Ma gli anni 70 non furono solo di piombo

Il dibattito – «E’ possibile una discussione depoliticizzata su un tema così politico?», si chiede la filosofa Donatella Di Cesare. Una domanda che centra il vero cuore del problema. Si può ridurre il conflitto sviluppatosi negli anni 70 ad una aggressione realizzata da parte di un gruppo di privati cittadini, i carnefici, contro altri privati cittadini, le vittime? Come se il conflitto di quel decennio – distinguendosi da tutti i precedenti storici – abbia investitito la sfera privata e non quella pubblica. Una operazione di depoliticizzazione possibile anche perché la sfera politica si è indebolta, in modo particolare i rappresentatnti di quelle forze che furono protagoniste nello scontro dell’epoca e vennero spazzate via poco dopo dalla tempesta giustizialista di mani pulite. In questo modo lo Stato e le gerarchie economiche evaporano dietro la figura strumentalizzata della vittima

Donatella Di Cesare, La Stampa 6 maggio 2021

Difronte al dolore delle vittime, alla loro angoscia profonda, alla faticosa elaborazione del lutto, non si può fare altro che tacere prestando ascolto alle loro parole. E’ quello che è avvenuto a molti, anzi moltissimi, leggendo il dialogo tra Gemma Calabresi, vedova del commissario ucciso, e il figlio Mario, pubblicato qualche giorno dopo gli arresti in Francia. Impossibile non provare solo compassione, nel senso più alto di questa parola, ma anche rispetto per la grande dignità che affiora tra le righe. Ecco perché quell’intervista inconsueta, quello scambio privato e familiare che si fa giustamente pubblico, dato che contiene una parte di storia comune, è sembrata un punto fermo. Non sono mancate voci politiche che l’hanno considerata tale, invitando tutti a «leggere e rileggere» una pagina così significativa. Intervenire dopo – nonostante quell’intervista – è perciò molto difficile.
Si può farlo solo superando dubbi ed esitazioni. Sembra tuttavia necessario farlo, e per diversi aspetti. Anzitutto il dibattito pubblico, se deve essere tale, non può chiudersi, neppure temporaneamente, e deve proseguire.
Uno dei grandi problemi posti dalla testimonianza della vittima è proprio la possibilità che il peso incommensurabile delle sue parole finisca per interdire ogni domanda, per frenare o trattenere ogni questione. L’effetto di questa immensa legittimità no sarebbe però conciliabile con la democrazia che è discussione aperta e matte, anzi richiede, posizioni discordanti.
Ma c’è di più. La testimonianza in prima persona di chi ha subito un trauma personale, che si intreccia con quello dell’intero Paese, rischia di far saltare i limiti tra sfera privata e sfera pubblica, tra sfera giuridica e sfera politica. Soprattutto l’emozione finisce per prevalere. Ciò è merso chiaramente non solo negli interventi sulla stampa, ma anche in particolare nei programmi radiofonici e nei talk show televisivi. Sennonché l’emozione, oltre a squilibrare il dibattito, lo depoliticizza.
Credo che proprio questo sia avvenuto negli ultimi giorni. La carica emotiva ha prevalso – a parte qualche voce dissonante, limitata, però, alla questione giuridica e al diritto negato. C’è da chiedersi, dunque se sia questo il modo per affrontare il capitolo forse più complesso e impegnativo di questa repubblica. E’ possibile una discussione depoliticizzata su un tema così politico? Anche certo toni complottistici, il rinvio a una misteriosa verità su cui tutto si incentrerebbe, non aiutano. Certo, ci sono sempre «verità mancanti». Ma nel frattempo è lecito chiedersi quando finalmente sarà possibile affrontare con razionalità e pacatezza, soprattutto con un’analisi politica, quel che è avvenuto negli anni Settanta.
Ho sempre avuto molte difficoltà con l’etichetta «anni di piombo», così riduttiva e, a suo modo, così sbrigativa. E il femminismo? I diritti civili? L’internazionalismo? E tutte le grandi lotte di quell’epoca? Per me che l’ho vissuta in prima persona, come per molti della mia generazione – quella di quanti avevano allora vent’anni (non i sessantottini!) – è impossibile riconoscersi in quella definizione plumbea e lapidaria. E ci si sente inevitabilmente estraniati, lontani dalla narrazione che prevale. Le cose non tornano. C’è stata in Italia, a sinistra, una grande rivolta – la più importante e diffusa nel contesto occidentale del dopoguerra – che proseguiva quella del ’68, ma che era anche molto diversa, sotto ogni aspetto più radicale. In alcune aree ha assunto la forma di lotta armata. Condannare la violenza è necessario. Ma chiediamoci perché è avvenuta la rivolta degli anni Settanta, quella «breccia» su cui già da tempo il pensiero filosofico riflette. E interroghiamoci sugli effetti che durano ancor oggi e sono evidenti. Ad esempio in alcune metamorfosi della sinistra di governo che, condannando in toto quel movimento, si è privata anche di idee e prospettive che forse potrebbero oggi essere decisive. Sono convinta che, a differenza di quel che si dice, i giovani siano molto interessati e lo dimostrano in più occasioni.
Con arresti postumi nonni sanano le ferite. Anzi, si riaprono nella forma peggiore. Intorno a questa storia recente l’Italia non ha ancora costruito una comunità interpretativa che, pur nel rispetto delle differenze, è invece indispensabile.

Foibe, le vittime forti cancellano quelle deboli

Con la proclamazione della giornate in ricordo delle foibe e delle vittime del terrorismo il conflitto tra storia e memoria ha raggiunto un punto estremo. Il sopravanzare della seconda sulla prima, la costruzione di una memoria pubblica, anzi di Stato, nonostante per definizione essa non può che essere singolare, parziale e soggettiva, ha visto emergere una nuova figura di testimone, fuoriuscita dal processo di selezione che la figura del testimone ha subito, al punto da lasciare sullo sfondo tutti gli altri attori della storia a vantaggio di uno solo di essi, divenuto l’unico testimone legittimo, sancito per legge, il testimone che assume la postura sofferente: la vittima. Non tutte le vittime però, ma solo quelle che si vedono riconosciuto l’accesso a questo status, la vittima forte che cancella quelle deboli

7150UK099HL«In primo luogo la memoria, l’ossesione della memoria. Il dovere, addirittura, della memoria, un termine che nel nostro spirito pubblico aspira a spodestare, come ha notato Enzo Traverso, il suo gemello/antagonista storia. Rispetto alla storia, la memoria è soggettiva, intima, vissuta, non negoziabile, autentica se non vera a prescindere: assoluta proprio perché relativa. Configura un rapporto col passato di tipo inevitabilmente proprietario: il mio, il nostro passato.
La memoria non si scrive senza pronomi e aggettivi personali. Al suo centro, il testimone; e testimone per eccellenza è oggi chi reca iscritto in sé, nel corpo prima ancora che nella mente, il peso dei processi da cui è stato affetto: la vittima, dunque. Vera protagonista del passato è la soggettività sofferente, cui le istituzioni attribuiscono volentieri il crisma dell’eticità di Stato, istituendola a oggetto di celebrazione pubblica avente forza di legge: il “Giorno della Memoria” (27 gennaio, commemorazione delle vittime della Shoah); il “Giorno del Ricordo” (10 febbraio, in onore delle vittime delle foibe); la “Giornata della Memoria e dell’Impegno in ricordo delle vittime delle mafie” (21 marzo); il “Giorno della Memoria dedicato alle vittime del terrorismo interno e internazionale, e delle stragi di tale matrice” (9 maggio, anniversario dell’omicidio Moro).
Sinistro cortocircuito, che isola gli eventi dalla catena del loro accadere, li ipostatizza in valori invece di spiegarli come fatti, e in tal modo invalida anche il proposito di elevarli a monito perché ciò che è accaduto non accada di nuovo: non chi non ricorda, ma chi non capisce il passato è condannato a ripeterlo».

Pagine 16-17

Ulteriori letture sull’argomento

Il paradigma vittimario

Quel sorriso che li seppellirà

DoinaDopo nove anni passati all’interno di uno spazio recluso fatto di cemento e acciaio un corpo che torna ad avere dei momenti di libertà risente emozioni intense. Poter nuovamente camminare a piedi nudi sull’erba, sentire sulla propria pelle le carezze della sabbia, guardare l’orizzonte fino a quella linea che si confonde con il cielo, sentire la brezza del vento che arriva dal mare, provoca una gioia profonda, brividi e commozione. E lì che ti accorgi che le cose più belle sono quelle più semplici, come il contatto diretto con gli elementi della natura. C’era questa gioia nel sorriso di Doina Matei ritratto nella foto che gli è stata rubata sul suo profilo facebook. Un momento di felicità che è proprio della nostra specie vivente: qualsiasi essere umano avrebbe sorriso dopo anni di cattività. Lo fanno tutti gli altri mammiferi: avete mai visto immagini di animali rimessi in libertà dopo anni di prigionia in recinti o stalle? Corrono e giocano scalciando in preda ad una euforia incontenibile. Questa qualità della nostra specie è stata rimproverata a Doina Matei. La sua colpa? Essersi dimostrata umana sorridendo di fronte al mare. Chi lo ha fatto evidentemente umano non è, ma non può essere nemmeno considerato una bestia, anche loro avrebbero gioito. E poiché anche il modo vegetale reagisce agli elementi della natura, a questi moralisti da strapazzo non resta altro che condividere la coscienza minerale di un fossile.

La vicenda giudiziaria di Doina Matei è partita male fin dall’inizio. 16 anni di reclusione per un omicidio preterintenzionale è una sanzione abnorme, pari al doppio di quelle più alte comminante per questo tipo di reato. Pene del genere vengono attribuite per omicidi volontari le cui circostanze portano i giudici ad applicare solo il minimo della sanzione prevista con il riconoscimento delle attenuanti o il ricorso al rito abbreviato. A Doina invece sono state applicate solo aggravanti in un contesto di allarme politico, dove il tema della immigrazione veniva sovrapposto a quello della sicurezza urbana avviando le prime campagne d’odio razzista. L’episodio tragico e banale al tempo stesso scaturisce da un litigio dentro un vagone della metropolitana a causa della calca. Una serie di spinte scatena un alterco con un’altra ragazza, Vanessa Russo, di poco più grande. Scrivono alcune cronache dell’epoca che sarebbe volato anche un sonoro ceffone, forse preso da Doina fisicamente più gracile, che reagisce con un gesto inconsulto. Quel giorno minacciava di piovere e la giovanissima rumena, già madre di due bambini e che viveva prostituendosi, aveva portato con sé l’ombrello: prima tragica fatalità. Doina lo impugna nella parte alta dell’asta e con un gesto dal basso verso l’alto raggiunge al volto l’altra ragazza. La punta dell’ombrello entra nell’occhio e va in profondità tranciando l’aorta. Vanessa morirà di emorragia. Doina, che era in compagnia di una sua amica minorenne, si allontana nella confusione della folla, probabilmente inconsapevole delle conseguenze mortali di quel colpo. D’altronde a riprovarci altre cento volte difficilmente sarebbe riuscita a raggiungere ancora quel punto. Il suo volto, rimasto impresso nelle telecamere interne della metro, permetterà agli inquirenti di rintracciarla ed arrestarla rapidamente.
Nonostante le circostanze che hanno portato alla morte di Vanessa Russo siano frutto di una maledetta catena sfortunata di eventi, Doina viene incriminata fin da subito per omicidio volontario. Alla fine il giudice riconosce la natura preterintenzionale dell’omicidio ma infligge una condanna molto pesante. Un compromesso che salva il processo dalla cassazione.
Che si tratti di un giudizio sommario nel quale Doina è stata inchiodata a recitare la parte del mostro, lo prova un altro episodio accaduto sempre a Roma tre anni più tardi: un giovane, stavolta romano, dopo un litigio ai tornelli all’interno della metropolitana di Anagnina colpisce con un pugno una infermiera di nazionalità rumena, Maricica Hahaianu, madre di un bambino. Dopo un coma di una settimana la donna muore. Nonostante il ragazzo abbia tentato immediatamente la fuga (verrà bloccato da un testimone) si vedrà riconoscere le attenuanti generiche (era incensurato) ed una condanna sostanziosa ad 8 anni. Dopo averne scontati 4, e maturati 5 per la buona condotta, rientra legittimamente nei termini di legge per l’affidamento in prova che ottiene senza suscitare polemiche da parte dei moralisti a geometria variabile.
Una disparità di trattamento che trova spiegazione solo nella logica discriminatoria che ha subito Doina Matei, a causa delle sue origini e della sua condizione sociale di giovane sbandata.

C’è una ulteriore circostanza che è passata inosservata in questi giorni. Una volta diffusa la notizia sulla semilibertà ottenuta da Doina, dopo ben oltre la metà della pena (9 anni scontati ed 11 maturati con la buona condotta), qualcuno ha ossessivamente iniziato la caccia sul web per trovare tracce della giovane donna fino a rubare la foto postata sul suo profilo fb. Immagine poi finita su un quotidiano romano che ha scatenato la polemica. E’ lecito che una immagine privata sia stata rubata e pubblicata su un giornale? E le ingiurie e le minacce ricevute da Doina sulla sua bacheca non sono un reato come prescrive il codice penale? Non solo Doina non è stata tutelata, come avrebbe avuto diritto, ma è stata penalizzata con la sospensione della semilibertà decisa da un giudice di sorveglianza che – sembra – gli ha rimproverato di frequentare i social network esponendosi mediaticamente. Divieto fino ad oggi inesistente nei trattamenti (una specie di contratto) che si firmano all’avvio della semilibertà. Alcune Direzioni carcerarie in passato vietavano o limitavano l’uso dei portatili per i semiliberi, fin quando gli è stato fatto notare che i cellulari sono vere e proprie spie elettroniche che permettono un controllo senza precedenti degli spostamenti e comportamenti del detenuto. Insomma il rimprovero del magistrato di sorveglianza non solo è privo di fondamento ma non ha tenuto conto del fatto che la parte lesa in questa vicenda e proprio Doina.
I famigliari di Vanessa Russo hanno invocato la pena di morte e protestato contro la foto che ritraeva Doina sorridente. Nessuno di noi può sapere come reagirebbe di fronte ad una scomparsa così tragica e insensata della propria figlia. Ma esiste una prova del nove: a parti rovesciate avrebbero invocato al pena di morte? Questo è il punto: la giustizia non è un fatto privato di una parte. Processo e esecuzione penale non possono essere lasciate in balia del vittimismo. Ma ancora una volta il peggio viene da chi cavalca dolore ed emozioni anche quando raggiungono dimensioni patologiche.
Il carcere non redime, indurisce ed inasprisce. Ma in taluni casi, quando a finirvi sono persone senza legame sociale, che vivono ai margini, può diventare paradossalmente una occasione. Parlo ovviamente di chi si trova a scontarlo in sezioni di media sicurezza, dove è permesso con maggiore facilità di incontrare operatori esterni, docenti, gente di cultura, teatro, persone ricche di esperienze che possono dare molto. Chi, tra i detenuti sa approfittare di questi incontri, che mai la vita precedente gli avrebbe procurato, può senza dubbio trarne profitto: acquisire fiducia, scoprire di avere potenzialità prima inespresse. Ogni esperienza anche negativa alla fine può essere maestra di vita.
Per questo mi auguro che Doina Matei non molli ma continui a sorridere. Quel suo sorriso ci serve contro i fautori dell’odio. Perché un giorno li seppellirà.

Critica del vittimismo /2

Seconda puntata – dopo aver affrontato (leggi qui) il conflitto tra storia e memoria, generato dal sopravanzare della seconda sulla prima, dalla costruzione di una memoria pubblica, anzi di Stato (nonostante per definizione la memoria non può che essere singolare, parziale e soggettiva), fino all’emergere di una nuova figura di testimone, o meglio a quel processo di selezione che la figura del testimone ha subito, al punto da lasciare sullo sfondo tutti gli altri attori della storia a vantaggio di uno solo di essi, divenuto l’unico testimone legittimo, sancito per legge, il testimone che assume la postura sofferente, il testo di oggi analizza questa nuova figura di vittima, una vittima particolare poiché l’accesso a questo status è selettivo. Non tutte le vittime sono vittime, non basta aver subito una sofferenza, un torto, un danno grave e irreparabile, per divenirlo. Lungo questo tragitto di selezione politica della figura della vittima, la vittima forte – spiega Giglioli – cancella quelle deboli. Ma c’è di più: questa postura vittimaria cela l’essenza del potere attuale che cerca in questo modo nuova linfa per trovare legittimazione. Attenzione, esiste anche un vittimismo dal basso che propone questo paradigma di pensiero come una nuova forma di contropotere che al posto della critica e della prassi radicale ha sostituito il risentimento. Una competizione che ricorda quella «concorrenza tra vittime» di cui scriveva Hannah Arendt, competizione che non salva ma genera solo nuove vittime

 

«La vittima è l’eroe del nostro tempo. Essere vittime dà prestigio, impone ascolto, promette e promuove riconoscimento, attiva un potente generatore di identità, diritto, autostima. Immunizza da ogni critica, garantisce innocenza al di là di ogni ragionevole dubbio. Come potrebbe la vittima essere colpevole, e anzi responsabile di qualcosa? Non ha fatto, le è stato fatto. […] Se solo la vittima ha valore, se solo la vittima è un valore, la possibilità di dichiararsi tale è una casamatta, una fortificazione, una posizione strategica da occupare a tutti i costi. La vittima è irresponsabile, non risponde di nulla, non ha bisogno di giustificarsi: il sogno di qualunque potere».

pp. 9-10

Ulteriori letture sull’argomento
Critica del vittimismo/1
Non tutti hanno il diritto di essere vittime, non tutte le vittime sono vittime allo stesso modo
Quando ai familiari delle vittime si chiede di divenire gli esecutori delle pene. Postille ad un articolo di Claudio Magris
De Luna: Andare oltre il paradigma vittimario

Paradigma vittimario e giustizia internazionale
Populismo penale e vittimismo
Retoriche vittimarie e talk show

Il paradigma vittimario

Critica del vittimismo /1

Innauguriamo oggi una nuova rubrica dal nome L’intempestivo. Lo facciamo proponendo alcuni brani del libro di Daniele Giglioli, Critica della vittima, Nottetempo 2014. Ho letto questo testo appena uscito, nella primavera del 2014, tra un turno e l’altro d’ospedale, dove il piccolo Sirio era ricoverato. Da allora purtroppo non ho avuto modo di recensirlo come avrebbe meritato. Per quanto mi riguarda è il saggio più interessante che ho letto negli ultimi due anni. Si tratta della migliore sintesi di quanto ad oggi è stato scritto e pensato sull’emergenza del paradigma vittimario. Oggi voglio saldare quello che ritengo un debito di riconoscenza suggerendo alcuni dei suoi passaggi più significativi. Cominciamo dal conflitto storia/memoria, dal sopravanzare della seconda sulla prima, dalla costruzione di una memoria pubblica, anzi di Stato, nonostante per definizione essa non può che essere singolare, parziale e soggettiva, fino all’emergere di una nuova figura di testimone, o meglio a quel processo di selezione che la figura del testimone ha subito, al punto da lasciare sullo sfondo tutti gli altri attori della storia a vantaggio di uno solo di essi, divenuto l’unico testimone legittimo, sancito per legge, il testimone che assume la postura sofferente: la vittima. Non tutte le vittime però, ma solo quelle che si vedono riconosciuto l’accesso a questo status, la vittima forte che cancella quelle deboli

7150UK099HL«In primo luogo la memoria, l’ossesione della memoria. Il dovere, addirittura, della memoria, un termine che nel nostro spirito pubblico aspira a spodestare, come ha notato Enzo Traverso, il suo gemello/antagonista storia. Rispetto alla storia, la memoria è soggettiva, intima, vissuta, non negoziabile, autentica se non vera a prescindere: assoluta proprio perché relativa. Configura un rapporto col passato di tipo inevitabilmente proprietario: il mio, il nostro passato.
La memoria non si scrive senza pronomi e aggettivi personali. Al suo centro, il testimone; e testimone per eccellenza è oggi chi reca iscritto in sé, nel corpo prima ancora che nella mente, il peso dei processi da cui è stato affetto: la vittima, dunque. Vera protagonista del passato è la soggettività sofferente, cui le istituzioni attribuiscono volentieri il crisma dell’eticità di Stato, istituendola a oggetto di celebrazione pubblica avente forza di legge: il “Giorno della Memoria” (27 gennaio, commemorazione delle vittime della Shoah); il “Giorno del Ricordo” (10 febbraio, in onore delle vittime delle foibe); la “Giornata della Memoria e dell’Impegno in ricordo delle vittime delle mafie” (21 marzo); il “Giorno della Memoria dedicato alle vittime del terrorismo interno e internazionale, e delle stragi di tale matrice” (9 maggio, anniversario dell’omicidio Moro).
Sinistro cortocircuito, che isola gli eventi dalla catena del loro accadere, li ipostatizza in valori invece di spiegarli come fatti, e in tal modo invalida anche il proposito di elevarli a monito perché ciò che è accaduto non accada di nuovo: non chi non ricorda, ma chi non capisce il passato è condannato a ripeterlo».

Pagine 16-17

Ulteriori letture sull’argomento

Il paradigma vittimario
Pour une critique du paradigme victimaire

Non tutti hanno il diritto di essere vittime, non tutte le vittime sono vittime allo stesso modo
Strage di Brescia: la grande ingenuità di chi ha creduto che la magistratura potesse arrivare alla verità senza cambiamenti politici profondi nelle istituzioni coinvolte
La liberazione condizionale e la lettera scarlatta

Logica premiale e logica vittimaria ispirano la nuova filosofia penale

Quando ai familiari delle vittime si chiede di divenire gli esecutori delle pene. Postille ad un articolo di Claudio Magris

De Luna: Andare oltre il paradigma vittimario

Paradigma vittimario e giustizia internazionale
Quando la memoria uccide la ricerca storica
Genesi del populismo penale e nuova ideologia vittimaria
Una storia politica dell’amnistia
Storia e giornate della memoria
Il nuovo pantheon del martirologio tricolore
Populismo penale e vittimismo
Retoriche vittimarie e talk show

Sabina rossa e gli ex-terroristi: siano liberi senza il sì di noi vittime (Corriere della sera)
Sabina Rossa, “Cari brigatisti confrontiamoci alla pari”

«Non tutti hanno il diritto di essere vittime. Non tutte le vittime sono vittime allo stesso modo»

Al centro di tutto la “vittima meritevole”. Come l’uso politico della nozione di vittima ha trasformato l’azione penale e l’idea di giustizia

Paolo Persichetti
Gli Altri 17 maggio 2013

Per lungo tempo l’idea di giustizia corredava il tentativo di raggiungere obiettivi universali in grado di ripercuotersi nel miglioramento delle condizioni di vita materiali e spirituali di ciascuno. Al concetto di giustizia si associavano l’idea di eguaglianza e fraternità (oggi diremmo anche sorellanza), di libero sviluppo dell’esistenza umana, oppure la salvezza. Insomma qualcosa che contribuiva al bene collettivo (tanto per stare al mutamento dei linguaggi, ora si pronuncia “bene comune”).
Oggi il concetto di giustizia non è semplicemente sovrapposto a quello di diritto, ma indica un diritto tutto particolare, il diritto di punire. Il desiderio di migliorare le sorti collettive è sopravanzato da una visione penitenziale del mondo che vede nell’azione penale, concepita come un paradiso incontaminato contrapposto alla realtà impura dell’agire politico, lo strumento per intervenire sulla realtà.
Questo nuovo senso comune, interamente immerso all’interno di una visione manichea del mondo che non offre scampo, o si è interamente vittime o totalmente colpevoli, ha proiettato la figura della vittima tra gli status sociali più ambiti, rendendola un’«autentica incarnazione dell’individuo meritevole: quasi un modello ideale di cittadino».
In una società dove sempre più viene meno ogni capacità inclusiva e prevalgono al suo posto dispositivi predatori, risultato della «tensione tra ideologia neoliberale del libero mercato e autoritarismo morale neoconservatore», le contraddizioni, i malesseri sociali, la fatica di vivere assumono l’aspetto di un viluppo confuso di sentimenti, di grumi di rancore che intrecciando la paura per l’avvenire e l’ossessione per il declino sociale accentuano i processi d’identificazione vittimistica.
Se c’è una vittima deve esserci per forza un carnefice, ciò preclude per definizione la possibilità che vi possa essere una comune condivisione vittimaria. Non potendo essere tutti vittime ecco che presto si apre la competizione. L’investitura legittimante offerta dallo status di vittima, infatti, resta caratterizzato da un accesso limitato e diseguale. Non tutti hanno il diritto di essere vittime e non tutte le vittime sono vittime allo stesso modo.
La postura vittimaria – spiegano gli studi che si occupano del fenomeno – è riconosciuta unicamente sulla base di selezionati requisiti di ordine sociale, economico, politico, culturale ed etnico; criteri che variano secondo le latitudini. Per i gruppi sociali stigmatizzati in partenza, nei confronti dei quali si presume una contiguità originaria con l’universo criminale o la genealogia del male, non vi è alcuna possibilità di accedere alla santità vittimaria.
In effetti, più della vittima in sé è la nozione di “vittima meritevole” che trova affermazione e legittimazione. La vittima forte non lascia scampo alla vittima debole. Non basta aver subito un torto o un danno per poter essere riconosciuti come tale, occorre innanzitutto entrare a far parte della categoria legittimata ad esserlo, un pantheon esclusivo.
Proiettata dall’ombra lunga d’Auschwitz, l’immagine della vittima trae la sua superiorità etica dalla figura dell’inerme, colui che è oggetto di un’aggressione totale di fronte ad una passività assoluta. Questa asimmetria originaria è tuttavia ben diversa dall’intricato groviglio di conflitti presenti nelle società attuali e che inevitabilmente rende spurio e controverso ciò che si tende a collocare tra le vittime odierne, difficili da districare nell’intreccio spesso simmetrico dei contrasti, delle tensioni e delle violenze.
Più che un giudizio di fatto, lo status di vittima è il risultato di un giudizio di valore talmente significativo, poiché fonte immediata di legittimazione politica, da essere divenuto esso stesso il luogo della disputa. Un terreno di battaglia innescato da quella «esaltazione narcisistica della sofferenza», di cui ha scritto Zigmunt Bauman in Modernità e olocausto, e che alla fine – come sosteneva Hannah Arendt – genera solo altre vittime, negando quel riconoscimento dell’altro che nel dispositivo agonistico del conflitto è il nemico, mentre in quello vittimario diventa l’assolutamente diabolico, il male universale, l’extraumano da bandire, colui che per definizione è fuori da ogni consesso civile.
Lungi dall’aver rafforzato il riconoscimento della dignità umana, la competizione vittimaria si è prestata ad una facile strumentalizzazione che è servita a rafforzare il potere dei Leviatani. Sul piano internazionale, grazie al pretesto dell’ingerenza umanitaria, il paradigma vittimario ha favorito il passaggio dall’etica guerriera alle guerre etiche, alimentando la grande ipocrisia della giustizia penale internazionale che ha permesso ai vincitori di processare i vinti. Come diceva Pascal, «non riuscendo a fare della ragione una forza, hanno fatto della forza l’unica ragione», abolendo ogni capacità di discernimento tra i crimini di lesa umanità universalmente riconosciuti, come tortura, schiavitù, genocidio, misfatti coloniali e le infrazioni commesse da chi ha esercitato il diritto di resistenza.
Sul piano interno, l’ideologia vittimaria ha accompagnato la deriva giustizialista e la controriforma del processo penale, trasformato da luogo di accertamento delle prove a teatro di una cerimonia catartica che dovendo offrire riparazione simbolica alla vittima anticipa anzitempo un giudizio senza scampo per il reo.
Infine, sul piano sociale passivizza i soggetti vittimizzati, amputandone l’interezza umana e la complessità politica e civile, così ridotta all’aspetto monodimensionale di chi esprime solo dolore e sofferenza e domanda una riparazione. Richiesta che non trovando l’appagamento promesso dal processo penale precipita spesso nella spirale del risentimento infinito.

Approfondimenti
Il paradigma vittimario

Sistema penale, ideologia vittimaria e mediazione penale al centro del nuovo diritto di punire

 

di Paolo Persichetti

 

Scrive il professor Franco Cordero nella sua procedura penale (Giuffrè 1991) che l’inquisito (cioè il presunto innocente fintanto che non subentra la condanna definitiva) rappresenta il cuore dell’inchiesta e del giudizio penale. La sua presenza corporea è l’oggetto fisico del processo. Egli è volentieri ritenuto la fonte stessa della prova, l’animale confessante poiché «essendo rare le effusioni spontanee, bisogna stimolarle: gli inquisitori manipolano anime. L’opera richiede un ambiente: luoghi chiusi e tempo ciclico, soggetto a lunghe stasi; presto appare diverso da com’era fuori, irriconoscibile; gli shock da tortura incidono meno del lavoro profondo. Quando sia infrollito al punto giusto, un niente lo smuove». In tal caso il processo nient’altro è che anticipazione della colpevolezza, anteprima della sanzione realizzata attraverso la custodia cautelare e le molteplici forme d’invasività della sfera personale, come le intercettazioni, i sequestri, le pressioni e le intimidazioni.

La nuova prospettiva vittimocentrica
Questa visione, incarnata dal tradizionale diritto di punire, per la quale il reo è una proprietà esclusiva dello Stato, strappato alla vendetta privata per essere sottoposto alla «sofferenza legale», è messa oggi apertamente in discussione da una nuova prospettiva che sposta l’interesse dal reo alla vittima.
In un volume apparso alcuni anni fa, Marco Bouchard e Giovanni Mierolo, Offesa e riparazione. Per una nuova giustizia attraverso la mediazione (Bruno Mondadori, 2005), descrivevano l’apparizione di questo nuovo protagonismo vittimario come la rivendicazione di un’autenticità che l’espropriazione originaria della forza privata degli individui avrebbe sottratto al processo penale per conferirla a una burocrazia di ceti tecnici ed esperti statali, secondo quel processo di razionalizzazione burocratica della modernità già delineato da Max Weber, da cui è scaturito il divieto assoluto di farsi giustizia da soli.
Secondo questa interpretazione, l’entrata nell’astrazione della modernità giuridica avrebbe allontanato la procedura penale dall’esperienza della sofferenza, delle emozioni, dei sentimenti, delle affettività, fino a sancire un percorso di neutralizzazione e spersonalizzazione della vittima a vantaggio di un intangibile risarcimento dell’equilibrio sociale infranto dal delitto. L’emergere di questa nuova visione ha rinvigorito le teorie afflittive della pena da scontare nella sofferenza e nel rimorso, legittimando l’antico desiderio di vendetta insoddisfatto dall’intreccio retributivo-premialistico (più che riabilitativo) che caratterizza l’odierno sistema penale, oscurando la posizione di soggetto debole del reo nel sistema penal-penitenziario.
Un tentativo di risposta a questa tendenza è venuto dalle filosofie che ricercando la conciliazione e la riparazione hanno ispirato le diverse e confuse ricette promosse dal nuovo istituto sperimentale della mediazione penale. Una commissione ad hoc, che ha anche diffuso delle linee di indirizzo generali, è stata messa in piedi dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria.
Al centro di questa nuova filosofia penale vi è l’idea che occorre reintrodurre un rapporto diretto tra vittima e aggressore, aprendo la strada a nuove forme di riparazione dell’offesa che legano indissolubilmente l’aggressore al risarcimento non solo simbolico della vittima.

Un vittimismo del potere camuffato sotto spoglie private
Tuttavia questa innovazione non riscontra la piena unanimità: c’è chi osserva (Vincenzo Ruggiero, Il delitto, la legge, la pena. La contro-idea abolizionista, edizioni GruppoAbele 2011) come il riorientamento della criminologia verso la vittima offre «a una disciplina esausta, la possibilità di rivitalizzarsi e di conseguire legittimità politica». In fondo – osserva sempre Ruggiero – «Le vittime possono anche essere vittimizzate dalla vittimologia ufficiale. In altre parole, possono diventare vittime degli stereotipi che vengono loro imposti. Tra questi la loro presunta incapacità a difendersi, ma anche l’incapacità di definirsi “vittime”, in quanto è comunemente dall’esterno che viene conferito il relativo status». Riserve sono state avanzate anche dalla commissione ministeriale, lì dove si è osservato che l’atto di riparazione richiesto al reo, «imporrebbe alla vittima di essere “oggetto”» di gesti non richiesti o non graditi, per altro al solo vantaggio del reo, a causa degli attuali criteri utilizzati dalle magistrature di sorveglianza che premiano simili condotte, imponendo ai detenuti ipocriti gesti di contrizione esteriore privi di autenticità. «Configurando per la vittima – prosegue la nota della commissione – una ulteriore violenza subita (Giuffrida)», per altro a molti decenni di distanza dai fatti. (Circolare del 14 giugno 2005 – Prot. n. 3601/6051).

L’ideologia vittimaria al centro del nuovo diritto di punire
In questo modo, più che attore del nuovo dispositivo la vittima designata come tale – non tanto la vittima in sé quanto la vittima ritenuta “meritevole” – si ritrova ad essere un oggetto passivo, con un ruolo pienamente strumentalizzato dalla nuova strategia mimetica dello Stato, che facendosi schermo della sua icona martirizzata può dispiegare un nuovo paradossale diritto di punire che nulla c’entra con la giustizia ricostruttiva, evocata troppo spesso a sproposito per giustificare il nuovo istituto della mediazione penale.
Quest’ultima, infatti, dove è stata messa in atto seriamente, ha posto sullo steso piano vittima e aggressore ricercando soluzioni diverse dalla sanzione penale (un esempio viene dalla commissione verità e riconciliazione in Sud Africa) (1). La singolarità italiana sta invece nel voler ibridare giustizia retributiva e riparativa, quest’ultima solo accessoria e non sostitutiva della prima, anzi promulgata in modo da prolungarne gli effetti.
Agendo spesso come una condanna supplementare, priva della legittimità di una sentenza processuale, la giustizia riparativa erogata nel corso dell’esecuzione pena opera come un quarto grado di giudizio, sorta di processo permanente che accompagna l’intera detenzione. Non potendo più intervenire sul reato essa sposta la sua attenzione sulla personalità del reo moltiplicando all’infinito le misure d’interdizione e ostracismo che si abbattono come una rappresaglia sul suo corpo.

Riconciliazione, legalitarismo e giustizialismo
Le ambiguità di queste nuove filosofie riconciliative non finiscono qui: la pretesa di voler fare da battistrada ad un’idea di giustizia come processo relazionale offre un’idea d’emancipazione interamente soggiogata da culture che hanno introiettato il teatro giudiziario-penale come scena privilegiata della regolazione sociale, dimenticando ogni critica verso quelle logiche dell’inimicizia speculare, inevitabilmente contenute in tutte le derive vittimarie, che in passato altri autori hanno denunciato come una pericolosa «esaltazione narcisistica della sofferenza» e che avevano fatto scrivere alla Arendt: «le vittime mietono soltanto altre vittime», introducendo una competizione della sofferenza che mina ogni possibile soluzione o pausa nei conflitti.

note
1.
Il vescovo Desmond Tutu, per spiegare il funzionamento della “commissione verità e riconciliazione” da lui presieduta, ha evocato una nozione della cultura africana, l’ubuntu, ispirato ad una filosofia della giustizia di tipo ricostruttivo e non retributivo. Per fare spazio alla riconciliazione, la verità sulla violenza politica del passato è stata depenalizzata. Le corti penali di giustizia sono state esautorate a vantaggio di una commissione nazionale priva di poteri inquisitori, chiamata ad intervenire solo dopo la richiesta del candidato alla misura dell’oblio giudiziario. Ricostruita la dinamica dei fatti, accertata la responsabilità individuale, veniva concesso l’oblio mentre le vittime ottenevano un risarcimento materiale dallo Stato. Una regola valida per tutte le parti implicate nel conflitto, dai membri del regime segregazionista ai suoi oppositori armati. Chi rinunciava alla commissione, se ritenuto autore di fatti illegali, era passibile di un processo di fronte alla giustizia penale ordinaria senza possibilità d’ottenere in caso di condanna nessuna clemenza.

 


Link utili

Paradigma vittimario
Genesi del populismo penale e nuova ideologia vittimaria
De Luna: Andare oltre il paradigma vittimario
Paradigma vittimario e giustizia internazionale
Quando ai familiari delle vittime si chiede di divenire gli esecutori delle pene. Postille a un articolo di Claudio Magris
Logica premiale e logica vittimaria ispirano la nuova filosofia penale
La liberazione condizionale e la lettera scarlatta
Populismo penale e vittimismo
Retoriche vittimarie e talk show

Sabina rossa e gli ex-terroristi: siano liberi senza il sì di noi vittime (Corriere della sera)
Sabina Rossa, “Cari brigatisti confrontiamoci alla pari”
Prospero Gallinari chiede la liberazione condizionale e lo Stato si nasconde dietro le parti civili
Il nuovo pantheon del martirologio tricolore

La logica premiale e logica vittimaria ispirano la nuova filosofia penale

Un intervento di Vincenzo Guagliardo sui presupposti della nuova filosofia penale: al vertice della pena tende a non esserci più la pena; il rapporto del reato con essa sparisce, al suo posto subentra il rapporto del suo autore con la presunta sicurezza della “vittima”. Il principio vittimario posto al centro delle nuove procedure giudiziarie mentre  il premio interviene  in sostituzione del diritto, la punizione per chi non merita il premio o non lo chiede

Vincenzo Guagliardo
settembre 2011


Il fallimento del sistema penale è sempre più evidente, ma al tempo si assiste all’impazzimento delle società in cui esso vive, nel senso che si ricorre all’esasperazione penalista per rimediare alla crisi che quella stessa esasperazione aveva già creato negli anni Ottanta. E, del resto, si può aggiungere che anche di fronte alla crisi economica si osserva la stessa cosa: i governi aiutano per esempio le banche che hanno creato il danno per… rimediarvi.

In Italia sono rimasti scandalosamente (e silenziosamente) in piedi i manicomi giudiziari, avendo la legge Basaglia del 1978 abolito solo i manicomi civili, e il numero dei pazzi reclusi persiste tranquillamente (1348 nel 2007, 1550 nel 2011). Ma anche gli ergastoli aumentano (1500 circa), insieme al numero dei detenuti in generale (68.000). Ma, ancora, con una novità: l’ergastolo “ostativo”, in base al quale molti ergastolani sono ormai esclusi da ogni beneficio penitenziario a priori e perciò condannati a morire in carcere detto “duro”, dopo lunga espiazione. A meno che… non ci si “penta”, non ci si trasformi cioè in delatori se si ha ancora qualcosa e qualcuno da vendere. Per tutti infine, l’ottenimento della libertà condizionale (o l’affidamento ai servizi sociali) viene subordinato a una richiesta di perdono del reo da rivolgere ai parenti delle vittime. È una prassi stabilita dai magistrati, non richiesta da alcuna legge, in cui è come se i giudici abdicassero al loro ruolo per rimettersi ai parenti delle vittime quali nuovi esecutori della pena al posto dello Stato. Naturalmente, attraverso questi meccanismi e altri le carceri vivono il cosiddetto “sovraffollamento”, eufemismo dietro al quale gran parte del carcere è uno strumento di tortura vera e propria, l’inferno dei corpi.

L’ultimo esempio, umiliante sia per i rei che per le vittime, segna un chiaro regresso civile alla vendetta personale. È perciò evidente che all’inferno dell’anima contribuisce alla grande l’impulso che, in un simile contesto sovraffollato-torturante dei corpi, ha potuto trovare il dispositivo di lealizzazione delle coscienze già in parte descritto in questo libro: il premio in sostituzione del diritto, la punizione per chi non merita il premio o non lo chiede (“trattamento differenziato”).

Possiamo anzi dire che la nuova logica penale descritta in questo libro ha invaso la società ridefinendola in ciò che Frank Furedi* chiama la “società terapeutica”. In essa, non si è più dei cittadini, ma neanche dei semplici regrediti alla precedente condizione di sudditi; forse, piuttosto, verso qualcosa di peggio: dei “pazienti”, ovvero dei “malati”, fragili persone che si rimettono alle mani pietose di quei nuovi confessori-medici che sono i magistrati e il loro sempre più cospicuo e variegato seguito di “esperti” della mente e del controllo sociale. Ma, i pazienti nel nostro caso sono tali – non dimentichiamolo – perché vittime di qualcosa e, più precisamente, di qualcuno. Il principio vittimario posto al centro delle nuove procedure giudiziarie sulla scia dell’esempio anglo-americano, è stato seguito con esemplare volontà avanguardista dall’Italia grazie al silenzio di verità o meglio alla straparlante esorcizzazione  posta sull’aspro conflitto sociale (anche armato), avvenuto nel paese negli anni Settanta. Il principio vittimario giuridifica progressivamente ogni aspetto delle relazioni sociali, fette sempre maggiori della vita quotidiana perdono la loro autonomia e si cercano e trovano capri espiatori per l’altare vittimario.

Ed è proprio la sinistra europea ufficiale, bisogna dire, e non solo la destra neo-liberista, ad aver dato un’enorme spinta a questa deriva rivendicativa e vittimista verso la rinuncia dello stesso concetto di autonomia personale oltre che delle antiche e autonome regole degli spazi conviviali. Nuove “sindromi” prese dal linguaggio medico presentano fatti fino a ieri lasciati all’autoregolazione sociale come denunce di nuovi reati per fissare nuovi diritti e, inevitabilmente, nuovi reati volti a indicare dei colpevoli da consegnare alla punizione. Si pensi a quante leggi si vogliono oggi far nascere su gravidanza, parto e trauma post-parto invece di farne l’oggetto di pubblica attenzione di una coscienza sociale. Sotto al trionfo del principio vittimario, la base gigantesca del rito di caccia al capro espiatorio si afferma come l’unica vera religione dell’inconscio collettivo nella sua più pura espressione. Mentre lo dico, mi fumo quasi una sigaretta senza per questo denunciare chi produce il tabacco. (Ma un medico mi ha detto che uno come me, in un paese civile come l’Inghilterra, giustamente non verrebbe più curato). Ma c’è già chi riflette sui danni provocati dal vino…

Tutte le tortuose tecniche della cinquecentesca Inquisizione romana ritornano a galla seppure camuffate da un nuovo linguaggio “tecnico” per non confessare che ri-esistono a pieno regime i vecchi “tribunali della coscienza” (A. Prosperi**).
Per fare, tra i tanti possibili, un esempio ancora tratto fa Furedi, non possiamo stupirci se in Inghilterra un detenuto rimase ad espiare la pena più di altri perché ostinatosi a non riconoscere di essere una vittima, di avere cioè subito violenza dai genitori quando era piccolo e che per questo da grande aveva compiuto reati. Fino a una trentina di anni fa un comportamento del genere avrebbe potuto essere considerato dignitoso dal senso comune, a prescindere ovviamente da ogni altro giudizio sugli atti di quella persona. Ma oggi, nel nuovo contesto, ogni educatore (o psicologo, o psichiatra, o assistente sociale, o direttore eccetera) aggiornato ma ancora umano, un po’ illuminato, aperto, gli dovrà dire in modo… un po’ cinico: “Tu sei troppo moralista, lasciati andare un po’, sii più realista”. E vi garantisco che questo piccolo paradosso della morale odierna è successo più volte. E già qui si è tentati a concludere che non viviamo più soltanto un carcere criminogeno (prima tesi d’ogni abolizionista), ma un intero sistema di vita, anzi, una nuova Weltanshauung.
Per questa via il giudizio si stacca dalla pena e si concentra sul bisogno di “sicurezza” degli ex cittadini-nuove vittime, si allontana dal reato per concentrarsi sulla presunta pericolosità del suo autore: lo straniero, l’arabo, il mafioso, il terrorista, il tossico eccetera, ai posti che furono dell’ebreo, dell’eretico e della strega. In Italia per questa via delle definizioni a priori e astraenti dei soggetti pericolosi, il razzismo è diventato da tempo politica ufficiale  delle istituzioni. Grazie a un governo di centrosinistra che, con una legge (la Turco-Napolitano) del 1998, costruì dei campi di concentramento per gli immigrati, chiamati eufemisticamente “Centri di permanenza temporanea” (CPT). L’eufemismo era anche un ossimoro: per giocare con le parole non sarebbe stato meglio chiamarli centri di temporaneità… permanente? Comunque sia il successivo governo di centro-destra di Berlusconi e dei razzisti della Lega Nord di Bossi fu meno ipocrita, confermò quella decisione e tolse almeno l’ambiguità linguistica spiegando quel che facevano concretamente questi campi: Centri di identificazione e espulsione (CIE). Campi di concentramento, insomma, grazie ai quali avendoti subito dichiarato clandestino appena entri nel paese, se ti becco ti espello, se non ti becco sarai un individuo ricattabile e ti faccio lavorare per una miseria finché mi va. E così i vari nuovi razzisti italiani si fanno una piccola fortuna con questi nuovi schiavi stranieri da affiancare ai nuovi servi inconsci ex cittadini nazionali alla ricerca dello status di vittime. Una prima conclusione si potrebbe così riassumere: il sistema vittimario-penale si inscrive come unica politica sociale riservata ai poveri che in vari modi vengono etichettati come pericolosi a priori, fino al punto di ricorrere al razzismo istituzionale dei CIE ex CPT.

Accanto a tutto ciò – non perdetevi nel labirinto della follia e ricordate quanto detto più sopra  – c’è varia gente in galera da oltre trent’anni: i capri espiatori, appunto, per dare l’esempio. Perché, come dicono i francesi, tout se tient, ogni cosa è legata all’altra. Ma credo pure che questo trionfo della pena, neo-inquisitoriale e  razzista, cominci a essere vagamente sentito e intuito fuori dalle carceri. Forse (: questa nota è piena di forse). Di recente (settembre 2011) in Italia, in una grande manifestazione sindacale si poteva leggere su uno striscione: “Ci volete servi, saremo ribelli” [corsivo mio]. In Spagna un movimento di precari e proletarizzati si dichiara indignado. Indignato è colui che si ritiene offeso nella sua dignità, che non vuole essere trattato da servo. Un tempo questa parola risultava generica e ambigua, era spesso usata a destra. Oggi può assumere un significato profondo, segnare – forse – un inizio epocale della non-collaborazione alla servitù volontaria.

Ma per capire meglio di cosa si tratta, è opportuno riparlare di quella piccola minoranza reclusa nei manicomi giudiziari. Lì, ci dice l’ipocrisia odierna, c’è un pazzo che, in quanto tale, non merita una pena; ma è necessario, per motivi di “sicurezza” tenerlo chiuso a data indefinita, di proroga  in proroga, appunto perché è pazzo. E così la sua pena indefinita (perché non è una pena) può diventare infinita perché sempre rinnovata come permanenza… temporanea. Mi sembra che tutta la giustizia penale aspiri ad allargare l’orizzonte in questo senso, oltre se stessa, verso questo inferno indicibile, come seconda faccia della medaglia del “siamo tutti vittime” della nuova servitù volontaria. Ripetiamoci: al vertice della pena tende a non esserci più la pena; il rapporto del reato con essa sparisce, al suo posto subentra il rapporto del suo autore con la presunta sicurezza della “vittima”. Ma far stare in carcere o in manicomio o in un CIE per quel che si è invece che per quello che si fa, significa aver adottato il primo passo di una logica da lager.

Essere abolizionista è semplicemente essere convinti della irriformabilità del sistema penale. Non può essere estremista sul piano politico perché vuole fare tutto ciò che è possibile nel presente per avere meno carcere e tribunali di coscienza. L’abolizionismo è perciò estremista sul piano culturale perché per attuarsi deve richiedere un cambiamento di mentalità, una messa in discussione di sé stessi, uno sguardo diverso dalla miopia della servitù volontaria: a partire dal rifiuto dell’antichissimo rito del capro espiatorio su cui si fonda la nostra civiltà, che tutti ci acceca in un cammino suicida.
La speranza è tutto ciò che non si fonda sul calcolo, diceva lo storico olandese Huizinga (morto in un lager nazista), e i calcoli creano non pochi disastri e illusioni, ci dice la crisi attuale.

Note

* Frank Furedi, Therapeutic culture. Cultivating vulnerability in an uncertain age, 2004 [trad. it. Il nuovo conformismo. Troppa psicologia nella vita quotidiana, Feltrinelli, Milano 2005].
** Adriano Prosperi, Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari, Einaudi, Torino 2009.

Link
Populismo penale
Il paradigma vittimario
Cronache carcerarie
La polizia del pensiero – Alain Brossat
Kafka e il magistrato di sorveglianza di Viterbo

Quando ai familiari delle vittime si chiede di divenire gli esecutori delle pene. Postille ad un articolo di Claudio Magris

«Basta con la parodia del perdono», è il titolo di un intervento di Claudio Magris apparso sul Corriere della sera del 9 settembre 2011. «Si tratta di una scelta della coscienza – spiega l’illustre germanista – che per definizione non può essere pubblica, messa in mostra davanti alle televisioni come accade sempre più di questi tempi».
L’altro importante assunto contenuto nell’articolo afferma che il funzionamento della macchina giudiziaria non può ruotare attorno alla presenza del perdono, esercitando clemenza se questo viene concesso oppure severità se viene a mancare. «E’ inutile coinvolgere i familiari delle vittime – conclude Magris – non spetta a loro fare giustizia».

Non possiamo che salutare positivamente questa presa di posizione da parte di una delle firme più prestigiose del maggiore quotidiano italiano. Tuttavia c’è qualcosa nell’argomentare del professore dell’università di Trieste che lascia trapelare una sottile perfidia.

L’intero ragionamento di Magris è sbilanciato sulla questione del perdono, lasciando in ombra il problema della vendetta. D’altronde il tema del perdonismo sembra essere una delle sue ossessioni: nell’arco degli ultimi 9 anni Magris ha scritto ben tre articoli sul Corriere della sera praticamente identici: il primo del 31 luglio 2002, «Il perdono così facile e vuoto», in risposta ad un intervento di Marrina Corradi sull’Avvenire; il secondo dal titolo «L’arte difficile di chiedere scusa», del 16 dicembre 2007, dove si fustigavano lo «spirito del tempo, il tic mediatico: tutti i risvolti di un atteggiamento mentale sempre più diffuso», legati appunto alla moda della perdonanza che va di pari passo con la repentence esibita in forma quasi narcisistica.
Questa asimmetria tra perdono e vendetta sembra voler suggerire che ci sia in giro una dilagare della clemenza, un eccesso di perdonanza che sta soffocando la giustizia. Ora il paradosso sta proprio nell’esatto contrario.
E’ vero che si parla fin troppo di perdono ovunque, come giustamente documenta Magris, ma lo si fa solo per negarlo. Il vero tema di oggi è infatti il vendettismo.

Quando si chiama in causa con tanta fretta, sciatteria e superficialità un sentimento religioso tanto delicato, profondo e complesso, qual’è il perdono, con tutte le implicazioni che esso racchiude anche nella sua economia narcisistica («Chi perdona si pone al di sopra del perdonato. Assurge ad una posizione etica che lo sormonta facendo mostra di una superiore gerarchia morale. L’odio e la vendetta al contrario pongono allo stesso livello del colpevole», ricorda lo stesso Magris in uno dei suoi articoli linkati), lo si fa per istigare sentimenti esattamente opposti.

L’analisi di Magris perde la sua consuetà sottigliezza e non s’accorge che la tematica del perdono è emersa pubblicamente come risvolto del pentimento, termine improprio, imbastardito, perché utilizzato per definire la condotta dei «collaboratori di giustizia».
Un cinico scambio realizzato in nome della ragion di Stato sul mercato della giustizia penale tra chi vende chiamate di correo, accuse contro terzi, de relato ed altre dichiarazioni utili a costruire ipotesi d’accusa e teoremi di colpevolezza e chi, in cambio, offre indulgenza penale e carceraria. Un comportamento che sul terreno strettamente morale in altre epoche veniva qualificato come delatorio ed ora è diventato invece prova di ravvedimento.

Le procedure istituzionali introdotte dalla legislazione premiale dell’emergenza che hanno codificato, in varie forme e gradi, la collaborazione e il ravvedimento (per intenderci l’ampio ventaglio che va dalla collaborazione piena e totale alla dissociazione), prevedevano per l’appunto “atti pubblici di repentance”: dai documenti alle interviste nelle quali si dovevano declamare il riconoscimento dei propri errori, la natura paradigmatica del male compiuto, agli incontri sollecitati e organizzati dentro le carceri, e via via in modo sempre più pubblico all’esterno, con quei familiari di persone colpite che si rendevano disponibili (perché mossi e in qualche modo strumentalizzati) dalla loro matrice cristiana.

Perdonismo e pentimento figli della ragion di Stato
Il nodo dunque non sta, come suggerisce semplicisticamente Magris, in una sorta di diabolica furberia degli individui sottoposti a condanna ma nel sistema penale speciale instaurato a partire dalla fine degli anni 70 e nella cultura giudiziaria che da allora ha formato migliaia di magistrati.

Il processo di privatizzazione della giustizia, la critica al sistema eccessivamente «reocentrico» del processo penale e dell’escuzione penale, sono i fenomeni che hanno rimesso al centro la vittima, o i suoi familiari, facendone i nuovi arbitri del sistema penale.
In realtà il processo a cui abbiamo assitito a partire dagli anni 90 del secolo scorso è ancora più perfido: il sistema giudiziario usa il paradigma vittimario per legittimarsi. Sulle spalle delle vittime, o dei loro familiari (e qui le parole di Magris, lì dove spiega che un familiare colpito non può essere considerato una proprietà come una macchina, sono esemplari) grava la ragione morale che giustifica l’inasprimento delle pene, la vessazione sui corpi dei rei.
Una delega dietro la quale si cela una comoda deresponsabilizzazione della magistratura. La controprova viene quando i familiari hanno chiesto di sottrarsi a questa trappola, (vedi l’atteggiamento di Sabina Rossa) chiedendo ai magistrati, alle leggi e alla Stato di fare integralmente la propria parte.
E’ lì che un sistema perfettamente congeniato salta.

Quando i familiari si sottraggono, non al perdonismo ma al vendettismo, d’improvviso perdono centralità. La magistratura non li ascolta più. Il re è nudo.

Recentemente una detenuta politica condannata all’ergastolo, e che nel frattempo aveva scontato tre decenni di carcere, ha ottenuto la liberazione condizionale dopo reiterati rifiuti da parte della magistratura di sorveglianza. La condizione posta perché l’accesso a questa misura fosse possibile non era una valutazione del percorso trentennale della detenuta, l’assenza di pericolosità sociale, le mutate condizioni storico-politiche, ma l’incontro con una vittima, una persona ferita nel corso di una delle azioni realizzate dall’organizzazione in cui aveva militato tra gli anni 70-80.
L’episodio è avvenuto in presenza di una “commissione conciliatrice” composta da funzionari ed esperti del ministero della Giustizia che operano nel campo della cosiddetta mediazione penale.
La scena descritta nella stessa ordinanza redatta dai giudici ha assunto toni da melodramma: i due che si parlano e si abbracciano davanti al giury che osserva soddisfatto. Ci mancava l’applauso e il brindisi riconciliatorio.
La teatralizzazione del perdono e delle scuse (o delle spiegazioni), la messa in scena di un qualcosa che, semmai ha un senso, non può che averlo in una sfera non pubblica, meno che mai sotto lo sguardo censorio dei professionisti della correzione.
Insomma una pantomima che si prende gioco dei sentimenti delle persone colpite e dei prigionieri sottoposti ad umilianti cerimonie di degradazione simbolica.

Questa, caro Magris, è la parodia del perdono ed è tutta opera dello Stato.

Basta con la parodia del perdono
Claudio Magris
Corriere della sera 9 settembre 2011

Si racconta che, durante una guerra civile in Messico, alcuni rivoltosi volessero fucilare un sacerdote, pretendendo però che questi, prima dell’esecuzione, li assolvesse dal peccato che stavano per commettere. Vero o falso, l’aneddoto indica quanto siano radicati nell’animo umano sia la, violenza sia il bisogno di sentirsi perdonati, innocenti, lavati dalla colpa – magari per accingersi poco dopo, col cuore tranquillo, a un’altra azione malvagia.
Anche le cose e i valori più sacri, come il perdono, possono diventare un’empia parodia, quando vengono ostentati con superficiale e oltraggiosa vacuità. Già anni fa alcuni giornalisti avevano sferzato una mania che dilagava negli organi di informazione: appena un tabaccaio, un benzinaio, un gioielliere o chi altro ancora veniva assassinato da un rapinatore, ci si precipitava a chiedere ai genitori o ai figli della vittima se perdonavano l’uccisore del loro caro, magari non ancora catturato o identificato.
La forza di perdonare, di non lasciarsi imprigionare e oscurare dall’odio e dalla vendetta, è un valore altissimo, rivela ima libertà pure dalle più sacrosante pulsioni emotive, che dà senso e dignità alla persona. Tuttavia il perdono è un fatto esistenziale e morale che riguarda soltanto la coscienza di un individuo e il rapporto fra una vittima e il suo persecutore. Non interessa l’opinione pubblica, non è e non dovrebbe essere una notizia e soprattutto non riguarda la legge né i rapporti fra il colpevole e la società.
Dinanzi a un omicidio, la legge non ha né da perdonare né da far vendette; il suo compito consiste nel ricostruire il fatto, qualificarlo giuridicamente, valutarne le eventuali circostanze aggravanti o attenuanti e comminare la pena. La giustizia non ha certo da considerare un assassino con maggior benevolenza perché è stato perdonato dai congiunti della sua vittima né con maggior severità perché questi ultimi chiedono vendetta. Far assistere ad esempio i parenti di un assassinato all’esecuzione dell’assassinò, come accade in alcuni degli Stati Uniti, declassa la giustizia a vendetta.
Ma c’è un’altra ragione che rende ambigua e regressiva questa smania – che ora sembra riprendere vigore, specie alla televisione – di chiedere alla gente, se perdona l’uccisore di un figlio, di un genitore, di un fratello. Si può perdonare solo in nome proprio, per torti fatti a noi, non ad altri, neppure se ci sono cari come la vita. Non siamo i proprietari dei nostri cari, non possiamo decidere per loro. Siamo padroni della nostra automobile: se qualcuno ce la sfascia possiamo – se lo crediamo – perdonarlo e rinunciare a chiedergli un risarcimento. Ma un figlio, una madre, una sorella, un amico non ci appartengono come una macchina; se qualcuno arreca loro violenza, li fa soffrire, li tortura o li uccide, possiamo – e dobbiamo – rinunciare a vendicarci direttamente e personalmente, ma non possiamo certo «perdonare» (che in qualche modo vuol dire assolvere) chi ha ucciso non noi, ma lui o lei.
Soltanto la vittima ha il diritto di perdonare, anche se talora non può più farlo perché la sua vita è stata spenta.
Il perdono di un omicidio che ha colpito la propria famiglia caratterizza le arcaiche società tribali e sopravvive nella società mafiosa, perché in quelle culture è la «famiglia» – in senso stretto o traslato – che conta, non il singolo individuo, il quale le appartiene ed è appunto considerato una sua proprietà. L’omicidio diviene allora un danno, ancorché ingente, subito dalla «famiglia» e, come tale, può essere perdonato mercé un adeguato risarcimento.
La civiltà – almeno la nostra – si fonda invece sul valore insopprimibile, irripetibile e insostituibile del singolo individuo, di ogni individuo; sul suo inalienabile diritto alla dignità e alla vita, la cui infrazione non può essere «perdonata» da nessun altro.
Chiedere, pubblicamente, a chi soffre la morte di una persona amata se perdona o no chi l’ha uccisa è una pacchiana sfacciataggine, che viola il senso della legge e offende l’autentica, non sbandierabile pietà del perdonare.

Link sul paradigma vittimario
De Luna: Andare oltre il paradigma vittimario

Paradigma vittimario e giustizia internazionale
Quando la memoria uccide la ricerca storica
Genesi del populismo penale e nuova ideologia vittimaria
Una storia politica dell’amnistia
Storia e giornate della memoria
Il nuovo pantheon del martirologio tricolore

Uso penale del paradigma vittimario
La liberazione condizionale e la lettera scarlatta
Populismo penale e vittimismo
Retoriche vittimarie e talk show

Sabina rossa e gli ex-terroristi: siano liberi senza il sì di noi vittime (Corriere della sera)
Sabina Rossa, “Cari brigatisti confrontiamoci alla pari”
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L’insostenibilità economica del sistema penitenziario

Caro-carceri, riduciamo i detenuti e dimezziamo strutture inutili

Paolo Persichetti

Liberazione 18 agosto 2011

La domanda giusta non è quanto costa un detenuto ma quanto costano le carceri. In questi tempi di urgenza economica di fronte alle manovre speculative dei mercati finanziari sul debito pubblico, mentre il governo ha annunciato una nuova manovra economica correttiva per il rientro del deficit che prevede ulteriori tagli e imposte che vengono ad aggiungersi ai pesanti interventi già introdotti nella prima stesura della legge di bilancio, in presenza di una situazione di sovraffollamento carcerario senza precedenti (67 mila detenuti), dovrebbe imporsi nel dibattito che si aperto sui rimedi da intraprendere (patrimoniale, tassa sulle speculazioni finanziarie, abolizione della cosiddetta “finanza tossica”, fondi sovrani, eurobond, smantellamento delle spese militari ecc.) anche una riflessione sull’antieconomia dell’istituzione carcere.
Secondo i dati elaborati da Ristretti orizzonti, negli ultimi 10 anni il sistema penitenziario è costato alle casse dello Stato circa 29 miliardi di euro. Dal 2000 ad oggi almeno 2 miliardi e mezzo all’anno. Vista l’ingente somma impiegata è più che lecito porre domande sull’utilità pubblica e la performatività sociale di questo tipo di spesa.

La prima risposta, sicuramente la più scontata, ritiene che il sistema penitenziario sia necessario a garantire la sicurezza. Ad essa si aggiunge una variante che fa leva sulle proiezioni simboliche: la presenza del carcere si giustificherebbe con l’esigenza di trasmettere sicurezza. Entriamo qui nel campo della retribuzione simbolica: ad ogni crimine deve corrispondere una sanzione inflitta a colui che il sistema giudiziario ha individuato come colpevole. Questa retribuzione afflittiva è ritenuta decisiva poiché in grado di produrre un valore risarcitorio e rassicurante per la società.
A dire il vero anche questo effetto retributivo si è affievolito negli ultimi tempi, e non perché sia venuta meno la natura afflittiva delle pene che – stando ai dati ufficiali – si sono notevolmente allungate e inasprite come dimostra il numero degli ergastolani, oltre 1500, a cui vanno aggiunti l’alto numero di persone condannate ad una pena superiore ai 20 anni di reclusione, ma anche per la presenza dei ripetuti e numerosi vincoli ostativi introdotti nel corso degli ultimi decenni che impediscono l’accesso ai benefici penitenziari, oltre alla presenza del 41bis (regime di isolamento massimale). Nonostante ciò è convinzione diffusa che il sistema penale non punisca a sufficienza. Ad alimentare questo pregiudizio è la deriva vittimaria che ha permeato la società. Un’ideologia dall’istinto cannibalesco che ha bisogno di capri espiatori per riprodursi. Come sanno tutti gli esperti ed operatori che lavorano nel settore, la sicurezza è diventata una nozione eterea, sempre più distante dalla realtà dei fatti sociali e sempre più abitata da percezioni, fantasmi e paure. Qualcosa che investe l’inconscio sociale più che le reali condizioni della convivenza civile. Se il carcere serve a garantire la sicurezza è singolare che l’impennata d’incarcerazioni corrisponda con il decennale decremento degli omicidi, delle rapine e delle violenze. Ma allora se ci sono meno assassini e rapinatori, nonostante 9 italiani su 10 siano persuasi che la criminalità è in aumento, chi sono questi “delinquenti” che riempiono le carceri fino a scoppiare?
La risposta si trova in alcune leggi e in diversi inasprimenti del codice penale e della legge Gozzini: La Bossi-Fini che criminalizza l’irregolarità amministrativa degli immigrati; la Fini-Giovanardi che considera altamente criminale l’uso di droghe leggere e la Cirielli che infierisce sulla recidiva, vero è proprio manganello classista che colpisce i comportamenti devianti delle fasce sociali più deboli. L’innalzamento della soglia di legalità introdotto da queste normative ha trasformato in reati penali comportamenti, o devianze, precedentemente non penalizzati o affrontati con soluzioni mediche o amministrative. Siano dunque di fronte ad una questione tutta politica, ad un’idea di società, una concezione del mondo riassunta nell’orgasmo triste della vendetta incarognita, nella libidine impotente della cattiveria antropologica, divenuti il viatico di una competizione vittimaria che si avvita su se stessa alla ricerca di un appagamento senza fine. Più le carceri saranno piene maggiori saranno le richieste d’incarcerazione e le proteste per la troppa indulgenza. Un fallimento per un sistema penale che punta a garantire se non la sicurezza almeno la sua percezione.

La seconda risposta evoca per il carcere la funzione rieducativa. Una contraddizione in termini per non dire una bestemmia. Questo mito morale e utilitaristico, iscritto persino nella costituzione, è tuttavia smentito proprio dai conti. L’80% del bilancio penitenziario è assorbito dal personale (48 mila dipendenti tra custodia, amministrativi, direttori, educatori). Solo il 13% va al mantenimento dei detenuti (corredo, vitto, cure sanitarie, istruzione, assistenza sociale), il 4,4% serve alla manutenzione, il 3,4% al funzionamento (energia elettrica, acqua). In tempi di iperliberismo l’unica dose di keynesimo legittimo sembra essere solo quello della sofferenza.
I tagli imposti nelle ultime finanziarie hanno provocato una riduzione diseguale delle risorse: 5% sul personale; 31% per tutto il resto. Considerando che in 30 mesi i detenuti sono aumentati di quasi 30mila unità, le risorse procapite per detenuto sono precipitate dai 200 euro al giorno del 2007 ai 113 del 2010. Appena 3,95 euro giornalieri per i pasti e 11 centesimi per le attività scolastiche, culturali e sportive.

Se l’esperienza carceraria è dunque così fallimentare perché non gettare la scure dei tagli proprio a partire dal numero dei detenuti e delle carceri?

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Cronache carcerarie