La storia della nascita del giustizialismo, da mani pulite ai populisti passando per i girotondi

Breve storia del giustizialismo

Schermata 2020-02-13 alle 09.17.36

Paolo Persichetti, Il Riformista 12 febbraio 2020

È con il referendum del 1987 sulla responsabilità civile dei magistrati che l’azione della magistratura si impone come uno dei temi centrali della lotta politica. Dopo un decennio di consenso pressoché unanime attorno alla gestione della “emergenza giudiziaria” contro i movimenti sociali e i gruppi della sinistra rivoluzionaria armata, il protagonismo raggiunto dal sistema giudiziario comincia a essere messo in discussione. Il “caso Tortora” incrina l’unanimità del sistema politico di fronte a un’azione penale che era andata oltre la delega ricevuta oltrepassando i binari della sola repressione dei gruppi antisistema. Tuttavia questi tentativi di contrasto non indeboliscono la magistratura che, trovando una solida sponda in una parte del sistema politico (il Pci), può accrescere il proprio bagaglio di legittimità sociale erigendosi a unica istituzione integra del Paese, dopo il rovinoso effetto domino provocato dalla caduta del muro di Berlino sulle fondamenta della Prima Repubblica. Non a caso la centralità dell’azione penale si afferma definitivamente nel decennio successivo con l’avvio del ciclo d’inchieste denominate “Mani pulite”, per restare nel ventennio che segue il perno attorno al quale ruota l’agenda politico-istituzionale e si mobilitano i repertori ideologici delle nuove formazioni politiche populiste che si succedono nel frattempo: Lega, Girotondi, Idv, Popolo Viola, Rivoluzione civile, Fratelli d’Italia, M5s.

Giudiziarizzazione della società
Per descrivere questa nuova realtà fu coniato un neologismo, giudiziarizzazione, un fenomeno descritto da autori come Neal Tate e Torbjorn Vallinder in un volume del 1995 che ha fatto scuola, The Global Expansion of Judicial Power, poi divulgato in Europa dai lavori di Antoine Garapon e Denis Salas. Le radici italiane della giudiziarizzazione risalgono agli anni 60, quando le porte della magistratura si aprono a ceti sociali prima esclusi favorendo lo svecchiamento della cultura giuridica. Fu allora che si mise in discussione la mancata applicazione di buona parte del dettato costituzionale, congelato da una sentenza della Corte di Cassazione negli anni in cui questa svolgeva il ruolo di supplenza della Consulta non ancora istituita. La Suprema Corte aveva suddiviso la costituzione in norme immediatamente attuabili e norme programmatiche che il legislatore avrebbe dovuto completare successivamente. Tra queste ultime si trovavano le parti a più alto contenuto innovativo in materia economico-sociale e dei diritti.

Per modificare questa situazione la corrente di sinistra della magistratura cominciò a elaborare la cosiddetta “teoria dell’interferenza”, attraverso la quale – racconta Giovanni Palombarini nel suo Giudici a sinistra, 2000 – si cerca di ripristinare la completezza del dettato costituzionale attraverso un uso dell’interpretazione e delle fonti che riconosce un carattere immediatamente normativo a tutta la Costituzione. Il reintegro del dettato costituzionale con gli strumenti della “creazione giuridica”, di fronte all’inerzia o al sabotaggio legislativo della politica, fa emergere una innovativa concezione del ruolo del magistrato come “guardiano della Costituzione”: non più mero organo burocratico asservito alle gerarchie dello Stato-apparato ma «soggetto istituzionale indipendente, operante come momento di raccordo fra lo Stato e la società civile». Questa nuova funzione interventista, contrapposta alla vecchia immagine conservatrice della casta preposta a funzioni di tutela degli interessi più forti e di salvaguardia dell’ideologia dominante, raggiunge la sua maturità intorno alla metà degli anni Settanta.

La repressione emancipatrice
È questo il decennio in cui si afferma il singolare ossimoro ideologico della repressione emancipatrice, il magistrato si autopromuove avanguardia politica che interpreta i bisogni della società civile, demistifica valori e privilegi delle classi dominanti, tutela dagli abusi i ceti meno abbienti e lavora alla realizzazione di una via giudiziaria per la costruzione di una società più giusta. Il vecchio rivoluzionario di professione passa alla professione di magistrato, una contraddizione in termini che ripristina forme di Stato etico e di moralismo giudiziario, per giunta portando a invertire il rapporto tra costituzione materiale e costituzione legale, tale da indurre a credere – per esempio – che lo Statuto dei lavoratori fosse il risultato dell’azione dei «pretori d’assalto» e non delle lotte operaie.

Nella seconda parte degli anni Settanta, di fronte alla contraddizione introdotta dalla spinta sociale dei movimenti rivoluzionari, si esaurisce la battaglia protesa ad abolire la sopravvivenza di leggi e codici arcaici ereditati dal vecchio Statuto albertino o fascista per sostituirli con le norme inattuate della Costituzione. Si sgretola il terreno della difesa dei diritti, delle garanzie e degli obiettivi di innovazione sociale a tutto vantaggio di una rivalorizzazione e di un ulteriore inasprimento della normativa fascista, che sanziona i reati politici e sottopone a uno Stato di polizia le libertà pubbliche.  Per l’originaria concezione critica e garantista della funzione giurisprudenziale suona il de profundis, come aveva spiegato Luciano Violante, magistrato passato alla politica, sull’Unità del 27 settembre 1979: «La giurisprudenza alternativa poteva di per sé avere un significato di rottura dieci anni fa; ma oggi?».

Il giudice sceriffo
La delega totale che il mondo politico aveva concesso alla magistratura per liquidare militarmente la dissidenza dei movimenti più radicali, porta all’affermazione del “giudice sceriffo”. Negli anni Novanta il processo di legittimazione sociale che investe una magistratura sempre più combattente, uscita dai tribunali e scesa – come i generali golpisti – nelle piazze, nei posti di lavoro, nelle scuole, fa affiorare la percezione degli enormi spazi che l’azione penale può aprire davanti a sé. Prende forma la teoria della supplenza «del potere giudiziario, in caso di assenza o di carenze del legislativo», che rivendica per sé un ruolo politico decisivo e una competenza illimitata che mina i parametri classici della tripartizione dei poteri. Si chiude così la parabola avviata decenni prima. Di fronte al richiamo della statualità l’originario impianto della teoria dell’interferenza escogitato con iniziali intenti progressisti si risolve nel suo contrario: un efficiente apparato concettuale impiegato per definire modelli di regolazione disciplinare della società.

L’ideologia della repressione emancipatrice

Riflessioni – Il grande equivoco della penalità: quando la stagione dei diritti si rovescia nel suo contrario affermando la centralità dell’azione penale.
“Nella seconda parte degli anni Settanta, di fronte alla contraddizione introdotta dalla spinta sociale dei movimenti rivoluzionari, si esaurisce la battaglia protesa ad abolire la sopravvivenza di leggi e codici arcaici ereditati dal vecchio Statuto albertino o fascista per sostituirli con le norme inattuate della Costituzione. Si sgretola il terreno della difesa dei diritti, delle garanzie e degli obiettivi di innovazione sociale a tutto vantaggio di una rivalorizzazione e di un ulteriore inasprimento della normativa fascista, che sanziona i reati politici e sottopone ad uno Stato di polizia le libertà pubbliche”

 

Paolo Persichetti
Gli Altri, 14 giugno 2013

p_non-fateci-sognare_2-altan-30ago2007E’ con il referendum del 1987 sulla responsabilità civile dei magistrati che l’azione della magistratura si impone come uno dei temi centrali della lotta politica. Dopo un decennio di consenso pressoché unanime attorno alla gestione della “emergenza giudiziaria” contro i movimenti sociali e i gruppi della sinistra rivoluzionaria armata, il protagonismo raggiunto dal sistema giudiziario comincia ad essere messo in discussione. Il “caso Tortora” incrina l’unanimità del sistema politico di fronte ad un’azione penale che era andata oltre la delega ricevuta oltrepassando i binari della sola repressione dei gruppi antisistema. Tuttavia questi tentativi di contrasto non indeboliscono la magistratura che, trovando una solida sponda in una parte del sistema politico (il Pci), può accrescere il proprio bagaglio di legittimità sociale erigendosi ad unica istituzione integra del Paese, dopo il rovinoso effetto domino provocato dalla caduta del muro di Berlino sulle fondamenta della Prima repubblica. Non a caso la centralità dell’azione penale si afferma definitivamente nel decennio successivo con l’avvio del ciclo d’inchieste denominate “Mani pulite”, per restare nel ventennio che segue il perno attorno al quale ruota l’agenda politico-istituzionale e si mobilitano i repertori ideologici delle nuove formazioni politiche populiste che si succedono nel frattempo: Lega nord, Girotondi, Idv, popolo Viola, Rivoluzione civile, M5s.

Giudiziarizzazione della società
Per descrivere questa nuova realtà fu coniato un neologismo, giudiziarizzazione, un fenomeno descritto da autori come Neal Tate e Torbjorn Vallinder in un volume del 1995 che ha fatto scuola, The Global Expansion of Judicial Power, poi divulgato in Europa dai lavori di Antoine Garapon e Denis Salas.
Le radici italiane della giudiziarizzazione risalgono agli anni 60, quando le porte della magistratura si aprono a ceti sociali prima esclusi favorendo lo svecchiamento della cultura giuridica. Fu allora che si mise in discussione la mancata applicazione di buona parte del dettato costituzionale, congelato da una sentenza della Corte di cassazione negli anni in cui questa svolgeva il ruolo di supplenza della Consulta non ancora istituita. La suprema corte aveva suddiviso la costituzione in norme immediatamente attuabili e norme programmatiche che il legislatore avrebbe dovuto completare succesivamente. Tra queste ultime si trovavano le parti a più alto contenuto innovativo in materia economico-sociale e dei diritti.
Per modificare questa situazione la corrente di sinistra della magistratura cominciò ad elaborare la cosiddetta “teoria dell’interferenza”, attraverso la quale – racconta Giovanni Palombarini nel suo Giudici a sinistra, 2000 – si cerca di ripristinare la completezza del dettato costituzionale attraverso un uso dell’interpretazione e delle fonti che riconosce un carattere immediatamente normativo a tutta la Costituzione.
Il reintegro del dettato costituzionale con gli strumenti della “creazione giuridica”, difronte all’inerzia o al sabotaggio legislativo della politica, fa emergere una innovativa concezione del ruolo del magistrato come “guardiano della costituzione”: non più mero organo burocratico asservito alle gerarchie dello Stato-apparato ma «soggetto istituzionale indipendente, operante come momento di raccordo fra lo Stato e la società civile».
Questa nuova funzione interventista, contrapposta alla vecchia immagine conservatrice della casta preposta a funzioni di tutela degli interessi più forti e di salvaguardia dell’ideologia dominante, raggiunge la sua maturità intorno alla metà degli anni Settanta.

La repressione emancipatrice
E’ questo il decennio in cui si afferma il singolare ossimoro ideologico della repressione emancipatrice, il magistrato si autopromuove avanguardia politica che interpreta i bisogni della società civile, demistifica valori e privilegi delle classi dominanti, tutela dagli abusi i ceti meno abbienti e lavora alla realizzazione di una via giudiziaria per la costruzione di una società più giusta. Il vecchio rivoluzionario di professione passa alla professione di magistrato, una contraddizione in termini che ripristina forme di Stato etico e di moralismo giudiziario, per giunta portando ad invertire il rapporto tra costituzione materiale e costituzione legale, tale da indurre a credere – per esempio – che lo Statuto dei lavoratori fosse il risultato dell’azione dei «pretori d’assalto» e non delle lotte operaie.
Nella seconda parte degli anni Settanta, di fronte alla contraddizione introdotta dalla spinta sociale dei movimenti rivoluzionari, si esaurisce la battaglia protesa ad abolire la sopravvivenza di leggi e codici arcaici ereditati dal vecchio Statuto albertino o fascista per sostituirli con le norme inattuate della Costituzione. Si sgretola il terreno della difesa dei diritti, delle garanzie e degli obiettivi di innovazione sociale a tutto vantaggio di una rivalorizzazione e di un ulteriore inasprimento della normativa fascista, che sanziona i reati politici e sottopone ad uno Stato di polizia le libertà pubbliche.
Per l’originaria concezione critica e garantista della funzione giurisprudenziale suona il de profundis, come aveva spiegato Luciano Violante, magistrato passato alla politica, sull’Unità del 27 settembre 1979: «La giurisprudenza alternativa poteva di per sé avere un significato di rottura dieci anni fa; ma oggi?».
La delega totale che il mondo politico aveva concesso alla magistratura per liquidare militarmente la dissidenza dei movimenti più radicali, porta all’affermazione del “giudice sceriffo”. Negli anni Novanta il processo di legittimazione sociale che investe una magistratura sempre più combattente, uscita dai tribunali e scesa – come i generali golpisti – nelle piazze, nei posti di lavoro, nelle scuole, fa affiorare la percezione degli enormi spazi che l’azione penale può aprire davanti a sé. Prende forma la teoria della supplenza «del potere giudiziario, in caso di assenza o di carenze del legislativo», che rivendica per sé un ruolo politico decisivo ed una competenza illimitata che mina i parametri classici della tripartizione dei poteri. Si chiude così la parabola avviata decenni prima. Di fronte al richiamo della statualità l’originario impianto della teoria dell’interferenza escogitato con iniziali intenti progressisti si risolve nel suo contrario: un efficiente apparato concettuale impiegato per definire modelli di regolazione disciplinare della società.

Articoli correlati
Il dogma dell’infallibilita della magistratura, solo un terzo dei risarcimenti per ingiusta detenzione viene accolto
1982, la magistratura arresta i giornalisti che fanno parlare i testimoni delle torture
Francia, la magistratura congela la chiusura degli anni di piombo
Per farla finita con l’ideologia giustizialista
La sinistra giudiziaria
Genesi del populismo penale e nuova ideologia vittimaria
Lodo Alfano e processo breve, la farsa della giustizia di classe
Processo breve, amnistia per soli ricchi
L’utopia moralizzatrice della giustizia internazionale
Quando il privilegio indossa la toga. La casta dei giudici in rivolta
Lo scudo di classe di Berlusconi
Detenzione domiciliare, tutto il potere ai giudici

Dopo la vignetta sui detenuti violentatori Vauro si spiega

Ho ricevo da un altro detenuto questa parodia della vignetta di Vauro che pubblico ancor più volentieri perché viene da un’intelligenza rinchiusa da quasi tre decenni

Vauro Senesi, tu pensi che i carcerati sono degli stupratori sei della stessa pasta di Fiorito
Guardare e vedere a volte sono cose diverse. Tutti noi guardiamo ma non sempre vediamo la stessa cosa. Per esempio, questa vignetta di Vauro Senesi che ha inaugurato stamani la sua collaborazione con il Fatto quotidiano, l’organo del partito giustizalista italiano, i manettari per farla breve, dopo aver lasciato di corsa il manifesto come i topi che fuggono dalla nave che affonda.
Vauro ora è nel suo ambiente naturale, come già lo era con Anno zero; da anni le sue vignette grondano questo tipo di risentimento da sotterraneo di questura.
Cosa vedete voi in questa vignetta?
Io intanto non vedo la porta. Sarà che in cella ci rientro ogni sera e dunque ho l’occhio abituato. Mi chiedo perché le celle di Vauro non hanno quasi mai il blindo. L’ho notato spesso nei suoi disegni sul carcere. Chi vi è dentro sembra murato come la monaca di Monza. I suoi interni carcerari sono claustrofobici. Continua a leggere

Link utili
Di Pietro e l’Idv da dieci anni sono le stampelle di Berlusconi
Congresso Idv, i giustizilisti lanciano un’opa su ciò che resta della sinistra radicale
Avviso per il popolo viola: cambiate giornale il Secolo d’Italia fa gli auguri al Fatto quotidiano
Sgom, Diliberto la tua rabbia sarà la nostra gioia
Sgommiamo Oliviero Diliberto dalla scena politica

Napoli, De Magistris subito flop. L’immondizia diventa arancione

Napoli sommersa dai rifiuti. Regione e Provincia non mantengono gli accordi presi con il Comune. I cittadini impediscono l’accesso alle discariche. Il neo sindaco, che aveva incautamente promesso di ripulire la città in cinque giorni, non trova di meglio che gridare al complotto

Paolo Persichetti
Liberazione 22 giugno 2011

Le montagne di rifiuti sono ancora in strada. «Se si scende dal Vomero verso il centro è pieno d’immondizia», ci raccontano al telefono alcuni cittadini napoletani con un misto di sconsolata indignazione. E’ solo un sabotaggio, come grida ai quattro venti il neosindaco di Napoli Luigi De Magistris? Oppure il risultato inevitabile della demagogia utilizzata in campagna elettorale? Anche Berlusconi e Bertolaso avevano accampato la stessa scusa. La scadenza dei cinque giorni promessi per liberare la città dai cumuli d’immondizia è stata superata senza risultati. Alla prima prova l’ex pm fa cilecca. La riunione notturna con il prefetto, chiesta in tutta fretta lunedì sera, non ha sortito gli effetti sperati. Altre riunioni si sono succedute nel corso della giornata di ieri, ma da regione e provincia, che in questa fase hanno in mano le chiavi per consentire soluzioni in grado di tamponare la situazione, e permettere che parta il piano promesso dall’assessore all’ambiente e vice sindaco Tommaso Sodano, non sono arrivate disponibilità. L’accesso ai siti di stoccaggio esterni alla città dipendono da loro. «Esisteva un accordo – ha recriminato De Magistris – con prefettura, regione, provincia. Avrebbe consentito di liberare Napoli dai rifiuti in cinque giorni, prevedendo anche la realizzazione di un sito di trasferenza nella stessa città». Poi è successa una cosa abbastanza prevedibile per chi conosce, anche solo un poco, le lotte portate avanti negli ultimi anni dalle popolazioni del posto, oltre al groviglio di interessi e ostacoli che gravano sul settore della raccolta e dello stoccaggio dei rifiuti. Il sindaco di Caivano, uno dei siti prescelti a nord di Napoli, su pressione di una popolazione per nulla convinta di dover accogliere sul proprio territorio altri rifiuti, ha emesso un’ordinanza di chiusura. Problemi analoghi si sono presentati ad Acerra, dove ci sono stati scontri e due autocompattatori sono andati danneggiati. «La soluzione è rendere Napoli autonoma in materia di rifiuti», ha spiegato Sodano. Già, ma ci vuole tempo. Quanto tempo per raddrizzare storture croniche del sistema come il furto delle tasse sui rifiuti pagati dai napoletani? Ben 50 milioni di euro sborsati dalla cittadinanza partenopea sono finiti al Nord, tra Milano e Bergamo, nelle tasche dei titolari di una delle società, l’Aip, che riscuoteva per conto del comune anche le bollette di acqua, condono e Ici. Incassava, anche dopo il contratto scaduto, ma non riversava nelle casse comunali. Una inchiesta della magistratura per banca rotta e peculato è in corso.
Intanto la sparata dei cinque giorni per liberare la città dalle cataste di spazzatura (2400 tonnellate), De Magistris se la poteva risparmiare. Berlusconi ha fatto scuola e l’ex pm, che ha chiamato in giunta un altro magistrato della procura di Napoli, suscitando non poche contrarietà (diventare amministratore nel distretto dove si è esercitata la propria funzione di magistrato non è il massimo dell’ortodossia costituzionale), e un questore, si è dimostrato un suo bravo scolaretto. Solo che il proprietario del Pdl ha poi i mezzi per far girare la grancassa mediatica, De Magistris no. E così il trucco si è scoperto subito. Il populismo ha le gambe corte e il conto è arrivato presto. Progetti seri e coraggiosi, come quello elaborato da Tommaso Sodano per rivoluzionare il sistema della raccolta e lavorazione dei rifiuti con l’approdo al 70% della differenziata richiedono comunque un certo periodo di tempo. Non esistono soluzioni miracolistiche. Averle fatte balenare è stato oltreché stupido, un grave errore. Roba da novizi. Il Coordinamento regionale rifiuti della Campania ha diffuso un comunicato molto duro nei confronti della nuova giunta comunale che avrebbe già tradito gli impegni presi in campagna elettorale. Alle «soluzioni radicalmente innovative, orientate al riciclo dei materiali ambientalmente compatibili e vicine alle istanze dei cittadini», la neo-amministrazione avrebbe opposto un ritorno a soluzioni già caldeggiate in passato, come il ricorso ad impianti di compostaggio e termovalorizzatori situati sul sito di Acerra. I comitati contestano anche l’individuazione delle minidiscariche di Acerra, Caivano e Napoli-Est, come siti di trasferenza in cui portare le oltre 10.000 tonnellate di rifiuti giacenti. Nel comunicato si ricorda come il territorio di Acerra si trovi «in pieno triangolo della morte» con una devastazione ambientale causata da «decennali sversamenti illegali di rifiuti tossici, e su cui oggi insistono il mega-inceneritore e due tra impianti di biomasse e di depurazione, eredità della ex-Montefibre». Il comune dovrà lavorare molto per ristabilire un rapporto di fiducia e partecipazione con i cittadini coinvolgendoli, come annunciato nel programma elettorale, nelle scelte dell’amministrazione. Altrimenti il rischio è quello del muro contro muro. il coordinamento chiede che «al più presto si possa discutere in assemblea pubblica con contraddittorio del piano complessivo di gestione dei rifiuti e non di singole delibere».

Le disavventure girotondine nel mondo della finanza

Truffa dei Parioli, il guadagno facile che “incanta” anche a sinistra

Paolo Persichetti
Liberazione 8 aprile 2011

Quello che più colpisce del raggiro finanziario messo in piedi da Gianfranco Lande, un po’ troppo velocemente ribattezzato il “Madoff dei Parioli”, vicenda sulla quale si sono dilungate le cronache dei giorni scorsi, non è tanto lo schema truffaldino messo in piedi quanto il profilo di alcune delle vittime, quasi 1200, finite nella rete. La tecnica utilizzata da Lande e dai suoi sodali finiti a Regina Coeli insieme a lui, attraverso alcune società costituite inizialmente in Paesi europei dove vige una larga deregulation finanziaria, come l’Irlanda e la Gran Bretagna, riprende la tecnica resa celebre negli Stati uniti all’inizio del secolo scorso dal migrante italiano Charles Ponzi. Si tratta del vecchio trucco della piramide: attraverso la promessa di guadagni rapidi e lucrosi, grazie a interessi sugli investimenti vertiginosi, si rastrella denaro. Il segreto è quello di trovarsi sempre al vertice della piramide ed aspettare che questa allarghi la sua base. L’afflusso di denaro dei nuovi clienti permette di remunerare i lauti interessi promessi ai primi. Lo schema regge finché la base della piramide continua ad allargarsi, poi crolla tutto. Nel frattempo i promotori della truffa scappano con la cassa. Ponzi reclutava le sue vittime tra gli altri immigranti e nei ceti popolari. Con appena due dollari si entrava nella società. In questo modo raccolse diversi milioni di dollari truffando quasi 40 mila persone.
Bernard Madoff, che è stato presidente del Nasdaq, il listino più importante nel mercato degli affari degli ultimi decenni, è riuscito a condurre fino al sublime questo modello attirando nella sua rete non singoli clienti ma i maggiori istituti finanziari del mondo. L’entità della truffa stavolta è stata dell’ordine dei miliardi di dollari, oltre 50. Addebitare a lui il crack della finanza internazionale sarebbe comunque un errore anche se la giustizia americana ne ha fatto un capro espiatorio. Ceti medi in rovina e grande borghesia avevano bisogno di un colpevole. Ma la bolla del mercato immobiliare statunitense, da cui hanno avuto origine i “derivati finanziari” utilizzati dai fondi speculativi che hanno invaso la finanza mondiale dopando l’economia, il debito pubblico di molti Paesi, persino quello di regioni e comuni in Italia, non sono certo riconducibili all’azione di un singolo attore. Il problema evidentemente investe l’evoluzione sistemica del capitalismo.
Lande, molto più modestamente, ha beffato il gotha della Roma pariolina, quartiere d’eccellenza della Capitale. Ma anche qui ridurre tutto ad una semplice truffa è forse fin troppo riduttivo. Lande e i suoi associati hanno certo agito fraudolosamente con società non autorizzate alla raccolta del risparmio, ma la loro azione illecita ha trovato spazio nelle maglie per nulla illegali della finanza internazionale. Il denaro dei loro clienti veniva investito in portafogli finanziari di varia natura, con l’arrivo dello scudo fiscale di Tremonti, Lande ha avuto l’occasione di creare una nuova società, questa volta autorizzata a raccogliere risparmio, che si è occupata di riportare in Italia i capitali precedentemente trasferiti all’estero al nero per convogliarli in nuovi investimenti dai contorni incerti, finché il crack della finanza internazionale ha accelerato il crollo di tutta l’architettura finanziaria messa in piedi.
Molto più interessante appare invece il profilo socio-culturale dei truffati, tra vip, imprenditori, politici (diversi piddini), calciatori e persino affiliati del clan Piromalli, si annidano alcune figure di punta del fronte girotondino che hanno promosso in chiave essenzialmente moralista l’antiberlusconismo nell’ultimo decennio. Spicca il nome di Sabina Guzzanti (400 mila euro persi), a dire il vero, fatta eccezione per Corrado, c’è l’intera famiglia: padre (275 mila) e sorellina più piccola (88 mila). Significativo il coinvolgimento dei Piromalli, esponenti di un noto clan della ‘ndrangheta calabrese, arrestati per estorsione su denuncia di un terrorizzato Lande perché cercavano di recuperare i 14 milioni versati, mentre erano loro i truffati. Circostanza che sfata molti luoghi comuni sul libìvello d’integrazione delle organizzazioni criminali con i “terzi e quarti livelli” finanziari. Ma forse ancora più decisive appaiono le parole di Mario Adinolfi, il bloger già candidato alle primarie dell’Ulivo, anch’egli esponente della galassia girotondina, che i suoi soldi li ha recuperati per tempo guadagnandoci un bel gruzzolo. Come ha spiegato in una intervista al Messaggero, aveva capito che non bisognava essere tra gli ultimi della piramide. A leggerlo, anche lui tra i più accesi antiberlusconiani, sembra di sentire invece uno dei tanti yesmen di Arcore: «Sono uno dei pochi che ha vinto», esulta. Quando il cavaliere entrava in politica Adinolfi affidava il suo denaro a Lande, «tra il ’94 e il ’95 credo. Ho tenuto i soldi “fermi” per quattro anni e già mi sembrava tantissimo». Adinolfi non è fesso, capisce l’antifona e chiede in dietro il suo investimento. E’ presto e la base della piramide si sta ancora allargando, per lui è una fortuna. Si è studiato bene la questione, come confessa sempre al quotidiano romano, dove conclude: «ho avuto indietro il denaro e gli interessi. E’ andata molto bene». Pecunia non olet si sa.
Questa vicenda mette in mostra l’essenza dei protagonisti girotondismo, l’indignazione moralista dei salotti che dietro le virtù pubbliche declamate cela gli stessi vizi privati del berlusconismo. In pubblico se la pigliano con il Cavaliere e i suoi loschi affari ma in privato tentano di fare la stesa cosa, anche se poi non ci riescono solo per imperizia delle membra. Dove sta la diffrenza?

Link
Parla Bernard Madoff: “Le banche e la Sec sapevano tutto”
Il sesso lo decideranno i padroni, piccolo elogio del film Louise Michel
Cometa, il fondo pensioni dei metalmeccanici coinvolto nel crack dei mercati finanziari
Populismo penale

Caso Papini, una vicenda esemplare di giustizia dell’emergenza

Conferenza stampa a Montecitorio. I legali denunciano: «Quello di Papini è stato un processo ai sentimenti. Quando venne arrestato, la digos di Bologna sapeva già da un anno, grazie alle intercettazioni telefoniche, che andava in carcere a trovare la Blefari con l’accordo della direzione dell’istituto di pena per tentare di impedire i suoi propositi suicidari dichiarati in una lettera. L’inchiesta è stata una montatura». Dopo l’assoluzione crolla il teorema accusatorio messo in piedi dai pm bolognesi che hanno pilotato da lontano anche l’inchiesta romana e il processo. I magistrati dovrebbero archiviare la sua posizione nell’inchiesta sull’attentato a Marco Biagi, ma sotto le due torri esiste una delle peggiori procure d’Italia

Paolo Persichetti
Liberazione 6 aprile 2011

Chissà cosa avrebbe pensato il marziano di Flaiano se fosse atterrato ieri mattina davanti a Montecitorio? Mentre i post-girotondini del popolo viola presidiavano la piazza per protestare contro il modo in cui il governo e la sua maggioranza parlamentare affrontano i temi della giustizia, srotolando un tricolore lungo circa 60 metri per dare inizio alla giornata della democrazia accanto a molte bandiere dell’Italia dei valori, FdS e Sel, dentro la Camera si teneva una conferenza stampa quasi deserta sul caso di Massimo Papini: uno degli esempi drammaticamente più concreti di come si esercita la giustizia in Italia. 17 mesi e 23 giorni di carcere duro in custodia preventiva, quando andava bene in regime di alta sicurezza nel braccio speciale di Siano, in Calabria, dove sono rinchiusi una parte dei detenuti politici di sinistra; altrimenti in regime di totale isolamento, peggio del 41 bis, quando durante i lunghi mesi del processo era appoggiato al piano terra del reparto G12 di Rebibbia. Sempre solo in un cubicolo, senza diritto alla socialità con altri detenuti, e con le ore d’aria (per così dire) da passare in un rettangolo di cemento di pochi metri quadrati circondato da alte mura e con il cielo coperto da una grossa griglia metallica. Tutto questo per un’accusa senza fondamento: aver fatto parte delle cosiddette “nuove brigate rosse”, solo perché non aveva rinunciato ad assistere la sua ex fidanzata, Diana Blefari Melazzi, precipitata dopo l’arresto nel labirinto della sofferenza psichiatrica. Strada senza ritorno sfociata nel suicidio, poche settimane dopo l’arresto di Massimo, il 31 ottobre 2009. Una morte quasi indotta da una persecutoria volontà di sfruttare la sua malattia come una opportunità per le indagini. «Assolto per non aver commesso il fatto» hanno stabilito lo scorso 23 marzo i giudici della prima corte d’assise di Roma, ribadendo che la solidarietà, anche per chi è stato dichiarato colpevole, non è reato. Un caso «paradigmatico» hanno spiegato i suo legali, Caterina Calia e Francesco Romeo presenti alla conferenza stampa insieme a Gianluca Peciola, consigliere provinciale Sel e alla deputata radicale (lista Pd) Rita Bernardini, che ha seguito il caso, incontrato più volte Papini in carcere e portato radio radicale a registrare le udienze del processo. Attenzione mediatica che ha infastidito molto la pubblica accusa. Tra i banchi solo qualche sparuto giornalista e gli amici di Massimo, animatori del comitato che l’ha sostenuto nei suoi 17 mesi di detenzione.
La piazza era piena ma la sala era vuota. Eppure si parla tanto di giustizia al punto che – direbbero i sociologi – questo tema è divenuto il maggiore repertorio di mobilitazione dell’azione politica. Fa scorrere fiumi d’inchiostro, riempie tg e salotti televisivi, ma quando ci si trova di fronte a casi concreti l’interesse svanisce. Davvero una strana idea di giustizia: la destra che grida alle toghe rosse e vede complotti delle procure ovunque si allinea subito dietro l’azione repressiva della magistratura, quando questa si riversa contro soggetti estranei al mondo imprenditoriale, alle classi possidenti; la sinistra, che inneggia alla costituzione e si erge a paladina delle legalità, perde vista, udito e parola di fronte agli abusi, per non parlare del carattere sistemico delle pratiche inquisitorie condotte dalla magistratura inquirente, grazie anche ad una legislazione speciale che gli offre mano libera. Insomma ci si agita molto per non fare nulla. L’arena giudiziaria appare solo il luogo dove si è trasferito lo scontro politico. Alla fine, della giustizia, della giustizia giusta, delle garanzie, non interessa a nessuno. Vince solo la demagogia penale: in galera tutti meno quelli che ci mandano gli altri. E così vicende come quelle di Papini restano sullo sfondo, ignorate. Nessuno chiederà conto alla procura di Bologna che – è già accaduto in altri casi – ha pilotato da lontano l’arresto di Papini e il processo, occultando prove a discarico dell’imputato, come ha denunciato l’avvocato Romeo. Nessuno vorrà sapere perché i testi citati dalla difesa sono stati inchiestati durante il processo, al punto da dover temere che l’azione difensiva fosse diventata un delitto. Il marziano di Flaiano non ha esitato, ha ripreso il volo disgustato.

Link
Massimo Papini assolto per non aver commesso il fatto
Papini assolto: “Non faceva parte delle nuove Br”
“Scarcerate Papini, accuse senza argomenti
Amicizia e solidarietà sotto processo
Un altro Morlacchi dietro le sbarre
Ignorata la disponibilita offerta da un gruppo di detenute che si offrì di assistere la Blefari. I magistrati puntavano al pentimento
Induzione al pentimento
Suicidio Blefari Melazzi: l’uso della malattia come strumento di indagine

Cassazione: “Non è reato essere amici di inquisiti per banda armata”

Avviso per il “Popolo viola”: cambiate giornale. Il Secolo d’Italia fa gli auguri al Fatto quotidiano. Tra fascisti ci si intende

Letture consigliate – Le molte affinità elettive che legano la destra postfascista ai giustizialisti del Fatto quotidiano

«Il Secolo d’Italia fa gli auguri al Fatto quotidiano»

di Luciano Lanna
Il Secolo d’Italia 23 mrzo 2011

Tanti auguri al Fatto Quotidiano che oggi inaugura ufficialmente la nuova sede di via Valadier a Roma, dove la redazione si è trasferita dal primo febbraio, e festeggia i 18 mesi di vita e di successo. Lo facciamo anche perché lo si avverte davvero come un giornale con il quale condividiamo molte cose. Dalla presenza sulle sue colonne della firma del nostro amico Massimo Fini al fatto che molto ci accomuna al direttore e al vicedirettore, Antonio Padellaro e Marco Travaglio. «Mio padre è stato fascista convinto. Zio Nazareno, uno dei discepoli di Bottai», ha confessato tempo fa l’ex direttore dell’Unità Padellaro a Claudio Sabelli Fioretti. Aggiungendo: «I miei miti erano i grandi scrittori americani. Ma la bella stagione è durata poco. Sono stato immesso subito in questo meccanismo mostruoso che è il giornalismo». E ancora: «Non ho mai votato Pci in vita mia. Anzi votai Craxi quando diventò segretario. Ma venivo visto come uno strano giornalista non rassicurante in un posto importante…». Marco Travaglio, poi, montanelliano e di destra, ha ribadito le sue idee anche ieri sera in tv a Niente di personale di Antonello Piroso. E anche lui si era confessato con Sabelli Fioretti: «Non sono stato in Lotta Continua, né in Potere Operaio, né in Cl. Non sono mai stato iscritto a niente. Io sono anticomunista oggi come lo ero allora». Anzi, Travaglio ci tiene a ribadire di non avere niente a che vedere con qualsiasi sinistra: «Se non fosse Berlusconi il capo della destra, io starei lì!». E anche tutto questo, come il dato che Massimo Fini con i suoi libri – da La ragione aveva torto a Il ribelle – sia uno degli autori più letti a destra, è solo la conferma dell’anomalia italiana, quel mondo alla rovescia determinato dal primato dell’antipolitica che da una ventina d’anni allontana l’Italia dagli altri paesi europei. Poi non è di sinistra, ma è da sempre un liberale doc, il responsabile dell’inserto settimanale del Fatto dedicato alla cultura, Riccardo Chiaberge: «Da quando è uscito – dice Padellaro – abbiamo 4mila lettori in più».

Link
Di Pietro e l’Idv da dieci anni sono le stampelle del berlusconismo
Il populismo penale accomuna destra e sinistra: è la forma della politica attuale
Retroscena di una stagione: Di Pietro e il suo cenacolo
Di Pietro: “Noi siamo la diarrea montante”
Congresso Idv: i populisti lanciano un’opa su ciò che resta della sinistra
La sinistra giudiziaria
Dipietrismo: malattia senile del comunismo?
Genesi del populismo penale e nuova ideologia vittimaria
Populismo penale, una declinazione del neoliberismo
Populismo penale
Ma dove vuole portarci Saviano?
Attenti, Saviano è di destra, criticarlo serve alla sinistra

Processo breve per soli ricchi

Passa in commissione Giustizia della Camera l’emendamento che riduce soltanto per gli incensurati i termini di prescrizione della durata dei processi

Paolo Persichetti
Liberazione 23 marzo 2011

Siamo alle solite. La destra berlusconiana ripropone l’ennesima versione privata e classista del garantismo. La commissione Giustizia della Camera ha approvato ieri pomeriggio l’emendamento che riduce i termini per la prescrizione nel cosiddetto “processo breve”. Le riduzioni però avranno valore soltanto per gli imputati incensurati. Per i recidivi i termini saranno più lunghi. La norma non si applica ai procedimenti nei quali al momento della entrata in vigore della legge è già stata pronunciata sentenza di primo grado. «Ho voluto semplicemente introdurre – ha spiegato Maurizio Paniz relatore Pdl del disegno di legge ed autore dell’emendamento – una sacrosanta distinzione di trattamento fra chi è recidivo e chi no, toccando il termine di aumento della prescrizione in caso di sua interruzione (sarà di un sesto per gli incensurati, di un quarto per i recidivi)». Secondo le opposizioni si tratterebbe dell’ennesimo sotterfugio ad personam, architettato per consentire a Silvio Berlusconi di sottrarsi al giudizio finale in alcuni dei processi in corso che lo vedono imputato. In particolare il processo Mills. In realtà la filosofia della norma ha un carattere molto più ampio, apertamente censitario. Introduce cioè un principio di garanzia più che legittimo, impedire in caso di interruzione che il processo si protragga all’infinito, confinandolo però ad un’applicazione che avvantaggerà solo i ceti possidenti, escludendo quei cittadini che per condizioni sociali sfavorevoli si trovano spesso davanti ad un tribunale. Ennesimo scudo di classe insomma. E che si tratti di un garantismo peloso e strumentale lo dimostra il fatto che la riduzione dei termini di prescrizione della durata del processo non è seguita anche da una riduzione dei termini massimi della custodia cautelare. Chi in carcere non entra mai, continuerà a restare fuori. Chi invece ci entra sempre, cioè i poveracci, non ne trarrà alcun vantaggio. Così i giustizialisti di ogni risma avranno raggiunto il loro scopo.




Franz Kafka e i professionisti della correzione

Michael Löwy, Franz Kafka. Rêveurs insoumis, Paris 2004

Riflessioni quanto mai attuali sull’uso della pena. Un’anticipazione dei moderni strumenti d’interiorizzazione della colpa introdotti nell’ordinamento penitenziario con i dispositivi premiali previsti dalla legislazione in favore dei dissociati e successivamente dalla Gozzini. Oggi ulteriormente sviluppati dopo che la figura della vittima è divenuta il perno del sistema penale. Il diritto alla riparazione simbolica dell’offeso è lentamente scivolato verso un potere di punire quantificato in base alla natura e all’entità della pena da infliggere e al riconoscimento di una capacità d’interdizione e ostracismo perpetuo sul corpo del reo. Questo processo di privatizzazione della giustizia trae origine dalla convinzione che la liturgia del processo penale possa svolgere una funzione terapeutica. Il sistema giudiziario perde il proprio ruolo di ricerca delle responsabilità per rivestire la funzione di riparazione psicologica della persona offesa. In questa prospettiva la ricerca della verità giudiziaria non offre scampo. Essendo un momento necessario all’elaborazione del lutto, la dichiarazione di colpevolezza e l’ostracismo perpetuo resta l’unica soluzione accettabile, perché il proscioglimento o la reintegrazione civile dell’accusato ostacolerebbero la guarigione mentale della vittima.
L’uso strumentale della retorica vittimistica ha così legittimato il capovolgimento dell’onere della prova, il passaggio alla presunzione di colpevolezza, l’aggravamento delle sanzioni, la limitazione dei diritti dell’accusato e l’immoralità delle amnistie, fino al paradossale esercizio di un’etica selettiva che perde improvvisamente tutta la sua intransigenza di fronte a quella ragion di Stato che ha premiato pentiti e dissociati


In un brano, conosciuto sotto il nome di frammento del sostituto, e ritrovato nei suoi quaderni postumi, Franz Kafka si diverte a mettere in scena il ragionamento servile e ottuso di un sostituto procuratore incaricato di sostenere l’accusa nei confronti di un uomo incolpato di lesa maestà.
Secondo il magistrato le cose del mondo dovevano attenersi ad una curiosa geometria dell’autorità che vede la vita assumere sempre una linea ricurva, nella quale la postura dell’essere ha senso unicamente se rivolta in posizione arcuata, prona, reclina, flessa, prostrata, accucciata, soprattutto mai dritta: «Egli credeva che se tutti avessero collaborato con il Re e il Governo nella calma e nella fiducia, si potevano superare tutte le difficoltà[…] più grande era la fiducia, e ancora di più si doveva curvare la schiena, ma in virtù di principi naturali, senza bassezza. Ciò che impediva uno stato di cose così auspicabile, erano personaggi della risma dell’accusato che, usciti da non si sa quali bassi fondi, venivano a disperdere con le loro grida la massa compatta delle brave genti». L’obiettivo della macchina giudiziaria non era più quello d’applicare un semplice castigo ma di spingere a collaborare attivamente alla propria punizione affinché la condanna assumesse il senso di una vera correzione, o piuttosto l’ossimoro della correzione, cioè il raddrizzamento, la messa in riga attraverso la curvatura dell’individuo. L’essenziale della pena diventa il processo d’interiorizzazione del sentimento di colpa. Senza una vera adesione alla propria penitenza, non c’era alcuna salvezza possibile. L’infrazione penale prendeva allora le sembianze di una colpa teologica, nella quale crimine e peccato appaiono indissolubilmente intrecciati.

Il populismo penale accomuna destra e sinistra: è la forma della politica attuale

Risentimento e vittimismo al posto della giustizia sociale: il “populismo penale” si nutre di paura, insicurezza e dell’utopia reazionaria della “tolleranza zero”

Paolo Persichetti
Liberazione 21 novembre 2010


A metà strada tra il descrittivo e il normativo, il populismo – sostengono molti autori – è una categoria politica di difficile definizione che non designa un fenomeno circoscrivibile ma soltanto una logica sociale i cui effetti producono esperienze politiche molto diverse. In realtà più una sindrome sociale che una dottrina politica, afferma Peter Wiles. Non a caso il populismo viene evocato per dare nome a situazioni che si manifestano in periodi di crisi. Nel contesto europeo la fine del fordismo, la rottura del rapporto identitario legato all’appartenenza sociale, in Italia il crollo del sistema dei partiti, più in generale l’emergere di sistemi politici neo-oligarchici. Il populismo altro non è che «un modo di costruzione del politico», sostiene Ernesto Laclau, La ragione populista (Laterza, 2008) che mette al centro della legittimità politica, manipolandola e passivizzandola, una vaga astrazione denominata “popolo”. Fenomeno che nello specifico laboratorio politico italiano si è diversificato sommando ai tradizionali temi patriottici e nazional-popolari, interpretati in questo caso dai postfascisti, nuove rivendicazioni pseudoetniche o regionalistiche intrecciate a sentimenti di rivolta fiscale contro lo Stato nazione ed a pulsioni xenofobe e razziste incarnate dalla Lega Nord. Forme di ripiego identitario capaci al tempo stesso di coabitare con un “cesarismo mediatico”, espresso dal modello berlusconiano, poco interessato ai localismi valligiani e totalmente proiettato verso una dimensione hertziana e ipnotica della comunicazione politica, fautore di una società lasciata in balia degli appetiti più sfrenati e prédatori del mercato, a tutto vantaggio di un nuovo ordine censitario e di un aggressivo orgoglio proprietario che darwinianamente ha rilegittimato il diritto di sopraffazione sui meno abbienti, sdoganando «la ricchezza come misura del proprio valore e il trionfo degli istinti animali del capitalismo come pubbliche virtù».

Queste nuova dimensione antropologica ha favorito la penetrazione trasversale di altre forme di populismo tra le cui pieghe si è sedimentata un’ossessiva rappresentazione fobica e igienista della società. Un’isteria sociale che ha nutrito la crescita dirompente del fenomeno giustizialista, il cui successo si è riversato sul funzionamento del sistema giudiziario trasformato in una nuova arena da combattimento tra attori e gruppi sociali dominanti. Il ricorso a nuovi repertori moralistici, improntati sul tema della virtù, è così servito a giustificare l’uso strategico dello strumento giudiziario, impiegato in un primo momento, gli anni 90, dalle singole fazioni dominanti nella rincorsa ad etichettarsi reciprocamente come criminali. Paura e insicurezza sono diventate le parole chiave di questo dispositivo che infrange le tradizionali barriere tra destra e sinistra e al cui interno coesistono grammatiche politiche eterogenee: una nevrotica e l’altra psicotica. Questa trasversalità della paura è frutto dell’attuale società dell’incertenza, un derivato di rapporti sociali e di lavoro improntati sulla flessibilità e il precariato. La modificazione del paradigma produttivo, il declino di modelli politici edificati sulla base del compromesso rappresentato dello Stato sociale, il trionfo dei modelli neoliberali, hanno mutato ciò che un tempo si intendeva per sicurezza, ovvero una idea progettuale di esistenza fondata su diritti sociali e politici garantiti: dal lavoro, al reddito, alla scuola, all’assistenza sanitaria, alla pensione, all’azione sindacale. Diritti che a loro volta dispiegavano nuove richieste e bisogni inclusivi. Tutto ciò si è rovesciato trasformandosi in una visione arroccata dell’esistenza, costruita attorno all’utopia reazionaria della “tolleranza zero”. Alla sicurezza si chiede la difesa del proprio corpo e dei propri possedimenti, reali o immaginari, che sia il capitale o una casa popolare non fa differenza, anziché la difesa da un’economia che li minaccia.

Il populismo ha assunto dunque una connotazione «penale» declinata come risposta alla domanda crescente di difesa personale anziché sociale. Il termine populismo va riferito quindi al risentimento di gruppi che si credono trascurati o abbandonati dall’autorità. Un risentimento che si traduce in ostilità verso altri gruppi o individui ritenuti complici della condizione di abbandono avvertita. Ecco che a differenza dei populismi passati, il populismo penale attenua la tradizionale carica antielitaria per rivolgere la propria stigmatizzazione verso capri espiatori individuati nelle posizioni più basse della scala sociale: dagli immigrati, ai nomadi, ai giovani delle periferie, agli emarginati, più in generale a quelle figure che riempiono le fila dell’esercito salariale di riserva. La sua caratteristica è quelle di muovere una guerra sociale verso il basso. Guerre dei possidenti contro i nulla tenenti e guerra tra poveri. Secondo il sociologo Vincenzo Ruggiero, una spiegazione provvisoria potrebbe essere la seguente: nelle società neoliberiste il successo individuale viene premiato tanto quanto l’insuccesso viene punito. «Chi nel mercato mostra segni di fallimento va espulso, castigato; si rischia altrimenti di lanciare un messaggio insidioso, vale a dire che la responsabilità per il fallimento non è da attribuire all’individuo, ma al mercato medesimo». Si afferma così – ha denunciato il giurista Luigi Ferrajoli – una «duplicazione del diritto penale» che designa il passaggio dalla fase giustizialista al populismo penale vero e proprio. Un diritto mite per i ricchi e i potenti e un diritto massimo per i poveri e gli emarginati. «E’ la prova che oggi la giustizia – sostiene sempre Ferrajoli – è sostanzialmente impotente nei confronti della delinquenza dei colletti bianchi, mentre è severissima nei confronti della delinquenza di strada. Si pensi agli aumenti massicci di pena per i recidivi previsti dalla legge Cirielli, sull’esempio degli Stati Uniti, simultaneamente alla riduzione dei termini di prescrizione per i delitti societari. E si pensi, invece, alle pene durissime introdotte dal decreto sulla sicurezza: espulsione dello straniero condannato a più di due anni, reclusione da 1 a 5 anni per avere dichiarato false generalità, aumento della pena fino a un terzo nel caso in cui lo straniero sia clandestino».

Emerso negli Stati Uniti durante gli anni 80 come discorso politico, proprio della destra neoconservatrice, specializzato nelle promesse punitive capaci di sedurre l’elettorato, il populismo penale ha rotto gli argini nei decenni successivi per divenire l’oggetto irrinunciabile della contesa tra i partiti politici di ogni schieramento. Il populismo penale non è più di destra o di sinistra: è la forma della politica attuale interpretata con minori o maggiori sfumature. Quest’ideologia presenta tuttavia sfaccettaure diverse tra la realtà nordamericana e quella europea. Differenze legate alla presenza di modelli sociali, istituzionali e giudiziari dissimili.
Il tema della complicità dello Stato con il crimine, tacciato per questo d’elitismo e corruzione, appartiene al repertorio classico della critica neoconservatice e dei libertarians americani (i fautori dello Stato minimo) nei confronti di quello che viene ritenuto un eccessivo presenzialismo statale. Al contrario, da noi, i “professionisti dell’antimafia” denunciano il lassismo del governo nella lotta alla criminalità auspicando un sempre maggiore coinvolgimento dello Stato. Il sistema giudiziario di tipo accusatorio fa si che nel modello nordamericano si configura una contrapposizione politico-ideologica tra gli incarichi elettivi e quelli indipendenti che reggono il sistema della giustizia penale. Lo sceriffo della contea insieme a l’attorney (il procuratore) sono ritenuti gli eroi della guerra senza quartiere al crimine. Mentre il giudice terzo, in quanto garante delle forme della legge, è percepito come un ostacolo se non addirittura una figura connivente con la delinquenza. La tradizione inquisitoria che pervade ancora il sistema giudiziario italiano, via di mezzo tra rito istruttorio e “semiaccusatorio”, consente invece alla nostra magistratura di essere individuata come il perno centrale della lotta non solo alla criminalità ma più in generale all’ingiustizia. Gli strumenti giudiziari d’eccezione e la cultura inquirente congeniata per contrastare la sovversione sociale degli anni 70, la lunga stagione delle leggi penali speciali e dei maxiprocessi che hanno traversato il decennio 80, e lo tsunami giudiziario che ha preso il nome di “Tangentopoli” nella prima metà degli anni 90, hanno conferito alla nostra magistratura il ruolo di vero e proprio soggetto politico portatore di un disegno generale della società.

Il modello del capro espiatorio ha svolto un ruolo centrale nella vicenda passata alle cronache come la rivoluzione di “Mani pulite”. Le conseguenze, per nulla percepite dagli attori dell’epoca, che spesso pensavano di interpretare una stagione di rinnovamento del Paese, sono state enormi. E’ da lì che hanno preso forma e si sono strutturate le ideologie del rancore e del vittimismo che fomentano trasversalmente le attuali correnti populiste, stravolgendo quell’idea di giustizia che per lungo tempo era stata sospinta da ragioni che disprezzavano gli strumenti della penalità e del carcere in favore della ricerca del bene comune. Se prima si trattava di raggiungere obiettivi universali in grado di ripercuotersi in un miglioramento delle condizioni di vita di ciascuno, ora il traguardo più ambito è l’aula processuale, conquistare un posto in prima fila nei tribunali, sedere sui banchi della pubblica accusa o delle parti civili. Si pensa e si parla solo attraverso le lenti dell’ideologia penale. Una sovrabbondanza che alla fine, è superfluo ricordarlo, non ha creato più giustizia. Come dicevano già i romani: summum ius, summa iniuria. Il mito della giustizia penale ha alla fine trasformato la politica nel cimitero della giustizia sociale. L’esaltazione delle qualità salvifiche del potere giudiziario ha fatto tabula rasa di ogni critica dei poteri.