Bologna: la ricerca della verità completa non giustifica l’avallo di nuovi depistaggi

di Sandro Padula
21 aprile 2012

Dopo il mio articolo intitolato “Fascicolo bis sulla strage di Bologna: la “pista palestinese” non regge e Raisi accusa la Procura” (Ristretti Orizzonti, 16 aprile 2012)  si è aperto un dibattito su diversi siti Internet al quale ha partecipato, attraverso una replica articolata in cinque punti (vedasi sito www.fascinazione.info e qui), lo stesso parlamentare di Futuro e Libertà di cui avevo criticato il teorema.
Rispondo perciò punto per punto a Enzo Rasi, amico e portavoce della coppia Mambro & Fioravanti che a sua volta, nel quadro della battaglia per ottenere la libertà condizionale della donna ex militante dei Nar (vedasi «Le lettere (e una cena) a Giusva e Mambro: vi perdoniamo», Corriere della sera del 3 agosto 2008), alcuni anni fa fece amicizia con Anna Di Vittorio, sorella di Mauro, la vittima della strage di Bologna che oggi secondo lo stesso Raisi potrebbe aver avuto qualcosa a che fare con quel crimine.

Primo punto
Le Br, organizzazione in cui ho militato nella seconda metà degli anni ’70 e fino al momento del mio arresto avvenuto nel novembre 1982, non hanno mai intrattenuto rapporti politici o d’altra natura con il gruppo di Carlos e neppure con il Fplp. Ciò premesso, per semplice amore della verità vanno corrette le numerose informazioni false e le inesattezze sostenute da Raisi.
Il parlamentare di Futuro e Libertà afferma che “all’interrogatorio con Cieri nel 2009 Carlos ha fatto scena muta e ha detto che parlava solo di fronte ad una commissione parlamentare”.
In realtà, pur non firmando nulla, Carlos fece un discorso al pm Cieri in riferimento alla strage di Bologna, poi riportato dalla stampa italiana, nel quale dichiarò in sintesi quanto segue:  «….  è roba della Cia, i servizi segreti italiani e tedeschi lo sanno bene». (Corriere della Sera, 26 aprile 2009). Questo fatto, cioè l’assenza di una “scena muta”, è dato per certo a pagina 158 del “Dossier strage di Bologna”, un libro scritto da Gabriele Paradisi, Gian Paolo Pelizzaro, François de Quengo de Tonquédec, persone amiche di Enzo Raisi e pubblicizzato da quest’ultimo il 10 settembre 2011 nel corso di un meeting di Futuro e Libertà a Mirabello.

Secondo punto
L’onorevole Raisi asserisce che nessun paragone sarebbe mai stato fatto sulla compatibilità del materiale sequestrato alla Frolich all’aeroporto di Fiumicino nel 1982 e quello usato nella strage di Bologna del 2 agosto 1980.
Una recente notizia di stampa, pubblicata proprio sul quotidiano bolognese al quale Raisi spesso rilascia delle interviste, fornisce sulle indagini condotte una versione molto diversa: “dalla comparazione tra i documenti sulla qualità degli esplosivi utilizzati dal gruppo del terrorista Carlos e le perizie sull’esplosivo usato per l’attentato del 2 agosto 1980 non è, al momento, risultata alcuna immediata compatibilità. Quella della comparazione sulla qualità degli esplosivi era una delle strade che vengono seguite nell’inchiesta bis sulla strage della stazione. Una strada che al momento quindi non registra novità. Il pm Enrico Cieri aveva chiesto ed ottenuto delle autorità francesi i documenti sulla qualità dell’esplosivo utilizzato dal gruppo dello Sciacallo. Parimenti negativa sarebbe stata la comparazione fatta con la qualità dell’esplosivo che Margot Frohlich (indagata nell’inchiesta assieme a Thomas Kram) aveva in una valigia quando fu arrestata a Fiumicino nell’82.” (Resto del Carlino, 6 aprile 2012).
Come se non bastasse, la natura dell’esplosivo trovato alla Frolich è nota da molto tempo anche ai principali teorici della “pista palestinese”. In una interpellanza urgente si affermava: “il 18 giugno 1982, quindi due anni e mezzo dopo le stragi di Ustica e Bologna e due anni prima della strage del 904, all’aeroporto di Fiumicino veniva fermata per un controllo la cittadina tedesca Christa Margot Frolich trovata in possesso di una valigia contenente due detonatori e tre chili e mezzo di miccia detonante, contenente esplosivo ad alta velocità di tipo Pentrite, una sostanza detonante che entra nella composizione del Semtex”. (Interpellanza urgente 2-01636 presentata giovedì 28 luglio 2005 da Vincenzo Fragalà nella seduta n.664).
Come è altresì noto, l’ordigno impiegato per la strage di Bologna non era costituito da esplosivo di tipo Pentrite ma “da un esplosivo contenente gelatinato e Compound B” (sentenza secondo processo di Appello sulla strage di Bologna, 16 maggio 1994). E il Compound B, una miscela di tritolo e T4, è roba della Nato.

Terzo punto
Smentito anche dal suo amico Gabriele Paradisi sulla circostanza che avrebbe visto Carlos vivere a Parigi nel 1980, come aveva affermato sul Resto del Carlino dell’8 aprile 2012, il parlamentare futurista dieci giorni dopo tenta di salvarsi in corner sostenendo che Carlos  “a Parigi aveva un gruppo operativo della sua organizzazione denominata Separat.”
Una presenza stabile in Francia di un nucleo del gruppo Carlos, per altro già ristretto ad un numero molto limitato di componenti, non ha mai trovato conferma nelle lunghe indagini condotte dalla polizia francese. Forse Raisi, sbagliando comunque le date, voleva fare riferimento al periodo di detenzione nel carcere di Fresnes di due esponenti del gruppo Carlos: Bruno Breguet e Magdalena Kopp, detenuti dal febbraio 1982 al maggio e settembre 1985.
Fin qui nulla di nuovo dunque. Si tratta della solita rimasticatura di alcuni elementi utilizzati per dare corpo al depistaggio che vorrebbe orientare le nuove indagini verso la “pista palestinese”. A tale proposito va ricordato che l’Olp, di cui faceva parte integrante il pur critico e marxista Fplp, considerava un piccolo passo positivo la dichiarazione del Consiglio europeo di Venezia del 13 giugno 1980, contestata solo dagli Usa e dal governo israeliano, a favore dell’autodeterminazione del popolo palestinese. Non vi era dunque alcuna ragione di colpire obiettivi italiani da parte di chi aderiva all’Olp.

Quarto punto
La vera novità stavolta è il cinico coinvolgimento da parte di Raisi e dei suoi mandanti di una delle vittime della strage: Mauro Di Vittorio.
Perché proprio Di Vittorio? Semplice: era romano e simpatizzava col “Movimento” di quegli anni. Attribuendogli una precisa identità politica, ovvero quella di militante di Autonomia operaia romana, Raisi intende richiamare ancora una volta la “pista palestinese” che si regge sull’assunto che qui cito: “Ricordo che Pifano e altri componenti del gruppo di Via dei Volsci, autonomia romana, furono arrestati con Abu Saleh ad Ortona per i famosi missili che appartenevano all’Fplp e al gruppo Separat, cioè al gruppo di Carlos.
A quanto risulta, tre autonomi del collettivo del Policlinico (Daniele Pifano, Giorgio Baumgartner e Lusiano Nieri) furono arrestati nel novembre 1979 e poi condannati per il trasporto di due lanciamissili (non i missili) che appartenevano esclusivamente all’Fplp, erano smontati e dovevano essere spediti in Medioriente.
Inoltre il cosiddetto gruppo di Carlos si chiamava Ori (Organizzazione dei rivoluzionari internazionalisti) e non certo Separat (vedasi “A Bologna a colpire furono Cia e Mossad”, Corriere della sera del 23 novembre 2005 ).
Infine, a differenza di quanto sostiene Raisi, quei tre autonomi non “furono arrestati con Abu Saleh ad Ortona”. Abu Anzeh Saleh fu “fermato a Bologna una settimana dopo l’arresto degli autonomi” (pagina 25 del “Dossier strage di Bologna” scritto dagli amici di Raisi).
La vicenda è sufficientemente nota e chiara come quella connessa allo strumentale tentativo del generale Dalla Chiesa che, tanto per produrre un nuovo teorema accusatorio corollario del 7 aprile, fece pressioni su Saleh affinché dichiarasse che quei lanciamissili servivano ad Autonomia in Italia. Ciò detto, non risulta minimamente che il ventiquattrenne Mauro Di Vittorio avesse mai fatto parte del Collettivo del Policlinico in cui militavano i tre autonomi arrestati ad Ortona.
Dalle cronache dell’epoca si evince che era un giovane del Movimento di quegli anni. Al funerale venne salutato dai compagni e dalle femministe del suo quartiere, Tor Pignattara. Una scheda biografica è presente sul sito dell’associazione dei familiari delle vittime della strage di Bologna. Il tentativo di coinvolgerlo è dunque una volgare azione di sciacallaggio, in particolare se si tiene conto del fatto che la sorella di Di Vittorio fece passi significativi in favore della coppia Mambro-Fioravanti. Il livello di strumentalizzazione a questo punto raggiunge vertici di cinismo abissale.
Perché tutto questo? Pur di arrivare alla revisione del processo, i due ex militanti dei Nar insieme a Raisi sono disposti a gettare fango in ogni direzione, creando così ennesimi capri espiatori.

Quinto punto
Nel 1983, quasi un anno dopo il mio arresto, conobbi la detenuta Christa Margot Frolich tramite posta controllata dalla censura del carcere. Lei si trovava in cella con una mia coimputata, non parlava affatto bene la lingua italiana, non era mai stata una ballerina, non aveva figli e nel 1980 aveva 38 anni. In altre parole, Christa Margot Frolich non era per niente l’ex ballerina e donna madre tedesca che nell’agosto 1980 fu vista frequentare un albergo di Bologna e che, secondo i testimoni, conosceva alla perfezione la lingua italiana.
Lo stesso discorso vale per Kram. A parte le sue idee politiche antitetiche allo stragismo, un tipo come lui – secondo i documenti anagrafici ben conosciuti da teorici della “pista palestinese” come gli autori di “Dossier strage di Bologna” – non sarebbe certo passato inosservato nella stazione di Bologna del 2 agosto 1980 se avesse lasciato la valigia della strage nella sala d’attesa della seconda classe in cui scoppiò.
“Poco prima dell’esplosione — ha detto Rolando Mannocci alla figlia e al fratello accorsi al suo capezzale — ho notato due giovani aggirarsi nella sala. Li ho seguiti per un po’ con lo sguardo. Ho visto che hanno posato un qualche cosa, forse una valigia, proprio nell’angolo dove dieci minuti dopo è avvenuta l’esplosione. Non mi sono insospettito, non c’era alcun motivo perché lo dovessi essere. Erano due come tanti altri. Invece forse…». (La Stampa del 4 agosto 1980).
I giovani, per essere tali, debbono almeno avere un’età sotto i 30 anni. Per poi considerarli “come tanti altri” dovrebbero avere un’altezza media di circa 1 metro e 65 per le ragazze e di circa 1 metro e 75 per i ragazzi.
Tutto ciò significa, a rigor di logica, che Thomas Kram – alto quasi due metri e allora trentaduenne – non era certo uno dei “giovani” – “due come tanti altri” – visti da Rolando Mannocci all’interno della stazione di Bologna il 2 agosto 1980 mentre posavano qualcosa nell’angolo in cui avvenne l’esplosione.
Infine vorrei ricordare a Raisi che la legittima ricerca della verità completa sulla strage di Bologna, che persone come me hanno sempre appoggiato, è cosa diversa dall’avallare depistaggi che di fatto sono la continuazione dello stragismo con altri mezzi.

Link
Strage di Bologna, in arrivo un nuovo depistaggio. Enzo Raisi, Fli, tira in ballo una delle vittime nel disperato tentativo di puntellare la sgangherata pista palestinese
Stazione di Bologna, una strage di depistaggi
Il paradigma vittimario