Il governo della paura

Tratto da Il governo della paura. Guerra alla criminalità e democrazia in America, Raffaello Cortina editore 2008 (2007)

di Jonathan Simon
Liberazione
(supplemento Queer) 13 luglio 2008

Il governo attraverso la criminalità rende l’America meno democratica e più polarizzata dal punto di vista razziale; esaurisce il nostro capitale sociale e reprime la capacità di innovare. Malgrado tutto questo, il governo attraverso la criminalità, non ci ha resi – e io credo che non possa renderci – più sicuri; esso, anzi, alimenta una cultura della paura e del controllo che, 323-queer-13-07-081 inevitabilmente, abbassa la soglia della paura nel momento in cui sottopone i cittadini americani a una pressione sempre più forte. Le conseguenze dell’ascesa della questione criminale a uno status del genere sono state enormi: che si individui il valore della democrazia americana nelle sue caratteristiche di libertà o di uguaglianza, il governo attraverso la criminalità ha prodotto effetti negativi. In primo luogo, il massiccio dirottamento di risorse fiscali e amministrative verso il sistema di giustizia criminale – a livello statale e federale – ha configurato una trasformazione efficacemente descritta come transizione dallo “stato sociale” allo “stato penale”. Il risultato non è stato un governo più leggero, ma un esecutivo più autoritario, un potere legislativo più inerte e un sistema giudiziario più difensivo di quanto sia mai stato imputato allo stesso stato sociale. Inoltre, la parte di popolazione sotto custodia penale per aver commesso reati è cresciuta al di là di ogni legge storica. Alla fine del XX secolo, un numero senza precedenti di americani era confinato in prigioni statali o di contea, in centri di detenzione e luoghi di custodia all’interno delle scuole. La declinazione razziale di questa incarcerazione ha visibilmente invertito aspetti chiave della rivoluzione dei diritti civili. Per la prima volta dall’abolizione della schiavitù, un gruppo definito di americani vive, su basi più o meno permanenti, in una condizione giuridica di non-libertà – in virtù di una singola condanna all’ergastolo, di ripetute incarcerazioni, oppure delle conseguenze di lungo termine di una condanna penale; non solo, ma tra questi una sconcertante percentuale discende dagli schiavi liberati. Governare questa porzione di popolazione attraverso il sistema penale non ha garantito quelle condizioni di sicurezza che 9788860301727 potrebbero ispirare un maggiore investimento delle inner cities (cinture urbane, Ndr), ma, al contrario, ha ulteriormente stigmatizzato comunità già assediate dalla concentrazione della povertà. Come è prevedibile, sono i poveri, sovrarappresentati in entrambi i gruppi, a condividere questo destino; ma anche la vita quotidiana delle famiglie middle class è stata trasformata, non tanto dalla criminalità in sé, quanto dalla “paura della criminalità”. Nelle famiglie appartenenti alla middle class, decisioni quali dove vivere, dove lavorare e dove mandare a scuola i figli sono prese sempre più spesso in base al rischio percepito di criminalità. Nella misura in cui le istituzioni che sono al servizio della middle class si concentrano sulla gestione della paura della criminalità, la nostra nei confronti degli altri e quella degli altri nei nostri confronti, gli effetti si moltiplicano. Il punto non è che la middle class sia più colpita dal governo attraverso la criminalità di quanto lo siano i poveri; piuttosto, è considerare tanto il sistema di giustizia penale incentrato sulla comunità povere quanto il settore privato degli ambienti securizzati middle class alla stregua di specifiche modalità di classe, tra loro interagenti, del governo attraverso la criminalità. Tanto l’emergere delle gated communities (complessi residenziali chiusi all’accesso dei non residenti, Ndr) quanto il moltiplicarsi di smisurati Suv (sport utility vehicles) riflettono la priorità accordata dalle famiglie middle class alla sicurezza e al mantenimento della distanza, contro un rischio di criminalità associato ai poveri urbani. Ma come i critici dello sprawl (progressiva estensione delle città oltre il perimetro urbano, Ndr) hanno iniziato a documentare, un’insistenza così pesante sulla fortificazione rende queste comunità ancora più dipendenti da una polizia aggressiva e dallo stato penale per la tutela delle norme di civiltà. Infatti, il nuovo ambiente securizzato tende ad alimentare alcune routine circoscritte, ma quando si presentano situazioni inedite, esso tende a creare ciò che gli economisti chiamano (in modo appropriato, nel nostro caso) “dilemma del prigioniero”: vale a dire un gioco in cui i giocatori non possono collaborare, e possono avere la meglio solo se si fanno predatori per primi. L’ultimo che resta fuori perde (anche se sta tornando al suo Suv o nella sua gated community). In un ambiente di questo tipo, è lecito aspettarsi che querele e procedimenti penali intervengano sempre più a ristabilire il controllo sociale in assenza di fiducia.
La democrazia americana è minacciata anche dall’emergere della vittima del crimine come modello dominante del cittadino in quanto rappresentante della gente comune, i cui bisogni e le cui capacità definiscono la missione del governo rappresentativo (Garland, 2001a, p. 249). Una serie di nuove forme di conoscenza porta adesso la “verità” delle vittime all’interno del sistema penale e al di là di questo (Simon, 2004, 2005). Le verità di queste vittime sono potenti, e spesso travolgono il significato emotivo di altre questioni. Esse minano le forme di solidarietà e di responsabilità necessarie alle istituzioni democratiche.
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Le vittime di reati sono in senso letterale i soggetti più rappresentativi del nostro tempo (Garland, 2001a, pp. 70-72). E’ infatti in veste di vittime della criminalità che gli americani possono immaginarsi più facilmente come uniti; la minaccia del crimine al contempo ridimensiona le differenze esistenti tra loro e li autorizza a compiere passi politici decisivi. Di conseguenza, una parte considerevole dell’attività legislativa delle istituzioni rappresentative americane riguarda la criminalità. La vulnerabilità e i bisogni delle vittime delineano le condizioni ideali per l’intervento del governo.
La natura di tale identità della vittima è profondamente connotata in termini razziali. Non sono infatti tutte le vittime, ma essenzialmente quelle bianche, suburbane e middle class ad aver ispirato con la loro visibilità questa ondata di legislazione. La legislazione anticrimine ha un proprio luogo immaginario: aree residenziali sicure e rispettabili, tipicamente suburbane e circondate da un confine chiaramente demarcato sul quale si abbattono la criminalità, la povertà e l’incremento demografico delle minoranze. Le vittime di criminalità violenta hanno assicurato un volto pubblico alla legittimazione della guerra alla criminalità, sebbene tale guerra abbia preso di mira soprattutto reati non violenti e spesso persino senza vittime individuabili, come le violazioni della disciplina sulle droghe o delle norme che vietano agli autori di reato di detenere armi da fuoco (Dubber, 2002).
Ma sebbene le vittime abbiano avuto successo nel rivendicare l’attenzione e l’intervento del legislatore, questa forza non riesce a tradursi in prestazioni legate al moderno stato sociale. Al contrario, secondo la logica della moderna legislazione penale le vittime possono trarre beneficio solo dalla produzione di una sicurezza generale che discenderebbe dalla punizione del colpevole, oppure – in caso di morte di uno dei propri cari – da eventi psicologici come la “closure” (l’esecuzione capitale come terapia finalizzata a curare la sofferenza delle vittime, Ndr) (Zimring, 2004). Qualora invece le vittime ricevessero qualcosa di paragonabile, per esempio, a un’indennità di disoccupazione, esse verrebbero a rappresentare solo un ulteriore gruppo di interesse in cerca di reddito, e non certo il modello di “volontà generale” che esse impersonano attualmente.
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Negli anni Ottanta, la vittima della criminalità è emersa dall’ombra del soggetto dei diritti civili per costituirsi come soggetto politico idealizzato in sé. In una sorta di estensione all’“uomo qualunque”, le rivendicazioni delle vittime di criminalità fecero propria la critica di complicità che gli attivisti dei diritti civili e le femministe avevano articolato a proposito del coinvolgimento dello stato nella violenza criminale. Era il fallimento dello stato liberale nella forma del processo accusatorio, della cauzione e delle alternative alla detenzione come la parole, a permettere a gente nota (o sospettata) come criminale dalla polizia, di uscire dal carcere in anticipo (se non addirittura di evaderne) e di porre in atto ulteriori aggressioni alla proprietà e alle persone.
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Una volta separata dal soggetto dei diritti civili, la vittima della criminalità può legarsi facilmente a un altro nucleo fondamentale di mobilitazione politica (soprattutto da parte dei repubblicani): il contribuente, vittimizzato dal governo, minacciato da un’avida classe politica di perdere i propri averi e persino la capacità di avere una casa propria. La vincente retorica repubblicana sulle tasse degli anni Settanta e Ottanta collegava tutto questo all’elevato costo del welfare per i poveri e le minoranze urbane – le stesse comunità accusate di generare criminalità. Di conseguenza, gran parte della legislazione prodotta dal governo federale e dagli stati negli ultimi vent’anni sembra essere ispirata alla regola implicita secondo la quale i legislatori non devono mai sembrare avversi agli interessi di un soggetto politico che è al contempo contribuente e (potenziale) vittima di criminalità.

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