La democrazia coniugata in forma giudiziaria ha favorito la svolta a destra della socieità italiana
Paolo Persichetti
Liberazione (supplemento Queer) 13 luglio 2008
Il tema della criminalità si è imposto ormai come una delle leve principali dell’azione politica. Vero e proprio strumento di «governo attraverso la paura», secondo la definizione che ci viene da alcuni studi sociologici nordamericani. All’origine di questa “innovazione” sembra esserci il consolidamento del sistema di produzione postfordista e del corrispondente modello politico neoliberale.
Da una forma di capitalismo che cercava d’ottimizzare le sue prestazioni attraverso politiche che incrementavano l’impiego e utilizzavano la capacità d’acquisto dei salari per accrescere la domanda, si è passati a un modello che ha fatto della precarizzazione della vita e della speculazione finanziaria la sua fondamentale fonte di profitto, ingenerando un nuovo tipo di società dominato dall’esclusione, dalla marginalizzazione sociale, dalla collocazione forzata nell’armata del precariato diffuso, dallo sfruttamento intensivo dei settori più marginali della forza lavoro. Una società dove l’umanità è percepita come un’eccedenza sociale, economica e politica. Sovranumeri da cui occorre liberarsi per alleggerire il ciclo produttivo, ripulire le città, rispedire nei luoghi di provenienza i migranti, fare piazza pulita di questuanti, posteggiatori e lavavetri, occupanti di case sfitte e writers. Il tutto declinato attraverso il linguaggio della messa al bando, della difesa della società e della neutralizzazione del male. Una società dove s’indeboliscono i legami sociali, viene meno ogni capacità inclusiva e prevale un dispositivo predatorio, una sorta di legge della giungla che conforma tutti i rapporti sociali ridisegnando una nuova dimensione ideologica che ha preso il nome di «populismo penale». Una “cultura del controllo” risultato della costante «tensione tra ideologia neoliberale del libero mercato e autoritarismo morale neoconservatore», dove il conflitto non trova più uno sbocco: privo di progettualità esprime solo rabbia, rivalsa, frustrazione, rancore. Una guerra dei forti contro i deboli, non solo dei primi contro gli ultimi ma dei penultimi contro chi viene subito dopo, di chi sta peggio col suo simile, di sopraffazione permanente, di scontro molecolare.
Dentro queste nuove contraddizioni mette radici un groviglio confuso di sentimenti che intrecciano la paura per l’avvenire, l’ossessione per il declino sociale, accentuando i processi d’identificazione vittimistica.
Vittime meritevoli e privatizzazione della giustizia
Figura centrale di questa grande svolta punitiva approdata in Europa dagli Usa è l’icona della vittima presentata come «autentica incarnazione dell’individuo meritevole: quasi un modello ideale di cittadino». Tuttavia l’investitura legittimante che offre l’acquisizione di questa posizione sociale è caratterizzata da un accesso fortemente limitato e diseguale. La postura dell’innocente è infatti riconosciuta sulla base di ben selezionati requisiti di ordine sociale, economico, culturale e etnico che variano secondo le latitudini. Per i gruppi stigmatizzati in partenza, nei confronti dei quali si presume una contiguità originaria con l’universo criminale o la genealogia del male, non vi è alcuna possibilità di accedere alla santità vittimaria.
In effetti più della vittima in se è la nozione di “vittima meritevole” che trova affermazione e legittimazione. Non basta aver subito un torto o un danno per poter essere riconosciuti come tali, occorre innanzitutto entrare a far parte della categoria legittimata ad esserlo. L’uso strumentale della figura della vittima ha innescato un processo regressivo di privatizzazione della giustizia. Ogni retorica riabilitativa è scomparsa dietro una pura logica di rappresaglia che i poteri pubblici delegano alla vendetta privata, costruita sulla spersonalizzazione e la disumanizzazione assoluta di chi viene immesso nel recinto dei colpevoli. Questo processo di privatizzazione del diritto di punire trae la sua origine dalla convinzione che la liturgia del processo penale possa svolgere una funzione terapeutica, favorendo la riparazione psicologica della vittima. La giustizia processuale perde in questo modo il suo ruolo peculiare di ricerca delle responsabilità per rivestire la funzione di ricostruzione clinica della persona offesa.
Un’interpretazione che non ha mancato di sollevare obiezioni poiché sancisce una connaturata fragilità dell’individuo moderno, ormai ritenuto incapace di reggere i conflitti. L’esaltazione narcisistica della sofferenza diventa così una risorsa che le parti in lotta introducono nella dimensione simbolica del conflitto, percependosi ciascuna non più come avversaria e combattente, ma l’una vittima dell’altra. La reciprocità agonistica sostituisce l’inconciliabilità vittimistica. Una competizione della sofferenza che mina ogni possibile terreno di soluzione, ogni pausa o riconciliazione civile. Alla fine la vittima genera solo altre vittime, ricordava Hannah Arendt.
Quest’ideologia presenta tuttavia sfaccettaure diverse tra la realtà nordamericana e quella europea. Differenze legate alla presenza di modelli sociali, istituzionali e giudiziari dissimili. Il tema della complicità dello Stato con il crimine, tacciato per questo d’elitismo e corruzione, appartiene – per esempio – al repertorio classico della critica neoconservatice e dei libertarians americani (i fautori dello Stato minimo) nei confronti di quello che viene ritenuto un eccessivo presenzialismo statale. Al contrario, da noi, i “professionisti dell’antimafia” denunciano il lassismo del governo nella lotta alla criminalità auspicando un sempre maggiore coinvolgimento dello Stato. Il sistema giudiziario di tipo accusatorio fa si che nel modello nordamericano si configura una contrapposizione politico-ideologica tra gli incarichi elettivi e quelli indipendenti che reggono il sistema della giustizia penale, definito da Simon il «complesso accusatorio». Lo sceriffo della contea insieme a l’attorney (il procuratore) sono ritenuti gli eroi della guerra senza quartiere al crimine. Mentre il giudice terzo, in quanto garante delle forme della legge, è percepito come un ostacolo se non addirittura una figura connivente con la delinquenza.
La tradizione inquisitoria che pervade ancora il sistema giudiziario italiano, via di mezzo tra rito istruttorio e “semiaccusatorio”, consente invece alla nostra magistratura di essere individuata come il perno centrale della lotta non solo alla criminalità ma più in generale all’ingiustizia. L’impegno profuso nel contrastare la sovversione sociale degli anni 70, la lunga stagione delle leggi penali speciali e dei maxiprocessi che ha traversato il decennio 80, e poi lo tsunami giudiziario che ha preso il nome di “tangentopoli”, hanno conferito alla magistratura, e in particolare ad alcune importanti procure, il ruolo di vero e proprio soggetto politico portatore di un disegno generale di società, di una filosofia pubblica capace di sostituirsi agli attori tradizionali della politica, partiti e movimenti.
L’ideologia vittimaria
Tuttavia l’ideologia vittimaria non ha ancora assunto una sua fisionomia codificata e stabile. In un’epoca in cui i fenomeni sociali prendono una conformazione sociale «liquida», anche il vittimismo diventa non solo pervasivo ma proteiforme, mutevole. E così nelle lande del settentrione leghista fanno breccia gli argomenti tipici della destra statunitense sul contribuente vittimizzato dalle tasse governative, sul costo eccessivo di un welfare per i poveri e le minoranze urbane, cioè le stesse comunità accusate di generare criminalità, che nella retorica leghista diventano i migranti e le regioni meridionali.
Nonostante sia evidente la matrice ultrareazionaria e il carattere ferocemente conservatore dei suoi esiti politici, al dilagare del populismo penale – almeno in Italia – non è estranea la cultura di buona parte della sinistra che ancora pochi giorni fa si è radunata in piazza Navona. Questo mito dell’azione penale intesa come strumento politico di sostituzione, grimaldello che in nome di una presunta società civile pura, inerme, innocente, vittima e onesta, scardina la “casta della politica”, si attaglia perfettamente a quella concezione strumentale dell’apparato giudiziario di radicata tradizione sostanzialista, riassunta nella tradizione giacobina e lasalliana, maggioritaria nelle correnti di pensiero presenti nel movimento operaio. Un processo d’autoinvestitura politica della magistratura emerso in pieno negli anni 90. Un atteggiamento che privilegia la concezione aggressiva della funzione del giudice e attribuisce all’azione penale una posizione centrale nella scena pubblica, fino ad avocare a se un ruolo politico decisivo e una competenza illimitata. I parametri classici della teoria della tripartizione dei poteri vengono in questo modo stravolti a vantaggio di un modello di governo giudiziario nel quale il suffragio e la tradizionale teoria liberale della rappresentanza sono sopraffatti da una kantiana repubblica di procuratori della repubblica che ambisce all’interpretazione dell’interesse generale.
La giudiziarizzazione crescente della politica e il trionfo del populismo penale hanno contribuito al declino ulteriore dei modelli di Stato sociale in favore dello ritorno dello Stato etico e penale. «La vera fonte della legittimità deriva dalle legalità o dal suffragio?» – è arrivata a chiedersi nel 2001 la rivista Micromega, organo ideologico dei pasdaran della soluzione penale. La democrazia coniugata nella sua forma giudiziaria ha favorito e accelerato la svolta a destra della società italiana.
Per questo il rilancio dell’azione politica alternativa e della critica sociale non può che passare per il rifiuto totale di ogni subalternità verso concezioni penali della politica, unico modo per liberare la società dagli effetti stupefacenti dell’oppio giudiziario.
Per approfondire
Populismo penale
Curare e punire
Il governo della paura
Genesi del populismo penale e nuova ideologia vittimaria
Populismo penale, una declinazione del neoliberismo
Ho paura dunque esisto
Dipietrismo: malattia senile del comunismo?
Giustizia o giustizialismo, dilemma nella sinistra
Il populismo penale una malattia democratica
Luigi Ferrajoli: Populismo penale ovvero la strategia della paura