Foibe, le vittime forti cancellano quelle deboli

Con la proclamazione della giornate in ricordo delle foibe e delle vittime del terrorismo il conflitto tra storia e memoria ha raggiunto un punto estremo. Il sopravanzare della seconda sulla prima, la costruzione di una memoria pubblica, anzi di Stato, nonostante per definizione essa non può che essere singolare, parziale e soggettiva, ha visto emergere una nuova figura di testimone, fuoriuscita dal processo di selezione che la figura del testimone ha subito, al punto da lasciare sullo sfondo tutti gli altri attori della storia a vantaggio di uno solo di essi, divenuto l’unico testimone legittimo, sancito per legge, il testimone che assume la postura sofferente: la vittima. Non tutte le vittime però, ma solo quelle che si vedono riconosciuto l’accesso a questo status, la vittima forte che cancella quelle deboli

7150UK099HL«In primo luogo la memoria, l’ossesione della memoria. Il dovere, addirittura, della memoria, un termine che nel nostro spirito pubblico aspira a spodestare, come ha notato Enzo Traverso, il suo gemello/antagonista storia. Rispetto alla storia, la memoria è soggettiva, intima, vissuta, non negoziabile, autentica se non vera a prescindere: assoluta proprio perché relativa. Configura un rapporto col passato di tipo inevitabilmente proprietario: il mio, il nostro passato.
La memoria non si scrive senza pronomi e aggettivi personali. Al suo centro, il testimone; e testimone per eccellenza è oggi chi reca iscritto in sé, nel corpo prima ancora che nella mente, il peso dei processi da cui è stato affetto: la vittima, dunque. Vera protagonista del passato è la soggettività sofferente, cui le istituzioni attribuiscono volentieri il crisma dell’eticità di Stato, istituendola a oggetto di celebrazione pubblica avente forza di legge: il “Giorno della Memoria” (27 gennaio, commemorazione delle vittime della Shoah); il “Giorno del Ricordo” (10 febbraio, in onore delle vittime delle foibe); la “Giornata della Memoria e dell’Impegno in ricordo delle vittime delle mafie” (21 marzo); il “Giorno della Memoria dedicato alle vittime del terrorismo interno e internazionale, e delle stragi di tale matrice” (9 maggio, anniversario dell’omicidio Moro).
Sinistro cortocircuito, che isola gli eventi dalla catena del loro accadere, li ipostatizza in valori invece di spiegarli come fatti, e in tal modo invalida anche il proposito di elevarli a monito perché ciò che è accaduto non accada di nuovo: non chi non ricorda, ma chi non capisce il passato è condannato a ripeterlo».

Pagine 16-17

Ulteriori letture sull’argomento

Il paradigma vittimario

Critica del vittimismo /2

Seconda puntata – dopo aver affrontato (leggi qui) il conflitto tra storia e memoria, generato dal sopravanzare della seconda sulla prima, dalla costruzione di una memoria pubblica, anzi di Stato (nonostante per definizione la memoria non può che essere singolare, parziale e soggettiva), fino all’emergere di una nuova figura di testimone, o meglio a quel processo di selezione che la figura del testimone ha subito, al punto da lasciare sullo sfondo tutti gli altri attori della storia a vantaggio di uno solo di essi, divenuto l’unico testimone legittimo, sancito per legge, il testimone che assume la postura sofferente, il testo di oggi analizza questa nuova figura di vittima, una vittima particolare poiché l’accesso a questo status è selettivo. Non tutte le vittime sono vittime, non basta aver subito una sofferenza, un torto, un danno grave e irreparabile, per divenirlo. Lungo questo tragitto di selezione politica della figura della vittima, la vittima forte – spiega Giglioli – cancella quelle deboli. Ma c’è di più: questa postura vittimaria cela l’essenza del potere attuale che cerca in questo modo nuova linfa per trovare legittimazione. Attenzione, esiste anche un vittimismo dal basso che propone questo paradigma di pensiero come una nuova forma di contropotere che al posto della critica e della prassi radicale ha sostituito il risentimento. Una competizione che ricorda quella «concorrenza tra vittime» di cui scriveva Hannah Arendt, competizione che non salva ma genera solo nuove vittime

 

«La vittima è l’eroe del nostro tempo. Essere vittime dà prestigio, impone ascolto, promette e promuove riconoscimento, attiva un potente generatore di identità, diritto, autostima. Immunizza da ogni critica, garantisce innocenza al di là di ogni ragionevole dubbio. Come potrebbe la vittima essere colpevole, e anzi responsabile di qualcosa? Non ha fatto, le è stato fatto. […] Se solo la vittima ha valore, se solo la vittima è un valore, la possibilità di dichiararsi tale è una casamatta, una fortificazione, una posizione strategica da occupare a tutti i costi. La vittima è irresponsabile, non risponde di nulla, non ha bisogno di giustificarsi: il sogno di qualunque potere».

pp. 9-10

Ulteriori letture sull’argomento
Critica del vittimismo/1
Non tutti hanno il diritto di essere vittime, non tutte le vittime sono vittime allo stesso modo
Quando ai familiari delle vittime si chiede di divenire gli esecutori delle pene. Postille ad un articolo di Claudio Magris
De Luna: Andare oltre il paradigma vittimario

Paradigma vittimario e giustizia internazionale
Populismo penale e vittimismo
Retoriche vittimarie e talk show

Il paradigma vittimario

Critica del vittimismo /1

Innauguriamo oggi una nuova rubrica dal nome L’intempestivo. Lo facciamo proponendo alcuni brani del libro di Daniele Giglioli, Critica della vittima, Nottetempo 2014. Ho letto questo testo appena uscito, nella primavera del 2014, tra un turno e l’altro d’ospedale, dove il piccolo Sirio era ricoverato. Da allora purtroppo non ho avuto modo di recensirlo come avrebbe meritato. Per quanto mi riguarda è il saggio più interessante che ho letto negli ultimi due anni. Si tratta della migliore sintesi di quanto ad oggi è stato scritto e pensato sull’emergenza del paradigma vittimario. Oggi voglio saldare quello che ritengo un debito di riconoscenza suggerendo alcuni dei suoi passaggi più significativi. Cominciamo dal conflitto storia/memoria, dal sopravanzare della seconda sulla prima, dalla costruzione di una memoria pubblica, anzi di Stato, nonostante per definizione essa non può che essere singolare, parziale e soggettiva, fino all’emergere di una nuova figura di testimone, o meglio a quel processo di selezione che la figura del testimone ha subito, al punto da lasciare sullo sfondo tutti gli altri attori della storia a vantaggio di uno solo di essi, divenuto l’unico testimone legittimo, sancito per legge, il testimone che assume la postura sofferente: la vittima. Non tutte le vittime però, ma solo quelle che si vedono riconosciuto l’accesso a questo status, la vittima forte che cancella quelle deboli

7150UK099HL«In primo luogo la memoria, l’ossesione della memoria. Il dovere, addirittura, della memoria, un termine che nel nostro spirito pubblico aspira a spodestare, come ha notato Enzo Traverso, il suo gemello/antagonista storia. Rispetto alla storia, la memoria è soggettiva, intima, vissuta, non negoziabile, autentica se non vera a prescindere: assoluta proprio perché relativa. Configura un rapporto col passato di tipo inevitabilmente proprietario: il mio, il nostro passato.
La memoria non si scrive senza pronomi e aggettivi personali. Al suo centro, il testimone; e testimone per eccellenza è oggi chi reca iscritto in sé, nel corpo prima ancora che nella mente, il peso dei processi da cui è stato affetto: la vittima, dunque. Vera protagonista del passato è la soggettività sofferente, cui le istituzioni attribuiscono volentieri il crisma dell’eticità di Stato, istituendola a oggetto di celebrazione pubblica avente forza di legge: il “Giorno della Memoria” (27 gennaio, commemorazione delle vittime della Shoah); il “Giorno del Ricordo” (10 febbraio, in onore delle vittime delle foibe); la “Giornata della Memoria e dell’Impegno in ricordo delle vittime delle mafie” (21 marzo); il “Giorno della Memoria dedicato alle vittime del terrorismo interno e internazionale, e delle stragi di tale matrice” (9 maggio, anniversario dell’omicidio Moro).
Sinistro cortocircuito, che isola gli eventi dalla catena del loro accadere, li ipostatizza in valori invece di spiegarli come fatti, e in tal modo invalida anche il proposito di elevarli a monito perché ciò che è accaduto non accada di nuovo: non chi non ricorda, ma chi non capisce il passato è condannato a ripeterlo».

Pagine 16-17

Ulteriori letture sull’argomento

Il paradigma vittimario
Pour une critique du paradigme victimaire

Non tutti hanno il diritto di essere vittime, non tutte le vittime sono vittime allo stesso modo
Strage di Brescia: la grande ingenuità di chi ha creduto che la magistratura potesse arrivare alla verità senza cambiamenti politici profondi nelle istituzioni coinvolte
La liberazione condizionale e la lettera scarlatta

Logica premiale e logica vittimaria ispirano la nuova filosofia penale

Quando ai familiari delle vittime si chiede di divenire gli esecutori delle pene. Postille ad un articolo di Claudio Magris

De Luna: Andare oltre il paradigma vittimario

Paradigma vittimario e giustizia internazionale
Quando la memoria uccide la ricerca storica
Genesi del populismo penale e nuova ideologia vittimaria
Una storia politica dell’amnistia
Storia e giornate della memoria
Il nuovo pantheon del martirologio tricolore
Populismo penale e vittimismo
Retoriche vittimarie e talk show

Sabina rossa e gli ex-terroristi: siano liberi senza il sì di noi vittime (Corriere della sera)
Sabina Rossa, “Cari brigatisti confrontiamoci alla pari”

«Non tutti hanno il diritto di essere vittime. Non tutte le vittime sono vittime allo stesso modo»

Al centro di tutto la “vittima meritevole”. Come l’uso politico della nozione di vittima ha trasformato l’azione penale e l’idea di giustizia

Paolo Persichetti
Gli Altri 17 maggio 2013

Per lungo tempo l’idea di giustizia corredava il tentativo di raggiungere obiettivi universali in grado di ripercuotersi nel miglioramento delle condizioni di vita materiali e spirituali di ciascuno. Al concetto di giustizia si associavano l’idea di eguaglianza e fraternità (oggi diremmo anche sorellanza), di libero sviluppo dell’esistenza umana, oppure la salvezza. Insomma qualcosa che contribuiva al bene collettivo (tanto per stare al mutamento dei linguaggi, ora si pronuncia “bene comune”).
Oggi il concetto di giustizia non è semplicemente sovrapposto a quello di diritto, ma indica un diritto tutto particolare, il diritto di punire. Il desiderio di migliorare le sorti collettive è sopravanzato da una visione penitenziale del mondo che vede nell’azione penale, concepita come un paradiso incontaminato contrapposto alla realtà impura dell’agire politico, lo strumento per intervenire sulla realtà.
Questo nuovo senso comune, interamente immerso all’interno di una visione manichea del mondo che non offre scampo, o si è interamente vittime o totalmente colpevoli, ha proiettato la figura della vittima tra gli status sociali più ambiti, rendendola un’«autentica incarnazione dell’individuo meritevole: quasi un modello ideale di cittadino».
In una società dove sempre più viene meno ogni capacità inclusiva e prevalgono al suo posto dispositivi predatori, risultato della «tensione tra ideologia neoliberale del libero mercato e autoritarismo morale neoconservatore», le contraddizioni, i malesseri sociali, la fatica di vivere assumono l’aspetto di un viluppo confuso di sentimenti, di grumi di rancore che intrecciando la paura per l’avvenire e l’ossessione per il declino sociale accentuano i processi d’identificazione vittimistica.
Se c’è una vittima deve esserci per forza un carnefice, ciò preclude per definizione la possibilità che vi possa essere una comune condivisione vittimaria. Non potendo essere tutti vittime ecco che presto si apre la competizione. L’investitura legittimante offerta dallo status di vittima, infatti, resta caratterizzato da un accesso limitato e diseguale. Non tutti hanno il diritto di essere vittime e non tutte le vittime sono vittime allo stesso modo.
La postura vittimaria – spiegano gli studi che si occupano del fenomeno – è riconosciuta unicamente sulla base di selezionati requisiti di ordine sociale, economico, politico, culturale ed etnico; criteri che variano secondo le latitudini. Per i gruppi sociali stigmatizzati in partenza, nei confronti dei quali si presume una contiguità originaria con l’universo criminale o la genealogia del male, non vi è alcuna possibilità di accedere alla santità vittimaria.
In effetti, più della vittima in sé è la nozione di “vittima meritevole” che trova affermazione e legittimazione. La vittima forte non lascia scampo alla vittima debole. Non basta aver subito un torto o un danno per poter essere riconosciuti come tale, occorre innanzitutto entrare a far parte della categoria legittimata ad esserlo, un pantheon esclusivo.
Proiettata dall’ombra lunga d’Auschwitz, l’immagine della vittima trae la sua superiorità etica dalla figura dell’inerme, colui che è oggetto di un’aggressione totale di fronte ad una passività assoluta. Questa asimmetria originaria è tuttavia ben diversa dall’intricato groviglio di conflitti presenti nelle società attuali e che inevitabilmente rende spurio e controverso ciò che si tende a collocare tra le vittime odierne, difficili da districare nell’intreccio spesso simmetrico dei contrasti, delle tensioni e delle violenze.
Più che un giudizio di fatto, lo status di vittima è il risultato di un giudizio di valore talmente significativo, poiché fonte immediata di legittimazione politica, da essere divenuto esso stesso il luogo della disputa. Un terreno di battaglia innescato da quella «esaltazione narcisistica della sofferenza», di cui ha scritto Zigmunt Bauman in Modernità e olocausto, e che alla fine – come sosteneva Hannah Arendt – genera solo altre vittime, negando quel riconoscimento dell’altro che nel dispositivo agonistico del conflitto è il nemico, mentre in quello vittimario diventa l’assolutamente diabolico, il male universale, l’extraumano da bandire, colui che per definizione è fuori da ogni consesso civile.
Lungi dall’aver rafforzato il riconoscimento della dignità umana, la competizione vittimaria si è prestata ad una facile strumentalizzazione che è servita a rafforzare il potere dei Leviatani. Sul piano internazionale, grazie al pretesto dell’ingerenza umanitaria, il paradigma vittimario ha favorito il passaggio dall’etica guerriera alle guerre etiche, alimentando la grande ipocrisia della giustizia penale internazionale che ha permesso ai vincitori di processare i vinti. Come diceva Pascal, «non riuscendo a fare della ragione una forza, hanno fatto della forza l’unica ragione», abolendo ogni capacità di discernimento tra i crimini di lesa umanità universalmente riconosciuti, come tortura, schiavitù, genocidio, misfatti coloniali e le infrazioni commesse da chi ha esercitato il diritto di resistenza.
Sul piano interno, l’ideologia vittimaria ha accompagnato la deriva giustizialista e la controriforma del processo penale, trasformato da luogo di accertamento delle prove a teatro di una cerimonia catartica che dovendo offrire riparazione simbolica alla vittima anticipa anzitempo un giudizio senza scampo per il reo.
Infine, sul piano sociale passivizza i soggetti vittimizzati, amputandone l’interezza umana e la complessità politica e civile, così ridotta all’aspetto monodimensionale di chi esprime solo dolore e sofferenza e domanda una riparazione. Richiesta che non trovando l’appagamento promesso dal processo penale precipita spesso nella spirale del risentimento infinito.

Approfondimenti
Il paradigma vittimario

Strage di Bologna, ancora una testimonianza in favore di Mauro Di Vittorio che viveva a Londra tra «ganja, reggae, punk, indiani d’India e indiani metropolitani»

Terza parte/continua
Le memorie riaffiorano lentamente dalle brume di un tempo lontano ormai 32 anni.

Dopo il salutare scossone provocato dalla nostra inchiesta in difesa della storia di Mauro Di Vittorio, l’ultima delle vittime ad essere stata identificata nella strage della stazione di Bologna del 2 agosto 1980, apparsa sul manifesto del 18 ottobre (leggi qui) scorso e nella quale abbiamo smontato il castello di menzogne costruito nel corso di questi ultimi mesi dal parlamentare finiano Enzo Raisi che ha accusato Di Vittorio di essere uno degli artefici dell’attentato, tornano i ricordi, si fanno più nitidi i contorni, si precisano meglio i dettagli.
Si incrina il muro dell’oblio, per questo ci auguriamo che altri ancora diano il loro contributo. Questo blog è pronto a pubblicarli.
Per mesi abbiamo cercato testimonianze che dessero conferma a quanto avevamo già verificato, al materiale documentale raccolto, parole nuove che reincarnassero quelle carte, tornassero a dare loro un’anima, trasformando in un sentimento caldo la memoria di Mauro.

Non è stato facile. 32 anni sono tanti, troppi, soprattutto per doversi difendere all’improvviso da un’accusa che ti prende alle spalle, a tradimento, perché così è dopo che l’incuria del tempo cancella i ricordi, fa scomparire i testimoni, seppellisce le carte sotto cumuli di polvere, in cassetti dimenticati.
Si parla molto delle vittime in Italia. In questo blog ci sono diversi post e articoli apparsi su alcuni quotidiani che affrontano il tema del paradigma vittimario. Ci sembra che questa vicenda stia dimostrando – se ancora ce ne fosse stato bisogno – come quello delle vittime sia solo un tema strumentale, da mercato politico e giudiziario. Non s’è levata in giro nessuna voce da parte dei “professionisti del dolore” in difesa della memoria di Mauro, nessuno si è preoccupato tra i tanti politici e vertici istituzionali di chiamare Anna Di Vittorio e suo marito Giancarlo Calidori mentre un intero schieramento parlamentare appoggiava l’iniziativa di Raisi nel silenzio complice e ipocrita del presidente della camera Gianfranco Fini. E dalle redazioni dei giornali, fatte salve alcune rare eccezioni purtroppo confinate nella locale, solo tanta sufficienza verso quel che accadeva.
Dopo le lettere dei compagni e amici dell’epoca (qui), dopo la testimonianza di Luciano Di Santo (qui), amico di Marcello, fratello minore di Mauro, indebolito da una malattia che gli impedisce di lottare per difendere la memoria del fratello, ci arriva un ricordo puntuale di Marco Boccitto, giornalista del manifesto, grande amico di Marcello, che ha conosciuto Mauro fino a subirne il fascino, come si capisce da quel che scrive.

Ecco chi era Mauro Di Vittorio
di Marco Boccitto

Ho conosciuto Mauro Di Vittorio all’inizio dell’estate 1980 tramite suo fratello Marcello, uno dei miei primi e “migliori amici”.
Mi colpì subito per le vibrazioni lunghe e serene che emanava, l’approccio libero e disilluso alle lacerazioni che viveva all’epoca il movimento, la filosofia senza smanie di chi sa vivere bene con poco. La decrescita felice non sapevamo neanche cosa fosse, ma lui la praticava con buonissimi esiti. Se ne stava a Londra, in cerca di niente e in attesa di tutto. Diceva che era fantastico, che era pieno di squat in cui vivere e se pure non trovavi lavoro ti davano un sussidio con cui tirare avanti. Parlava di ganja, amicizie intercontinentali, indiani d’India e indiani metropolitani, dei suoi vicini ghanesi e giamaicani, di come il reggae incontrava il punk, insomma l’Inghilterra vista da Brixton, il sobborgo in cui abitava. Difficile mettere d’accordo quei suoi racconti con le rivolte che incendieranno il quartiere di lì a un anno. Difficile anche associare quel suo approccio a un concetto negativo come quello di «riflusso». Ma ancor più difficile è ipotizzare un suo essere altro da questo. «Sai che c’è – gli dissi – se è davvero così ti vengo a trovare…». E lui: «Magari! Da fine luglio sarò di nuovo lì, se vieni puoi stare da me».
Non me lo feci ripetere.  Una sera d’inizio agosto ero davanti alla porta di casa sua, in un fatiscente condominio di squat, a Barrington Road. Con Mauro vivevano una ragazza sarda che forse studiava, un ragazzo veneziano che faceva il cuoco e un altro ancora di cui non ricordo. Di nessuno rammento i nomi. Aperta la porta mi spiegarono che Mauro non c’era, che anche in base a quel che sapevano loro sarebbe dovuto essere lì già da qualche giorno. Chissà, decidemmo, si sarà perso in qualcuno dei suoi giri sconvolgenti. Arriverà. «Intanto puoi dormire nella sua stanza», mi dissero. E così feci. Mi sistemai tra le sue poche cose felici, tra i cylum e gli economici Feltrinelli della beat generation, e malgrado fossi al verde provai a godermi la vacanza in sua attesa.
Qualche tempo dopo gli lasciai un biglietto, qualcosa del tipo «bella sòla che sei, chissà in che trip ti sei perso, grazie comunque x l’ospitalità e alla prossima». Tornato in Italia, il fratello mi parlò del diario bruciacchiato ritrovato sotto le macerie e della storia che conteneva. La spiegazione assurda, ma più che plausibile – anche e me avevano fatto un sacco di storie a Dover perché in tasca avevo solo pochi spicci – del perché Mauro non fosse lì dove doveva stare.

Per saperne di più
Vi diciamo noi chi era Mauro Di Vittorio, le parole dei compagni e degli amici su Lotta continua dell’agosto 1980
L’ultimo depistaggio, la vera storia di Mauro Di Vittorio. Crolla il castello di menzogne messo in piedi da Enzo Raisi
Strage di Bologna, il diario di viaggio di Mauro Di Vittorio
Stazione di Bologna 2 agosto 1980, una strage di depistaggi
Strage di Bologna, la storia di Mauro Di Vittorio che Enzo Raisi e Giusva Fioravanti vorrebbero trasformare in carnefice
Strage di Bologna, in arrivo un nuovo depistaggio. Enzo Rais, Fli, tira in ballo una delle vittime nel disperato tentativo di puntellare la sgangherata pista palestinese
Daniele Pifano sbugiarda il deputato Fli Enzo Raisi: Mauro Di Vittorio non ha mai fatto parte del Collettivo del Policlinico o dei Comitati autonomi operai di via dei Volsci

Sistema penale, ideologia vittimaria e mediazione penale al centro del nuovo diritto di punire

 

di Paolo Persichetti

 

Scrive il professor Franco Cordero nella sua procedura penale (Giuffrè 1991) che l’inquisito (cioè il presunto innocente fintanto che non subentra la condanna definitiva) rappresenta il cuore dell’inchiesta e del giudizio penale. La sua presenza corporea è l’oggetto fisico del processo. Egli è volentieri ritenuto la fonte stessa della prova, l’animale confessante poiché «essendo rare le effusioni spontanee, bisogna stimolarle: gli inquisitori manipolano anime. L’opera richiede un ambiente: luoghi chiusi e tempo ciclico, soggetto a lunghe stasi; presto appare diverso da com’era fuori, irriconoscibile; gli shock da tortura incidono meno del lavoro profondo. Quando sia infrollito al punto giusto, un niente lo smuove». In tal caso il processo nient’altro è che anticipazione della colpevolezza, anteprima della sanzione realizzata attraverso la custodia cautelare e le molteplici forme d’invasività della sfera personale, come le intercettazioni, i sequestri, le pressioni e le intimidazioni.

La nuova prospettiva vittimocentrica
Questa visione, incarnata dal tradizionale diritto di punire, per la quale il reo è una proprietà esclusiva dello Stato, strappato alla vendetta privata per essere sottoposto alla «sofferenza legale», è messa oggi apertamente in discussione da una nuova prospettiva che sposta l’interesse dal reo alla vittima.
In un volume apparso alcuni anni fa, Marco Bouchard e Giovanni Mierolo, Offesa e riparazione. Per una nuova giustizia attraverso la mediazione (Bruno Mondadori, 2005), descrivevano l’apparizione di questo nuovo protagonismo vittimario come la rivendicazione di un’autenticità che l’espropriazione originaria della forza privata degli individui avrebbe sottratto al processo penale per conferirla a una burocrazia di ceti tecnici ed esperti statali, secondo quel processo di razionalizzazione burocratica della modernità già delineato da Max Weber, da cui è scaturito il divieto assoluto di farsi giustizia da soli.
Secondo questa interpretazione, l’entrata nell’astrazione della modernità giuridica avrebbe allontanato la procedura penale dall’esperienza della sofferenza, delle emozioni, dei sentimenti, delle affettività, fino a sancire un percorso di neutralizzazione e spersonalizzazione della vittima a vantaggio di un intangibile risarcimento dell’equilibrio sociale infranto dal delitto. L’emergere di questa nuova visione ha rinvigorito le teorie afflittive della pena da scontare nella sofferenza e nel rimorso, legittimando l’antico desiderio di vendetta insoddisfatto dall’intreccio retributivo-premialistico (più che riabilitativo) che caratterizza l’odierno sistema penale, oscurando la posizione di soggetto debole del reo nel sistema penal-penitenziario.
Un tentativo di risposta a questa tendenza è venuto dalle filosofie che ricercando la conciliazione e la riparazione hanno ispirato le diverse e confuse ricette promosse dal nuovo istituto sperimentale della mediazione penale. Una commissione ad hoc, che ha anche diffuso delle linee di indirizzo generali, è stata messa in piedi dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria.
Al centro di questa nuova filosofia penale vi è l’idea che occorre reintrodurre un rapporto diretto tra vittima e aggressore, aprendo la strada a nuove forme di riparazione dell’offesa che legano indissolubilmente l’aggressore al risarcimento non solo simbolico della vittima.

Un vittimismo del potere camuffato sotto spoglie private
Tuttavia questa innovazione non riscontra la piena unanimità: c’è chi osserva (Vincenzo Ruggiero, Il delitto, la legge, la pena. La contro-idea abolizionista, edizioni GruppoAbele 2011) come il riorientamento della criminologia verso la vittima offre «a una disciplina esausta, la possibilità di rivitalizzarsi e di conseguire legittimità politica». In fondo – osserva sempre Ruggiero – «Le vittime possono anche essere vittimizzate dalla vittimologia ufficiale. In altre parole, possono diventare vittime degli stereotipi che vengono loro imposti. Tra questi la loro presunta incapacità a difendersi, ma anche l’incapacità di definirsi “vittime”, in quanto è comunemente dall’esterno che viene conferito il relativo status». Riserve sono state avanzate anche dalla commissione ministeriale, lì dove si è osservato che l’atto di riparazione richiesto al reo, «imporrebbe alla vittima di essere “oggetto”» di gesti non richiesti o non graditi, per altro al solo vantaggio del reo, a causa degli attuali criteri utilizzati dalle magistrature di sorveglianza che premiano simili condotte, imponendo ai detenuti ipocriti gesti di contrizione esteriore privi di autenticità. «Configurando per la vittima – prosegue la nota della commissione – una ulteriore violenza subita (Giuffrida)», per altro a molti decenni di distanza dai fatti. (Circolare del 14 giugno 2005 – Prot. n. 3601/6051).

L’ideologia vittimaria al centro del nuovo diritto di punire
In questo modo, più che attore del nuovo dispositivo la vittima designata come tale – non tanto la vittima in sé quanto la vittima ritenuta “meritevole” – si ritrova ad essere un oggetto passivo, con un ruolo pienamente strumentalizzato dalla nuova strategia mimetica dello Stato, che facendosi schermo della sua icona martirizzata può dispiegare un nuovo paradossale diritto di punire che nulla c’entra con la giustizia ricostruttiva, evocata troppo spesso a sproposito per giustificare il nuovo istituto della mediazione penale.
Quest’ultima, infatti, dove è stata messa in atto seriamente, ha posto sullo steso piano vittima e aggressore ricercando soluzioni diverse dalla sanzione penale (un esempio viene dalla commissione verità e riconciliazione in Sud Africa) (1). La singolarità italiana sta invece nel voler ibridare giustizia retributiva e riparativa, quest’ultima solo accessoria e non sostitutiva della prima, anzi promulgata in modo da prolungarne gli effetti.
Agendo spesso come una condanna supplementare, priva della legittimità di una sentenza processuale, la giustizia riparativa erogata nel corso dell’esecuzione pena opera come un quarto grado di giudizio, sorta di processo permanente che accompagna l’intera detenzione. Non potendo più intervenire sul reato essa sposta la sua attenzione sulla personalità del reo moltiplicando all’infinito le misure d’interdizione e ostracismo che si abbattono come una rappresaglia sul suo corpo.

Riconciliazione, legalitarismo e giustizialismo
Le ambiguità di queste nuove filosofie riconciliative non finiscono qui: la pretesa di voler fare da battistrada ad un’idea di giustizia come processo relazionale offre un’idea d’emancipazione interamente soggiogata da culture che hanno introiettato il teatro giudiziario-penale come scena privilegiata della regolazione sociale, dimenticando ogni critica verso quelle logiche dell’inimicizia speculare, inevitabilmente contenute in tutte le derive vittimarie, che in passato altri autori hanno denunciato come una pericolosa «esaltazione narcisistica della sofferenza» e che avevano fatto scrivere alla Arendt: «le vittime mietono soltanto altre vittime», introducendo una competizione della sofferenza che mina ogni possibile soluzione o pausa nei conflitti.

note
1.
Il vescovo Desmond Tutu, per spiegare il funzionamento della “commissione verità e riconciliazione” da lui presieduta, ha evocato una nozione della cultura africana, l’ubuntu, ispirato ad una filosofia della giustizia di tipo ricostruttivo e non retributivo. Per fare spazio alla riconciliazione, la verità sulla violenza politica del passato è stata depenalizzata. Le corti penali di giustizia sono state esautorate a vantaggio di una commissione nazionale priva di poteri inquisitori, chiamata ad intervenire solo dopo la richiesta del candidato alla misura dell’oblio giudiziario. Ricostruita la dinamica dei fatti, accertata la responsabilità individuale, veniva concesso l’oblio mentre le vittime ottenevano un risarcimento materiale dallo Stato. Una regola valida per tutte le parti implicate nel conflitto, dai membri del regime segregazionista ai suoi oppositori armati. Chi rinunciava alla commissione, se ritenuto autore di fatti illegali, era passibile di un processo di fronte alla giustizia penale ordinaria senza possibilità d’ottenere in caso di condanna nessuna clemenza.

 


Link utili

Paradigma vittimario
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Sabina rossa e gli ex-terroristi: siano liberi senza il sì di noi vittime (Corriere della sera)
Sabina Rossa, “Cari brigatisti confrontiamoci alla pari”
Prospero Gallinari chiede la liberazione condizionale e lo Stato si nasconde dietro le parti civili
Il nuovo pantheon del martirologio tricolore

La logica premiale e logica vittimaria ispirano la nuova filosofia penale

Un intervento di Vincenzo Guagliardo sui presupposti della nuova filosofia penale: al vertice della pena tende a non esserci più la pena; il rapporto del reato con essa sparisce, al suo posto subentra il rapporto del suo autore con la presunta sicurezza della “vittima”. Il principio vittimario posto al centro delle nuove procedure giudiziarie mentre  il premio interviene  in sostituzione del diritto, la punizione per chi non merita il premio o non lo chiede

Vincenzo Guagliardo
settembre 2011


Il fallimento del sistema penale è sempre più evidente, ma al tempo si assiste all’impazzimento delle società in cui esso vive, nel senso che si ricorre all’esasperazione penalista per rimediare alla crisi che quella stessa esasperazione aveva già creato negli anni Ottanta. E, del resto, si può aggiungere che anche di fronte alla crisi economica si osserva la stessa cosa: i governi aiutano per esempio le banche che hanno creato il danno per… rimediarvi.

In Italia sono rimasti scandalosamente (e silenziosamente) in piedi i manicomi giudiziari, avendo la legge Basaglia del 1978 abolito solo i manicomi civili, e il numero dei pazzi reclusi persiste tranquillamente (1348 nel 2007, 1550 nel 2011). Ma anche gli ergastoli aumentano (1500 circa), insieme al numero dei detenuti in generale (68.000). Ma, ancora, con una novità: l’ergastolo “ostativo”, in base al quale molti ergastolani sono ormai esclusi da ogni beneficio penitenziario a priori e perciò condannati a morire in carcere detto “duro”, dopo lunga espiazione. A meno che… non ci si “penta”, non ci si trasformi cioè in delatori se si ha ancora qualcosa e qualcuno da vendere. Per tutti infine, l’ottenimento della libertà condizionale (o l’affidamento ai servizi sociali) viene subordinato a una richiesta di perdono del reo da rivolgere ai parenti delle vittime. È una prassi stabilita dai magistrati, non richiesta da alcuna legge, in cui è come se i giudici abdicassero al loro ruolo per rimettersi ai parenti delle vittime quali nuovi esecutori della pena al posto dello Stato. Naturalmente, attraverso questi meccanismi e altri le carceri vivono il cosiddetto “sovraffollamento”, eufemismo dietro al quale gran parte del carcere è uno strumento di tortura vera e propria, l’inferno dei corpi.

L’ultimo esempio, umiliante sia per i rei che per le vittime, segna un chiaro regresso civile alla vendetta personale. È perciò evidente che all’inferno dell’anima contribuisce alla grande l’impulso che, in un simile contesto sovraffollato-torturante dei corpi, ha potuto trovare il dispositivo di lealizzazione delle coscienze già in parte descritto in questo libro: il premio in sostituzione del diritto, la punizione per chi non merita il premio o non lo chiede (“trattamento differenziato”).

Possiamo anzi dire che la nuova logica penale descritta in questo libro ha invaso la società ridefinendola in ciò che Frank Furedi* chiama la “società terapeutica”. In essa, non si è più dei cittadini, ma neanche dei semplici regrediti alla precedente condizione di sudditi; forse, piuttosto, verso qualcosa di peggio: dei “pazienti”, ovvero dei “malati”, fragili persone che si rimettono alle mani pietose di quei nuovi confessori-medici che sono i magistrati e il loro sempre più cospicuo e variegato seguito di “esperti” della mente e del controllo sociale. Ma, i pazienti nel nostro caso sono tali – non dimentichiamolo – perché vittime di qualcosa e, più precisamente, di qualcuno. Il principio vittimario posto al centro delle nuove procedure giudiziarie sulla scia dell’esempio anglo-americano, è stato seguito con esemplare volontà avanguardista dall’Italia grazie al silenzio di verità o meglio alla straparlante esorcizzazione  posta sull’aspro conflitto sociale (anche armato), avvenuto nel paese negli anni Settanta. Il principio vittimario giuridifica progressivamente ogni aspetto delle relazioni sociali, fette sempre maggiori della vita quotidiana perdono la loro autonomia e si cercano e trovano capri espiatori per l’altare vittimario.

Ed è proprio la sinistra europea ufficiale, bisogna dire, e non solo la destra neo-liberista, ad aver dato un’enorme spinta a questa deriva rivendicativa e vittimista verso la rinuncia dello stesso concetto di autonomia personale oltre che delle antiche e autonome regole degli spazi conviviali. Nuove “sindromi” prese dal linguaggio medico presentano fatti fino a ieri lasciati all’autoregolazione sociale come denunce di nuovi reati per fissare nuovi diritti e, inevitabilmente, nuovi reati volti a indicare dei colpevoli da consegnare alla punizione. Si pensi a quante leggi si vogliono oggi far nascere su gravidanza, parto e trauma post-parto invece di farne l’oggetto di pubblica attenzione di una coscienza sociale. Sotto al trionfo del principio vittimario, la base gigantesca del rito di caccia al capro espiatorio si afferma come l’unica vera religione dell’inconscio collettivo nella sua più pura espressione. Mentre lo dico, mi fumo quasi una sigaretta senza per questo denunciare chi produce il tabacco. (Ma un medico mi ha detto che uno come me, in un paese civile come l’Inghilterra, giustamente non verrebbe più curato). Ma c’è già chi riflette sui danni provocati dal vino…

Tutte le tortuose tecniche della cinquecentesca Inquisizione romana ritornano a galla seppure camuffate da un nuovo linguaggio “tecnico” per non confessare che ri-esistono a pieno regime i vecchi “tribunali della coscienza” (A. Prosperi**).
Per fare, tra i tanti possibili, un esempio ancora tratto fa Furedi, non possiamo stupirci se in Inghilterra un detenuto rimase ad espiare la pena più di altri perché ostinatosi a non riconoscere di essere una vittima, di avere cioè subito violenza dai genitori quando era piccolo e che per questo da grande aveva compiuto reati. Fino a una trentina di anni fa un comportamento del genere avrebbe potuto essere considerato dignitoso dal senso comune, a prescindere ovviamente da ogni altro giudizio sugli atti di quella persona. Ma oggi, nel nuovo contesto, ogni educatore (o psicologo, o psichiatra, o assistente sociale, o direttore eccetera) aggiornato ma ancora umano, un po’ illuminato, aperto, gli dovrà dire in modo… un po’ cinico: “Tu sei troppo moralista, lasciati andare un po’, sii più realista”. E vi garantisco che questo piccolo paradosso della morale odierna è successo più volte. E già qui si è tentati a concludere che non viviamo più soltanto un carcere criminogeno (prima tesi d’ogni abolizionista), ma un intero sistema di vita, anzi, una nuova Weltanshauung.
Per questa via il giudizio si stacca dalla pena e si concentra sul bisogno di “sicurezza” degli ex cittadini-nuove vittime, si allontana dal reato per concentrarsi sulla presunta pericolosità del suo autore: lo straniero, l’arabo, il mafioso, il terrorista, il tossico eccetera, ai posti che furono dell’ebreo, dell’eretico e della strega. In Italia per questa via delle definizioni a priori e astraenti dei soggetti pericolosi, il razzismo è diventato da tempo politica ufficiale  delle istituzioni. Grazie a un governo di centrosinistra che, con una legge (la Turco-Napolitano) del 1998, costruì dei campi di concentramento per gli immigrati, chiamati eufemisticamente “Centri di permanenza temporanea” (CPT). L’eufemismo era anche un ossimoro: per giocare con le parole non sarebbe stato meglio chiamarli centri di temporaneità… permanente? Comunque sia il successivo governo di centro-destra di Berlusconi e dei razzisti della Lega Nord di Bossi fu meno ipocrita, confermò quella decisione e tolse almeno l’ambiguità linguistica spiegando quel che facevano concretamente questi campi: Centri di identificazione e espulsione (CIE). Campi di concentramento, insomma, grazie ai quali avendoti subito dichiarato clandestino appena entri nel paese, se ti becco ti espello, se non ti becco sarai un individuo ricattabile e ti faccio lavorare per una miseria finché mi va. E così i vari nuovi razzisti italiani si fanno una piccola fortuna con questi nuovi schiavi stranieri da affiancare ai nuovi servi inconsci ex cittadini nazionali alla ricerca dello status di vittime. Una prima conclusione si potrebbe così riassumere: il sistema vittimario-penale si inscrive come unica politica sociale riservata ai poveri che in vari modi vengono etichettati come pericolosi a priori, fino al punto di ricorrere al razzismo istituzionale dei CIE ex CPT.

Accanto a tutto ciò – non perdetevi nel labirinto della follia e ricordate quanto detto più sopra  – c’è varia gente in galera da oltre trent’anni: i capri espiatori, appunto, per dare l’esempio. Perché, come dicono i francesi, tout se tient, ogni cosa è legata all’altra. Ma credo pure che questo trionfo della pena, neo-inquisitoriale e  razzista, cominci a essere vagamente sentito e intuito fuori dalle carceri. Forse (: questa nota è piena di forse). Di recente (settembre 2011) in Italia, in una grande manifestazione sindacale si poteva leggere su uno striscione: “Ci volete servi, saremo ribelli” [corsivo mio]. In Spagna un movimento di precari e proletarizzati si dichiara indignado. Indignato è colui che si ritiene offeso nella sua dignità, che non vuole essere trattato da servo. Un tempo questa parola risultava generica e ambigua, era spesso usata a destra. Oggi può assumere un significato profondo, segnare – forse – un inizio epocale della non-collaborazione alla servitù volontaria.

Ma per capire meglio di cosa si tratta, è opportuno riparlare di quella piccola minoranza reclusa nei manicomi giudiziari. Lì, ci dice l’ipocrisia odierna, c’è un pazzo che, in quanto tale, non merita una pena; ma è necessario, per motivi di “sicurezza” tenerlo chiuso a data indefinita, di proroga  in proroga, appunto perché è pazzo. E così la sua pena indefinita (perché non è una pena) può diventare infinita perché sempre rinnovata come permanenza… temporanea. Mi sembra che tutta la giustizia penale aspiri ad allargare l’orizzonte in questo senso, oltre se stessa, verso questo inferno indicibile, come seconda faccia della medaglia del “siamo tutti vittime” della nuova servitù volontaria. Ripetiamoci: al vertice della pena tende a non esserci più la pena; il rapporto del reato con essa sparisce, al suo posto subentra il rapporto del suo autore con la presunta sicurezza della “vittima”. Ma far stare in carcere o in manicomio o in un CIE per quel che si è invece che per quello che si fa, significa aver adottato il primo passo di una logica da lager.

Essere abolizionista è semplicemente essere convinti della irriformabilità del sistema penale. Non può essere estremista sul piano politico perché vuole fare tutto ciò che è possibile nel presente per avere meno carcere e tribunali di coscienza. L’abolizionismo è perciò estremista sul piano culturale perché per attuarsi deve richiedere un cambiamento di mentalità, una messa in discussione di sé stessi, uno sguardo diverso dalla miopia della servitù volontaria: a partire dal rifiuto dell’antichissimo rito del capro espiatorio su cui si fonda la nostra civiltà, che tutti ci acceca in un cammino suicida.
La speranza è tutto ciò che non si fonda sul calcolo, diceva lo storico olandese Huizinga (morto in un lager nazista), e i calcoli creano non pochi disastri e illusioni, ci dice la crisi attuale.

Note

* Frank Furedi, Therapeutic culture. Cultivating vulnerability in an uncertain age, 2004 [trad. it. Il nuovo conformismo. Troppa psicologia nella vita quotidiana, Feltrinelli, Milano 2005].
** Adriano Prosperi, Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari, Einaudi, Torino 2009.

Link
Populismo penale
Il paradigma vittimario
Cronache carcerarie
La polizia del pensiero – Alain Brossat
Kafka e il magistrato di sorveglianza di Viterbo

Quando ai familiari delle vittime si chiede di divenire gli esecutori delle pene. Postille ad un articolo di Claudio Magris

«Basta con la parodia del perdono», è il titolo di un intervento di Claudio Magris apparso sul Corriere della sera del 9 settembre 2011. «Si tratta di una scelta della coscienza – spiega l’illustre germanista – che per definizione non può essere pubblica, messa in mostra davanti alle televisioni come accade sempre più di questi tempi».
L’altro importante assunto contenuto nell’articolo afferma che il funzionamento della macchina giudiziaria non può ruotare attorno alla presenza del perdono, esercitando clemenza se questo viene concesso oppure severità se viene a mancare. «E’ inutile coinvolgere i familiari delle vittime – conclude Magris – non spetta a loro fare giustizia».

Non possiamo che salutare positivamente questa presa di posizione da parte di una delle firme più prestigiose del maggiore quotidiano italiano. Tuttavia c’è qualcosa nell’argomentare del professore dell’università di Trieste che lascia trapelare una sottile perfidia.

L’intero ragionamento di Magris è sbilanciato sulla questione del perdono, lasciando in ombra il problema della vendetta. D’altronde il tema del perdonismo sembra essere una delle sue ossessioni: nell’arco degli ultimi 9 anni Magris ha scritto ben tre articoli sul Corriere della sera praticamente identici: il primo del 31 luglio 2002, «Il perdono così facile e vuoto», in risposta ad un intervento di Marrina Corradi sull’Avvenire; il secondo dal titolo «L’arte difficile di chiedere scusa», del 16 dicembre 2007, dove si fustigavano lo «spirito del tempo, il tic mediatico: tutti i risvolti di un atteggiamento mentale sempre più diffuso», legati appunto alla moda della perdonanza che va di pari passo con la repentence esibita in forma quasi narcisistica.
Questa asimmetria tra perdono e vendetta sembra voler suggerire che ci sia in giro una dilagare della clemenza, un eccesso di perdonanza che sta soffocando la giustizia. Ora il paradosso sta proprio nell’esatto contrario.
E’ vero che si parla fin troppo di perdono ovunque, come giustamente documenta Magris, ma lo si fa solo per negarlo. Il vero tema di oggi è infatti il vendettismo.

Quando si chiama in causa con tanta fretta, sciatteria e superficialità un sentimento religioso tanto delicato, profondo e complesso, qual’è il perdono, con tutte le implicazioni che esso racchiude anche nella sua economia narcisistica («Chi perdona si pone al di sopra del perdonato. Assurge ad una posizione etica che lo sormonta facendo mostra di una superiore gerarchia morale. L’odio e la vendetta al contrario pongono allo stesso livello del colpevole», ricorda lo stesso Magris in uno dei suoi articoli linkati), lo si fa per istigare sentimenti esattamente opposti.

L’analisi di Magris perde la sua consuetà sottigliezza e non s’accorge che la tematica del perdono è emersa pubblicamente come risvolto del pentimento, termine improprio, imbastardito, perché utilizzato per definire la condotta dei «collaboratori di giustizia».
Un cinico scambio realizzato in nome della ragion di Stato sul mercato della giustizia penale tra chi vende chiamate di correo, accuse contro terzi, de relato ed altre dichiarazioni utili a costruire ipotesi d’accusa e teoremi di colpevolezza e chi, in cambio, offre indulgenza penale e carceraria. Un comportamento che sul terreno strettamente morale in altre epoche veniva qualificato come delatorio ed ora è diventato invece prova di ravvedimento.

Le procedure istituzionali introdotte dalla legislazione premiale dell’emergenza che hanno codificato, in varie forme e gradi, la collaborazione e il ravvedimento (per intenderci l’ampio ventaglio che va dalla collaborazione piena e totale alla dissociazione), prevedevano per l’appunto “atti pubblici di repentance”: dai documenti alle interviste nelle quali si dovevano declamare il riconoscimento dei propri errori, la natura paradigmatica del male compiuto, agli incontri sollecitati e organizzati dentro le carceri, e via via in modo sempre più pubblico all’esterno, con quei familiari di persone colpite che si rendevano disponibili (perché mossi e in qualche modo strumentalizzati) dalla loro matrice cristiana.

Perdonismo e pentimento figli della ragion di Stato
Il nodo dunque non sta, come suggerisce semplicisticamente Magris, in una sorta di diabolica furberia degli individui sottoposti a condanna ma nel sistema penale speciale instaurato a partire dalla fine degli anni 70 e nella cultura giudiziaria che da allora ha formato migliaia di magistrati.

Il processo di privatizzazione della giustizia, la critica al sistema eccessivamente «reocentrico» del processo penale e dell’escuzione penale, sono i fenomeni che hanno rimesso al centro la vittima, o i suoi familiari, facendone i nuovi arbitri del sistema penale.
In realtà il processo a cui abbiamo assitito a partire dagli anni 90 del secolo scorso è ancora più perfido: il sistema giudiziario usa il paradigma vittimario per legittimarsi. Sulle spalle delle vittime, o dei loro familiari (e qui le parole di Magris, lì dove spiega che un familiare colpito non può essere considerato una proprietà come una macchina, sono esemplari) grava la ragione morale che giustifica l’inasprimento delle pene, la vessazione sui corpi dei rei.
Una delega dietro la quale si cela una comoda deresponsabilizzazione della magistratura. La controprova viene quando i familiari hanno chiesto di sottrarsi a questa trappola, (vedi l’atteggiamento di Sabina Rossa) chiedendo ai magistrati, alle leggi e alla Stato di fare integralmente la propria parte.
E’ lì che un sistema perfettamente congeniato salta.

Quando i familiari si sottraggono, non al perdonismo ma al vendettismo, d’improvviso perdono centralità. La magistratura non li ascolta più. Il re è nudo.

Recentemente una detenuta politica condannata all’ergastolo, e che nel frattempo aveva scontato tre decenni di carcere, ha ottenuto la liberazione condizionale dopo reiterati rifiuti da parte della magistratura di sorveglianza. La condizione posta perché l’accesso a questa misura fosse possibile non era una valutazione del percorso trentennale della detenuta, l’assenza di pericolosità sociale, le mutate condizioni storico-politiche, ma l’incontro con una vittima, una persona ferita nel corso di una delle azioni realizzate dall’organizzazione in cui aveva militato tra gli anni 70-80.
L’episodio è avvenuto in presenza di una “commissione conciliatrice” composta da funzionari ed esperti del ministero della Giustizia che operano nel campo della cosiddetta mediazione penale.
La scena descritta nella stessa ordinanza redatta dai giudici ha assunto toni da melodramma: i due che si parlano e si abbracciano davanti al giury che osserva soddisfatto. Ci mancava l’applauso e il brindisi riconciliatorio.
La teatralizzazione del perdono e delle scuse (o delle spiegazioni), la messa in scena di un qualcosa che, semmai ha un senso, non può che averlo in una sfera non pubblica, meno che mai sotto lo sguardo censorio dei professionisti della correzione.
Insomma una pantomima che si prende gioco dei sentimenti delle persone colpite e dei prigionieri sottoposti ad umilianti cerimonie di degradazione simbolica.

Questa, caro Magris, è la parodia del perdono ed è tutta opera dello Stato.

Basta con la parodia del perdono
Claudio Magris
Corriere della sera 9 settembre 2011

Si racconta che, durante una guerra civile in Messico, alcuni rivoltosi volessero fucilare un sacerdote, pretendendo però che questi, prima dell’esecuzione, li assolvesse dal peccato che stavano per commettere. Vero o falso, l’aneddoto indica quanto siano radicati nell’animo umano sia la, violenza sia il bisogno di sentirsi perdonati, innocenti, lavati dalla colpa – magari per accingersi poco dopo, col cuore tranquillo, a un’altra azione malvagia.
Anche le cose e i valori più sacri, come il perdono, possono diventare un’empia parodia, quando vengono ostentati con superficiale e oltraggiosa vacuità. Già anni fa alcuni giornalisti avevano sferzato una mania che dilagava negli organi di informazione: appena un tabaccaio, un benzinaio, un gioielliere o chi altro ancora veniva assassinato da un rapinatore, ci si precipitava a chiedere ai genitori o ai figli della vittima se perdonavano l’uccisore del loro caro, magari non ancora catturato o identificato.
La forza di perdonare, di non lasciarsi imprigionare e oscurare dall’odio e dalla vendetta, è un valore altissimo, rivela ima libertà pure dalle più sacrosante pulsioni emotive, che dà senso e dignità alla persona. Tuttavia il perdono è un fatto esistenziale e morale che riguarda soltanto la coscienza di un individuo e il rapporto fra una vittima e il suo persecutore. Non interessa l’opinione pubblica, non è e non dovrebbe essere una notizia e soprattutto non riguarda la legge né i rapporti fra il colpevole e la società.
Dinanzi a un omicidio, la legge non ha né da perdonare né da far vendette; il suo compito consiste nel ricostruire il fatto, qualificarlo giuridicamente, valutarne le eventuali circostanze aggravanti o attenuanti e comminare la pena. La giustizia non ha certo da considerare un assassino con maggior benevolenza perché è stato perdonato dai congiunti della sua vittima né con maggior severità perché questi ultimi chiedono vendetta. Far assistere ad esempio i parenti di un assassinato all’esecuzione dell’assassinò, come accade in alcuni degli Stati Uniti, declassa la giustizia a vendetta.
Ma c’è un’altra ragione che rende ambigua e regressiva questa smania – che ora sembra riprendere vigore, specie alla televisione – di chiedere alla gente, se perdona l’uccisore di un figlio, di un genitore, di un fratello. Si può perdonare solo in nome proprio, per torti fatti a noi, non ad altri, neppure se ci sono cari come la vita. Non siamo i proprietari dei nostri cari, non possiamo decidere per loro. Siamo padroni della nostra automobile: se qualcuno ce la sfascia possiamo – se lo crediamo – perdonarlo e rinunciare a chiedergli un risarcimento. Ma un figlio, una madre, una sorella, un amico non ci appartengono come una macchina; se qualcuno arreca loro violenza, li fa soffrire, li tortura o li uccide, possiamo – e dobbiamo – rinunciare a vendicarci direttamente e personalmente, ma non possiamo certo «perdonare» (che in qualche modo vuol dire assolvere) chi ha ucciso non noi, ma lui o lei.
Soltanto la vittima ha il diritto di perdonare, anche se talora non può più farlo perché la sua vita è stata spenta.
Il perdono di un omicidio che ha colpito la propria famiglia caratterizza le arcaiche società tribali e sopravvive nella società mafiosa, perché in quelle culture è la «famiglia» – in senso stretto o traslato – che conta, non il singolo individuo, il quale le appartiene ed è appunto considerato una sua proprietà. L’omicidio diviene allora un danno, ancorché ingente, subito dalla «famiglia» e, come tale, può essere perdonato mercé un adeguato risarcimento.
La civiltà – almeno la nostra – si fonda invece sul valore insopprimibile, irripetibile e insostituibile del singolo individuo, di ogni individuo; sul suo inalienabile diritto alla dignità e alla vita, la cui infrazione non può essere «perdonata» da nessun altro.
Chiedere, pubblicamente, a chi soffre la morte di una persona amata se perdona o no chi l’ha uccisa è una pacchiana sfacciataggine, che viola il senso della legge e offende l’autentica, non sbandierabile pietà del perdonare.

Link sul paradigma vittimario
De Luna: Andare oltre il paradigma vittimario

Paradigma vittimario e giustizia internazionale
Quando la memoria uccide la ricerca storica
Genesi del populismo penale e nuova ideologia vittimaria
Una storia politica dell’amnistia
Storia e giornate della memoria
Il nuovo pantheon del martirologio tricolore

Uso penale del paradigma vittimario
La liberazione condizionale e la lettera scarlatta
Populismo penale e vittimismo
Retoriche vittimarie e talk show

Sabina rossa e gli ex-terroristi: siano liberi senza il sì di noi vittime (Corriere della sera)
Sabina Rossa, “Cari brigatisti confrontiamoci alla pari”
Prospero Gallinari chiede la liberazione condizionale e lo Stato si nasconde dietro le parti civili

Giovanni De Luna, «Serve un nuovo patto memoriale che vado oltre il punto di vista vittimario»

L’intervista – Giovanni De Luna, Storico, autore di La Repubblica del dolore. Le memorie di un’Italia divisa, Feltrinelli

«Lo spazio pubblico – spiega Giovanni De Luna – è colonizzato dal lutto e dal dolore. La centralità delle vittime alimenta una fortissima carica rivendicativa, un’inesausta richiesta di risarcimento e di riparazione. E poi ancora la soffocante presenza delle emozioni: odio, vendetta, perdono, pietà, compassione». Dopo l’analisi proposta alcuni anni fa da Enzo Traverso in Passato, modi d’impiego, sul peso che la nuova centralità vittimaria ha assunto nel discorso storiografico, Giovanni De Luna approfondisce lo sguardo critico sul fenomeno adeguandolo al contesto italiano.

Per una genealogia italiana del paradigma vittimario

Il paradigma vittimario tracima ampiamente la questione storiografica, la sua diromppenza ha stravolto l’intero modo di funzionamento dell’impianto giudiziario ed è divenuta centrale anche nei nuovi modelli di affermazione politica come il populismo penale. Per restare, però, ad una genealogia italiana della “centralità delle vittime” nel discorso pubblico, a nostro avviso occorre fare un passo indietro. Prima che si affermasse oltre Oceano come aspetto decisivo del populismo penale, e che arrivasse in Europa sull’onda del neoliberismo, della destrutturazione dello Stato Keynesiano, della privatizzazione sempre più estesa dello spazio sociale, in Italia era stato il partito comunista a salire sul cavallo di battaglia del vittimismo in funzione “antiterrorista”. Il patrocinio legale offerto dai legali ufficiali del pci alle parti civili nei maxi-processi contro la lotta armata, la retorica costruita sulla stampa e gli organi di comunicazione influenzati dal partito di Berlinguer, hanno gettato le prime basi ideologiche del discorso vittimario.

Il secondo passaggio, tra la fine degli anni 80 e buona parte dei 90, fu gestito invece dal partito editorial-finanziario di Repubblica. Fu Eugenio Scalfari a promuovere le “vittime del terrorismo” a nuovi arbitri della politica in funzione antiamnistia. Vennero gettate allora le basi del successivo processo di “privatizzazione della giustizia”, negli ultimi tempi rifiutato nettamente da una minoranza di familiari delle vittime (vedi la battaglia condotta da Sabina Rossa). Un processo che condusse la magistratura, dopo la funzione di supplenza antiterrorista svolta per conto del sistema politico, ad adossare ai familiari l’ultima supplenza, questa svolta in materia di conclusione dell’esecuzione penale con l’introduzione del rito della richiesta di perdono come requisito necessario alla concessione delle liberazioni condizionali per i prigionieri politici.

Paolo Persichetti
Liberazione 8 maggio 2011


Un profluvio di leggi memoriali ha accompagnato l’avvio del nuovo secolo. Ne parliamo con Giovanni De Luna, autore di un volume fresco di stampa, La Repubblica del dolore. Le memorie di un’Italia divisa, Feltrinelli. Dal luglio 2000 al novembre 2009 il parlamento italiano ha istituito tra i nuovi riti pubblici della nazione un gran numero di “giornate della memoria”. Si è partiti nel 2000 con la giornata dedicata al ricordo dei deportati nei campi di concentramento e di sterminio nazisti. La data prescelta è caduta sul 27 gennaio, giorno dell’apertura dei cancelli di Auschwitz da parte dell’armata rossa, anziché sul 16 ottobre, quando i nazisti rastrellarono il ghetto di Roma. Ricordare è selezionare, spiegano gli storici che hanno lavorato sulle memorie pubbliche. Non a caso Marc Bloch invitava a diffidare del presente quando si proietta sul passato. Declinare la data del 16 ottobre, sottolinea Giovanni De Luna, «voleva dire assumersi la responsabilità italiana della Shoa, perché senza la repubblica di Salò, la complicità delle Ferrovie italiane, dell’infrastruttura italiana, quei mille ebrei romani non sarebbero finiti ad Auschwitz». E così ogni 27 gennaio va in scena il rito dell’autoassoluzione, la stigmatizzazione di un male tanto assoluto quanto poco circostanziato, per nulla storicizzato. Le scolaresche d’Italia ricordano per meglio dimenticare. «La Francia dopo un acceso dibattito, ha scelto il luglio del 1944, quando vi fu la deportazione del “Vel d’hiv”, proprio perché con quella data intendeva assumere la sua parte di responsabilità nella Shoa». Un ragionamento analogo potrebbe essere svolto per ogni altra giornata prescelta, come quella del 10 febbraio in memoria delle vittime delle foibe, o del 9 novembre che ricorda la caduta del muro di Berlino, fino alla scelta del 9 maggio, giorno in cui venne ucciso Aldo Moro, come giornata dedicata al ricordo delle vittime del terrorismo, al posto del 12 dicembre, data della prima grande strage di Stato avvenuta 9 anni prima. In questo caso ricordare diventa rovesciare. La memoria vittimaria si è dunque imposta come il paradigma centrale delle narrazioni pubbliche e dei riti ufficiali.

Professore, quali sono state le tappe di questa trasformazione?
«Quando 20 anni fa è crollata la prima Repubblica i partiti che hanno ereditato il potere politico sono stati chiamati a rifondare non solo il sistema politico ma anche quella che possiamo definire la “religione civile”. Questo tentativo è fallito. All’inizio si provò ad affiancare la memoria di Salò alla memoria della Resistenza con il famoso discorso d’insediamento alla presidenza della Camera pronunciato da Luciano Violante nel 1996. Si cercò di allargare lo spazio pubblico in cui chiamare i cittadini a riconoscersi all’interno di una cittadinanza condivisa attraverso l’inclusione della memoria di Salò.

Perché questo progetto fallisce?
Perché si rivela sterile, impossibile da portare avanti. A quel punto lì si sceglie di riorganizzare le fila di un discorso sulla religione civile a partire dalla memoria delle vittime. Questa dimensione diventa straripante: c’è la Shoa, le vittime delle foibe, le vittime del terrorismo, le vittime della mafia… Ma anche questa soluzione si rivela molto fragile perché la memoria delle vittime è una memoria carica di sentimenti, è una memoria risarcitoria, rivendicativa, una memoria non pacificata soprattutto in un Paese come il nostro in cui molte delle vittime aspettano ancora giustizia e verità per l’assenza di istituzioni virtuose in grado di rasserenare e raccogliere questa memoria. L’idea di aver puntato prima sulla memoria condivisa e poi sulla memoria vittimaria, è una idea che si è rivelata fragile. La memoria vittimaria è una memoria insufficiente, non può servire a recintare uno spazio pubblico.

Questa tendenza spesso viene descritta come un processo generale.
Certo, si tratta di una tempesta memoriale che l’Italia condivide con l’Europa occidentale, con gli Stati uniti. Siamo di fronte ad uno scenario complessivo che rinvia al modo con cui lo Stato nazione è stato svuotato dall’alto dai flussi della globalizzazione e dal basso dai particolarismi, dai localismi che si sono affermati. In Italia questa crisi dello Stato potente ha coinciso anche con la crisi del sistema politico, in più la nostra religione civile è stata sempre molto fragile, priva di tradizione accettata e conclamata. Nella religione civile dello Stato liberale non si riconoscevano i socialisti, i comunisti ma neanche i cattolici. Tuttavia la classe dirigente liberale si era assunta la responsabilità di indicare nel culto della dinastia dei Savoia, nei padri della patria del Risorgimento, dei paletti che potessero delimitare spazio pubblico. Il fascismo, a sua volta, si è assunto fin troppo la funzione di indicare una religione civile legata al culto del Duce, alla militarizzazione del Paese, certo escludendo gli antifascisti, escludendo gli ebrei. La stessa Italia della prima Repubblica, almeno a partire dagli anni 70 in poi, intorno all’antifascismo, al patto costituzionale, indicava dei nuovi paletti che delimitavano lo spazio pubblico della condivisione, seppure contestati dall’estrema sinistra e dai fascisti di Salò. La  classe politica della seconda Repubblica questa responsabilità non se l’è assunta perché non ha nessun rapporto con il passato, con la memoria. La Lega ha inventato un passato fantasmatico di ritualità celtico-pagana che non ha nessuna radice reale. Forza italia e Pdl non hanno un passato, sono culture usa e getta senza storia. Gli ex del Pci o del Msi hanno un passato ingombrante che preferiscono dimenticare. Nel sistema politico attuale l’interesse verso il passato, verso la memoria, verso una ritualità celebrativa si è totalmente disciplinata a vantaggio del mercato. L’unico agente che oggi perimetra appartenenze e ritualità. Esemplare è stata la discussione sulla data del 17 marzo o sul primo maggio. L’unica cosa che interessava era sapere se i negozi dovessero restare aperti o chiusi, quanta percentuale di pil si rischiava di perdere introducendo un nuovo festivo. insomma una dimensione puramente mercantile che poi è la religione civile oggi egemone.

Professore però qui sembra di finire come nella canzone “Contessa”. Ma il nostro compito non era stato sempre quello di decostruire qualsiasi religione, comprese quelle civili? In fondo altro non è che un uso pubblico della storia?
C’è un dibattito fortissimo attorno a questo termine, me ne rendo conto. Quando uso questo concetto mi riferisco ad una cosa storicamente definita: ovvero tutto quello che riguarda ritualità, simboli, cerimonie che in qualche modo rendono uno Stato nazionale non soltanto un apparato burocratico-amministrativo ma qualcosa che abbia anche dei valori da trasmettere. Uno Stato capace di perimetrale i luoghi della memoria e in qualche modo di legittimare i programmi scolastici, di legittimare i musei, di legittimare tutta la dimensione della ritualità pubblica in cui la politica moderna si è riconosciuta quando ha dovuto prendere le distanze dall’ancien régime, da una visione confessionale della religione civile. Questo spazio è tutto quello che disintegra i vecchi caratteri del “tengo famiglia, mi faccio i fatti miei”, un qualcosa che sia spirito civico, spirito comunitario, spirito di appartenenza.

Nel suo libro valorizza molto il ruolo di supplenza della presidenza della Repubblica. Non le sembra però che questa autorità, ed in particolare l’interpretazione che ne da Napolitano, sia totalmente interna al paradigma vittimario come dimostra il particolare impegno profuso nella giornata del 9 maggio?
Il paradigma vittimario è egemone in tutto il mondo, difficile che possa sottrarsene il Quirinale. Anche gli ambienti più sensibili ai temi della lotta sociale ormai sono totalmente assorbiti da questo paradigma. Si pensi alla battaglia che fanno i ragazzi di “Libera”, l’associazione di don Ciotti. La giornata del 21 marzo, quella che loro propongono per le vittime della mafia, perché non è semplicemente la giornata della lotta contro la mafia? Non serve la testimonianza delle vittime per rendere credibile la lotta alla mafia. Eppure è così. Questo fatto mostra una subalternità culturale alla centralità delle vittime. Nel caso della presidenza della repubblica mi sembra che questa subalternità sia temperata. Si tratta dell’unica istituzione che pur restando all’interno di questa deriva culturale si preoccupa di recintare un territorio di valori, sferzando la classe politica a creare un nuovo pantheon in cui riconoscersi senza appiattirsi sulla dimensione vittimaria. Merito sia di  Ciampi che di Napolitano.

Non le sembra che la centralità del discorso vittimario sia in Italia anche una conseguenza del ruolo preponderante assunto dalla magistratura nella scena politica e sociale? Una conseguenza di quella che gli specialisti hanno definito “giudiziarizzazione”?
Per me è l’era del testimone quella all’interno del quale il paradigma vittimario diventa l’approdo. Certo il testimone comincia in un’aula giudiziaria, quella del processo ad Adolf Eichmann all’inizio degli anni 60, però coinvolge tutti. Anche noi storici, non soli i giudici, siamo dentro questa sorta di grande giudiziarizzazione della storia. Si tratta di una temperie culturale dell’Occidente. Tra l’altro anche questa dimensione va storicizzata: agli inizi l’era del testimone è dinamica, irrompe nella storia e ne rivivifica anche i metodi, i percorsi di ricerca, perché ridà voce ai protagonisti, agli emarginati. La storia orale nasce lì. E’ una storia che non guarda più al potere ma alle classi subalterne. La stessa memoria familiare delle vittime negli anni 80, almeno in Italia era totalmente declinata verso l’interesse pubblico. La verità e la giustizia, per cui lottavano negli anni 80 i familiari delle vittime di Ustica, non sono dei patrimoni privati ma delle virtù pubbliche propedeutiche alla democrazia. Il paradigma vittimario va storicizzato individuandone le varie fasi. Oggi è certamente egemone un altro aspetto meno legato alle virtù pubbliche e che ha assunto delle caratteristiche puramente recriminatorie, ma nella sua evoluzione non è sempre stato così.

Link sul paradigma vittimario
Paradigma vittimario e giustizia internazionale
Quando la memoria uccide la ricerca storica
Genesi del populismo penale e nuova ideologia vittimaria
Una storia politica dell’amnistia
Storia e giornate della memoria
Per amore della storia lasciate parlare gli ex brigatisti
Il nuovo pantheon del martirologio tricolore

Uso penale del paradigma vittimario
Populismo penale e vittimismo
Retoriche vittimarie e talk show

Tranquilli Vincenzo Guagliardo dopo 33 anni resta in carcere
Ancora ergastolo per Vincenzo Guagliardo
Sabina rossa e gli ex-terroristi: siano liberi senza il sì di noi vittime (Corriere della sera)
Sabina Rossa, “Cari brigatisti confrontiamoci alla pari”
Sabina Rossa,“Scarcerate l’uomo che ha sparato a mio padre”
La battaglia di Sabina Rossa per l’uomo che sparò al padre
Prospero Gallinari chiede la liberazione condizionale e lo Stato si nasconde dietro le parti civili

Interviste a Giovanni De Luna
Giovanni de Luna, “Golpismo e stragismo non sono proponibili come un paradigma esaustivo della storia degli anni 70”
Strage di Brescia: “Senza verità giudiziaria il passato non passa”

Franz Kafka e i professionisti della correzione

Michael Löwy, Franz Kafka. Rêveurs insoumis, Paris 2004

Riflessioni quanto mai attuali sull’uso della pena. Un’anticipazione dei moderni strumenti d’interiorizzazione della colpa introdotti nell’ordinamento penitenziario con i dispositivi premiali previsti dalla legislazione in favore dei dissociati e successivamente dalla Gozzini. Oggi ulteriormente sviluppati dopo che la figura della vittima è divenuta il perno del sistema penale. Il diritto alla riparazione simbolica dell’offeso è lentamente scivolato verso un potere di punire quantificato in base alla natura e all’entità della pena da infliggere e al riconoscimento di una capacità d’interdizione e ostracismo perpetuo sul corpo del reo. Questo processo di privatizzazione della giustizia trae origine dalla convinzione che la liturgia del processo penale possa svolgere una funzione terapeutica. Il sistema giudiziario perde il proprio ruolo di ricerca delle responsabilità per rivestire la funzione di riparazione psicologica della persona offesa. In questa prospettiva la ricerca della verità giudiziaria non offre scampo. Essendo un momento necessario all’elaborazione del lutto, la dichiarazione di colpevolezza e l’ostracismo perpetuo resta l’unica soluzione accettabile, perché il proscioglimento o la reintegrazione civile dell’accusato ostacolerebbero la guarigione mentale della vittima.
L’uso strumentale della retorica vittimistica ha così legittimato il capovolgimento dell’onere della prova, il passaggio alla presunzione di colpevolezza, l’aggravamento delle sanzioni, la limitazione dei diritti dell’accusato e l’immoralità delle amnistie, fino al paradossale esercizio di un’etica selettiva che perde improvvisamente tutta la sua intransigenza di fronte a quella ragion di Stato che ha premiato pentiti e dissociati


In un brano, conosciuto sotto il nome di frammento del sostituto, e ritrovato nei suoi quaderni postumi, Franz Kafka si diverte a mettere in scena il ragionamento servile e ottuso di un sostituto procuratore incaricato di sostenere l’accusa nei confronti di un uomo incolpato di lesa maestà.
Secondo il magistrato le cose del mondo dovevano attenersi ad una curiosa geometria dell’autorità che vede la vita assumere sempre una linea ricurva, nella quale la postura dell’essere ha senso unicamente se rivolta in posizione arcuata, prona, reclina, flessa, prostrata, accucciata, soprattutto mai dritta: «Egli credeva che se tutti avessero collaborato con il Re e il Governo nella calma e nella fiducia, si potevano superare tutte le difficoltà[…] più grande era la fiducia, e ancora di più si doveva curvare la schiena, ma in virtù di principi naturali, senza bassezza. Ciò che impediva uno stato di cose così auspicabile, erano personaggi della risma dell’accusato che, usciti da non si sa quali bassi fondi, venivano a disperdere con le loro grida la massa compatta delle brave genti». L’obiettivo della macchina giudiziaria non era più quello d’applicare un semplice castigo ma di spingere a collaborare attivamente alla propria punizione affinché la condanna assumesse il senso di una vera correzione, o piuttosto l’ossimoro della correzione, cioè il raddrizzamento, la messa in riga attraverso la curvatura dell’individuo. L’essenziale della pena diventa il processo d’interiorizzazione del sentimento di colpa. Senza una vera adesione alla propria penitenza, non c’era alcuna salvezza possibile. L’infrazione penale prendeva allora le sembianze di una colpa teologica, nella quale crimine e peccato appaiono indissolubilmente intrecciati.