Un intervento di Vincenzo Guagliardo sui presupposti della nuova filosofia penale: al vertice della pena tende a non esserci più la pena; il rapporto del reato con essa sparisce, al suo posto subentra il rapporto del suo autore con la presunta sicurezza della “vittima”. Il principio vittimario posto al centro delle nuove procedure giudiziarie mentre il premio interviene in sostituzione del diritto, la punizione per chi non merita il premio o non lo chiede
Vincenzo Guagliardo
settembre 2011
Il fallimento del sistema penale è sempre più evidente, ma al tempo si assiste all’impazzimento delle società in cui esso vive, nel senso che si ricorre all’esasperazione penalista per rimediare alla crisi che quella stessa esasperazione aveva già creato negli anni Ottanta. E, del resto, si può aggiungere che anche di fronte alla crisi economica si osserva la stessa cosa: i governi aiutano per esempio le banche che hanno creato il danno per… rimediarvi.
In Italia sono rimasti scandalosamente (e silenziosamente) in piedi i manicomi giudiziari, avendo la legge Basaglia del 1978 abolito solo i manicomi civili, e il numero dei pazzi reclusi persiste tranquillamente (1348 nel 2007, 1550 nel 2011). Ma anche gli ergastoli aumentano (1500 circa), insieme al numero dei detenuti in generale (68.000). Ma, ancora, con una novità: l’ergastolo “ostativo”, in base al quale molti ergastolani sono ormai esclusi da ogni beneficio penitenziario a priori e perciò condannati a morire in carcere detto “duro”, dopo lunga espiazione. A meno che… non ci si “penta”, non ci si trasformi cioè in delatori se si ha ancora qualcosa e qualcuno da vendere. Per tutti infine, l’ottenimento della libertà condizionale (o l’affidamento ai servizi sociali) viene subordinato a una richiesta di perdono del reo da rivolgere ai parenti delle vittime. È una prassi stabilita dai magistrati, non richiesta da alcuna legge, in cui è come se i giudici abdicassero al loro ruolo per rimettersi ai parenti delle vittime quali nuovi esecutori della pena al posto dello Stato. Naturalmente, attraverso questi meccanismi e altri le carceri vivono il cosiddetto “sovraffollamento”, eufemismo dietro al quale gran parte del carcere è uno strumento di tortura vera e propria, l’inferno dei corpi.
L’ultimo esempio, umiliante sia per i rei che per le vittime, segna un chiaro regresso civile alla vendetta personale. È perciò evidente che all’inferno dell’anima contribuisce alla grande l’impulso che, in un simile contesto sovraffollato-torturante dei corpi, ha potuto trovare il dispositivo di lealizzazione delle coscienze già in parte descritto in questo libro: il premio in sostituzione del diritto, la punizione per chi non merita il premio o non lo chiede (“trattamento differenziato”).
Possiamo anzi dire che la nuova logica penale descritta in questo libro ha invaso la società ridefinendola in ciò che Frank Furedi* chiama la “società terapeutica”. In essa, non si è più dei cittadini, ma neanche dei semplici regrediti alla precedente condizione di sudditi; forse, piuttosto, verso qualcosa di peggio: dei “pazienti”, ovvero dei “malati”, fragili persone che si rimettono alle mani pietose di quei nuovi confessori-medici che sono i magistrati e il loro sempre più cospicuo e variegato seguito di “esperti” della mente e del controllo sociale. Ma, i pazienti nel nostro caso sono tali – non dimentichiamolo – perché vittime di qualcosa e, più precisamente, di qualcuno. Il principio vittimario posto al centro delle nuove procedure giudiziarie sulla scia dell’esempio anglo-americano, è stato seguito con esemplare volontà avanguardista dall’Italia grazie al silenzio di verità o meglio alla straparlante esorcizzazione posta sull’aspro conflitto sociale (anche armato), avvenuto nel paese negli anni Settanta. Il principio vittimario giuridifica progressivamente ogni aspetto delle relazioni sociali, fette sempre maggiori della vita quotidiana perdono la loro autonomia e si cercano e trovano capri espiatori per l’altare vittimario.
Ed è proprio la sinistra europea ufficiale, bisogna dire, e non solo la destra neo-liberista, ad aver dato un’enorme spinta a questa deriva rivendicativa e vittimista verso la rinuncia dello stesso concetto di autonomia personale oltre che delle antiche e autonome regole degli spazi conviviali. Nuove “sindromi” prese dal linguaggio medico presentano fatti fino a ieri lasciati all’autoregolazione sociale come denunce di nuovi reati per fissare nuovi diritti e, inevitabilmente, nuovi reati volti a indicare dei colpevoli da consegnare alla punizione. Si pensi a quante leggi si vogliono oggi far nascere su gravidanza, parto e trauma post-parto invece di farne l’oggetto di pubblica attenzione di una coscienza sociale. Sotto al trionfo del principio vittimario, la base gigantesca del rito di caccia al capro espiatorio si afferma come l’unica vera religione dell’inconscio collettivo nella sua più pura espressione. Mentre lo dico, mi fumo quasi una sigaretta senza per questo denunciare chi produce il tabacco. (Ma un medico mi ha detto che uno come me, in un paese civile come l’Inghilterra, giustamente non verrebbe più curato). Ma c’è già chi riflette sui danni provocati dal vino…
Tutte le tortuose tecniche della cinquecentesca Inquisizione romana ritornano a galla seppure camuffate da un nuovo linguaggio “tecnico” per non confessare che ri-esistono a pieno regime i vecchi “tribunali della coscienza” (A. Prosperi**).
Per fare, tra i tanti possibili, un esempio ancora tratto fa Furedi, non possiamo stupirci se in Inghilterra un detenuto rimase ad espiare la pena più di altri perché ostinatosi a non riconoscere di essere una vittima, di avere cioè subito violenza dai genitori quando era piccolo e che per questo da grande aveva compiuto reati. Fino a una trentina di anni fa un comportamento del genere avrebbe potuto essere considerato dignitoso dal senso comune, a prescindere ovviamente da ogni altro giudizio sugli atti di quella persona. Ma oggi, nel nuovo contesto, ogni educatore (o psicologo, o psichiatra, o assistente sociale, o direttore eccetera) aggiornato ma ancora umano, un po’ illuminato, aperto, gli dovrà dire in modo… un po’ cinico: “Tu sei troppo moralista, lasciati andare un po’, sii più realista”. E vi garantisco che questo piccolo paradosso della morale odierna è successo più volte. E già qui si è tentati a concludere che non viviamo più soltanto un carcere criminogeno (prima tesi d’ogni abolizionista), ma un intero sistema di vita, anzi, una nuova Weltanshauung.
Per questa via il giudizio si stacca dalla pena e si concentra sul bisogno di “sicurezza” degli ex cittadini-nuove vittime, si allontana dal reato per concentrarsi sulla presunta pericolosità del suo autore: lo straniero, l’arabo, il mafioso, il terrorista, il tossico eccetera, ai posti che furono dell’ebreo, dell’eretico e della strega. In Italia per questa via delle definizioni a priori e astraenti dei soggetti pericolosi, il razzismo è diventato da tempo politica ufficiale delle istituzioni. Grazie a un governo di centrosinistra che, con una legge (la Turco-Napolitano) del 1998, costruì dei campi di concentramento per gli immigrati, chiamati eufemisticamente “Centri di permanenza temporanea” (CPT). L’eufemismo era anche un ossimoro: per giocare con le parole non sarebbe stato meglio chiamarli centri di temporaneità… permanente? Comunque sia il successivo governo di centro-destra di Berlusconi e dei razzisti della Lega Nord di Bossi fu meno ipocrita, confermò quella decisione e tolse almeno l’ambiguità linguistica spiegando quel che facevano concretamente questi campi: Centri di identificazione e espulsione (CIE). Campi di concentramento, insomma, grazie ai quali avendoti subito dichiarato clandestino appena entri nel paese, se ti becco ti espello, se non ti becco sarai un individuo ricattabile e ti faccio lavorare per una miseria finché mi va. E così i vari nuovi razzisti italiani si fanno una piccola fortuna con questi nuovi schiavi stranieri da affiancare ai nuovi servi inconsci ex cittadini nazionali alla ricerca dello status di vittime. Una prima conclusione si potrebbe così riassumere: il sistema vittimario-penale si inscrive come unica politica sociale riservata ai poveri che in vari modi vengono etichettati come pericolosi a priori, fino al punto di ricorrere al razzismo istituzionale dei CIE ex CPT.
Accanto a tutto ciò – non perdetevi nel labirinto della follia e ricordate quanto detto più sopra – c’è varia gente in galera da oltre trent’anni: i capri espiatori, appunto, per dare l’esempio. Perché, come dicono i francesi, tout se tient, ogni cosa è legata all’altra. Ma credo pure che questo trionfo della pena, neo-inquisitoriale e razzista, cominci a essere vagamente sentito e intuito fuori dalle carceri. Forse (: questa nota è piena di forse). Di recente (settembre 2011) in Italia, in una grande manifestazione sindacale si poteva leggere su uno striscione: “Ci volete servi, saremo ribelli” [corsivo mio]. In Spagna un movimento di precari e proletarizzati si dichiara indignado. Indignato è colui che si ritiene offeso nella sua dignità, che non vuole essere trattato da servo. Un tempo questa parola risultava generica e ambigua, era spesso usata a destra. Oggi può assumere un significato profondo, segnare – forse – un inizio epocale della non-collaborazione alla servitù volontaria.
Ma per capire meglio di cosa si tratta, è opportuno riparlare di quella piccola minoranza reclusa nei manicomi giudiziari. Lì, ci dice l’ipocrisia odierna, c’è un pazzo che, in quanto tale, non merita una pena; ma è necessario, per motivi di “sicurezza” tenerlo chiuso a data indefinita, di proroga in proroga, appunto perché è pazzo. E così la sua pena indefinita (perché non è una pena) può diventare infinita perché sempre rinnovata come permanenza… temporanea. Mi sembra che tutta la giustizia penale aspiri ad allargare l’orizzonte in questo senso, oltre se stessa, verso questo inferno indicibile, come seconda faccia della medaglia del “siamo tutti vittime” della nuova servitù volontaria. Ripetiamoci: al vertice della pena tende a non esserci più la pena; il rapporto del reato con essa sparisce, al suo posto subentra il rapporto del suo autore con la presunta sicurezza della “vittima”. Ma far stare in carcere o in manicomio o in un CIE per quel che si è invece che per quello che si fa, significa aver adottato il primo passo di una logica da lager.
Essere abolizionista è semplicemente essere convinti della irriformabilità del sistema penale. Non può essere estremista sul piano politico perché vuole fare tutto ciò che è possibile nel presente per avere meno carcere e tribunali di coscienza. L’abolizionismo è perciò estremista sul piano culturale perché per attuarsi deve richiedere un cambiamento di mentalità, una messa in discussione di sé stessi, uno sguardo diverso dalla miopia della servitù volontaria: a partire dal rifiuto dell’antichissimo rito del capro espiatorio su cui si fonda la nostra civiltà, che tutti ci acceca in un cammino suicida.
La speranza è tutto ciò che non si fonda sul calcolo, diceva lo storico olandese Huizinga (morto in un lager nazista), e i calcoli creano non pochi disastri e illusioni, ci dice la crisi attuale.
Note
* Frank Furedi, Therapeutic culture. Cultivating vulnerability in an uncertain age, 2004 [trad. it. Il nuovo conformismo. Troppa psicologia nella vita quotidiana, Feltrinelli, Milano 2005].
** Adriano Prosperi, Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari, Einaudi, Torino 2009.
Link
Populismo penale
Il paradigma vittimario
Cronache carcerarie
La polizia del pensiero – Alain Brossat
Kafka e il magistrato di sorveglianza di Viterbo
Temporaneità permanente e precarietà perenne: non è questa la società per cui avevamo lottato, ma toccato il fondo si può forse cominciare a risalire, a partire da una maggiore consapevolezza delle nuove generazioni. Grande rispetto per chi rifiuta l’ipocrisia del “pentimento” ufficiale.
Completamente d’accordo con la annotazione del come sempre lucidissimo Guagliardo. Aggiungo che, come si è visto anche nel recente “caso Battisti”, si tende a fare una certa voluta “confusione” tra i ben diversi concetti di legalità e di “vendetta”, confusione che finisce col sembrare un pò ipocrita quando viene fatta da soggetti diversi dalle vittime (da cui ovviamente non possiamo pretendere “oggettività”) e quindi estranei al lutto. Nel “caso Battisti” non è affatto vero, come si è voluto da più parti far credere, che non sia stata fatta giustizia e che si debba reclamare un diritto anche per le vittime. I delitti rivendicati dai PAC furono infatti tutti giudicati ed accertati in vari processi (anche se con le modalità discutibili di quei tempi) e tutti i ritenuti responsabili (alcuni rei confessi) condannati in modo defintivo più di 20 anni fa, quindi GIustizia venne fatta già allora, e a differenza, tanto per dire, che per ben altre vicende delittuose “nostrane” di quegli anni di cui tuttora si ignorano autori e correi. Il volere a tutti i costi che a distanza di 30 e passa anni venga oggi eseguita in Italia una vecchissima sentenza di ergastolo a carico dell’unico che nel 1981 riuscì ad evadere abbandonando l’Italia senza più farvi ivi ritorno, non è più una esigenza di giustizia o di legalità o anche solo di esigenza di accertamento per le vittime, ma mera istintualità “retributiva”. Che lo reclamino le vittime di un dolore per loro ovviamente imprescrittibile è più che umano, ma che i vari soloni si riparino dietro asseriti concetti astratti e di principio quali esigenza di giustizia o certezza dei diritti mi pare, lo ribadisco, una vera ipocirisia fatta solo per non dire più smaccatamente che chi è fuggito deve prima o poi pagarla cara anche quando quel “poi” non c’entra davvero più niente con quel…”prima”.