Populismo penale

Populismo penale

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Ho paura dunque esisto
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Giustizia o giustizialismo, dilemma nella sinistra
Il populismo penale una malattia democratica
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Curare e punire
Il governo della paura
Genesi del populismo penale e nuova ideologia vittimaria
Populismo penale, una declinazione del neoliberismo
L’indulto da sicurezza, il carcere solo insicurezza
Come si vive e si muore nelle carceri italiane
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Le misure alterantive al carcere sono un diritto del detenuto
Sprigionare la società
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Nel paese del carcere facile, il Corriere della Sera s’inventa l’ennesima polemica sulle scarcerazioni rapide


Denis Salas: il populismo penale, una malattia delle democrazie

La volontà di punire


Denis Salas

Liberazione
– Queer 13 luglio 2008

Populismo penale: così avevo chiamato uno dei mali endemici che colpiscono la nostra democrazia in un libro pubblicato nel 2005. All’epoca questo fenomeno interessava gli Stati Uniti. Sembrava essere soltanto una minaccia lontana per noi Europei. Ma ormai ovunque in Europa le legislazioni penali si irrigidiscono contro nuovi pericoli come l’immigrazione clandestina, la pedofilia, l’insicurezza delle città e, certamente, il terrorismo… Come definire allora questo fenomeno? Soltanto un’eventualità, una “tentazione” come dicevo nel 2005, oppure una tendenza di fondo, addirittura irreversibile?
Definire il populismo penale soltanto attraverso la sensibilità che le nostre democrazie d’opinione riservano ai fatti di cronaca non basta. Emerso negli Stati Uniti nel corso degli anni 80, ha assunto la forma di un discorso politico proprio della destra neo-conservatrice specializzato nelle promesse punitive capaci di sedurre l’elettorato. Facendo leva su un’opinione costantemente in cerca di sicurezza e sull’effetto creato dall’annuncio di leggi in difesa delle genti oneste, ha fatto si che il mostrarsi tough on crime (duri verso il crimine) sia diventato l’atteggiamento “utile”, la formula vincente per qualsiasi candidato in cerca del suffragio popolare.
Oggi questa definizione non è più sufficiente. Occorre andare oltre. Il populismo penale si basa anche su un rovesciamento delle nostre rappresentazioni della violenza e dell’insicurezza. Mentre in passato la legislazione penale aveva per oggetto di adattare la sanzione al delinquente, una volta riconosciuto colpevole, ora la vittima, a lungo dimenticata, è diventata la sua preoccupazione prioritaria. I due fenomeni sono legati: da un lato, il delinquente viene cancellato come persona ed esiste soltanto in quanto minaccia; dell’altro, la vittima esce dall’oblio e si presenta come soggetto di un trauma. Il delinquente diventa soltanto un corpo da identificare, rinchiudere e neutralizzare, mentre la vittima è una persona sofferente in cerca di una improbabile elaborazione del lutto.
Siamo passati dal delinquente visto come un individuo da correggere o trasformare alla delinquenza analizzata come una peste da arginare. Ogni responsabile politico degno di questo nome deve proteggere il corpo sociale per evitare nuove vittime. La pena non è più la sanzione di un crimine, ma esprime la lotta della legge contro questa peste e la riparazione delle sue conseguenze negative.
Questo rovesciamento avviene sotto gli occhi dell’opinione pubblica. Ormai al di sopra delle stesse istituzioni, l’opinione pubblica è il giudice sovrano di ogni cosa. Facile alla compassione, favorisce un’ideologia vittimaria dominata dalla solidarietà effimera attorno alle sventure individuali. Questo tipo di linguaggio – enfatizzato dai mass media – governa ormai il discorso politico. Le leggi penali vi attingono buona parte della loro giustificazione. Molte di queste leggi mirano a rafforzare il nostro arsenale penale, con l’esplicito scopo di difendere la società nel nome di un dovere di protezione delle vittime. Ad ogni nuovo fatto di cronaca nera si incita a punire in nome delle vittime offese nella loro dignità, denunciando al tempo stesso le istituzioni incapaci di rispondere a tali richieste. Potrebbe esserci una migliore dimostrazione della superiorità del “popolo” – e del suo comune buon senso – rispetto alle istituzioni? Come siamo arrivati a questo punto? È innegabile che la questione della vittima è centrale nelle società post-totalitarie. Poco a poco questa figura è diventata un soggetto di diritti, degno d’ascolto e al contempo di verità, a partire dalla presa di parola dei superstiti della Shoah. Dopo di loro, tutte le altre vittime (di stupro, d’abuso sessuale, di sindrome traumatica…) hanno saputo farsi sentire. Ma questo riconoscimento centrale della dignità della vittima ha prodotto un suo doppio immaginario: l’ideologia vittimaria secondo cui la Vittima, vera icona della lotta contro l’insicurezza, diventa il principale riferimento dei discorsi politici, mediatici o giudiziari. Alla singola vittima che occorre ascoltare, aiutare e accompagnare si sovrappone la vittima invocata dai resoconti multipli che la celebrano e la strumentalizzano. È significativo che negli Stati Uniti un certo numero di leggi penali portino la firma della vittima: così le Megan’s laws sugli archivi dei delinquenti sessuali portano il nome della piccola Megan Kanka assassinata nel New Jersey.
L’incantesimo punitivo attuale si fonda sul martirio dell’innocente e si nutre della denuncia delle istituzioni incapaci di porvi rimedio. Quest’ideologia è in procinto di rileggere alcuni nostri diritti fondamentali alla luce del suo “codice” emozionale per sovvertirli, come mostrato da questo dialogo immaginario tra diritti e ideologia vittimaria.
La presunzione d’innocenza? «Come accettarla – dice la Vittima – io che ho perso il mio bambino per colpa di quest’uomo che è accusato? Voi lo definite presunto innocente, ma mi è impossibile accettare la parola: innocenza. Per me i fatti sono incontrovertibili. Il crimine è inscritto nella carne del mio bambino. Il colpevole non è un imputato presunto più di quanto io non sia una vittima presunta».
La prescrizione? «Mi è insopportabile poiché il trauma che mi colpisce è irreparabile. La violenza del trauma che ho ricevuto risuona sempre in me. L’oblio sarebbe una capitolazione, il perdono uno scandalo».
La responsabilità dei criminali malati di mente? «Come sopportare l’assenza di spiegazione e d’imputazione di un crimine per cui si dichiara un “non luogo a procedere”? Mi dite che il processo non avrà luogo, ma le perizie psichiatriche che deresponsabilizzano quest’uomo mi privano di un processo, di un resoconto, di una verità alla quale ho diritto».
La pena, in democrazia, deve essere commisurata e proporzionale all’atto e alla personalità? «Certamente, ma la mia sofferenza è senza misura. Il mio bambino è condannato a una “pena” che non ha alcuna comune misura con quella che colpirà il suo autore, il quale vivrà per qualche tempo in prigione, leggerà dei libri, potrà lavorare e uscirà un giorno, mentre il mio bambino è per sempre nella tomba».
È facile capire quanto questa posizione ripresa nei discorsi politici comporti necessariamente una crisi generalizzata della moderazione penale. Viene da pensare a una frase del filosofo Paul Ricœur: «La sofferenza aggiunta della pena si carica della sofferenza immeritata della vittima». Possiamo inoltre misurare il rischio contenuto in un’ideologia che sacralizza la causa delle vittime: un diritto penale del nemico, un universo mortifero senza uscita, una democrazia impoverita, amputata dai suoi diritti fondamentali.
Tutto ciò è poi sintomatico della crisi di legittimità del potere politico. Sembra che ogni responsabile politico debba ormai rigenerarsi attraverso la figura della vittima. I morti e i feriti dei fatti di cronaca gli sono diventati vicini, un po’ come se fossero membri della sua famiglia. Così si spiega la loro presenza al capezzale di questi infelici, la partecipazione alla celebrazione di un culto inedito che esige una giustizia esemplare.

(Traduzione a cura di Chiara Bonfiglioli)

Denis Salas è Direttore scientifico dei Cahiers de la Justice della Scuola Nazionale della Magistratura. Autore di La volonté de punir, essai sur le populisme pénal, Pluriel, Paris, 2008

Approfondimenti
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Ho paura dunque esisto
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Curare e punire

Il governo della paura
Genesi del populismo penale e nuova ideologia vittimaria
Populismo penale, una declinazione del neoliberismo
Luigi Ferrajoli: Populismo penale ovvero la strategia della paura


Genesi del populismo penale e nuova ideologia vittimaria

La democrazia coniugata in forma giudiziaria ha favorito la svolta a destra della socieità italiana

Paolo Persichetti
Liberazione
(supplemento Queer) 13 luglio 2008

Il tema della criminalità si è imposto ormai come una delle leve principali dell’azione politica. Vero e proprio strumento di «governo attraverso la paura», secondo la definizione che ci viene da alcuni studi sociologici nordamericani. All’origine di questa “innovazione” sembra esserci il consolidamento del sistema di produzione postfordista e del corrispondente modello politico neoliberale.
Da una forma di capitalismo che cercava d’ottimizzare le sue prestazioni attraverso politiche che incrementavano l’impiego e utilizzavano la capacità d’acquisto dei salari per accrescere la domanda, si è passati a un modello che ha fatto della precarizzazione della vita e della speculazione finanziaria la sua fondamentale fonte di profitto, ingenerando un nuovo tipo di società dominato dall’esclusione, dalla marginalizzazione sociale, dalla collocazione forzata nell’armata del precariato diffuso, dallo sfruttamento intensivo dei settori più marginali della forza lavoro. Una società dove l’umanità è percepita come un’eccedenza sociale, economica e politica. Sovranumeri da cui occorre liberarsi per alleggerire il ciclo produttivo, ripulire le città, rispedire nei luoghi di provenienza i migranti, fare piazza pulita di questuanti, posteggiatori e lavavetri, occupanti di case sfitte e writers. Il tutto declinato attraverso il linguaggio della messa al bando, della difesa della società e della neutralizzazione del male. Una società dove s’indeboliscono i legami sociali, viene meno ogni capacità inclusiva e prevale un dispositivo predatorio, una sorta di legge della giungla che conforma tutti i rapporti sociali ridisegnando una nuova dimensione ideologica che ha preso il nome di «populismo penale». Una “cultura del controllo” risultato della costante «tensione tra ideologia neoliberale del libero mercato e autoritarismo morale neoconservatore», dove il conflitto non trova più uno sbocco: privo di progettualità esprime solo rabbia, rivalsa, frustrazione, rancore. Una guerra dei forti contro i deboli, non solo dei primi contro gli ultimi ma dei penultimi contro chi viene subito dopo, di chi sta peggio col suo simile, di sopraffazione permanente, di scontro molecolare.
Dentro queste nuove contraddizioni mette radici un groviglio confuso di sentimenti che intrecciano la paura per l’avvenire, l’ossessione per il declino sociale, accentuando i processi d’identificazione vittimistica.

Vittime meritevoli e privatizzazione della giustizia
Figura centrale di questa grande svolta punitiva approdata in Europa dagli Usa è l’icona della vittima presentata come «autentica incarnazione dell’individuo meritevole: quasi un modello ideale di cittadino». Tuttavia l’investitura legittimante che offre l’acquisizione di questa posizione sociale è caratterizzata da un accesso fortemente limitato e diseguale. La postura dell’innocente è infatti riconosciuta sulla base di ben selezionati requisiti di ordine sociale, economico, culturale e etnico che variano secondo le latitudini. Per i gruppi stigmatizzati in partenza, nei confronti dei quali si presume una contiguità originaria con l’universo criminale o la genealogia del male, non vi è alcuna possibilità di accedere alla santità vittimaria.
In effetti più della vittima in se è la nozione di “vittima meritevole” che trova affermazione e legittimazione. Non basta aver subito un torto o un danno per poter essere riconosciuti come tali, occorre innanzitutto entrare a far parte della categoria legittimata ad esserlo. L’uso strumentale della figura della vittima ha innescato un processo regressivo di privatizzazione della giustizia. Ogni retorica riabilitativa è scomparsa dietro una pura logica di rappresaglia che i poteri pubblici delegano alla vendetta privata, costruita sulla spersonalizzazione e la disumanizzazione assoluta di chi viene immesso nel recinto dei colpevoli. Questo processo di privatizzazione del diritto di punire trae la sua origine dalla convinzione che la liturgia del processo penale possa svolgere una funzione terapeutica, favorendo la riparazione psicologica della vittima. La giustizia processuale perde in questo modo il suo ruolo peculiare di ricerca delle responsabilità per rivestire la funzione di ricostruzione clinica della persona offesa.
Un’interpretazione che non ha mancato di sollevare obiezioni poiché sancisce una connaturata fragilità dell’individuo moderno, ormai ritenuto incapace di reggere i conflitti. L’esaltazione narcisistica della sofferenza diventa così una risorsa che le parti in lotta introducono nella dimensione simbolica del conflitto, percependosi ciascuna non più come avversaria e combattente, ma l’una vittima dell’altra. La reciprocità agonistica sostituisce l’inconciliabilità vittimistica. Una competizione della sofferenza che mina ogni possibile terreno di soluzione, ogni pausa o riconciliazione civile. Alla fine la vittima genera solo altre vittime, ricordava Hannah Arendt.
Quest’ideologia presenta tuttavia sfaccettaure diverse tra la realtà nordamericana e quella europea. Differenze legate alla presenza di modelli sociali, istituzionali e giudiziari dissimili. Il tema della complicità dello Stato con il crimine, tacciato per questo d’elitismo e corruzione, appartiene – per esempio – al repertorio classico della critica neoconservatice e dei libertarians americani (i fautori dello Stato minimo) nei confronti di quello che viene ritenuto un eccessivo presenzialismo statale. Al contrario, da noi, i “professionisti dell’antimafia” denunciano il lassismo del governo nella lotta alla criminalità auspicando un sempre maggiore coinvolgimento dello Stato. Il sistema giudiziario di tipo accusatorio fa si che nel modello nordamericano si configura una contrapposizione politico-ideologica tra gli incarichi elettivi e quelli indipendenti che reggono il sistema della giustizia penale, definito da Simon il «complesso accusatorio». Lo sceriffo della contea insieme a l’attorney (il procuratore) sono ritenuti gli eroi della guerra senza quartiere al crimine. Mentre il giudice terzo, in quanto garante delle forme della legge, è percepito come un ostacolo se non addirittura una figura connivente con la delinquenza.
La tradizione inquisitoria che pervade ancora il sistema giudiziario italiano, via di mezzo tra rito istruttorio e “semiaccusatorio”, consente invece alla nostra magistratura di essere individuata come il perno centrale della lotta non solo alla criminalità ma più in generale all’ingiustizia. L’impegno profuso nel contrastare la sovversione sociale degli anni 70, la lunga stagione delle leggi penali speciali e dei maxiprocessi che ha traversato il decennio 80, e poi lo tsunami giudiziario che ha preso il nome di “tangentopoli”, hanno conferito alla magistratura, e in particolare ad alcune importanti procure, il ruolo di vero e proprio soggetto politico portatore di un disegno generale di società, di una filosofia pubblica capace di sostituirsi agli attori tradizionali della politica, partiti e movimenti.

L’ideologia vittimaria
Tuttavia l’ideologia vittimaria non ha ancora assunto una sua fisionomia codificata e stabile. In un’epoca in cui i fenomeni sociali prendono una conformazione sociale «liquida», anche il vittimismo diventa non solo pervasivo ma proteiforme, mutevole. E così nelle lande del settentrione leghista fanno breccia gli argomenti tipici della destra statunitense sul contribuente vittimizzato dalle tasse governative, sul costo eccessivo di un welfare per i poveri e le minoranze urbane, cioè le stesse comunità accusate di generare criminalità, che nella retorica leghista diventano i migranti e le regioni meridionali.
Nonostante sia evidente la matrice ultrareazionaria e il carattere ferocemente conservatore dei suoi esiti politici, al dilagare del populismo penale – almeno in Italia – non è estranea la cultura di buona parte della sinistra che ancora pochi giorni fa si è radunata in piazza Navona. Questo mito dell’azione penale intesa come strumento politico di sostituzione, grimaldello che in nome di una presunta società civile pura, inerme, innocente, vittima e onesta, scardina la “casta della politica”, si attaglia perfettamente a quella concezione strumentale dell’apparato giudiziario di radicata tradizione sostanzialista, riassunta nella tradizione giacobina e lasalliana, maggioritaria nelle correnti di pensiero presenti nel movimento operaio. Un processo d’autoinvestitura politica della magistratura emerso in pieno negli anni 90. Un atteggiamento che privilegia la concezione aggressiva della funzione del giudice e attribuisce all’azione penale una posizione centrale nella scena pubblica, fino ad avocare a se un ruolo politico decisivo e una competenza illimitata. I parametri classici della teoria della tripartizione dei poteri vengono in questo modo stravolti a vantaggio di un modello di governo giudiziario nel quale il suffragio e la tradizionale teoria liberale della rappresentanza sono sopraffatti da una kantiana repubblica di procuratori della repubblica che ambisce all’interpretazione dell’interesse generale.
La giudiziarizzazione crescente della politica e il trionfo del populismo penale hanno contribuito al declino ulteriore dei modelli di Stato sociale in favore dello ritorno dello Stato etico e penale. «La vera fonte della legittimità deriva dalle legalità o dal suffragio?» – è arrivata a chiedersi nel 2001 la rivista Micromega, organo ideologico dei pasdaran della soluzione penale. La democrazia coniugata nella sua forma giudiziaria ha favorito e accelerato la svolta a destra della società italiana.
Per questo il rilancio dell’azione politica alternativa e della critica sociale non può che passare per il rifiuto totale di ogni subalternità verso concezioni penali della politica, unico modo per liberare la società dagli effetti stupefacenti dell’oppio giudiziario.

Per approfondire
Populismo penale
Curare e punire
Il governo della paura
Genesi del populismo penale e nuova ideologia vittimaria
Populismo penale, una declinazione del neoliberismo
Ho paura dunque esisto
Dipietrismo: malattia senile del comunismo?
Giustizia o giustizialismo, dilemma nella sinistra
Il populismo penale una malattia democratica
Luigi Ferrajoli: Populismo penale ovvero la strategia della paura

Alain Brossat, curare e punire

La legge francese sull’ “internamento di sicurezza”

Alain Brossat
Liberazione
(supplemento Queer) 13 luglio 2008

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La legge Dati, adottata dal Parlamento francese il 25 febbraio 2008, ha introdotto per i reati a sfondo sessuale l’internamento di sicurezza per una durata indefinita in luoghi annessi ai penitenziari, veri e propri “ospedali-prigione”, una volta terminata la pena. Questa nuova disposizione si pone al di fuori del principio di proporzionalità tra delitto e sanzione tradizionalmente sancito dal diritto penale. In questo modo la pena non è più legata all’infrazione contestata ma alla personalità dell’incriminato, ritenuto un pericolo costante per la società. Il criterio ispiratore di questa nuova legge sovrappone pericolosamente logiche e dinamiche molto diverse, creando una indistinzione tra l’approccio medico e quello penale. Riemerge così in tutto il suo splendore la figura dell’irrecuperabile (in questo caso doppiamente perché incurabile). Questi “malati” hanno in genere scontato lunghissime condanne (il dispositivo si riferisce a pene di quindici anni e più), durante le quali hanno avuto accesso soltanto a cure episodiche, inadatte, o addirittura a nessun tipo di cura. Dei malati gravi, così malati che un obbligo di cura può essere loro imposto vita natural durante, ma che saranno trattati al tempo stesso alla stregua di ipercriminali, di mostri. Questa nuova modalità legislativa segna anche il ritorno al modello delle lettres de cachet; le lettere sigillate con un timbro della casa reale che contenevano decisioni arbitrarie e inappellabili emesse dal sovrano, come ad esempio la condanna alla detenzione in prigioni e ospedali, o l’espulsione nelle colonie senza possibilità di processo o di appello. Sotto il segno di questa indistinzione appare, in realtà, un nuovo paradigma, quello del curare e punire. Dove il curare rischia fortemente di restare in questo caso un puro e semplice alibi per un nuovo giro di vite repressivo. Non per niente, infatti, il Sindacato della magistratura ha parlato a proposito di questa legge di «logica d’eliminazione». È risaputo che la nozione di rischio appartiene tanto all’arsenale discorsivo poliziesco quanto a quello medico. Se il primo parte dall’idea che certe categorie sociali ed etniche, certe topografie presentino maggiori rischi in termini di sicurezza o di criminalità, il secondo si concentra sui rischi sanitari legati alle epidemie, alle condizioni ambientali, alle categorie d’età. Il fantasma sicuritario, inteso come fantasma medico-poliziesco, consiste dunque nella eliminazione del rischio. Ma come ha osservato uno psichiatra nel contesto della discussione sulla legge Dati: «il rischio zero non esiste, o allora, bisognerebbe rinchiudere il 40% della popolazione». Ritroviamo qui le molteplici poste in gioco che un governo generale delle condotte può sfruttare a partire da teorie del rischio e discorsi di esperti, sociologi e altri, che vengono a concentrarsi attorno alla nozione di “società del rischio”. Quando il progetto di legge è stato discusso in parlamento, il suo relatore ha fatto aggiungere all’ultimo momento un emendamento che allarga il suo campo d’applicazione a ogni altra persona che sia stata condannata a una pena superiore ai quindici anni di carcere! Dunque, non più soltanto i “pedofili che rifiutano di curarsi”, come si pretendeva inizialmente ma anche gli autori di atti criminali di qualsiasi tipo, anche se non si capisce come questi ultimi possano essere considerati dei malati da sottoporre a un obbligo di cura. L’alibi medico viene così a cadere. Il pedofilo rappresenta, in realtà, una delle principali piaghe destinate a giustificare la sperimentazione di dispositivi che entrano nel quadro di ciò che possiamo chiamare l’eccezione furtiva. Il dispiegamento camuffato di un modello d’emergenza permanente. La nozione di “difesa sociale” – che implica la necessità di istituzioni e dispositivi volti ad allontanare i criminali “irrecuperabili” in modo più o meno permanente – è sempre esistita nelle società moderne occidentali. In Francia, ad esempio, era alla base della legge del 27 maggio 1885 che organizzava la lotta contro la recidiva per mezzo dell’internamento perpetuo dei multirecidivi nelle colonie. È del tutto evidente che un tale dispositivo non deve nulla alla medicina, o allora, con un gioco di parole, si tratta di una sorta di profilassi del crimine che prende in prestito alla medicina soltanto certi elementi morfologici molto generali. Gradualmente si è prodotto dunque uno spostamento di significato: il potere-sapere medico viene incluso in quest’ultima creazione della “difesa sociale”, il piccolo macchinario dei centri socio-medico-giudiziari di sicurezza. È apparso anche, in occasione della discussione di questa legge, il concetto di “pedo-criminali”. Questo neologismo richiama la nostra attenzione su due cose. In primo luogo la promozione del pedofilo al posto che occupava il parricida nella società di ancien régime, il vertice della piramide nella gerarchia dei mostri criminali. Ma soprattutto la fascinazione crescente che sembra esercitare nelle nostre società la delinquenza sessuale di ogni specie (stupro, molestia…). Perché tutto ciò?
Forse una risposta la si può ricavare dal fatto che tali tematiche rendono possibili nuove operazioni di concatenazione discorsiva tra gli enunciati sull’ordine e quelli sulla salute. Quest’ipotesi rimarrebbe forse in sospeso se non la si completasse con un’altra osservazione: il sesso che fascina e seduce, che richiede di essere simultaneamente sanzionato e medicalizzato, è il sesso colpevole, il sesso sregolato, il sesso patologico. La fascinazione moderna per il sesso, il sesso che parla si associa qui a quella esercitata dalla punizione. Una forma di punizione aggravata che ritrova in parte il prestigio degli antichi supplizi (la pena infinita al posto del taglio dei corpi). Come sappiamo, un desiderio immenso di punire attraversa attualmente le nostre società attraverso tutte le loro istituzioni – scuola, giustizia, polizia, impresa, ecc. Laddove questo desiderio di punire incontra il sesso si producono quelle che potremmo chiamare delle schegge accecanti di micro-fascismo. D’altra parte, viene confermato il tendenziale ritorno a modelli di reclusione e a politiche dell’esclusione, nel senso in cui questo termine viene utilizzato da Foucault in Storia della Follia: un movimento che riguarda categorie di persone sempre più disparate. Psicotici che si ritrovano in prigione, bambini disadattati, sans papiers, delinquenti sessuali e altre categorie stigmatizzate.
Per quel che riguarda la psichiatria e la sua implicazione volente o nolente in questo processo, sembra di assistere a uno sfilacciamento parziale di quel che era avvenuto con il passaggio dal “regime chiuso” dell’asilo al “regime aperto” o semi-aperto dell’ospedale psichiatrico e la sua multifunzionalità. Tutta la questione consiste nel comprendere come tali movimenti regressivi possano rendersi compatibili con la dinamica generale della medicalizzazione della società e della vita.
In nome della difesa degli uni, cioè del corpo “sano” della popolazione, dei “normali”, si tratterà di pronunciare un certo numero di decreti d’esclusione e di ostracismo contro gli altri. Sembra così che la medicalizzazione possa andare di pari passo con qualcosa di più che l’aumento della repressione: il ritorno alla vecchia operazione di divisione che consiste nell’escludere il folle tramite reclusione e lo straniero indesiderabile tramite proscrizione ed espulsione. La medicalizzazione può perfettamente accompagnare il ritorno o la perpetuazione di violenze estreme: tortura medicalizzata e pena di morte indolore negli Stati Uniti, pena perpetua in Europa.

(Traduzione a cura di Chiara Bonfiglioli)

Alain Brossat ha pubblicato in Italia per Eleuthèra
Sprigionare la società 2003

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Populismo penale
Curare e punire
Il governo della paura
Genesi del populismo penale e nuova ideologia vittimaria
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Giustizia o giustizialismo, dilemma nella sinistra
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Luigi Ferrajoli: Populismo penale ovvero la strategia della paura

Il governo della paura

Tratto da Il governo della paura. Guerra alla criminalità e democrazia in America, Raffaello Cortina editore 2008 (2007)

di Jonathan Simon
Liberazione
(supplemento Queer) 13 luglio 2008

Il governo attraverso la criminalità rende l’America meno democratica e più polarizzata dal punto di vista razziale; esaurisce il nostro capitale sociale e reprime la capacità di innovare. Malgrado tutto questo, il governo attraverso la criminalità, non ci ha resi – e io credo che non possa renderci – più sicuri; esso, anzi, alimenta una cultura della paura e del controllo che, 323-queer-13-07-081 inevitabilmente, abbassa la soglia della paura nel momento in cui sottopone i cittadini americani a una pressione sempre più forte. Le conseguenze dell’ascesa della questione criminale a uno status del genere sono state enormi: che si individui il valore della democrazia americana nelle sue caratteristiche di libertà o di uguaglianza, il governo attraverso la criminalità ha prodotto effetti negativi. In primo luogo, il massiccio dirottamento di risorse fiscali e amministrative verso il sistema di giustizia criminale – a livello statale e federale – ha configurato una trasformazione efficacemente descritta come transizione dallo “stato sociale” allo “stato penale”. Il risultato non è stato un governo più leggero, ma un esecutivo più autoritario, un potere legislativo più inerte e un sistema giudiziario più difensivo di quanto sia mai stato imputato allo stesso stato sociale. Inoltre, la parte di popolazione sotto custodia penale per aver commesso reati è cresciuta al di là di ogni legge storica. Alla fine del XX secolo, un numero senza precedenti di americani era confinato in prigioni statali o di contea, in centri di detenzione e luoghi di custodia all’interno delle scuole. La declinazione razziale di questa incarcerazione ha visibilmente invertito aspetti chiave della rivoluzione dei diritti civili. Per la prima volta dall’abolizione della schiavitù, un gruppo definito di americani vive, su basi più o meno permanenti, in una condizione giuridica di non-libertà – in virtù di una singola condanna all’ergastolo, di ripetute incarcerazioni, oppure delle conseguenze di lungo termine di una condanna penale; non solo, ma tra questi una sconcertante percentuale discende dagli schiavi liberati. Governare questa porzione di popolazione attraverso il sistema penale non ha garantito quelle condizioni di sicurezza che 9788860301727 potrebbero ispirare un maggiore investimento delle inner cities (cinture urbane, Ndr), ma, al contrario, ha ulteriormente stigmatizzato comunità già assediate dalla concentrazione della povertà. Come è prevedibile, sono i poveri, sovrarappresentati in entrambi i gruppi, a condividere questo destino; ma anche la vita quotidiana delle famiglie middle class è stata trasformata, non tanto dalla criminalità in sé, quanto dalla “paura della criminalità”. Nelle famiglie appartenenti alla middle class, decisioni quali dove vivere, dove lavorare e dove mandare a scuola i figli sono prese sempre più spesso in base al rischio percepito di criminalità. Nella misura in cui le istituzioni che sono al servizio della middle class si concentrano sulla gestione della paura della criminalità, la nostra nei confronti degli altri e quella degli altri nei nostri confronti, gli effetti si moltiplicano. Il punto non è che la middle class sia più colpita dal governo attraverso la criminalità di quanto lo siano i poveri; piuttosto, è considerare tanto il sistema di giustizia penale incentrato sulla comunità povere quanto il settore privato degli ambienti securizzati middle class alla stregua di specifiche modalità di classe, tra loro interagenti, del governo attraverso la criminalità. Tanto l’emergere delle gated communities (complessi residenziali chiusi all’accesso dei non residenti, Ndr) quanto il moltiplicarsi di smisurati Suv (sport utility vehicles) riflettono la priorità accordata dalle famiglie middle class alla sicurezza e al mantenimento della distanza, contro un rischio di criminalità associato ai poveri urbani. Ma come i critici dello sprawl (progressiva estensione delle città oltre il perimetro urbano, Ndr) hanno iniziato a documentare, un’insistenza così pesante sulla fortificazione rende queste comunità ancora più dipendenti da una polizia aggressiva e dallo stato penale per la tutela delle norme di civiltà. Infatti, il nuovo ambiente securizzato tende ad alimentare alcune routine circoscritte, ma quando si presentano situazioni inedite, esso tende a creare ciò che gli economisti chiamano (in modo appropriato, nel nostro caso) “dilemma del prigioniero”: vale a dire un gioco in cui i giocatori non possono collaborare, e possono avere la meglio solo se si fanno predatori per primi. L’ultimo che resta fuori perde (anche se sta tornando al suo Suv o nella sua gated community). In un ambiente di questo tipo, è lecito aspettarsi che querele e procedimenti penali intervengano sempre più a ristabilire il controllo sociale in assenza di fiducia.
La democrazia americana è minacciata anche dall’emergere della vittima del crimine come modello dominante del cittadino in quanto rappresentante della gente comune, i cui bisogni e le cui capacità definiscono la missione del governo rappresentativo (Garland, 2001a, p. 249). Una serie di nuove forme di conoscenza porta adesso la “verità” delle vittime all’interno del sistema penale e al di là di questo (Simon, 2004, 2005). Le verità di queste vittime sono potenti, e spesso travolgono il significato emotivo di altre questioni. Esse minano le forme di solidarietà e di responsabilità necessarie alle istituzioni democratiche.
[…]
Le vittime di reati sono in senso letterale i soggetti più rappresentativi del nostro tempo (Garland, 2001a, pp. 70-72). E’ infatti in veste di vittime della criminalità che gli americani possono immaginarsi più facilmente come uniti; la minaccia del crimine al contempo ridimensiona le differenze esistenti tra loro e li autorizza a compiere passi politici decisivi. Di conseguenza, una parte considerevole dell’attività legislativa delle istituzioni rappresentative americane riguarda la criminalità. La vulnerabilità e i bisogni delle vittime delineano le condizioni ideali per l’intervento del governo.
La natura di tale identità della vittima è profondamente connotata in termini razziali. Non sono infatti tutte le vittime, ma essenzialmente quelle bianche, suburbane e middle class ad aver ispirato con la loro visibilità questa ondata di legislazione. La legislazione anticrimine ha un proprio luogo immaginario: aree residenziali sicure e rispettabili, tipicamente suburbane e circondate da un confine chiaramente demarcato sul quale si abbattono la criminalità, la povertà e l’incremento demografico delle minoranze. Le vittime di criminalità violenta hanno assicurato un volto pubblico alla legittimazione della guerra alla criminalità, sebbene tale guerra abbia preso di mira soprattutto reati non violenti e spesso persino senza vittime individuabili, come le violazioni della disciplina sulle droghe o delle norme che vietano agli autori di reato di detenere armi da fuoco (Dubber, 2002).
Ma sebbene le vittime abbiano avuto successo nel rivendicare l’attenzione e l’intervento del legislatore, questa forza non riesce a tradursi in prestazioni legate al moderno stato sociale. Al contrario, secondo la logica della moderna legislazione penale le vittime possono trarre beneficio solo dalla produzione di una sicurezza generale che discenderebbe dalla punizione del colpevole, oppure – in caso di morte di uno dei propri cari – da eventi psicologici come la “closure” (l’esecuzione capitale come terapia finalizzata a curare la sofferenza delle vittime, Ndr) (Zimring, 2004). Qualora invece le vittime ricevessero qualcosa di paragonabile, per esempio, a un’indennità di disoccupazione, esse verrebbero a rappresentare solo un ulteriore gruppo di interesse in cerca di reddito, e non certo il modello di “volontà generale” che esse impersonano attualmente.
[…]
Negli anni Ottanta, la vittima della criminalità è emersa dall’ombra del soggetto dei diritti civili per costituirsi come soggetto politico idealizzato in sé. In una sorta di estensione all’“uomo qualunque”, le rivendicazioni delle vittime di criminalità fecero propria la critica di complicità che gli attivisti dei diritti civili e le femministe avevano articolato a proposito del coinvolgimento dello stato nella violenza criminale. Era il fallimento dello stato liberale nella forma del processo accusatorio, della cauzione e delle alternative alla detenzione come la parole, a permettere a gente nota (o sospettata) come criminale dalla polizia, di uscire dal carcere in anticipo (se non addirittura di evaderne) e di porre in atto ulteriori aggressioni alla proprietà e alle persone.
[…]
Una volta separata dal soggetto dei diritti civili, la vittima della criminalità può legarsi facilmente a un altro nucleo fondamentale di mobilitazione politica (soprattutto da parte dei repubblicani): il contribuente, vittimizzato dal governo, minacciato da un’avida classe politica di perdere i propri averi e persino la capacità di avere una casa propria. La vincente retorica repubblicana sulle tasse degli anni Settanta e Ottanta collegava tutto questo all’elevato costo del welfare per i poveri e le minoranze urbane – le stesse comunità accusate di generare criminalità. Di conseguenza, gran parte della legislazione prodotta dal governo federale e dagli stati negli ultimi vent’anni sembra essere ispirata alla regola implicita secondo la quale i legislatori non devono mai sembrare avversi agli interessi di un soggetto politico che è al contempo contribuente e (potenziale) vittima di criminalità.

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Populismo penale
Curare e punire
Il governo della paura
Genesi del populismo penale e nuova ideologia vittimaria
Populismo penale, una declinazione del neoliberismo
Ho paura dunque esisto
Dipietrismo: malattia senile del comunismo?
Giustizia o giustizialismo, dilemma nella sinistra
Il populismo penale una malattia democratica
Luigi Ferrajoli: Populismo penale ovvero la strategia della paura

Populismo penale, una declinazione del neoliberismo

«A uno Stato snello, che rinuncia alle tradizionali funzioni protettive, si chiede allora l’essenziale: la difesa del proprio corpo e dei propri possedimenti, anziché la difesa da un’economia che li minaccia. Il populismo penale è legato allo snellimento dello Stato e alla domanda crescente di difesa personale anziché sociale. Il termine populismo, d’altro canto, va riferito al risentimento di gruppi che si credono trascurati o abbandonati dall’autorità. Questo risentimento, però, si traduce in ostilità verso altri gruppi o individui ritenuti complici della condizione di abbandono»

 

Vincenzo Ruggiero
Liberazione
(supplemento Queer) 13 luglio 2008

323-queer-13-07-08

La questione criminale e quella penale sono ormai oggetto irrinunciabile della contesa tra i partiti politici. Destra e sinistra fanno a gara, negli Stati Uniti come in Danimarca, in paesi culturalmente simili o diversissimi, ad offrire sicurezza per i cittadini onesti e severità per chi viola le leggi. Si tratta di una tendenza generale, che tuttavia lascia intravedere delle differenze non secondarie quando si esaminano i paesi individualmente. Adottando una distinzione sommaria tra paesi a economia spiccatamente neo-liberista e paesi a economia relativamente controllata, i primi mostrano tassi più elevati di carcerazione, maggiore severità delle pene e minore tolleranza verso i reati di limitata gravità sociale. Una spiegazione provvisoria potrebbe essere la seguente. Nei paesi di intensa fede neo-liberista il successo individuale viene premiato tanto quanto l’insuccesso viene punito. Chi nel mercato mostra segni di fallimento, insomma, va espulso, castigato; si rischia altrimenti di lanciare un messaggio insidioso, vale a dire che la responsabilità per il fallimento non è da attribuire all’individuo, ma al mercato medesimo. I processi di globalizzazione fanno da sfondo a queste dinamiche. Mi riferisco, particolarmente, all’erosione del minimo di sussistenza per intere popolazioni, allo sradicamento provocato dalla deregolazione dei commerci, e alla creazione conseguente di eserciti di 883391268xg migranti e richiedenti asilo. D’altro canto, con la crescente interdipendenza tra paesi e popoli, e con la coabitazione ‘coatta’ tra questi ultimi, la presenza dell’altro si rende visibile e finisce per creare insicurezza. Ecco un paradosso. L’insicurezza creata dai mercati riguarda tutti, o per lo meno le maggioranze, in termini di paura rispetto al futuro, vulnerabilità nei confronti del datore di lavoro, impotenza verso i processi decisionali. Ma una simile paura, che Bakhtin definirebbe ‘cosmica’, rivolta com’è a un potere inafferrabile e debordante, viene tradotta in sgomento indirizzato a minoranze visibili. Se lo Stato non può più difenderci dall’economnia, se non è più in grado di guidarla ma solo di obberdirle, allora dovrà difenderci da altre fonti di insicurezza. A uno Stato snello, che rinuncia alle tradizionali funzioni protettive, si chiede allora l’essenziale: la difesa del proprio corpo e dei propri possedimenti, anziché la difesa da un’economia che li minaccia. Il populismo penale è legato allo snellimento dello Stato e alla domanda crescente di difesa personale anziché sociale. Il termine populismo, d’altro canto, va riferito al risentimento di gruppi che si credono trascurati o abbandonati dall’autorità. Questo risentimento, però, si traduce in ostilità verso altri gruppi o individui ritenuti complici della condizione di abbandono avvertita. Il populismo non aspira al sostegno dell’opinione pubblica in generale, ma solo di quel settore della società che si crede sfavorito e danneggiato dalla presenza e dalle attività di altri gruppi. Questi ultimi, ritenuti immeritevoli di quanto posseggono, vengono indicati come responsabli dell’emarginazione di chi non vuole far altro che condurre un’esistenza ordinaria e silenziosa. Michael Howard, ministro britannico conservatore, in una dichiarazione rilasciata nel 1993, espresse con chiarezza questo pensiero: la maggioranza silenziosa è diventata rumorosa, perché il sistema della giustizia criminale fa ormai troppo per i criminali e troppo poco per la protezione del pubblico. Secondo una definizione comune, sono populisti i politici che concepiscono politiche penali punitive le quali sembrano rispecchiare gli umori popolari. Il populismo penale che si diffonde oggi, in realtà, nasconde altro. Assistiamo allo spettacolo dell’affluenza privata e dello squallore pubblico. Avvertiamo che i legami sociali si indeboliscono e sappiamo che solo questi legami possono contribuire, almeno parzialmente, a ostacolare gli appetiti individuali 8833911454geccessivi. La paura dell’altro, in questo contesto, è paura del tipo di sistema che abbiamo creato, è consapevolezza che sappiamo rispondere al crimine, ma non siamo in grado di rispondere alle sue cause. In una situazione di ineguaglianza crescente, con una polarizzazione della ricchezza che torna a livelli ottocenteschi, si teme che il crimine sia destinato a diffondersi e ad assumere i connotati della disperazione. Si teme l’ineguaglianza, non il crimine. Il populismo penale, infine, può avere una propria funzione latente. Se la severità penale, nei primi decenni della rivoluzione industriale, intendeva disciplinare le orde di spossessati al lavoro di fabbrica, nell’epoca corrente una simile severità può educare chi conduce vita precaria ad accettare la propria insicurezza e interiorizzare il proprio scarso valore sociale e umano. La pena, allora, contribuirà alla riduzione delle aspettative, convincendo chi ne è colpito della propria inutilità. Il populismo penale, in breve, è il compagno ideale della crescita economica, basata spesso sulla produzione dell’inutile che rende alcuni gruppi di esseri umani inutili. Ho detto in apertura che, nell’esaminare i paesi individualmente, si notano differenze non secondarie. Guardando all’Italia, ad esempio, credo che il populismo penale si avvalga di uno sfondo culturale e politico davvero singolare. Con una vita pubblica ormai priva di qualsiasi missione etica, e un’élite che moltiplica le manifestazioni della propria illegalità, il populismo non è il trasferimento in politica del risentimento popolare o delle intuizioni che vengono dalla strada, ma è l’insulto, l’aggressione, la depredazione che alcuni temono di poter subire per strada.

Vincenzo Ruggiero è professore di Sociologia presso la Middlesex University di Londra.
Tra i suoi libri: Economie sporche, Delitti dei deboli e dei potenti, Movimenti nella citta, Crimini dell’immaginazione, La violenza politica, e in questi giorni nelle librerie inglesi Social Movements: A Reader

 

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