Dare del fascista a un fascista non è reato, cosa ci insegna il caso Tombolini

L’incredibile condanna del fondatore di Momo edizioni. Il giovane militante della sinistra ha criticato il sindaco di un paese della Sabina che ha pubblicamente difeso la teoria razzista della sostituzione etnica, già cara a Hitler. Il risultato? Quattro mesi di galera con pena sospesa…

Paolo Persichetti, L’unità 15 settembre 2023

Mattia Tombolini accanto a Zerocalcare, Poggio Mirteto, 6 settembre 2023 a «Sei un paese meraviglioso, contro il nulla che avanza»

Diffondere idee razziste, ripescare concetti dal museo degli orrori del fascismo facendo in modo che questi contenuti non siano etichettati come tali e dunque delegittimati, è una strategia che la destra meloniana sta portando avanti da un po’ di tempo. L’egemonia culturale è una ossessione della destra di governo: conquistarla passa attraverso la dissimulazione del reale contenuto storico delle loro posizioni. Chiunque tenti di svelarne il gioco piuttosto scoperto e per nulla nuovo, basti pensare al doppiopetto almirantiano, all’agognata rispettabilità che avrebbe dovuto sottrarli dalla pattumiera della storia dove erano stati relegati a metà del secolo scorso, alla fine del secondo conflitto mondiale e della guerra civile, diventa un obiettivo da abbattere. Chiunque attribuisca il nome esatto alle idee da loro professate va portato in tribunale e possibilmente fatto condannare. Unico modo per far circolare incontrastate le loro posizioni, intimidendo la critica e la libertà di espressione a suon di sentenze e tribunali.
Il primo a farne le spese è stato Mattia Tombolini, giovane animatore di Momo edizioni, una casa editrice per ragazzi che sta agitando, con le sue pubblicazioni fresche, irriverenti e coraggiose, il panorama della editoria giovanile. Prima di entrare nel mondo dei libri Tombolini è stato un militante della sinistra estrema romana partecipando alla esperienza innovativa del centro sociale Alexis. Era l’obiettivo perfetto da prendere di mira.
Il 10 luglio scorso il tribunale penale di Rieti lo ha condannato a quattro mesi di carcere con pena sospesa (anche se la Cedu ha stabilito che non può più esservi sanzione penale, ovvero il carcere, per il reato di diffamazione) e un risarcimento dei danni alla parte querelante per aver dato del fascista e razzista a un esponente di Fratelli d’Italia, tale Marco Cossu, attualmente sindaco di Casperia, un paesino della Sabina.
Il 15 dicembre 2018 nel corso di un convegno sul fenomeno migratorio tenuto presso la biblioteca comunale “Peppino Impastato” di Poggio Mirteto, organizzato dal comune insieme alle associazioni che operano nel settore, Marco Cossu intervenne rilanciando le deliranti teorie della sostituzione etnica. La sortita dell’allora vicesindaco di Casperia suscitò reazioni nel pubblico che ascoltava, il tono razzista e complottista dell’esponente di Fratelli d’Italia venne recepito come una provocazione. Cossu a quel punto si dileguò rapidamente.
Un anno dopo sulle pagine di Fb sempre Cossu pubblicava una ode al catrame in un post che inneggiava ad alcune strade da poco asfaltate dalla sua amministrazione («Asfalto? A qualcuno (non) piace caldo») ripreso con accenti canzonatori da un altro esponente della sinistra locale e subito seguito da una lunga serie di commenti frizzanti nei quali l’esponente di Fratelli d’Italia veniva dai più largamente perculato. Il tutto avveniva in un contesto dove gli intervenuti si conoscevano e per questo si lanciavano liberamente lazzi e frizzi, un po’ alla Peppone e don Camillo. Anche Mattia Tombolini scrisse la sua qualificando Cossu come un fascista e razzista per le parole espresse durante il convegno dell’anno precedente.
L’aspetto sorprendente in questa vicenda, solo in apparenza di provincia, è il fatto che una querela tanto temeraria sia giunta in giudizio fino alla condanna di Tombolini il cui commento è stato trascelto proprio perché coglieva il nodo della questione, senza irridere e dare dell’ignorante a Cossu come invece altri avevano fatto. Durante il processo è stata largamente affrontata la matrice culturale di estrema destra delle teorie paranoiche e proteiformi della sostituzione etnica, rilanciata con forza nel 2014 da Renaud Camus con il suo Le Grand remplacement ma già presente in alcune pagine del Mein Kampft di Hitler, ripresa dai suprematisti bianchi autori di diversi massacri. La difesa di Tombolini ha ricordato lo sfoggio dell’ascia bipenne o del saluto romano di cui il querelante faceva tranquillamente mostra.
«Tutte cose da ragazzini», ha replicato Cossu che rivendica la sua maturazione, il percorso nelle istituzioni, la laurea in scienze politiche, l’esame sulla migrazione dato in facoltà. Ha studiato, è preparato, ha fatto i compitini e quindi anche se professa teorie razziste per lui non può valere la categoria cartesiana, penso dunque sono. Cossu pensa fascista e razzista senza esserlo. Tutte questioni che dovrebbero far parte di un libero dibattito politico-culturale privo di minacce e ipoteche giudiziarie. La magistratura avrebbe fatto bene a tenersi fuori da questa querelle, se è vero che chiunque può sentirsi quello che vuole come è anche vero che l’enunciazione di determinati concetti nello spazio pubblico, tanto più se si rivestono cariche istituzionali, non può esimere dalla possibilità di ricevere critiche. Se si affermano certe idee bisogna poi avere il coraggio di saperle difenderle senza ricorrere alla stampella giudiziaria. Un coraggio che evidentemente a Cossu manca.
Se ne riparlerà in appello davanti al tribunale di Roma distante dalle prossimità ambientali tra élites tipiche della provincia. Perché c’è un fatto singolare che colpisce in questa vicenda, ovvero il contesto consociativo. Il legale di Cossu è infatti un esponente del Pd, assessore al bilancio nella giunta di Poggio Mirteto. Una ruolo pubblico e politico da molti ritenuto in contrasto con la tutela legale fornita a Cossu. Cosa ne pensa il Pd nazionale? E’ normale che un suo amministratore tuteli un cliente, per altro svolgendo un ruolo persecutore e non difensore, che professa teorie razziste? Scambiare la libertà di razzismo per la libertà di espressione è la linea politica condivisa nel Pd? Sono in molti a chiederselo in queste ore in Sabina e non solo.

Autobiografia di un picchiatore fascista

Archivio – L’incredibile percorso di riscatto di un giovane fascista romano degli anni 50. Oltre ad essere un impressionante scandaglio antropologico del mondo dei «fasci», il volume è la testimonianza incredibile di un percorso di liberazione dal culto della sopraffazione, dai miti superomisti, razziali e nazionalisti verso un approdo libertario e marxista. L’esperienza umana, politica e culturale di Giulio Salierno ci insegna una verità poco di moda: quello che conta è il punto d’approdo, il percorso. Un tragitto laico privo di pietismo, di perdonismo, di pentitismo. Salierno supera il proprio passato attraverso l’esercizio della critica, una critica radicale. Strumento per nulla apprezzato oggi, anzi osteggiato, ritenuto pericolosamente sovversivo.
E se dunque la domanda giusta non è «da dove vieni» ma «dove vai», è su quel dove vai che dobbiamo soffermarci, perché non tutte le direzioni si equivalgono

Quella di Giulio Salierno è una storia fuori margine, come d’altronde recita il titolo di uno dei suoi libri, Fuori margine. Testimonianze di ladri, prostitute, rapinatori, camorristi, uscito nel 1971. Giovane fascista, fanatico e violento, cresciuto nella sezione del Movimento sociale italiano di Colle oppio, la formazione politica che raccolse nel dopoguerra i nostalgici del regime mussoliniano, Salierno è un destinato: brillante (giovanissimo ha già incarichi di responsabilità), determinato, interpreta con un fervore febbrile l’antropologia del revanscismo fascista dopo la sconfitta del 1945. Gli stralci della intervista che qui pubblichiamo, apparsa sull’Europeo e ripresi dall’Unità nel 1973, anticipano di pochi anni i contenuti di uno dei suoi volumi più importanti, Autobiografia di un picchiatore fascista, apparso nel 1976 per Einaudi. Vera e propria etnografia della destra romana, tra sezioni missine che non consideravano conclusa la guerra persa nel 1945, palestre di boxe come l’«Indomita» e la «Bertola», campi paramilitari, traffici di armi e esplosivi, attentati, agguati squadristi contro le sezioni comuniste di Garbatella e Cinecittà, violenza sadica, connivenze con apparati dello Stato travasati nella Repubblica direttamente dal ventennio, incontri con Pino Rauti, Julius Evola e Giorgio Almirante, segretario del partito neofascista fino al 1987, salvato da un’amnistia per il suo coinvolgimento nella latitanza in Spagna di Carlo Cicuttini, responsabile insieme a Vincenzo Vinciguerra della strage di Peteano. E una ossessione: uccidere Walter Audisio, il comandante partigiano, divenuto nel frattempo parlamentare comunista, responsabile della esecuzione di Benito Mussolini e Claretta Petacci. Fargli «un buco nella testa – scrive Sergio Luzzato nella nuova edizione pubblicata da minimum fax nel 2008 – con un foro di ingresso in cui si potesse infilare il dito mignolo e un’altro d’uscita in cui si potesse ficcare il pugno», era una idea che corrispondeva esattamente alla mentalità del neofascismo giovanile della Roma dei primi anni 50. «I ragazzi come Salierno» – spiega ancora Luzzato – sapevano come fare: «bastava appostarsi fra la Nomentana e la Salaria, caricare il fucile automatico e sparare contro l’onorevole Audisio. Bastava vendicare il Duce». Oltre ad essere un impressionante scandaglio antropologico del mondo dei «fasci», il volume è la testimonianza incredibile di un percorso di liberazione dal culto della sopraffazione, dai miti superomisti, razziali e nazionalisti verso un approdo libertario e marxista.
Coinvolto in un omicidio nel corso di una rapina finita male, nel 1953 Salierno deve fuggire assieme al suo complice dopo una lettera anonima fatta pervenire alla polizia da ambienti missini che volevano scaricarlo. Arrivato a Lione si arruola nella Legione straniera, ma una volta giunto in Algeria viene riconosciuto da un poliziotto italiano che era sulle sue tracce e arrestato. L’ingresso nel carcere di Sidi-Bel-Abbès, le condizioni bestiali di detenzione vissute in quel luogo, lo portano a conoscere la realtà dei prigionieri politici algerini che combattono per l’indipendenza tra sevizie e torture. Inizia qui il suo percorso di ripensamento. Solidarizza con i giovani militanti algerini e una volta estradato in Italia abiura il fascismo, scopre Gramsci e la letteratura marxista, studia sociologia tra mille difficoltà in un carcere che non riconosceva il diritto allo studio. E’ il primo detenuto del dopoguerra a laurearsi. Nel 1968 ottiene la grazia dal presidente della Repubblica Giuseppe Saragat per «motivi di studio». Collabora con Umberto Terracini e Franco Basaglia. Nel 1971 pubblica insieme ad Aldo Ricci, Il carcere in Italia, rimasto uno dei classici della saggistica sul tema. Gli istituti asilari (il carcere, i manicomi, gli ospedali, la scuola, la polizia e l’esercito), sono per Salierno uno specchio della società borghese. Alla domanda «Chi va in carcere e perché?», risponde che non a caso la condizione sociale, il grado di istruzione, la collocazione professionale, la provenienza geografica, la derivazione familiare, sono una sorta di condanna aprioristica e senza appello che la società «emette nei confronti delle classi subalterne, emarginandole nei ghetti della miseria e della degradazione culturale e morale ancor prima che negli istituti di pena». L’esperienza umana, politica e culturale di Giulio Salierno ci insegna una verità poco di moda: quello che conta è il punto d’approdo, il percorso. Un tragitto laico privo di pietismo, di perdonismo, di pentitismo. Salierno supera il proprio passato attraverso l’esercizio della critica, una critica radicale. Strumento per nulla apprezzato oggi, anzi osteggiato, ritenuto pericolosamente sovversivo.
E se dunque la domanda giusta non è «da dove vieni» ma «dove vai», è su quel dove vai che dobbiamo soffermarci, perché non tutte le direzioni si equivalgono.

l’Unità, venerdì 1 giugno 1973
«Imparavamo ad usare le armi sotto la guida di uno o due istruttori missini»

«Ero pieno di armi. Oltre cinque pistole, un fucile, numerose bombe a mano, avevo un Thompson calibro 45 che sparava quaranta colpi. Me l’’aveva dato un altro attivista. Gia allora tutti gli attivisti missini avevano armi». Sono frasi di Giulio Salierno rilasciate in una lunga intervista al settimanale L’Europeo. Oggi simpatizzante di un gruppo della cosiddetta sinistra extraparlamentare, Salierno a sedici anni e mezzo era già vicesegretario giovanile del Msi. A diciassette segretario giovanile e delegato al congresso come dirigente della «Giovane Italia». A diciassette e mezzo era commissario politico per cinque sezioni. A diciotto (nel 1953), venne scelto per ammazzare il compagno Walter Audisio, il leggendario colonnello «Valerio». Una carriera fulminea, costruita giorno per giorno nelle sezioni del partito neofascista e sopratutto nei campi paramilitari già allora organizzati per sovvertire l’ordinamento democratico della Repubblica. Su questi campi paramilitari, sull’addestramento alla violenza, sulla tecnica della provocazione, Salierno racconta vicende e tecniche, illustra i metodi organizzativi neofascisti, più volte denunciati dalle forze politiche democratiche – dal nostro Partito innanzi tutto – e di cui ha avuto occasione di occuparsi anche la magistratura. E’, quella riportata dal settimanale, un’ennesima importante testimonianza resa da chi ha personalmente vissuto una simile esperienza. «Imparavamo ad usare le armi in campagna – dice l’intervistato –, soprattutto durante la stagione di caccia. Non costituiva un problema: bastava smontare il fucile o la mitragliatrice e uscire da Roma. Io l’ho fatto una enormità di volte, e nessuno mi ha mai arrestato. Una volta per Capodanno ho perfino sparato in città, col mitra. Nessuno mi ha detto nulla. Altri si addestravano nei campeggi organizzati dal partito. Non che i campeggi fossero veri campi di addestramento militare. intendiamoci. Dal momento che si trovavano sotto la giurisdizione del partito, l’uso delle armi v’era ufficialmente proibito. Però c’era sempre un istruttore o due che portavano un mitra o un fucile o un paio di rivoltelle e così, oltre allo spirito guerresco, nei capeggi si assorbiva l’abitudine a usare il mitra, il fucile, la rivoltella. Non ci vedevamo nulla di male. Perché avremmo dovuto vederci qualcosa di male? Se consideri la violenza come tecnica politica, come ideologia politica, addirittura come filosofia, sparare ha lo stesso valore che fare a pugni. Insomma una bomba non i più una bomba, un attentato non è più un attentato, una strage non e più una strage».
Quando Salierno faceva queste cose, il Msi indossava il doppiopetto di Arturo Michelini. Almirante, il «massacratore di partigiani», era – all’interno del partito neofascista – «il teorico della linea dura». «E’ arduo dimostrare che una strage è stata voluta al vertice del Msi – dice ancora Salierno –. Magari è stata suggerita da un dirigente, si, ma prenderlo in castagna i quasi impossibile perché tra l’esecutore materiale e lui non c’è mai un filo diretto. Il filo è una catena dove ciascun anello e rappresentato da attivisti fidatissimi, cioè i duri, che costituiscono la struttura paramilitare all’interno del Msi. Non solo: l’attentato fascista dev’essere sempre fatto in modo da lasciare il dubbio che l’autore sia un rosso. Noi dicevamo addirittura che l’attentato perfetto è quello che si fa “teleguidando” il rosso: cioè inducendo il rosso a farlo lo per te. Per esempio attraverso un agente provocatore».
Le cose dette con tanta chiarezza da Salierno sembrano storia di questi giorni. Ricordano Piazza Fontana, gli attentati ai treni operai, l’attentato al direttissimo Torino-Roma, le bombe di Piazza Tricolore che uccisero l’agente Marino, la strage davanti alla Questura di Milano. Episodi tragici della trama nera, sui quali sta indagando al magistratura, per i quali sono stati chiamati in causa dirigenti nazionali del Msi. Nella stessa Intervista, come abbiamo accennato all’inizio, Giulio Salierno rivela un altro episodio gravissimo, sul quale è bene che la magistratura faccia piena luce aprendo un’inchiesta. «Ad un certo punto – dice Salierno – fu deciso di giustiziare Walter Audisio». Del progetto si era già parlato nel 1948 e venne ripreso nel 1953 «in seguito ad una osservazione del generalissimo Franco». «Un gruppo di dirigenti del Msi – continua l’intervistato – s’era recato in Spagna ed era stato ricevuto da Franco. Nel corso del colloquio Franco aveva chiesto: “Com’e che i fascisti italiani non hanno ancora eliminato Walter Audisio. detto colonnello Valerlo?”». E più avanti: «Per arrivare a ciò ci voleva una cosa sola: un giustiziere pronto ad uscire dal partito qualche mese prima e poi disposto a rivelare il suo nome dicendosi fiero del gesto. Il giustiziere prescelto fui io. Uscii dal partito, dunque, e immediatamente dopo ebbe inizio lo studio dell’attentato». II compagno «Valerio» fu pedinato dagli attivisti del Msi e fu deciso che sarebbe stato ucciso davanti casa. «Un piano perfetto – dice Salierno –. Mi ci preparai con lo scrupolo di un vero killer ed in pochi mesi fui pronto». […]

La cella di Gramsci

Archivio – Visita ai luoghi nei quali Gramsci trascorse la sua vita da recluso

Nonostante l’immunità parlamentare, l’otto novembre del 1926 Antonio Gramsci veniva fermato e arrestato insieme a tutti gli altri parlamentari del gruppo comunista. Tre giorni prima erano stati varati alcuni provvedimenti «per la sicurezza e la difesa dello Stato», ulteriore tappa delle norme «fascistissime» progressivamente approvate dal dicembre 1925 e che avevano dato forma allo Stato totalitario: sciolti tutti i partiti e le associazioni che si opponevano al regime; soppressi tutti i giornali d’opposizione; abolito il diritto di sciopero, istituito il confino di polizia per i dissidenti; introdotta la pena di morte per chi avesse attentato alla vita dei reali e del Duce; istituito il Tribunale speciale per la difesa dello Stato, lo stesso Mussolini assunse l’interim dell’Interno.
I comunisti si erano fatti trovare largamente impreparati di fronte alla svolta autoritaria tanto che alla fine del 1926 circa un terzo degli effettivi del partito erano in carcere. Condotto in un primo tempo nella prigione romana di Regina Coeli, Gramsci fu assegnato al confino di Ustica ma subito poi trasferito nel carcere di san Vittore a Milano per l’istruttoria. Nel maggio del 1928 fu condannato, nel corso del maxi processo al gruppo dirigente del Pcd’I, a una pena di reclusione poco superiore a vent’anni. Assegnato al carcere di Portolongone fu trasferito per ragioni di salute nella prigione di Turi, in Puglia. In seguito ai provvedimenti di amnistia e di condono per il decennale fascista, la sua condanna fu ridotta a 12 anni e 4 mesi. A causa di un aggravamento delle sue condizioni di salute, dopo diverse richieste nel 1933 viene trasferito in una clinica a Formia. Il 25 ottobre 1934 ottiene la libertà condizionale, che al contrario di oggi non prevedeva il «ravvedimento» da parte del detenuto. Nei mesi successivi si trasferisce a Roma, presso la clinica Quisisana, per un lungo periodo di degenza. Riacquisita la piena libertà nell’aprile 1937, muore il 27 dello stesso mese a causa di un’emorragia cerebrale.

Nessuno nel carcere di Turi dimenticherà il detenuto 7047

l’Unità 27 aprile 1950
Pagina 3
Domenico Zucaro

Turi aprile – Un po’ appartata e quasi isolata dai giardini pubblici se ne sta la casa penale di Turi, dove per più di cinque anni rimase «ristretto» Antonio Gramsci.

[…]

Indietro nel tempo
Sono passate le nove del mattino. E’ l’ora migliore per la visita. Due guardie carcerarie mi fanno entrare. Avverti la presenza di un qualche cosa che domina su tutta la vita di un penitenziario, dal momento che ti senti chiudere il grosso portone alle spalle. Allora non ti rimane che seguire i movimenti dell’agente-portinaio, numero uno, poi del secondo, di tutti gli altri infine. Entriamo cosi nel regno del «Regolamento». Sfoglio il grosso libro matricola. Giro le pagine e si va indietro nel tempo: a me interessa il numero 7047 che era quello di Antonio Gramsci durante la detenzione in questa casa penale.

[…]

Una dura odissea
Nello stesso imbarazzo mi sono trovato quando ho preso contatto con altre cose che riguardano direttamente Gramsci e sono ancora qui vive. Allora da tutto l’insieme ho avuto una nozione delle sue sofferenze, della condizione in cui per 5 anni e 4 mesi ha vissuto Gramsci in questo penitenziario.
Antonio Gramsci pare fosse stato assegnato in un primo tempo al penitenziario di Portolongone per scontare la pena di 20 anni e 4 mesi e 5 giorni di reclusione. Alla richiesta del pm Isgrò, secondo il quale il cervello di Gramsci per vent’anni non avrebbe dovuto funzionare, il Presidente del Tribunale Speciale, Generale Saporiti, aderì in pieno ed aggiunse una pena accessoria di L. 6.200 di mutui e 3 anni di vigilanza, come risulta dal foglio matricolare.
Invece, date le sue condizioni di salute, Gramsci ebbe per destinazione Turi. Così il 19 luglio 1928 insieme a due detenuti comuni lombardi, condannati per appropriazione indebita e falso, vi giunse dopo una traduzione durala più di 15 giorni.
Questo trattamento indiscriminato metteva Gramsci sullo stesso piano dei detenuti comuni mentre ai detenuti politici in condizione di salute precaria spettava la traduzione diretta. A Gramsci fu riservato sempre il trattamento peggiore nei suoi trasferimenti da un carcere all’altro: lunghe soste su binari morti, viaggi su carri bestiame in pieno inverno e cosi via. Soltanto nel trasferimento da Turi a Civitavecchia gli fu consentila la traduzione più comoda. Difatti sul foglio matricolare, il 19 Novembre 1933 è la data di trasferimento, e sti sa che fu preso in forza lo stesso giorno dalla Casa Penale di Civitavecchia. Allora Gramsci era già in condizioni di salute disperate.
Il carcere di Turi nella classificazione degli stabilimenti di pena viene considerato come casa di cura per detenuti infermi. Ma non vedo come possa in buona fede essere sostenuta una tale distinzione, non so se e sufficiente per questo una misera infermeria sprovvista quasi di ogni specie di attrezzatura e la presenza saltuaria di un medico.

Il compaesano di Gramsci
I detenuti politici avevano un cortile tutto per loro, diviso dai «comuni», a mezzo di un doppio muro, tra cui corre una specie di camminamento. Qui Gramsci veniva nelle ore stabilite dal regolamento e s’incontrava con gli altri compagni che allora erano una cinquantina. E forse anche lui aspettava ansioso «l’ora dell’aria», come sempre hanno fatto e fanno t detenuti. Di questi ce n’è ancora uno. E’ l’ergastolano Faedda che vedeva tutti i giorni Gramsci. Quest’uomo ora ha 73 anni ed è nativo di Bazanta, paese vicino ad Ales, luogo di nascita di Gramsci.
Faedda nel 1928 è stato lo scopino del Teatro dei «politici» – : cioè faceva pulizia nelle celle, portava il vitto giornaliero ai detenuti e così lasciava pacchi, libri, riviste, ccc. Mi dice che allora per questi servizi riceveva dall’Amministrazione 14 lire al mese. Ma tutti i «politici» gli regalavano sempre qualcosa in natura. Quando al mattino entrava nella cella di Gramsci lo trovava già al lavoro e spesso faceva con lui una chiacchierata in dialetto sardo. Se poi era di buon umore, ben volentieri Gramsci scherzava con lui – Mi batteva la mano sulla spalla e mi diceva: «Coraggio Faedda, presto andremo via da qui» – racconta Faedda – Non gli chiedevo nulla, ma lui mi regalava o una pagnotta di pane o del vino o del formaggio. Una volta mi diede due sigari.

I ricordi del secondino
La guardia scelta Vito Semerano – anche lui ha conosciuto Gramsci – presta servizio in questo penitenziario da 23 anni; attore faceva il turno nel braccio «politici», al primo piano. Forse Semerano è stato l’uomo che he avuto il maggior rispetto in questo luogo per Gramsci. E questa considerazione mi viene suggerita da un particolare che Semerano mi racconta.
Ci troviamo davanti alla porta della cella di Gramsci e lui mi parla delle sofferenze negli ultimi tempi di Gramsci per il suo stato grave di salute. Specialmente il sistema nervoso doveva essere molto scosso e non poteva dormire. So che per regolamento la luce nell’interno della cella deve rimanere sempre accesa durante lo notte.
– A una certa ora la spegnevo – mi dice Semerano. Era lui infatti di sorveglianza durante la notte; quando poi era di turno durante il giorno spesso entrava in cella e trovava Gramsci al tavolo di lavoro.

Attività instancabile
– Copiava sempre dai libri – mi dice – e mi chiederà i quaderni per scrivere. Quando ne aveva riempito uno, me lo consegnava ed io lo passavo al direttore. Una volta bollale le pagine, veniva depositato in magazzino. Gramsci preferiva depositare i suoi quaderni per evitare che nelle perquisizioni venissero sciupati. Qualche volta si faceva comprare dell’inchiostro fuori dal carcere perché migliore.
Chiedo, a Semerano quanti quaderni consumasse in un mese; lui ricorda che arrivava a portargliene anche una quindicina. Gli dico che adesso quei quaderni sono già usciti in parte stampati in diversi volumi e comprendono tutta l’opera che Gramsci ha scritto in questa cella. Semerano mi sorride e mi fa appena sentire la sua voce: – Avevo compreso che erano molto importanti! –. Semerano ricorda ancora che alla partenza da Turi furono riempite quattro casse di libri e manoscritti.
La lapide di marmo murata sulla facciata dei penitenziario serve soltanto per dare una nozione al pellegrino di passaggio, perché la maggior parte dei turesi ha nella memoria la propria immagine di Gramsci. Molti ricordano i tempi in cui Tania, cognata del recluso, aveva preso alloggio nel piccolo albergo Lauretta. Allora, per diverso tempo, e alle volte anche per più di un mese, mi dicono, la s’incontrava sovente nelle strade e alcuni osavano interrogarla con gli occhi, altri invece o le facevano visita o la invitavano a casa, perché Tania era sempre sola. Doveva essere anche vigilata dalla polizia, ma questo pericolo per i turesi contava fino a un certo punto di fronte ai doveri dell’ospitalità. – Non si poteva lasciare una donna sola nel dolore – mi dice qualcuno.
Forse allora nessuno di qui aveva mai visto Gramsci, eppure non si faceva die parlare di lui. Al centro di ogni commento stava il fatto importante dell’epoca; si tratta del rifiuto di Gramsci a inoltrare domanda di grazia.
Ma già da come aveva impostata e poi portata a conclusione la sua ragione di essere rapporto al mondo e agli uomini, Gramsci era entrato nell’immagine popolare con tutti i caratteri del simbolo: Maestro, Liberatore, Martire, e così è scritto anche sulla lapide di marmo all’ingresso.
Sulla lapide è scritto anche: – In questo carcere – visse in prigionia – Antonio Gramsci – Maestro Liberatore Martire – che ai carnefici stolti – annunciò la rovina – alla Patria morente –
la salvazione – al popolo lavoratole la vittoria».

Pavese racconta il mito americano

Archivi – Cesare Pavese spiega il «mito americano» in un articolo apparso sulla edizione piemontese dell’Unità del 3 agosto 1947

Paolo Persichetti, l’Unità 18 maggio 2023

Nell’immediato dopoguerra non esisteva una redazione centrale dell’Unità. Il 2 gennaio del 1945 apparve a Roma la prima edizione non clandestina per l’Italia meridionale liberata dai Angloamericani. Dopo il 25 aprile escono dalla clandestinità le altre redazioni settentrionali, l’edizione genovese, torinese e milanese. Sul numero dell’edizione piemontese del 28 aprile 1945, Ludovico Geymonat, redattore capo, scrive: «Il giornale è stato redatto nella notte, mentre infuriava l’ultima battaglia. In Torino liberata passiamo dalla nostra tipografia clandestina alla nuova sede, conservata dal valore dei combattenti che l’hanno strappata al nemico. Mentre in città gli ultimi criminali sono ridotti alla ragione, l’Unità, edizione piemontese, inizia una nuova vita». Solo nel 1957 si fondono le edizioni di Genova, Torino e Milano, dando vita ad un’unica redazione settentrionale ed è nel marzo del 1962 che vengono unificate le direzioni di Milano e Roma sotto la guida di Mario Alicata, con Aldo Tortorella responsabile dell’edizione settentrionale e Luigi Pintor di quella centro-meridionale.
L’edizione piemontese viene ricordata per il particolare prestigio dei suoi collaboratori, oltre a Geymonat, Andrea Ugolini che ne fu direttore, esule già direttore in Francia della Voce degli italiani, arrestato dalla Gestapo e scarcerato dopo la liberazione, Davide Lajolo, Ada Gobetti, Cesare Pavese, Italo Calvino, Elio Vittorini, Paolo Spriano, Raf Vallone e altri ancora.
Iscrittosi nell’aprile del 1945, dopo aver visto morire nella lotta antifascista i suoi amici Leone Ginzburg, Gaime Pintor e Gaspare Pajetta, Cesare Pavese inizia a collaborare con l’Unità. Nell’articolo che vi proponiamo ricostruisce il clima culturale che aveva dato vita al «mito americano», sorto negli anni del provincialismo asfissiante, autoreferenziale e autoritario del regime fascista. Il realismo vitale della letteratura americana, il linguaggio innovativo, l’uso dello slang, la lingua reale, apparivano un modello di anticonformismo, un antidoto a un’accademia controllata da un potere intriso di roboante retorica. Inevitabilmente tutto questo si era subito trasformato in una passione sovversiva che aveva permesso a una generazione di giovani intellettuali di sopravvivere e sognare il newdeal americano. Tuttavia negli ultimi anni della sua vita, prima del suicidio, che coincisero con la non facile militanza nel Pci trascinata dalle polemiche mosse dai cultori dello zadnovismo, iniziò a guardare la società e la cultura americana con grande disincanto. La cortina di ferro e l’avvio della Guerra fredda avevano mutato drasticamente il contesto, gli Stati Uniti apparivano ormai il centro della modernizzazione capitalistica e di pulsioni reazionarie, i grandi della letteratura americana brillavano ormai nel cielo dei classici, ma quella società non appariva più l’eden. Per Pavese la fine della grande cultura americana coincideva con la fine della lotta antifascista, poiché «senza un fascismo a cui opporsi, senza cioè un pensiero storicamente progressivo da incarnare, anche l’America, per quanti grattacieli e automobili e soldati produca, non sarà più all’avanguardia di nessuna cultura».

In giro per l’America
Cesare Pavese, l’Unità 3 agosto 1947

Verso il 1930, quando il fascismo cominciava a essere «la speranza del mondo», accadde ad alcuni giovani italiani di scoprire nei suoi libri l’America, una America pensosa e barbarica, felice e rissosa, dissoluta, feconda, greve di tutto il passato del mondo, e insieme giovane, innocente.
Per qualche anno questi giovani lessero tradussero e scrissero con una gioia di scoperta e di rivolta che indignò la cultura ufficiale, ma il successo fu tanto che costrinse il regime a tollerare, per salvare la faccia.

[…]

Per molta gente l’incontro con Caldwell, Steinbeck, Saroyan, e perfino col vecchio Lewis, aperse il primo spiraglio di libertà, il primo sospetto che non tutto nella cultura del mondo finisse coi fasci. Va da sé che, per chi seppe, la vera lezione fu più profonda. Chi non si limitò a sfogliare la dozzina o poco più di libri sorprendenti che uscirono oltreoceano in quegli anni ma scosse la pianta per farne cadere anche i frutti nascosti e la frugò intorno per scoprirne le radici, si capacitò presto che la ricchezza espressiva di quel popolo nasceva non tanto dalla vistosa ricerca di assunti sociali scandalosi e in fondo facili, ma da un’ispirazione severa e già antica di un secolo a costringere senza residui la vita quotidiana nella parola.

[…]

A questo punto la cultura americana divenne una sorta di grande laboratorio dove con altra libertà e altri mezzi si perseguiva lo stesso compito di creare un gusto uno stile un mondo moderni che, forse con minore immediatezza ma con altrettanta caparbia volontà, i migliori tra noi perseguivano.
Quella cultura ci apparve insomma un luogo ideale di lavoro e di ricerca, di sudata e combattuta ricerca, e non soltanto la Babele di clamorosa efficienza, di crudele ottimismo al neon che assordava e abbacinava gli ingenui e, condita di qualche romana ipocrisia, non sarebbe stata per dispiacere neanche ai provinciali gerarchi nostrani.
Ci si accorse, durante quegli anni di studio, che l’America non era un altro paese, un nuovo inizio della storia, ma soltanto il gigantesco teatro dove con maggiore franchezza che altrove veniva recitato il dramma di tutti. E se per un momento c’era apparso che valesse la pena di rinnegare noi stessi e il nostro passato per affidarci corpo e anima a quel libero mondo, ciò era stato per l’assurda e tragicomica situazione di morte civile in cui la storia ci aveva per il momento cacciati.
La cultura americana ci permise in quegli anni di vedere svolgersi come su uno schermo gigante il nostro stesso dramma. Ci mostrò una lotta accanita, consapevole, incessante, per dare un senso un nome un ordine alle nuove realtà e ai nuovi istinti della vita individuale e associata, per adeguare ad un mondo vertiginosamente trasformato gli antichi sensi e le antiche parole dell’uomo. Com’era naturale in tempi di ristagno politico, noi tutti ci limitammo allora a studiare come quegli intellettuali d’oltremare avessero espresso questo dramma, come fossero giunti a parlare questo linguaggio, a narrare, a cantare questa favola. Parteggiare nel dramma, nella favola, nel problema non potevamo apertamente, e così studiammo la cultura americana un po’ come si studiano i secoli del passato, i drammi elisabettiani o la poesia del dolce stil novo. Ora, il tempo è mutato e ogni cosa si può dirla, anzi è più o meno stata detta. E succede che passano gli anni e dall’America ci vengono più libri che una volta, ma noi oggi li apriamo e chiudiamo senza nessuna agitazione. Una volta anche un libro minore che venisse di là, anche un povero film, ci commoveva e poneva problemi vivaci, ci strappava un consenso. Siamo noi che invecchiamo o è bastata questa poca libertà per distaccarci ? Le conquiste espressive e narrative del ‘900 americano resteranno – un Lee Masters, un Anderson, un Hemingway, un Faulkner vivono ormai dentro il cielo dei classici, – ma quanto a noialtri nemmeno il digiuno degli anni di guerra è bastato a farci amare d’amore quel che di nuovo ora ci giunge di laggiù. Succede talvolta che leggiamo un libro vivo che ci scuote la fantasia e fa appello alla nostra coscienza, poi guardiamo la data: anteguerra. A esser sinceri insomma ci pare che la cultura americana abbia perduto il magistero, quel suo ingenuo e sagace furore che la metteva all’avanguardia del nostro mondo intellettuale. Né si può non notare che ciò coincide con la fine, o sospensione, della sua lotta antifascista.

CasaPound «un’associazione che vuole rilanciare il Fascismo». Il Gip di Roma ridimensiona l’informativa del Viminale

Archiviazione 1Il gip di Roma Vilma Passamonti scrive quello che la polizia di prevenzione nella sua infornativa sui “bravi ragazzi di CasaPound” aveva in tutti i modi evitato di dire. E lo fa nella maniera più oggettiva possibile, ovvero citando le stesse parole che le tartarughine di via Napoleone III  utilizzano sul loro sito per definire se stessi e i propri obiettivi: «l’associazione si propone di sviluppare in maniera organica un progetto e una struttura politica nuova, che proietti nel futuro il patrimonio ideale e umano che il Fascismo italiano ha costruito con immenso sacrificio». Il passaggio appena citato fa parte del provvedimento reso noto nel pomeriggio di oggi [ieri 5 febbraio 2016 ndr] con il quale il giudice ha archiviato la querela (la trovate qui) che Gianluca Iannone aveva presentato contro un mio articolo apparso su Liberazione dell’8 maggio 2010 (lo potete leggere qui). La denuncia puntava l’indice contro un passaggio del testo in cui riferiva delle «aggresioni, spedizioni punitive, iniziative contro i disabili, xenofobia e brindisi alla Shoà», compiute da esponenti di CasaPound. Episodi ritenuti da Iannone non veritieri e lesivi della onorabilità dell’associazione. Nel corso delle varie memorie depositate dalla parte querelante si invitava ripetutamente il magistrato a richiedere informazioni alla digos per avere chiarimenti sull’operato dell’organizzazione. Un singolare dimostrazione di fiducia o di chiromanzia verso le informative della polizia nonostante l’esistenza di centinaia di denunce e decine di arresti. Questa strategia dispiegata anche in altre cause alla fine ha sortito la richiesta del giudice del tribunale civile di Roma dove pendeva la denuncia dalla figlia di Erza Pound, da cui è scaturaita la nota informativa della polizia di prevenzione (la trovate qui) che tanto ha fatto discutere in questi giorni.
Nel provvedimento redatto il gip sostiene che nell’articolo messo sotto accusa non solo il diritto di cronaca è stato correttamente rispettato ma – aggiunge – che i fatti riportati sono veri: nello scritto «un nucleo essenziale di veridicità dei fatti… sussiste con certezza secondo quanto documentato anche da articoli giornalistici dell’epoca, attenendo dunque o trovando la propria fonte in fatti anche pubblicamente conosciuti». La querela è dunque senza fondamento.
Da rilevare come nel citare i singoli episodi che attestano le «aggresioni, spedizioni punitive, iniziative contro i disabili, xenofobia e brindisi alla Shoà», il magistrato indirettamente faccia emergere uno degli aspetti più sconcertanti della nota informativa della polizia di prevenzione, ovvero la mancata risposta ad alcuni «precisi questiti posti dal Tribunale civile di Roma» (come potete leggere più avanti nel testo integrale della risposta scritta alla interrogazione presentata da SI).
Oltre ai «dati conoscitivi sull’associazione» e «informazioni sull’articolazione della struttura organizzativa anche a livello periferico», dal Tribunale civile erano venute richieste di notizie «sull’eventuale diretto coinvolgimento del sodalizio in procedimenti penali o attività d’indagine, sfociate in denunce o rapporti informativi all’Autorità giudiziaria per fatti di violenza o per manifestazioni politiche non autorizzate, segnatamente di carattere antisemita e/o nazista».
Se le violenze e le aggresioni sono state esposte con una sintassi minimalista, per altro concentrandole all’interno delle tifoserie ultras e trovando per esse una pseudogiustificazione nella presenza dell’attivismo politico della parte avversa, senza dare notizia adeguata delle numerose indagini e decisioni di giustizia, sui comportamenti a carattere antisemita e/o nazista la nota ha taciuto ogni notizia. Spiega il ministero, prendendo con prudenza le distanze, che la nota in questione «non costituisce un documento di analisi o di valutazione sul movimento». E allora di che si tratta? Certamente di un testo pesantemente omissivo.

Di seguito potete leggere il dispostivo integrale del gip di Roma, la risposta scritta dal Viminale alla interrogazione parlamentare di SI, e subito dopo i link della documentazione presenti nella memoria difensiva redatta dall’avvocato Francesco Romeo

Archiviazione 1

Archiviazione 2 Archiviazione 3

La replica del ministero

Risposta ministero 1

Ministero 2

Link riportati nella memoria difensiva

http://roma.repubblica.it/dettaglio/casa-pound-slogan-choc-contro-i-disabili/1608090

http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2009/02/06/un-brindisi-all-olocausto-fanzine-choc-dei-neonazisti.html

http://iltirreno.gelocal.it/prato/cronaca/2011/04/23/news/consigliere-del-pdl-fa-l-elogio-di-hitler-1.2447259

http://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/napoli/notizie/politica/2011/23-aprile-2011/se-candidato-municipalita-fa-auguri-adolf-hitler-190497830024.shtml

http://www.tusciaweb.it/notizie/2009/settembre/24_5volantini.htm

http://www.tusciaweb.it/notizie/2009/settembre/25_3scritte.htm http://www.newtuscia.it/archivio/rassegna-stampa/2009/09/24/scritte-offensive-contro-larci-picchiarelli-e-ascanio-celestini-interviene-il-presidente-mazzoli.asp

http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2014/11/29/casapound-ferma-i-bimbi-rom-a-scuola15.html

http://www.romagnaoggi.it/cronaca/predappio-picchio-carabiniere-condannato-leader-della-destra-radicale.html

http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2012/07/15/la-vendetta-dei-fascisti-di-casa-pound.024la.html

http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2014/06/15/si-oppose-alla-perquisizione-a-processo-il-capo-di-casapoundRoma08.html

http://roma.corriere.it/roma/notizie/cronaca/12_luglio_9/zippo-casa-pound-condanna-201938275553.shtml

http://www.lettera43.it/attualita/36236/casa-pound-brinda-alla-morte-di-saviotti.htm

http://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/salerno/notizie/cronaca/2013/24-gennaio-2013/banda-armata-attentati-aggressioniarrestati-esponenti-estrema-destra-2113686177952.shtml

http://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/napoli/notizie/cronaca/2013/24-gennaio-2013/arrestati-estremisti-destrac-anche-figlia-florino-2113688177241.shtml

http://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/napoli/notizie/cronaca/2013/24-gennaio-2013/savuto-camere-gas-mai-esistite-ma-non-bisogna-dirlo-pubblicamente-2113693718121.shtml

http://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/napoli/notizie/cronaca/2013/26-gennaio-2013/frasi-odio-che-schifo-ebreo-la-kippah-2113721169342.shtml

http://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/napoli/notizie/politica/2013/29-gennaio-2013/inchiesta-casapound-napolitano-miserabile-paccottiglia-risposta-dura-2113757375301.shtml

Per saperne di più
Il documento shock del ministero dell’Interno, “Casapound solo bravi ragazzi“
La querela di Casapound, non siamo violenti, facciamo solo il bene del prossimo
Più case meno pound
Casapound non gradisce che si parli dei finanziamenti ricevuti dal comune di Roma
La destra romana, fascisti neo-ex-post, chiedono la chiusura di radio Onda rossa
Sbagliato andare a Casapound, andiamo nelle periferie

La querela di CasaPound, «Non siamo violenti. Facciamo solo il bene del prossimo» 1/continua

Querela Iannone 1Forse è il segnale che ormai il renzismo ha raggiunto davvero lo stadio dell’egemonia in questo Paese perché un po’ tutti, compresi i «fascisti del terzo millennio», come amano essere definiti i militanti dell’organizzzione politica di estrema destra CasaPound, vogliono apparire alla stregua di un club di giovani marmotte, un’associazione di volontariato che si occupa di sociale, di ambiente, di situazioni disagiate, animata da empatia per il prossimo, l’altro, il diverso. Insomma una panna montata di buoni sentimenti che fanno impallidire gli anni del veltronismo e sembrare un ricordo lontano i testi delle canzoni degli Zetazeroalfa, «nel dubbio mena e vedrai vivrai di più», oppure «primo mi sfilo la cinta; due: inizia la danza; tre: prendo la mira; quattro: cinghiamattanza» o ancora in Accademia della sassaiola una sorta di metafisica del sasso che infrange la vetrina, per non parlare dell’elogio dell’irruenza con cui si invita ad entrare a spinta nell’arena e nella vita senza mai dimenticare di portare con sè quell’«asso di bastoni calmiere d’arroganza che ridona umiltà». Tempi lontani, versi dimenticati, note musicali da cancellare. E sì, abbiamo tutti capito male, della lunga e noiosa lista di pestaggi, aggressioni fisiche, denunce e condanne non serve nemmeno parlare: i fascisti del terzo millennio erano solo un giniceo di educande, una sacrestia di chierichetti come dimostra la loro ansia attuale di essere accolti persino nel family day. E il programma di san Sepolcro? Il fascismo di sinistra antiborghese e laicista, il futurismo? Pura estetica comunicativa: al patto del Brancaccio stipulato con Salvini si deve sacrificare ogni cosa, pure l’anima che un tempo cantavano pura e incontaminata dalla politica del Palazzo. Ora nel Palazzo vogliono entraci veramente dalla porta principale, basta le adunate nel cortile del passato.

E’ questo il succo della querela per diffamazione a mezzo stampa (di cui potete leggere alcuni stralci sotto questo articolo) vecchia di 5 anni e mezzo, ma di cui ho avuto notifica pochi giorni fa, che CasaPound nella veste del signor Gianluca Iannone, ugola degli Zetazeroalfa e ristoratore romano, mi ha rivolto per un articolo da me scritto su Liberazione l’8 maggio 2010 (leggi qui).
Nel testo della denuncia l’avvocato, nonché militante di CasaPound Italia Domenico Di Tullio, individua la presenza di un profilo diffamatorio in un passaggio in cui si fa riferimento alla «lunga lista di aggresioni, spedizioni punitive, iniziative contro i disabili, xenofobia, brindisi alla Shoa». Tali «sconsiderate affermazioni – sostiene la parte querelante – non trovano alcun riscontro nella realtà ed hanno un evidente e grave effetto diffamatorio per la reputazione dell’associazione».
La querela è stata rigettata dal pm che ne ha chiesto l’archiviazione sostenendo che l’articolo attaccato era privo di animus diffamandi poiché «non involge profili di rilevanza penale in quanto trattasi di succinta analisi storico-politica […] ivi compresa qualche riflessione sui rapporti con l’apparato governativo di centro-destra allora in carica». Il Gip ha accolto la richiesta ed archiviato la denuncia senza notificare la decisione alla parte querelante. Il successivo ricorso, da questa avanzato in cassazione per difetto di notifica, ha riaperto la procedura che dopo una serie ulteriore di rimbalzi è finalmente arrivata davanti ad un nuovo gip che dovrà pronunciarsi sulla richiesta di archiviazione il prossimo 3 febbraio.
E’ nota la strategia delle querele a raffica da sempre messa in campo da CasaPound. Un po’ come Saviano (leggi qui). Chiunque osi parlare in modo non agiografico e apologetico della loro attività politica e non si presti a fare da cassa di risonanza della loro propaganda viene attaccato in sede giudiziaria (penale e civile) con un chiaro intento intimidatorio finalizzato a ridurre lo spazio di parola non gradito, elevando in questo modo il costo sociale di una discussione libera.
Concludo, per ora, sottolinenado come il senso di quel mio intervento, uscito di spalla a due articoli di cronaca sulla manifestazione nazionale del Blocco studentesco, anticipata nei giorni precedenti come una “marcia su Roma”, che rendevano la temperatura al suolo di quei giorni, aveva un significato politico molto chiaro. In redazione si era discusso sulla linea da tenere riguardo alla polemiche che l’annuncio magniloquente della manifestazione aveva suscitato. Erano emerse posizioni diverse che rappresentavano la divisione che si era aperta nella sinistra.
Personalmente, come si può leggere nel testo, sia pur breve, non condividevo (come mi è successo di scrivere anche in altre circostanze) la linea dell’antifascismo giustizialista che si appellava a questura, prefettura e magistratura per vietare la manifestazione (una posizione abbastanza contraddittoria se promossa da chi divieti e limitazioni del genere li subisce quotidianamente); ancora di più ritenevo una forma di grave ingenuità portata fino alla piaggeria, in altri casi addirittura una forma di connivenza,  l’appello di chi si era levato in difesa del diritto di manifestare, sposando la strategia vittimaria di CasaPound, confondendo in questo modo una organizzazione che aveva entrature nell’allora maggioranza di governo e che raccolse il sostegno di una trentina di deputati della destra, con la popolazione esclusa di un campo Rom.
Sarebbe interessante sapere se quegli stessi che firmarono l’appello allora hanno qualcosa da dire oggi!

Di seguito potete leggere la prima pagina della querela, subito dopo il testo dell’articolo presente su Insorgenze.net fin dal maggio 2008 (con un titolo scelto da me), e la versione cartacea dello stesso apparsa su Liberazione.

Querela Iannone 1

Più case meno Pound

Preceduto da polemiche e appelli contrapposti, finisce in un flop il raduno nazionale del Blocco studentesco patrocinato da CasaPound. Tanto rumore per nulla

Paolo Persichetti
Liberzione 8 maggio 2010


Quarantaquattro gatti in fila per sei col resto di due
. E’ finita proprio così, come recita la filastrocca che vinse lo zecchino d’oro nel 1968, il sit-in nazionale del Blocco studentesco, emanazione di CasaPound, che si è tenuto ieri a Roma. Poche centinaia di militanti raggruppati nell’angolo di una piazza troppo grande per loro. In giro nemmeno l’ombra delle migliaia che avrebbero dovuto marciare sulla Capitale, come preannunciato alla vigilia. Era dunque infondato, oltre che molto discutibile, l’allarme lanciato nei giorni scorsi dall’Anpi (per altro ritiratasi all’ultimo momento dopo aver acceso la miccia), ripreso da un folto gruppo d’intellettuali e personalità che chiedevano l’esclusione del Blocco studentesco dalle elezioni universitarie, dalle forze politiche di sinistra e dai Centri sociali che hanno dato vita ad un presidio di protesta, anche questo senza grande partecipazione. La forte opposizione della sinistra romana aveva spinto la Questura a vietare il corteo chiesto dai «fascisti del terzo millennio» e autorizzato in precedenza dalla Prefettura. Scelta molto “maliziosa” che ha accresciuto le polemiche e acceso i riflettori su una vicenda che con tutta probabilità sarebbe passata quasi inosservata. La sinistra si è divisa, Piero Sansonetti e Massimo Bordin hanno firmato un appello in difesa del diritto di manifestare per chiunque, dunque anche per chi si richiama apertamente ad una delle tante sfumature del fascismo, in questo caso quello del programma di san Sepolcro. Ma quelli di CasaPound non sono gli abitanti di un campo Rom, di tanta solidarietà non avevano gran bisogno perché nel frattempo era arrivato l’appoggio di un bel pezzo di maggioranza, 32 parlamentari del Pdl (molti dei quali finiani), e di due fedeli consiglieri capitolini del centrodestra, Ugo Cassone e Luca Gramazio. Ricevuti dal comprensivo sottosegretario agli Interni, Alfredo Mantovano, hanno ottenuto la possibilità di una manifestazione stanziale, conclusasi prima del previsto. Tuttavia l’accorta messa in scena disposta in piazza, l’assenza di vessilli e cimeli del fascismo storico, le bocche chiuse e la comunicazione affidata solo ai portaparola ufficiali, lo sfoggio di retorica giovanilista e vitalista con un target studentesco ben preciso, l’estetismo autocontemplativo, il «siamo belli come il sole», «17 anni tutta la vita», «giovinezza al potere» che rinviano ad una sorta di impoliticità ormonale, di onanismo ideologico, di acne militante, le canzoni di Rino Gaetano e Vasco Rossi, non cancellano la lunga lista di aggressioni, iniziative contro i disabili, xenofobia e brindisi alla Shoa. Contrariamente a quanto accadeva alla destra radicale non stragista degli anni 70, questa formazione non vive ai margini del sistema ma è la micropropagine ultima del blocco politico-sociale attualmente al governo. Il 20 marzo aveva suoi uomini tra i ranghi del servizio d’ordine della manifestazione che il Pdl ha tenuto in piazza san Giovanni. Dietro l’aria scapigliata e le imitazioni futuriste s’intravede la voglia di poltrone negli assessorati e le municipalizzate. In attesa appalta per conto del Pdl, dietro copertura politica e sostegno materiale, il tentativo di penetrazione nel sociale e nelle scuole e racimola fondi grazie alle delibere comunali e ai servizi d’attacchinaggio durante la campagna elettorale. Insomma quelli di CasaPound non sembrano proprio avere l’aspetto d’un gruppo di perseguitati, al contrario frequentano i salotti buoni, addirittura aspirano a diventare uno di questi. Finito il raduno e svuotata la piazza sul selciato disadorno è rimasta solo una domanda: c’era davvero così bisogno di sollevare tanto allarme?

Articolo 8 maggio

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Italiani brutta gente. Ritrovato a Rodi l’archivio segreto realizzato dai Carabinieri durante la dominazione coloniale nel Dodecaneso. 90 mila dossier per 130 mila abitanti

Dalla Cirenaica a Nassiriya le proiezioni italiane all’estero sono state sempre accompagnate dalla litania degli «italiani brava gente». La scoperta di un archivio dei Carabinieri Reali – Ufficio speciale (una sorta di Ros attuale) di stanza a Rodi durante la dominazione italiana dell’arcipelago del Dodecaneso, rimasto segreto fino ad oggi, porta l’ennesimo colpo a questa retorica del “colonialismo buono”. Un controllo capillare e oppressivo, un abitante su quattro schedato: erano queste le basi del consenso e le forme di civiltà che la “grande proletaria”, evocata da Pascoli, dispensava nelle sue colonie. Lo storico Marco Clementi, che ha contribuito a riportare alla luce queste carte segrete, ci racconta quel che ha potuto leggere fino ad ora

Marco Clementi
L’Huffington Post
  8 dicembre 2013

archivio dodecaneso italianoRodi, Gruppo Carabinieri Reali – Ufficio Centrale Speciale. Dietro questa sigla si nascose per più di dieci anni, dal 1932 fino alla fine della seconda guerra mondiale, l’ufficio politico italiano di pubblica sicurezza, che riuscì a mettere sotto controllo praticamente l’intero Dodecaneso.
Su una popolazione di 130.000 abitanti furono raccolti circa 90.000 dossier, conservati oggi in un archivio unico e per il momento non accessibile agli studiosi, ma che si spera in un paio d’anni potrà fornire materiale in grado di aiutare a rileggere la presenza italiana nel Dodecaneso (1912-1947) e offrire nuovi spunti per la comprensione del fascismo.
Eirini Toliou, la direttrice del locale Archivio di Stato che ha acquisito i fascicoli, sostiene che fu Mussolini a volere questo stretto controllo. Probabilmente, nonostante un governo non disprezzabile, l’Italia non era stata in grado di ottenere la piena fiducia dei dodecanesini. Il luogo, inoltre, meta turistica di prestigio, si prestava allo spionaggio di stranieri residenti o di passaggio, provenienti dal Levante o dall’Europa, alleati o possibili nemici.
Scheda del nominato: così era chiamata la cartella contenente cognome e nome della persona controllata, paternità e maternità, data e luogo di nascita e residenza. In basso il numero di pratica, ossia il dossier, con l’indicazione dell’anno in cui era stato creato. Da quel momento, tutte le successive informazioni venivano allegate nella cartella originale. Persone normali si è detto, come Nichitas Zavolas, nato a Pigadia il 15 marzo 1897, o Teorodo Costantinidi fu Costantino, medico condotto, sul quale il 17 febbraio 1939 i carabinieri scrivono: “In passato fu un fervente irredentista ed era tenuto in molta considerazione dalla popolazione per l’opera che svolgeva a favore dell’unione di queste Isole alla Grecia”. Da diversi anni però (siamo nel 1939) “si disinteressa di politica ed affianca le autorità italiane dando a vedere di essere un leale collaboratore […]. Non è di razza ebraica”.
Cambiano i tempi. Siamo dopo la promulgazione delle leggi razziali in Italia. A Rodi è governatore Cesare Maria de Vecchi conte di Val Cismon, uno dei quadrumviri della marcia su Roma. Moderato verso gli ebrei, mantiene il Collegio rabbinico ma deve comunque gestire il formale controllo razziale. Ai cittadini viene fornito un questionario dove specificare, cancellando con un tratto di penna le indicazioni che non interessano, se si appartiene alla razza ebraica (padre o madre), se si è iscritti alla comunità israelitica o se ne professi la religione.
Gli ebrei e gli irredentisti sono tenuti sotto controllo. Si capisce. Ma anche gli amici, come il maggiore della polizia tedesca Rodolfo Kaufmann, numero di protocollo 1229 categoria 2=10=15=1938, o il presidente della compagnia di bandiera “Ala Littoria”, Umberto Klinger, l’onorevole Klinger, che partecipò all’impresa di Fiume e durante la seconda guerra mondiale diresse il 114º Gruppo Autonomo di Bombardamento, protocollo 4950 categoria 2.11.1698-1937. Con lui, i passeggeri dei voli per Rodi, tutti regolarmente segnalati.
Poi i nemici, certo, come Kermeth Arthur Noel Anderson, maggiore comandante le truppe inglesi in Palestina, protocollo 6880 categ. 2.10.41=1933, o il deputato “irakiano” Yassin Taymore (167:1.1-102:1939) e la certissima “agente servizio informazioni cecoslovacco” Margaret Kis, agganciata nel 1936.
Scoppia la guerra e il Tribunale speciale per la difesa dello Stato, la cui giurisdizione non era stata estesa alle Isole Egee, diventa a Rodi il “Tribunale speciale per la difesa del Possedimento”, e condanna all’ergastolo Giorgio Chirmicali per aver “portato armi contro lo Stato italiano”. Prigioniero a Taranto, non può neanche ricevere un pacco dal padre Elias. Sono i Carabinieri dell’Ufficio Centrale Speciale a sconsigliarlo il 29 gennaio 1943, considerando il detenuto “non meritevole di alcuna agevolazione” a causa della gravità del crimine commesso.
L’epoca è complessa. Migliaia di ebrei fuggono dall’Europa, ma milioni restano. Alcuni vanno in Francia, altri negli Stati Uniti. Quelli cosiddetti “revisionisti”, convinti che la terra promessa sia la Palestina, si imbarcano come possono diretti verso Haifa. Le navi inglesi bloccano le rotte, affondano navi e carrette del mare entrano nelle acque del Dodecaneso, fanno naufragio. Il Possedimento accoglie i naufraghi. Alcuni ripartono subito, ma altri restano più a lungo, in improvvisati campi profughi. E sono messi sotto controllo. Nel frattempo l’Italia ha occupato la Grecia. I carabinieri collaborano con l’ufficio informazioni del Comando superiore delle Forze Armate dell’Egeo, si passano notizie e dati. Rosa Spiegel, di Bratislava, così come Eugene Reimann, non riceveranno mai alcune lettere inviate dalla loro città natale. Interviene la censura militare, blocca la corrispondenza, traduce e gira ai carabinieri, che aprono nuovi fascicoli. Sono decisi, fermi, ma alla fine trattano bene i profughi. Che nel 1942 vengono trasferiti in Italia, a Ferramonti, in Calabria, e il 16 settembre 1943 saranno i primi ebrei europei ad essere liberati dagli Alleati.
Qualche settimana fa lavoravo al “Titolario”, il vecchio indice dell’archivio amministrativo che fecero gli italiani nel 1942. Tra le tante voci, mi restava come sospesa la classe G del titolo IV: “tipografia, macchine tipografiche, gestione”. Una classe per la tipografia? Che senso ha, quando cose apparentemente più importanti come la costruzione di acquedotti o caserme sono una sottoclasse? Solo osservando le “schede del nominato”, ho capito l’importanza e la necessità di una voce separata dalle altre spese. La tipografia stampava le schede, a Rodi, in segreto. Gestire il potere, allora, osservare senza essere visti, significava avere anche il controllo totale di quelle macchine.

Dal blog dell’autore
Ansa med nel Dodecaneso
U
ntold story italian regime spied
Il Corriere della sera e cefalonia

Un fascista del terzo millennio

(Adnkronos) – Era un uomo dalla doppia vita il 50enne Gianluca Casseri, l’uomo che oggi ha ucciso due senegalesi, ferendone tre e suicidandosi durante un conflitto a fuoco con la polizia, a Firenze. Nato in provincia di Pistoia, Casseri faceva il ragioniere, ma allo stesso tempo era un appassionato scrittore con simpatie neonaziste, pagane, antisemite e razziste. Aveva fondato la rivista La Soglia, ed era membro dell’associazione culturale La Runa. Simpatizzava con CasaPound. Amava i fumetti e i film di fantascienza, e i libri di Lovecraft. Nel suo saggio «I protocolli del Savio di Alessandria» rilancia la teoria antisemita del complotto mondiale degli ebrei, e le tesi negazioniste sull’Olocausto. Tra le altre sue passioni letterarie, Nietzsche, Jung e Evola. Ha anche scritto un libro, La Chiave del Caos, in cui le solite tematiche negazioniste e razziste si intrecciano con esoterismo e magia.
Insomma un vero fascista del terzo millennio!

Link
L’Italia s’è destra
Destra il terrorismo dei lupi solitari le passioni tristi della crisi il massacro dei senegalesi di Firenze

Valerio Verbano a trent’anni dalla sua morte: amnistia in cambio di verità

Solo l’uscita dall’ipoteca penale può aiutare a scrivere finalmente quelle pagine bianche. Sarà poi la storia a dare il suo giudizio

Paolo Persichetti
Liberazione 14 febbraio 2010 (versione integrale)


Ad un certo punto del suo libro (scritto con Alesando Capponi, Sia folgorante la fine, Rizzoli 2010) Carla Verbano prende quasi per mano il lettore accompagnandolo lungo le strade che tracciano il quadrante nordest della Capitale. Un viaggio della memoria che si addentra per le vie dei quartieri Trieste, Salario, Nomentano, Montesacro, Talenti, Tufello, Val Melaina. La zona è tagliata in due dal ponte delle Valli che sul finire degli anni 70, come accadeva in molte altre strade o piazze d’Italia, «separava il bene dal male», segnava lo spartiacque politico tra i territori rossi e quelli neri. La “passeggiata” è costellata da tappe: marciapiedi, portoni, incroci, fermate d’autobus, bar, dove sono avvenuti scontri, attentati o sparatorie contro militanti di sinistra e di destra, giudici, poliziotti o persone ignare, uccise per sbaglio. Topologia di un conflitto, della sua parte più inutile, che ancora oggi la memoria ufficiale evita di nominare per quello che fu: una guerra civile strisciante. Senza contare i morti, ricorda la madre di Valerio Verbano: «Solo tra 1978 e 1979 tra Montesacro e Talenti ci sono stati 42 attentati dinamitardi a edifici, 87 aggressioni, 12 incendi ad automobili».
Il percorso che Carla Verbano propone, tenta di venire a capo della morte di suo figlio Valerio, diciannovenne militante dell’autonomia ucciso il 22 febbraio 1980. Dopo 30 anni i suoi assassini sono ancora senza volto. Un omicidio anomalo sul piano operativo, ma nel libro si ricorda un precedente, un ferimento realizzato da elementi dell’estrema destra avvenuto con le stesse caratteristiche ma dimenticato dalle indagini. Diversi sono i morti di quell’epoca rimasti senza responsabili: a cominciare da quelli commessi dalle forze dell’ordine, come Fabrizio Ceruso, ucciso il 5 settembre 1974 davanti ad un’occupazione di case a san Basilio, Pietro Bruno, morto nel 1975 nel corso di una manifestazione, Mario Salvi e Giorgiana Masi, entrambi colpiti alle spalle, il primo il 7 aprile 1976, la seconda il 12 maggio 1977. Nel pantheon della destra un posto particolare è riservato ai «martiri» che non hanno trovato esito giudiziario: Zicchieri, Cecchin, Mancia, Di Nella, i tre di Acca Larentia. A sinistra senza nome sono rimasti gli omicidi di Fausto Tinelli, Lorenzo Iannucci, Ivo Zini, uccisi tra il marzo e il settembre 1978. La lista ovviamente non pretende di essere esaustiva per nessuna delle parti.
A oltre trent’anni dai fatti, cosa è ancora possibile fare senza cadere nel culto cimiteriale della mistica vittimaria con cui, per esempio, la destra incensa i propri morti e che alcuni a sinistra tentano di imitare opponendo le proprie icone insanguinate in una sorta di guerra memoriale, prolungamento metaforico dello scontro con i fascisti degli anni 70? Questa costruzione postuma di un’identità vittimaria avvitata su se stessa, oltre a non essere rappresentativa del reale storico dell’epoca, ripropone in modo univoco e preponderante il paradigma antifascista come asse identitario e percorso prioritario dentro il quale ricostruire l’azione politica.
Forse c’è un solo percorso che può servire alla ricostruzione completa di quegli anni senza cadere nella trappola identitaria: un’amnistia. Solo l’uscita dall’ipoteca penale può aiutare a scrivere finalmente quelle pagine bianche. Sarà poi la storia che si occuperà di dare il suo giudizio.
La vera domanda è cosa sia la destra oggi e come combatterla. Pensare di riproporre analisi e modelli d’azione che ripescano il vecchio paradigma dell’antifascismo militante è quantomeno inadeguato, senza voler qui riaprire una vecchia querelle che pur merita di tornare ad essere affrontata. Già negli anni 70 sull’antifascismo militante come ideologia non vi era unanimità. Nato dall’impulso iniziale del Pci che tentò di convogliare sul pericolo neofascista la spinta dei movimenti sociali, venne fatto proprio da alcuni settori della nuova sinistra fino a divenire una sorta d’ideologia che esorbitava dalla questione concreta delle violenze fasciste. Considerata da altre realtà politiche della sinistra rivoluzionaria come un diversivo che “sopravvalutava contraddizioni secondarie o arretrate”, l’ideologia ipostatizzata dell’antifascismo in tutte le sue varianti era criticata perché conteneva in nuce derive democraticiste, legalitarie, giustizieriste, complottistiche che allontanavano dalla centralità del conflitto anticapitalista. Il dibattito sembra oggi riproporsi e come sempre la memoria ci parla del presente.

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Ucciso 31 anni fa da un commando dei Nar e poi dalle omissioni e le inadempienze della magistratura. Agli antipodi di Roberto Saviano. Valerio Verbano diceva ad una sua amica: «No, io non ci terrei proprio ad essere un eroe. Mi sembra proprio di buttar via la vita. Le cose le devi fare, ma devi riuscire ad ottenere qualcosa in cambio senza doverci mettere la tua vita»

Paolo Persichetti
Liberazione 20 febbraio 2011


Il 22 febbraio 1980 moriva a Roma Valerio Verbano, giovanissimo militante dell’autonomia operaia ucciso da un commando neofascista che l’attendeva all’interno della sua abitazione, nel quartiere di Montesacro, dopo aver immobilizzato i genitori. I Nar, Nuclei amati rivoluzionari, sigla “aperta” dello spontaneismo armato della destra estrema, rivendicarono l’azione fornendo alcuni riscontri inequivocabili. A 31 anni di distanza due corposi volumi tornano a scandagliare con cura quella vicenda rimasta senza una verità giudiziaria definita: Valerio Verbano, ucciso da chi, come e perché, di Valerio Lazzaretti, Odradek, 461 pagine, 25 euro; Valerio Verbano, una ferita ancora aperta. Passione e morte di un militante comunista, di Marco Capoccetti Boccia, Castelvecchi, 380 pagine, 19,50.
All’interno dell’area antagonista romana la memoria di Valerio Verbano, e della sua breve e intensa storia politica, si è tramandata con forza. Ogni anno l’anniversario della sua morte è scandito da un corteo che traversa le strade del suo quartiere e da numerose iniziative in suo ricordo. I due volumi appena usciti sono una testimonianza di questa memoria ancora incandescente. E’ questa una prima difficoltà per lo storico: districarsi da ciò che i portatori di memoria vogliono affermare nel presente. Due sono i temi caldi che appassionano l’evento memoriale rinnovato attorno alla figura di questo giovane militante comunista: l’identità sconosciuta degli autori dell’assassinio e la volontà di riaffermare la pratica dell’antifascismo militante in un periodo storico che vede diversi esponenti della destra armata degli anni 70, alcuni dei quali persino coinvolti nelle indagini per la sua morte, far parte a pieno titolo del ceto politico-istituzionale. Sia Lazzaretti che Capoccetti attraverso un certosino lavoro di controinchiesta e un’analisi impietosa delle indagini giudiziarie mostrano come gli autori dell’omicidio non siano da ricercare tanto lontano, contrariamente a quanto affermato da Sandro Provvisionato e Adalberto Baldoni in un’intervista apparsa sull’Espresso di qualche tempo fa. Secondo Provvisionato e Baldoni le morti di Verbano e poi quella del picchiatore missino Angelo Mancia, avvenuta poche settimane dopo ed anch’essa rimasta senza responsabili, sarebbero da addebitare ad una «entità» che avrebbe agito per elevare il livello di scontro politico tra aree estreme. Come se a Roma tra il 1979 e il 1980 ci fosse stato bisogno di imput del genere. Con la loro inchiesta Lazzaretti e Capoccetti ribadiscono la matrice neofascista dell’assassinio, come testimonia quella prima rivendicazione che per autocertificarsi riportò alcuni dettagli riservati conosciuti solo dagli autori del delitto. Il nucleo dei Nar che rivendicò l’episodio citava i comandi «Thor, Balder e Tir», mai comparsi successivamente. Verbano ingaggiò una lotta furibonda contro i suoi aggressori. La ricostruzione di quanto avvenne sulla scena del delitto fa pensare che egli riuscì a disarmare uno dei tre attentatori e stese a terra gli altri due. Il colpo mortale venne sparato alle sue spalle dal basso verso l’altro mentre stava cercando di raggiungere il balcone. L’omicidio fu probabilmente una forzatura che suscitò discussioni nell’area dello spontaneismo armato neofascista. Un successivo comunicato siglato Nar, poi si seppe scritto da Valerio Fioravanti, criticò l’azione. Arrestato il 20 aprile 79, Verbano venne scarcerato il 22 novembre dello stesso anno. Tre mesi dopo fu ucciso. L’arresto c’entra in qualche modo con la sua morte perché durante la perquisizione della sua stanza che ne seguì, oltre ad una pistola, la digos scoprì un corposo dossier composto da foto, nomi, indirizzi e schede sull’estrema destra romana. Si trattava di un lavoro di controinformazione che Valerio conduceva insieme ad altri compagni del collettivo che aveva messo in piedi. Uno schedario forse in parte ereditato da precedenti strutture politiche. Fatto sta che quel dossier una volta finito nell’ufficio corpi di reato del tribunale scomparve. In tribunale all’epoca lavorava un magistrato istruttore con molte relazioni, Antonio Alibrandi, padre di Alessandro, esponente di primo piano dei Nar morto tempo dopo in un conflitto a fuoco. Alibrandi padre, spiegavano le cronache dell’epoca, era una pedina di Giulio Andreotti per conto del quale aveva incriminato Paolo Baffi, allora direttore generale della Banca d’Italia, e arrestato nel marzo 1979, Mario Sarcinelli, suo vice. La vicenda del dossier e lo scontro di piazza Annibaliano con un gruppo di fascisti, nel quale Verbano aveva perso i documenti, avevano attirato su di lui l’attenzione trasformandolo in un obiettivo.
Convince meno, in questa battaglia per la memoria, l’idea che dai percorsi giudiziari possa scaturire dopo tanti decenni la verità. I due libri documentano la scandalosa condotta della magistratura, addirittura la distruzione dei corpi di reato lasciati dagli assassini, sottratti così alle nuove tecniche d’indagine. Un paradosso visto che l’omicidio è ormai un crimine imprescrittibile, ragion per cui reperti e corpi di reato dovrebbero essere conservati per sempre. Questo bisogno di un colpevole, richiesta umanamente comprensibile, rischia però di trasformarsi in un boomerang politico. Lo si è già visto con la richiesta della riapertura delle indagini, lo scorso anno. Alemanno aveva incontrato i dirigenti della procura. Si era parlato di 19 casi irrisolti, per poi alla fine assistere soltanto alla riapertura dell’inchiesta sul rogo di Primavalle, unico episodio ad avere una verità processuale accertata ma utile alla retorica vittimista della destra. L’unica strada è l’uscita dalle ipoteche penali accompagnata da una richiesta di trasparenza totale.
Il volume di Lazzaretti, grazie ad un’imponente documentazione archivistica, sgretola la narrazione vittimistica diffusa dalla destra negli ultimi anni. E’ impressionante la mole di aggressioni fasciste che avvenivano nella città di Roma. Quello di Capoccetti, ricavato da un ulteriore sviluppo della sua tesi universitaria, ricostruisce attraverso molte interviste il vissuto politico di Verbano, compresa la graduale maturazione di un suo dissenso con la strategia politica dei collettivi autonomi. I due libri tuttavia evitano di approfondire alcuni non detti confinati nelle pieghe della sua storia. Tra questi, per esempio, il nodo dell’antifascismo militante. Il dissenso contro lo «sparare nel mucchio» che aveva portato Verbano ad intervenire pubblicamente sulle frequenze di radio Onda rossa per criticare l’uccisione di Stefano Cecchetti, che non era fascista, colpito a caso davanti ad un bar frequentato da militanti di destra. Omicidio che per crassa ignoranza gli venne imputato dai suoi assassini nel volantino di rivendicazione. Esistevano all’epoca diverse interpretazioni dell’antifascismo militante, alcuni lo ritenevano tema centrale, altri una questione di retroguardia. Alcuni l’utilizzavano per frenare la spinta verso i gruppi armati (l’esatto contrario di quel che sostiene Guido Panvini in, Ordine Nero, guerriglia rossa, Einaudi 2009). C’erano poi idee diverse sul modo di condurlo. Insomma, da questo punto di vista certamente un’occasione persa.

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