Caso Battisti: risposta a Fred Vargas

Il Corriere della sera di oggi 31 dicembre 2010 in un articolo di Giovani Bianconi, che prende avvio in prima pagina e poi gira in terza, cita alcuni passaggi di questo testo scritto nell’ottobre 2004, ripreso e sviluppato in uno dei capitoli (le pagine finali del capitolo otto) del libro Esilio e Castigo. Retroscena di una estradizione, La città del sole edizioni. Per completezza d’informazione lo riproponiamo
integralmente in apertura del blog

A scanso d’equivoci
Paolo Persichetti
Carcere di Mammagialla, Viterbo ottobre 2004

Alcune precisazioni sui presupposti politici che hanno contraddistinto le linee difensive condotte dai fuoriusciti italiani davanti alle Chambres d’accusations nel corso degli ultimi vent’anni

Con un lungo articolo apparso su Le Monde del 15 novembre 2004, l’archeologa e scrittrice di romanzi gialli di successo, Fred Vergas, ha esposto tutti i dubbi e le inconsistenze probatorie che hanno caratterizzato le sentenze di condanna da parte della giustizia d’emergenza italiana nei confronti di Cesare Battisti. Verdetti largamente fondati sulle tardive dichiarazioni del superpentito Pietro Mutti (realizzate quando Battisti era già evaso e in fuga in Messico). È a tutti apparso evidente che un così dettagliato ed efficace intervento sarebbe stato molto opportuno nella scorsa primavera, quando di fronte alla Chambre veniva giocata la partita decisiva. Allora nessuno impedì a Battisti di scendere nel merito dei fatti che gli venivano imputati per difendersi anche tecnicamente dalle accuse più gravi. La scelta di non comunicare con la stampa italiana e di farlo in modo alquanto inappropriato con quella francese, è unicamente farina del suo sacco. Al «diritto di… spiegarsi», come affermato nella sua ultima intervista rilasciata alle Iene su Italia uno, ha abbondantemente rinunciato lui stesso in un momento in cui era rincorso da tutti i media, contribuendo non poco alla propria demonizzazione. Una discutibile ma in ogni caso legittima e libera scelta. Proprio per questo sorprende l’attuale atteggiamento del suo entourage ed in modo particolare la parte finale dell’arringa di madame Vergas del 15 novembre, nella quale si lascia intendere che la difesa di merito non sarebbe stata intrapresa prima perché avrebbe potuto «nuocere alla protezione collettiva accordata senza distinzione degli atti commessi», alla «piccola comunità dei rifugiati italiani, protetta da oltre vent’anni dalla parola della Francia», oltre alle ulteriori dichiarazioni riportate su Le Monde del 23 novembre 2004. Piuttosto che adoperarsi per riparare la situazione, sembra che alcuni dei maggiori sostenitori di Battisti cerchino un capro espiatorio su cui scaricare l’errore di linea difensiva. Viene così attribuita alla comunità dei fuoriusciti una oggettiva funzione di condizionamento, un ruolo quasi censorio, che avrebbe vincolato la strategia difensiva al rispetto di una fantomatica «responsabilità collettiva», all’obbligo della difesa politica di principio previa scomunica. persichetti017a0dinu

Quanto è stato più volte riportato da autorevoli quotidiani, che hanno fatto anche menzione di supposti «malumori» di fronte al «nuovo corso» della difesa Battisti, notizie successivamente riprese dalla stessa stampa italiana, impone un necessario chiarimento pubblico riguardo alla politica difensiva adottata nel corso di oltre venti anni dai fuoriusciti di fronte alle chambres d’accusations, al fine di sgombrare il campo da malintesi, equivoci, inesattezze e caricature grottesche.

1. Già nella scorsa primavera, alcuni scrittori sia pur nelle loro generose intenzioni hanno dato vita ad una disastrosa campagna stampa infarcita d’errori, pressapochismi storico-politici e argomenti dilettanteschi sugli anni Settanta e sull’Italia recente, compromettendo notevolmente gli esiti della vicenda Battisti e più in generale fragilizzando lo stesso sostegno di cui hanno sempre usufruito i fuoriusciti italiani. Molti di questi interventi hanno infatti offerto pretesti insperati ai sostenitori delle ragioni dello Stato e della magistratura italiana che, per la prima volta da venti anni a questa parte, sono riusciti a guadagnare terreno benché avessero dalla loro solo argomenti mistificatori della realtà storica e delle vicissitudini giudiziarie di quegli anni. Un contesto sfuggito di mano alla tradizionale linea politica tenuta dai fuoriusciti e improntata ad una rigorosa critica della giustizia d’emergenza ed ai suoi metodi che hanno stravolto il processo penale, capovolto l’onere della prova, eretto la parola remunerata dei pentiti a fondamento delle accuse.

2. Per oltre venti anni, i fuoriusciti hanno sempre rivendicato il principio del rispetto della dottrina Mitterand «per tutti e per ciascuno», senza esclusioni o differenziazioni legate al tipo di reato o d’appartenenza organizzativa contestata. In questo modo si è inteso difendere l’unico criterio oggettivo eguale per tutti. Un minimo comun denominatore politico capace di tradurre su un terreno giuridico la comune appartenenza ad una medesima vicenda storica, al di là delle singole passate differenze di militanza, di cultura politica e d’ideologia. Una posizione che nulla ha a che vedere con formule confuse sul piano politico e assolutamente inconsistenti su quello giuridico, come la cosiddetta «responsabilità collettiva». Principio che per altro Battisti stesso è sempre stato il primo a non rispettare. Innumerevoli sono state, infatti, le occasioni nelle quali egli ha espresso giudizi denigratori – come ribadito anche nella sua ultima intervista dell’estate scorsa – nei confronti di formazioni politiche armate degli anni Settanta diverse dal suo vecchio gruppo d’appartenenza.

3. La nozione di «responsabilità collettiva» può avere pertinenza all’interno di una riflessione etico-politica che investa la ricostruzione storica generale dei movimenti sociali e dei gruppi rivoluzionari che hanno agito negli anni Settanta e Ottanta, oppure per definire la natura etica del legame associativo che ha operato all’interno di ogni singola formazione. Difficilmente una tale nozione può avere valore operativo sul terreno dello scontro giudiziario. La posta in gioco del processo penale è dimostrare la responsabilità personale. Responsabilità di cui la giustizia d’emergenza italiana è addirittura arrivata a fornire interpretazioni largamente estensive, attraverso forme ellittiche di complicità come il concorso morale o psicologico. Appare chiaro, allora, come di fronte ad un’esigenza d’efficacia sia vitale saper tradurre sul piano strettamente giuridico, lì dove se ne presenti la necessità o la possibilità, anche una difesa del corpo singolo, in carne ed ossa, della persona indicata con nome e cognome nella domanda d’estradizione, altrimenti la confusione tra campi che seppur legati restano distinti da codici propri, come la battaglia storico-politica e quella tecnico-giuridica, conduce ad inevitabili catastrofi difensive.

4. Nelle oltre ottanta procedure di estradizione affrontate di fronte alla Chambres, i fuoriusciti ed i loro legali non hanno mai rinunciato, quando se ne presentavano le condizioni, ad introdurre anche la difesa di merito, ritenuta un valore aggiunto nelle argomentazioni difensive. Numerosi – ed anche clamorosi in taluni casi – sono stati gli episodi in tal senso. A nessuno sfugge, infatti, l’enorme valenza politica generale e le numerose ricadute positive sul piano collettivo che possono suscitare la possibilità di smascherare i pentiti, svelare i metodi della giustizia d’emergenza, smontare i teoremi dell’accusa, fornendo l’immagine cruda e reale della giustizia italiana. Indurre a credere, come purtroppo è stato scritto recentemente, che tutto ciò sarebbe stato interpretato dalla comunità dei fuoriusciti come una maniera di «liquidare a poco prezzo il proprio passato» è un atteggiamento irresponsabile, che ha come unico effetto quello di minare l’unità di un gruppo sottoposto ad un durissimo attacco, creando artificiali malintesi e ingiustificate tensioni, oltre a designare i fuoriusciti di fronte all’opinione pubblica come una combriccola di cinici inquisitori.

5. Inoltre, va ricordato che la procedura d’estradizione non è un’anticipazione o un ulteriore grado del processo, legittimato a valutare il merito delle prove a carico o a discarico della persona richiesta dall’autorità statale straniera. Le Chambres d’accusations sono abilitate unicamente a pronunciarsi sulla ricevibilità giuridica delle richieste, analizzandole sotto il profilo della conformità con le norme internazionali e nazionali: convenzione sui diritti umani, convenzione sulle estradizioni, diritto penale e di procedura interno. Per questa ragione le difese hanno sempre dovuto agire dispiegando una strategia fatta di stadi successivi: in primis rispetto dei diritti umani; ostatività dell’estradizione di fronte ad infrazioni di natura politica; assenza di contrasto con i principi di specialità e doppia incriminazione; assenza di contumacia; prescrizione dell’infrazione ecc. In secondo luogo, e sempre se la corte lo consente, la difesa solleva in aula, altrimenti fuori dall’aula, le questioni di merito, come la non colpevolezza. In ultima istanza subentrava la tutela politica prevista dalla dottrina Mitterand.

6. È fuori discussione che la soluzione generale e definitiva al problema dei prigionieri e dei rifugiati possa venire solo dal varo di un’amnistia. Misura che lo Stato italiano ha sempre rifiutato poiché ha trovato nei fuoriusciti un serbatoio di comodi capri espiatori e responsabili di sostituzione. È altrettanto evidente che sollevare di fronte alle Chambres questo argomento ha ben poca efficacia e pertinenza.

7. Benché l’uso del termine «innocenza» risulti improprio per definire la tradizionale difesa tecnica volta a contestare gli addebiti specifici, è evidente che il ricorso ad una tale terminologia da parte dell’attuale difesa di Battisti è più che altro dovuto ad una concessione all’enfasi retorica ed alla semplificazione mediatica. Espedienti che sicuramente non riescono a compensare le innumerevoli falsità e mistificazioni diffuse nei mesi scorsi dai media fautori della sua estradizione. Ciò che invece desta seri dubbi è il tono scelto per giustificare pubblicamente la decisione di passare alla difesa di merito. Quasi che con questa scelta si volesse marcare una differenza individuale con le tradizionali condotte difensive dei fuoriusciti. Un atteggiamento, tanto più sorprendente quanto, in realtà, questa discontinuità non è con la comunità ma con le precedenti convinzioni di Battisti stesso. Stupisce dunque il bisogno di sottolineare una distanza col resto della comunità, come se la diversità fosse d’improvviso divenuta un valore aggiunto. Le cronache degli ultimi anni ci hanno lungamente documentato sulla sorte avuta da strategie difensive costruite sulla enucleazione esasperata del caso individuale rispetto a quello che è stato il sistema dell’emergenza, la catena di montaggio dell’eccezione che ha investito tutti i rifugiati e i prigionieri.

In conclusione, è auspicabile che tutti coloro che hanno una parte in questa vicenda mantengano un atteggiamento più attento e responsabile, improntato all’onesta intellettuale ed al rispetto di chi da decenni si batte contro le estradizioni. Occorre prestare maggiore cura alle affermazioni che vengono immesse nello spazio pubblico, con particolare riguardo all’interesse generale, al destino comune che lega tutti i fuoriusciti.

2 pensieri su “Caso Battisti: risposta a Fred Vargas

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  2. Lettera apparsa sul Venerdì di Repubblica del 14/1/11

    Caro Serra,
    Questa volta devo dissentire gravamente dalla tua “Amaca” di oggi. La legislazione premiale con la quale lo Stato fronteggiò l’emergenza della lotta armata, non comportò solo, come scrivi tu, errori giudiziari ed eccessi punitivi: fu una vera mostruosità giuridica grazie alla quale per esempio Marco Barbone, reo confesso dell’omicidio di Walter Tobagi ma “pentito” e “convertitosi” alle idee di C.L., scontò solo 5 o 6 anni di carcere ed ora collabora al “Giornale”. Per contro, alla fine del 2005 (dati tratti da La mappa perduta, edizioni Sensibili alle foglie), restavano ancora nelle carceri italiane 66 detenuti (tutti inquisiti tra il 1969 e il 1989), metà dei quali condannati a una pena di 24/27 anni di carcere. L’unica differenza tra loro e Barbone, quella di non aver denunciato dei compagni o di aver dichiarato una “redenzione” piùo meno sincera.
    Sergio Roedner, Milano

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