I mal di pancia dell’ex procuratore Giancarlo Caselli

Per l’ex procuratore capo di Torino Giancarlo Caselli, oggi in pensione, la decisione della corte di Cassazione francese, che ha confermato il rigetto delle domande di estradizione pronunciato in precedenza dalla corte di Appello di Parigi dei dieci rifugiati italiani, ex militanti delle formazioni della sinistra armata degli anni 70, sarebbe solo un gesto di «arrogante intolleranza», figlio della irresistibile tentazione francese di «insegnare a tutti gli altri (gli italiani in particolare modo) come si sta al mondo».
I contenuti giuridici della decisione – sempre secondo l’ex pm – oscillerebbero tra «il paradossale e l’incredibile». In particolare Caselli non sembra digerire l’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti umani, richiamato dai giudici parigini per tutelare i diritti acquisiti nel corso della pluridecennale permanenza sul suolo francese dei dieci esuli italiani, sulla scorta di decisioni giudiziarie, politiche e amministrative, pronunciate nel tempo dalla autorità del posto. Tutto ciò – a detta dell’ex procuratore – non avrebbe alcun valore. Per il diritto interno francese tutte le pene sono prescritte dopo un periodo massimo di venti anni, ciò vale anche per l’ergastolo, che nel nostro ordinamento è diventato invece imprescrittibile, al pari di un crimine contro l’umanità. Nell’ordinamento italiano, il periodo massimo oltre il quale scatta la prescrizione delle pene temporali è pari a trent’anni. Regola che l’autorità giudiziaria ha aggirato in tutti i modi mettendo in campo una serie di sotterfugi e artifici vergognosi pur di impedire che la prescrizione venisse riconosciuta a due dei dieci ex militanti richiesti. In un caso si è addirittura ricorsi ad una fraudolenta dichiarazione di pericolosità sociale, a quaranta anni dai fatti-reato, nei confronti di una persona ormai ultrasettantenne e che nel frattempo ha mantenuto una condotta penalmente irreprensibile sul suolo francese, pur di scongiurare l’applicazione della prescrizione.
Nella dottrina classica del diritto, il decorso del tempo faceva venire meno l’interesse punitivo dello Stato nei confronti del reo. Questo assunto traeva il suo fondamento penalistico dalla convinzione che fuori dal contesto sociale che lo aveva generato, il reato attenuava se non perdeva la sua portata lesiva dell’ordine sociale e politico infranto, perdeva la carica di allarme sociale in esso contenuta e il reo vedeva inevitabilmente modificarsi la sua personalità a distanza di trenta anni dai fatti. A questa concezione Caselli antepone la «punizione infinita», per altro strettamente limitata ai reati di natura politica e di contestazione sociale, secondo una visione etica dello Stato molto vicina ai presupposti culturali dell’attuale maggioranza di governo, a cui senza dubbio può dare molte lezioni.
Ai giudici francesi non è sfuggito questo atteggiamento generale della autorità politiche e giudiziarie italiane, nonché della grande stampa, tanto da aver ritenuto che il via libera alle estradizioni, a fronte dei ripetuti propositi meramente vendicativi enunciati e praticati da parte italiana, avrebbe comportato per gli estradandi un trattamento sproporzionato e iniquo, una violazione insanabile della vita familiare e privata acquista da molti decenni in Francia, infrangendo il percorso di recupero sociale realizzato.
A rendere ancora più furibondo Caselli è stato poi il richiamo al giusto processo, sancito dall’articolo 6 della Cedu. Norma finalizzata a garantire che la persona a rischio di estradizione non sia esposta, nello Stato richiedente, a un flagrante diniego di giustizia che può derivare, in particolare, dall’impossibilità di ottenere una nuova pronuncia giudiziaria sul merito dell’accusa nonostante la condanna sia stata pronunciata in sua assenza. Diverse richieste di estradizione riguardavano, infatti, persone processate e condannate in contumacia. Chi ha seguito tutte le udienze davanti alla corte di appello di Parigi sa bene che i giudici hanno ripetutamente chiesto chiarimenti e garanzie alla parte italiana affinché una volta riconsegnate, le persone condannate in contumacia potessero avere garantito il diritto a un nuovo processo. Per tutta risposta le autorità italiane hanno balbettato, tergiversato a lungo perché incapaci di fornire delle garanzie inesistenti nel nostro ordinamento processuale. Atteggiamento che ha definitivamente convinto la corte francese a rifiutare le domande di estradizione.
Per Caselli tutto ciò sarebbe solo una prova della supponenza d’Oltralpe e non una manifesta deficienza italiana, una incapacità a comprendere che la cultura della eccezione giudiziaria che ha dominato la fase repressiva della lotta armata non è sovrapponibile alle altre culture giuridiche europee a cui sfugge questa eterna riproposizione di logiche d’eccezione originate da contesti non più attuali, conclusi da oltre trent’anni.
Alla ricerca disperata di argomenti per puntellare le proprie tesi, Caselli ricorre ad un esempio surreale, il processo di Torino al nucleo storico delle Brigate rosse, definito un modello del rispetto dei diritti degli imputati. Oggi sappiamo che fu la federazione del Pci torinese a reclutare i giudici popolari di quel processo, come ha raccontato Giuliano Ferrara che quella operazione gestì in prima persona. Sono noti anche i rapporti stretti che Caselli teneva con la federazione torinese del partito comunista, in nome di quella concezione schierata e combattente del ruolo della magistratura che contrasta con la pretesa di dare lezioni morali al mondo, soprattutto se poi è la sua ex procura, in linea con le autorità di governo francesi (cosa c’entra la magistratura di Parigi che per altro nel dossier estradizioni non si è piegata ai diktat dell’Eliseo), a perseguire con uno zelo facinoroso quegli attivisti che sostengono i migranti alla frontiera tra i due paesi.

L’operazione ombre rosse si perde nella nebbia. Slittano ancora le udienze francesi per decidere sul fondamento delle richieste di estradizione avanzate dall’Italia

Nell’immagine i leggendari corridoi dei sotterranei del tribunale di Parigi, ufficialmente definiti “souricière”, topaia

Le udienze dei 9 fuoriusciti italiani arrestati in Francia ad aprile 2021 e che ieri si sono presentati davanti la Corte di Appello di Parigi sono state rinviate tra fine marzo e fine aprile. Lo slittamento delle udienze è stato concesso per permettere l’esame del complemento di informazioni sulle domande di estradizioni inviato dall’Italia. Documenti che secondo i legali della difesa sarebbero ancora incompleti.
Nonostante le misure anticovid la sala delle udienze era affollata come per le grandi occasioni: erano presenti alcune decine di avvocati/e del SAF, Syndicat des Avocats de France, e numerosi aderenti alla LDH, Ligue des Droits de l’Homme, a testimonianza del profondo disagio e della forte preoccupazione che traversa i settori della società francese più attenti alla difesa dei diritti di fronte al rischio di una rimessa in discussione della politica di accoglienza fornita dalla Francia da almeno quattro decenni nei confronti dei rifugiati italiani perseguiti dalla giustizia per le vicende del conflitto politico-sopciale degli anni 70. Una partecipazione che ha sorpreso la magistrata di collegamento italiana a Parigi, Roberta Collidà.
I giudici della Chambre hanno fisato il calendario delle prossime udienze: l’ex brigatista Enzo Calvitti è stato convocato il 23 marzo prossimo, lo stesso giorno in cui verrà discussa la posizione dell’ex dirigente di Lotta Continua Giorgio Pietrostefani, sempre che le sue precarie condizioni fisiche lo consentiranno. Per l’ex Br Giovanni Alimonti e per l’ex membro dell’organizzazione dei Nuclei armati per il contropotere territoriale Narciso Manenti la nuova udienza è stata fissata al 30 marzo; per le ex Br Roberta Cappelli e Marina Petrella la nuova udienza è prevista per il 6 aprile. L’udienza dell’ex militante di Rosso, Raffaele Ventura, coinvolto nella sparatoria di via De Amicis a Milano, è stata fissata per il 13 aprile, insieme all’ex membro della colonna milanese Walter Alasia, Sergio Tornaghi. Per il 20 aprile sono stati convocati l’ex militante dei Proletari armati per il comunismo, Luigi Bergamin, e l’ex Br Maurizio Di Marzio. Per Di Marzio la Chambre è ancora in attesa del complemento di informazioni richiesto a novembre, nel frattempo il mandato di arresto europeo emesso dall’Italia nei suoi confronti è stato rigettato ma resta ancora in piedi la procedura di estradizione. Per quanto invece la posizione di Luigi Bergamin i giudici francesi attendono la decisione della Corte di Cassazione prevista il prossimo febbraio per capire se verrà confermata la prescrizione deliberata dalla corte d’appello di MIlano. «Abbiamo difficoltà a capire come sia possibile che per dei casi che dovrebbero essere stati preparati da molto tempo non riusciamo ad avere tutti i documenti», ha spiegato all’Adnkronos Irene Terrel, l’avvocata francese di sette dei dieci rifugiati fermati in Francia.

Due pesi e due misure

Esilio e castido (due), rubrica contro le estradizioni

Ci sono due argomenti fondamentali che vengono agitati davanti all’opinione pubblica per giustificare le richieste di estradizione dei rifugiati italiani in Francia: accertare finalmente la verità e far cessare l’impunità.
Sul primo punto si potrebbe facilmente obiettare che la verità è sancita nelle sentenze passate in giudicato, perché se così non fosse allora quelle condanne sarebbero infondate e le domande di estradizione illegittime. Quanto all’impunità va detto che è relativa poiché in molti casi larghe porzioni di pena sono già state già scontate con lunghe detenzioni cautelari, circostanza che si omette troppo spesso.
Questa rivendicazione di verità e impunità crea un’asimmetria evidente con altre vicende, per esempio le torture praticate sugli arrestati per fatti di lottarmata, alcune riconosciute anche dalla giustizia, vedi sentenza di Perugia del 2013 sul waterboarding praticato da Nicola Ciocia nei confronti del tipografo delle Brigate rosse romane Enrico Triaca.
Nel caso delle torture non c’è mai stata alcuna ricostruzione giudiziaria dei fatti e permane una manifesta impunità penale, dovuta anche alle prescrizioni intervenute nel frattempo (il reato di tortura nemmeno esisteva) che invece suscitano scandalo quando intervengono per i rifugiati. Due pesi e due misure.

L’appello contro l’estradizione dei rifugiati italiani degli anni 70 firmato da personalità del mondo della cultura francese

Libération 29 aprile 2021

Signor Presidente,
E’ grazie alla volontà di un presidente della Repubblica, François Mitterrand, che dei militanti dell’estrema sinistra italiana coinvolti nella violenza politica degli anni 70 sono stati accolti nel nostro Paese sotto l’espressa condizione di abbandonare ogni attività illegale. E’ probabile che Lei non avrebbe mai preso questa decisione. Ma il contesto era molto diverso da quello attuale, la «strategia della tensione» ancora presente, i giuristi francesi sovente perplessi di fronte alle «leggi speciali» che ispiravano le procedure italiane. E quale che sia oggi l’opinione su questa eredità, lei converrà che non si può risalire il corso del tempo né cambiare gli avvenimenti del passato.
Ormai da quarant’anni diverse decine di persone sono uscite dalla clandestinità, hanno deposto le armi, hanno visto i loro fascicoli esaminati dalle più alte autorità dei Servizi segreti, della polizia e della giustizia francese: la loro permanenza in Francia è stata accettata, in seguito ufficializzata attraverso il riconoscimento di permessi di soggiorno. Alcuni si sono sposati creando anche coppia binazionali, molti hanno avuto dei figli che sono oggi cittadini francesi, a volte anche dei nipoti, anche loro francesi. Hanno contribuito alla ricchezza nazionale attraverso il loro lavoro nel corso di diversi decenni, alcuni sono stati persino impiegati nel servizio pubblico. Tutti hanno rispettato il loro impegno di rinuncia alla violenza.
Ora che queste persone hanno un’età che oscilla tra i 65 e gli 80 anni, hanno problemi con l‘età, di salute, di dipendenza e invecchiamento, c’è qualcuno in Italia che vuole utilizzarli come dei comodi spaventa passeri per fini di politica interna che non ci appartengono. La loro campagna consiste nell’accusare decine di nostri funzionari dei li uffici pubblici, della polizia, dell’amministrazione della Repubblica francese, di avere per quarant’anni protetto degli assassini.

Una forma di relativismo storico
Comportandosi come se il tempo fosse rimasto fermo a cinquant’anni fa, alcuni fingono di credere che queste persone siano rimaste ferme in un eterno presente, allorché la Francia e l’esperienza dolorosa dell’esilio lontano dal Paese natale ha permesso loro, al contrario, di avanzare sulla strada della vita, di diventare altre persone. Per la Francia ha voluto dire dare fiducia all’essere umano, alle sue capacità di trasformazione e di progresso, e questa fiducia è stata onorata.
Nell’agosto 2019, su istigazione di Salvini l’Italia ha ratificato la convenzione europea relativa all’estradizione tra Stati membri dell’Unione europea, atto che l’Italia non aveva voluto portare a termine fin dal 1996. Questa iniziativa aveva come unico obiettivo quello di vanificare le decisioni adottate dalla Francia nei confronti di queste persone. Secondo il nostro diritto, infatti, le loro posizioni sono tutte prescritte e non possono dare luogo a estradizioni quaranta o cinquanta anni dopo i fatti.
Ricordiamo che in Francia soltanto i crimini contro l’umanità sono imprescrittibili. Ora considerare degli omicidi alla strega di un genocidio, assimilare delle persone accolte dalla Repubblica francese a dei nazisti nascosti da qualche dittatura del Medioriente, è fare prova di un relativismo che può giovare soli ai circoli negazionisti e ai loro amici d’estrema destra.

Istituti fondamentali della giustizia
Signor Presidente, la premura mostrata verso il punto di vista dei nostri partner europei non può condurre al confusionismo storico né all’abbandono di istituti fondamentali della giustizia.
Nell’Orestea di Eschilo, un omicida vaga nell’esilio braccato dalle dee della vendetta che reclamano riparazione in nome della vittima. Ma Oreste dice questa cosa curiosa: «Non sono più un supplicante con mani impure: la mia macchia si è cancellata a contatto con gli uomini che mi hanno accolto nelle loro case o che ho incontrato per strada». Come se il tempo, l’esilio, il commercio degli uomini avessero un potere purificatore, e che Oreste non poteva ridursi più a colui che fece la cosa più terribile di tutte: uccidere la madre. Alla fine dell’opera, Atena, dea protettrice della Città, prende una decisione più simile ad un’amnistia che ad un’assoluzione. Le Erinni, invitate ad abitare Atene per riaffermare il rispetto delle vittime, accettano la fondazione del tribunale dell’Areopago, la fondazione del diritto moderno. Il ciclo della vendetta si chiude, viene quello della giustizia.
Com’è possibile che si dimentichi così spesso questo mito fondatore della nostra comune cultura europea?
La vendetta è di nuovo a l’ordine del giorno. La colpa che non si cancella mai, che riduce il criminale al suo crimine, sempre presente, mai passato, è uno strumento per manipolare l’opinione e confondere le coscienze. E l’estrema destra italiana, responsabile dei due terzi dei morti di quelli che vengono definiti «anni di piombo» e che osa parlare in nome delle vittime, non potrà che rallegrarsi di questo risultato.
Signor Presidente, ci vorrebbe senza dubbio Atena per convincere il Parlamento italiano a votare la legge d’amnistia attesa da troppo tempo, e che consentirebbe alla società italiana di voltare pagina e volgersi finalmente verso il futuro. Lei tuttavia ha per intero la possibilità di confermare l’impegno della Francia nei confronti degli esiliati italiani, dei loro figli e delle loro famiglie. La decisione di estradarli non può essere solo una questione tecnica. Si tratta di una questione politica che dipende dalla sua persona. Vorrebbe forse fare quel che al suo posto farebbe sicuramente un rappresentante del Rassemblement national  (la destra lepenista)?
Vogliamo credere invece che lei vorrà confermare che la ragione e l’umanesimo sono un fondamento delle nostre democrazie, che non è buona cosa aggiungere sofferenza alla sofferenza, e forse citare ai suoi interlocutori transalpini quel verso che Eschilo faceva pronunciare ad Atena: «Tu vuoi passare per giusto piuttosto che agire con giustizia».

Firmatari: Agnès b., Jean-Christophe Bailly, Charles Berling, Irène Bonnaud, Nicolas Bouchaud, Valeria Bruni-Tedeschi, Olivier Cadiot, Sylvain Creuzevault, Georges Didi-Huberman, Valérie Dréville, Annie Ernaux, Costa-Gavras, Jean-Luc Godard, Alain Guiraudie, Célia Houdart, Matthias Langhoff, Edouard Louis, Philippe Mangeot, Maguy Marin, Gérard Mordillat, Stanislas Nordey, Olivier Neveux, Yves Pagès, Hervé Pierre, Ernest Pignon-Ernest, Denis Podalydès, Adeline Rosenstein, Jean-François Sivadier, Eric Vuillard, Sophie Wahnich, Martin Winckler

Il mercato della verità

La richiesta di una verità ancora mancante è stata una delle giustificazioni più richiamate nell’orgia di commenti che hanno accompagnato la notizia della retata degli esuli degli anni 70 a Parigi. Tra le voci più autorevoli si è distinta quella del nuovo ministro della Giustizia Marta Cartabia, accompagnata da numerosi esponenti del partito delle vittime. La pagina storica degli anni 70 non può ancora essere chiusa – sostengono questi nuovi soldati della verità – senza che prima non sia fatta chiarezza sui fatti della lotta armata. Di pari passo questo accertamento della verità non può essere separato dalla esecuzione della pena, unico modo – par di comprendere – per arrivare alla verità. Affermazione dalla portata inquietante: ritenere che la verità sia ontologicamente legata alla punizione apre scenari totalitari che non sembrano tuttavia aver creato allarme. Chi chiede verità in questo modo non sta promuovendo un percorso di conoscenza ma semplicemente una conferma, per giunta autoritaria, del proprio pregiudizio. Una verità precostituita a cui i colpevoli dovrebbero adeguarsi. L’esatto contrario della verità storica che invece è un processo libero da condizionamenti, dove si scava alla ricerca di fonti nuove e si rielaborano e si confrontano nello spazio pubblico quelle note. Quello che invece viene proposto dalle milizie della verità punitiva è un mercato della verità, il mercato delle verità contrapposte, verità che cambiano col cambiar delle maggioranze e dei colori politici.La cosa più assurda è vedere la massima autorità della Giustizia promuovere la richiesta di estradizioni, per giunta utilizzando tutti i sotterfugi possibili per aggirare le prescrizioni lì dove l’inesorabile decorso del tempo le ha già sancite (vedi l’invenzione della delinquenza abituale), sulla base di sentenze che ricostruiscono una verità giudiziaria con pesanti conseguenze penali, e subito dopo sentir dire che quei colpevoli devono ancora dire la verità, una verità che dunque non può che essere diversa da quanto sancito nelle sentenze. Ma se così stanno le cose, che legittimità hanno delle richieste di estradizione fondate su sentenze che non dicono il vero?
In carcere, dopo la mia estradizione, rivolsi la stessa domanda al magistrato di sorveglianza che erigendosi a quarto grado di giudizio mi chiedeva la verità, altrimenti si sarebbe sempre opposta alla concessione di qualsiasi misura alternativa. «Se lei mi fa questa domanda – risposi – vorrei sapere in base a quale verità giudiziaria sono stato condannato?». Sembrava una di quelle pagine di Lewis Carrol in Alice e il paese delle meraviglie, «prima la condanna poi l’accertamento dei fatti». Ovviamente finì nel peggiore dei modi. Chi dice che ci sono ancora misteri abbia almeno la coerenza di pretendere l’annullamento delle vecchie condanne e dei vecchi processi. Non può al tempo stesso chiedere una nuova verità e confermare quelle vecchie colpe.

«Président Macron, tenez l’engagement de la France vis-à-vis des exilés italiens»

L’appel contre les extraditions des réfugiés italiens signé par des personnalités du monde de la culture française

Libération, 29 avril 2021

Monsieur le Président,
C’est par la volonté d’un président de la République, François Mitterrand, que des militants d’extrême gauche italiens engagés dans la violence politique durant les années 70 ont été accueillis dans notre pays à la condition expresse d’abandonner toute activité illégale. Peut-être n’auriez-vous pas vous-même pris cette décision. Mais le contexte était différent, la «stratégie de la tension» encore vivace, les juristes français souvent perplexes quant aux «lois spéciales» qui régissaient les procédures italiennes. Et quoi qu’on pense de cet héritage, vous conviendrez qu’on ne peut remonter le cours du temps ni changer les événements du passé.
Il y a maintenant quarante ans, plusieurs dizaines de personnes sont sorties de la clandestinité, ont déposé les armes, ont vu leurs dossiers examinés par les plus hautes autorités des services de renseignements, de police et de justice françaises : leur séjour en France a été accepté, puis officialisé par la délivrance de cartes de séjour. Certaines se sont mariées, créant ainsi des couples binationaux, beaucoup ont eu des enfants qui sont aujourd’hui citoyens français, parfois des petits-enfants, eux aussi français. Elles ont contribué à la richesse nationale par leur travail pendant plusieurs décennies, certaines étaient même employées par l’Etat français. Toutes ont respecté leur engagement de renoncer à la violence.
Alors que ces personnes ont aujourd’hui entre 65 et 80 ans, qu’elles ont des problèmes de leur âge, problèmes de santé, de dépendance, de vieillissement, certains en Italie s’en servent comme de commodes épouvantails pour des objectifs de politique intérieure qui ne nous concernent pas. Leur campagne équivaut à accuser des dizaines de fonctionnaires de nos services administratifs, à accuser police, justice, administration de la République française d’avoir, quarante années durant, protégé des assassins.

C’est faire preuve d’un relativisme
Faisant comme si le temps s’était arrêté il y a un demi-siècle, certains feignent de croire que ces personnes étaient restées figées dans un éternel présent, alors que la France et l’expérience douloureuse de l’exil loin du pays natal leur ont permis au contraire d’avancer sur le chemin de la vie, de devenir d’autres personnes. Pour la France, c’était faire confiance à l’être humain, en ses capacités de transformation et de progrès, et cette confiance a été honorée.
En août 2019, à l’instigation de monsieur Salvini, l’Italie a ratifié la convention européenne relative à l’extradition entre Etats membres de l’Union européenne, ce qu’elle se gardait de faire depuis 1996. Cette initiative avait pour seul objectif d’annuler les décisions françaises afférentes à ces personnes. Selon nos règles de droit, en effet, les dossiers en question sont tous prescrits et ne sauraient donner lieu à des extraditions quarante, voire cinquante ans après les faits.
Rappelons qu’en France, seuls les crimes contre l’humanité sont imprescriptibles. Mettre un signe égal entre telle affaire d’homicide et un génocide, assimiler des personnes accueillies par la République française à des nazis cachés par quelque dictature du Proche-Orient, c’est faire preuve d’un relativisme qui ne pourra que réjouir les cercles négationnistes et leurs amis d’extrême droite.

Mécanismes fondamentaux de la justice
Monsieur le Président, le souci de prendre davantage en compte le point de vue de nos partenaires européens ne saurait mener au confusionnisme historique et à l’abandon des mécanismes fondamentaux de la justice.
Dans l’Orestie d’Eschyle, un meurtrier erre en exil, pourchassé par les déesses de la vengeance, qui réclament réparation au nom de la victime. Mais Oreste dit cette chose curieuse : «Je ne suis plus un suppliant aux mains impures : ma souillure s’est émoussée. Elle s’est usée au contact des hommes qui m’ont reçu dans leurs maisons ou que j’ai rencontrés sur les routes.» Comme si le temps, l’exil, le commerce des hommes avaient un pouvoir purificateur, et qu’Oreste ne se réduisait plus à celui qui fit cette chose, terrible entre toutes : tuer sa mère. A la fin de la pièce, Athéna, déesse protectrice de la Cité, prend une décision qui s’apparente davantage à une amnistie qu’à un acquittement. Les Erinyes, invitées à habiter Athènes, comme pour réaffirmer le respect des victimes, acceptent la fondation du tribunal de l’Aréopage, la fondation du droit moderne. Le cycle de la vengeance est achevé, vient celui de la justice.
Cette fable, fondatrice de notre culture européenne commune, comment se peut-il qu’on l’oublie si souvent ? La vengeance est de nouveau à l’ordre du jour. La souillure qui ne s’efface jamais, qui réduit le criminel à son crime, toujours présent, jamais passé, est un outil pour manipuler l’opinion et troubler les consciences. Et l’extrême droite italienne, responsable des deux tiers des morts de ce qu’on appelle les «années de plomb» et qui ose parler au nom des victimes, ne pourrait que se féliciter de cette entreprise.
Monsieur le Président, il faudrait sans doute Athéna pour convaincre le Parlement italien de voter la loi d’amnistie espérée depuis si longtemps, et qui permettrait à la société italienne de tourner la page et de regarder vers l’avenir. Mais vous avez toute latitude pour tenir l’engagement de la France vis-à-vis des exilés italiens, de leurs enfants, de leurs familles françaises. La décision de les extrader ne saurait être une question technique. Il s’agit d’une question politique qui dépend de vous. Voulez-vous faire ce qu’aurait fait à votre place un représentant du Rassemblement national ? Nous voulons croire que vous voudrez plutôt rappeler que la raison et l’humanisme sont au fondement de nos démocraties, qu’il n’est pas bon d’ajouter inutilement du malheur au malheur, et peut-être citer à vos interlocuteurs transalpins ce vers qu’Eschyle jadis mettait dans la bouche d’Athéna : «Tu veux passer pour juste plutôt qu’agir avec justice.»

Signataires : Agnès b., Jean-Christophe Bailly, Charles Berling, Irène Bonnaud, Nicolas Bouchaud, Valeria Bruni-Tedeschi, Olivier Cadiot, Sylvain Creuzevault, Georges Didi-Huberman, Valérie Dréville, Annie Ernaux, Costa-Gavras, Jean-Luc Godard, Alain Guiraudie, Célia Houdart, Matthias Langhoff, Edouard Louis, Philippe Mangeot, Maguy Marin, Gérard Mordillat, Stanislas Nordey, Olivier Neveux, Yves Pagès, Hervé Pierre, Ernest Pignon-Ernest, Denis Podalydès, Adeline Rosenstein, Jean-François Sivadier, Eric Vuillard, Sophie Wahnich, Martin Winckler

La scomparsa di Luigi Novelli, operaio, comunista, brigatista

Il primo aprile 2020 è scomparso Luigi Novelli, «fabbro e comunista di Villa Gordiani, brigatista e dotato di ironia sottile, protagonista di poche parole nella Roma della Rivoluzione che non c’è stata». Nato il 12 febbraio 1953, proveniente dal “Viva il comunismo” insieme ad altri militanti di quel gruppo nel 1976 entrò a far parte della nascente colonna romana col nome di battaglia «Romolo». Approdo raggiunto dopo un periodo di incubazione aviato tra il 1974-75. Figura importante della struttura logistica della colonna, nella sua officina in via dei Pini passavano le armi da riparare o modificare, venivano preparate targhe false, si predisponevano altoparlanti e altro materiale per le azioni di propaganda, si falsificavano documenti. Arrestato una prima volta il 4 gennaio 1979 insieme Marina Petrella, poi sposata in carcere dove vide luce anche la loro bambina concepita poco prima dell’arresto, venne rimesso in libertà per decorrenza dei termini cautelari l’8 maggio del 1980, nello stesso periodo in cui una importante operazione dei carabinieri smantellava la quasi totalità della direzione romana delle Brigate rosse. Sottoposto con Marina e Stefano Petrella all’obbligo di residenza nel comune di Montereale (L’Aquila), il 12 agosto successivo fuggì con gli altri due per rientrare nei ranghi delle Br. Dopo una profonda riorganizzazione della colonna che ne rilanciò l’azione nella Capitale, entrò nel settembre 1980 in Direzione di colonna e successivamente, nell’aprile 1981, quando era già avviato il processo scissionistico che portò al frazionamento delle Brigate rosse in tre tronconi, venne chiamato nell’Esecutivo nazionale. Preso atto del distacco delle altre fazioni brigatiste (colonna milanese Walter Alasia e Partito guerriglia), partecipo’ alla nascita delle Brigate rosse Partito comunista combattente. A seguito dell’attività investigativa svolta con l’ausilio dei “pentiti”, impiegati direttamente sul territorio, fu arrestato con la compagna Marina Petrella il 7 dicembre del 1982, mentre insieme scendevano da un’autobus nel quartiere romano di Monteverde. Condannato all’ergastolo nel processo Moro ter, uscì in liberazione condizionale nel 2005 per terminare la pena nel 2009.
Di seguito pubblichiamo un ricordo scritto da Francesco Piccioni, suo compagno di militanza in “Viva il comunismo” e poi nelle Brigate rosse

di “Rocco” (Francesco Piccioni) Contropiano

saluto-gigi-720x300Non ricordo il giorno esatto in cui ho conosciuto Gigi. Erano gli anni che ci si incontrava a centinaia, per qualsiasi motivo. Assemblee di ogni ordine e grado: cittadine, nazionali, di quartiere, di più quartieri, di scuola o gruppi di scuole, occupanti di case e disoccupati organizzati.
 Ricordo invece quando abbiamo iniziato a riunirci, in uno scantinato di via dei Marrucini, a San Lorenzo. Eravamo uno strano miscuglio di studenti rivoluzionari e operai, con i primi ferrati nelle parole e i secondi nel capire chi faceva chiacchiere e chi no. Ma stavamo crescendo, di numero e di organizzazioni, dopo il ‘68. E quindi c’era spazio e modo per sperimentare, provare, eventualmente fallire e riprovarci cento volte.
 Decidemmo quindi insieme a tanti altri di programmare un intervento a Villa Gordiani, “quartiere proletario”, allora, con ancora i testimoni viventi di quando il fascismo aveva deportato laggiù (come al Quarticciolo, Villagio Breda, Tufello, ecc) centinaia di famiglie operaie, sgombrando il centro di Roma da “personaggi pericolosi”.
Gigi aveva dato vita a un collettivo davvero insolito, anche per quei tempi. Tutti operai, di quelli che popolavano le piccole officine di Roma Sud, tra il Pigneto, Tor Pignattara, Centocelle, e poi via verso la Tiburtina da un lato, Quadraro e Tuscolana dall’altro, fin sotto i Castelli, oltre il Raccordo, senza soluzione di continuità. 
Niente a che vedere con le grandi fabbriche del Nord, dove si concentravano decine di migliaia di operai in tuta blu, quasi anonimi per il padrone, conosciuti al massimo dai capi officina. Solo la stessa testa, il modo di intendere la vita e la lotta per la vita.
Qui a Roma erano al massimo cinque, dieci per stabilimento, con macchine e materiali distribuiti un po’ così, dove ti prendevano, sperimentavano, spesso mandavano via se non eri capace di “fare”. Era “apprendistato” sul serio, non per finta, e magari scoprivi che non era quello il tuo mestiere…
Gigi era fabbro, come Er Peone – uno dei fratelli -, Il Capitano (ogni quartiere ne aveva uno…), Er Bove, Er Killer (uno dei soprannomi per contrasto, come si fa a Roma: non sapeva far male a una mosca), altri di cui gli anni e l’hard disk limitato mi hanno tolto il nome dalla testa. Un fabbro di quelli che saldano, con una schermatura in una mano e il cannello nell’altra. Tra schizzi di metallo che gli arrivavano sulle mani, sulla tuta, sui piedi, qualche volta in faccia.
Ma sapeva anche andare col tornio, e questo lo rese una star segreta, negli anni successivi. Quando si era passati a cose più serie, e la professionalità dell’artigiano “metallaro” si poteva applicare a fare piccole opere d’ingegno militare: filettature e silenziatori, per dirne una. O più grossolani chiodi a quattro punte, che possono sempre tornare utili…
All’inizio, però, “il fabbro” faceva da perno di quell’intervento abborracciato, perché era del quartiere, uno della case di via Pisino; lo conoscevano tutti per serietà, determinazione, disinteresse personale. E quindi pure qualche studente che si portava dietro acquistava man mano affidabilità, se sapeva stare al suo passo e al suo fianco.
Lavorava di giorno, volantinava e discuteva nel tardo pomeriggio, leggeva – anzi: studiava – di notte. Sempre con la sigaretta in mano. Sempre col sorriso ironico di chi sa da sempre che sotto le parole spesso non c’è qualcosa di altrettanto gonfio e tronfio.
Eravamo tutti così, chi più chi meno. Come nelle cucciolate di cani, con quello/a più deciso, quello più timido/a, senza invidia se uno era più bravo in qualche cosa, tutti insieme verso la Rivoluzione. 
Ma sul serio.
 Gli “studenti dei quartieri alti” si selezionavano abbastanza presto, in quegli anni. Nel giro largo ce n’erano molti, venivano dai licei classici del centro (Mamiani, Virgilio, Tasso, ecc), si conoscevano tra loro per motivi di classe. Nel doppio senso: stavano nella stessa aula di scuola alla mattina, e per le loro famiglie “locupletate”. 
Molti di quelli, crescendo, hanno fatto le carriere dei padri, o anche migliori. Qualcuno ha fatto la stessa vita di Gigi, ma non tanti. Eravamo seduti in riunione, in stanze puzzolenti di fumo appestante, col ciclostile che andava, dietro la schiena, con a fianco futuri notai, avvocati, presidenti di questo e di quello, sottosegretari e ministri. E molti più ragazzi “normali”.
 Fianco a fianco con noi che saremmo poi stati ergastolani o morti ammazzati per strada, e tanti che non avrebbero retto consegnandosi all’eroina. Un orgoglio vero: non ci sono stati “pentiti” né “dissociati”, tra noi… Nix infami. 
Ma in quei primi anni, con Gigi e tutti gli altri si “lottava così come si gioca”, con la serietà e la gioia, la leggerezza di chi si sente immortale e vive come se lo fosse. Sapendo di non esserlo…
 Riunioni assurde e discussioni infinite, citazioni sconosciute e spesso storpiate, oppure lette come salmi di chiesa fino a che non significavano un cazzo come quelli di chiesa. E in mezzo le pizze e le bicchierate “da Barba”, in via Lussimpiccolo, rifugio di qualche sera passata a discutere se i Cream fossero all’altezza di Hendrix, se considerare o no “rock” Procol Harum e Emerson, Lake & Palmer, a storcere il naso su Bowie e benedire Frank Zappa.
 L’antifascismo era una roba seria, non una frase da buttare in mezzo a un discorso ufficiale. Tra di noi c’era chi si districava per le vie tra le sezioni di via Noto, piazza Tuscolo e Acca Larenzia, il “triangolo nero” dove sguazzavano i Delle Chiaie, i fratelli Di Luia, ideologi e picchiatori di Avanguardia Nazionale. Non sempre finiva solo a sprangate e bisognava farsi rispettare. 
Idem per quelli del Prenestino, meno di due chilometri da Villa Gordiani, verso il centro. Fascisti cattivi, ma non brillanti per ingegno. Il 25 aprile del ‘74, per esempio, accolsero la nostra manifestazione antifascista scambiandoci per il Pci, la cui sezione avevano attaccato due giorni prima. Gigi, come tutti, portava il passamontagna; non per posa, non per “sentire il calore della comunità operaia”, ma perché lavorava a trenta metri da lì e ci passava ogni volta che entrava e usciva dall’officina. E ci sarebbe ripassato il giorno dopo, sogghignando tra sé…
Ci attaccarono lungo via Roberto Malatesta, verso il Pigneto. Eravamo appena 300, ma “solo servizio d’ordine”, come si diceva allora. Gente sveglia di Villa Gordiani, Centocelle, Torre Spaccata.
Finirono inseguiti fin per le scale di casa loro, mentre gridavano “mamma! mamma apri, presto!”. 
Con Gigi e tutti gli altri, eravamo quelli lì, molti di noi finirono in carcere o c’erano già passati; certo solo per qualche giorno fin lì… 
Ma quelle erano occasioni particolari, serie ma in fondo rare. In genere giravamo per le strade del quartiere, bussando alle porte delle case popolari, per organizzare l’autoriduzione delle bollette (durò qualche anno), per vedere quali erano “i bisogni” che attendevano risposta. Rispetto a oggi, devo dire, “i proletari” stavano meglio. Un operaio poteva mantenere la famiglia anche con un solo stipendio, stando ben attento. Oggi non ne bastano due…
 Giravamo e incontravamo chiunque, parlavamo con chiunque. Poteva capitare di trovarsi sul campo di calcio del “Grancio”, che faceva da custode (e ci abitava), la sera tardi, a incrociare i dribbling con Pasolini e Ninetto Davoli. E non sembrava strano, né si chiedeva un selfie o un autografo. Tra persone.
Quei ragazzi di Roma, del resto, spesso si aiutavano con qualche giornata da comparsa “al cinema”, quando ancora i film italiani parlavano della e alla società reale. E quindi c’erano “scene di massa”, con decine o centinaia di comparse, oltre ad attori di prima e seconda fascia. Non solo “scene di un interno”, per pochi intimi…
 E si poteva parlare con Comencini o Magni, nelle pause. Mentre magari Gassman tuonava a qualche metro…
 Gigi “il fabbro” era di poche parole, ma ben selezionate. Le sue mani animate. con dita fratturate e riaggiustate alla bell’e meglio, accompagnavano quell’ombra di sorriso che gli faceva quasi chiudere gli occhi. E per un attimo eri indeciso tra se fosse serio e “ma che me stai a coglionà?”.
 Gli riuscivano bene entrambe lo cose. La seconda quando ti voleva far capire che ti stavi arrampicando su uno specchio di parole, mentre la realtà era più semplice. E tosta. Ed era meglio guardarla in faccia.
 Finimmo a fare sul serio la lotta armata – ci avevamo provato per qualche tempo da soli, senza “grandi imprese” – quando gran parte del “movimento” entrava nell’eroina e nel riflusso. E spesso erano fasci gli spacciatori più organizzati (se qualcuno vuol rivedersi “l’operazione Blue Moon”).
 Entrammo nelle Br uno alla volta, com’era giusto. Perché tra comunisti che devono far sul serio non avevano, non hanno, non avranno mai senso le “correnti organizzate”. Magari su base amicale, com’era in fondo il nostro gruppo.
 Si era nel frattempo sposato con Marina, in una felice combinazione “operai-studenti”, e lavorammo duro per anni. Molti pensano che la guerriglia sia sparare agli angoli delle strade. Il grosso è tutt’altro, e non vale neanche la pena di scriverlo. Fanno ridere i romantici, fanno incazzare i “dietrologi”… tutta gente che neanche immagina quanta intelligenza, costanza, fantasia, dedizione ci vuole. 
Molti di quelli che sono finiti in galera in pratica non avevano mai esploso un colpo.
 Capitò anche a loro due, arrestati una notte in casa. “Uscirono presto”, come dicevamo quando qualcuno si faceva “solo” diciotto mesi di carcerazione preventiva…
 Fuggirono dal confino e ripresero a lavorare. Poi l’arresto “definitivo”, con Marina che scopre solo qualche giorno dopo, in carcere, di attendere una figlia. E tutti a festeggiarli nell’aula bunker del primo “processo Moro”, all’ex sala scherma del Foro Italico.
 Ci presero per matti. Mai stati più sani…
 Nel corso degli anni, poi, ci siamo persi. Carceri diversi, altre riflessioni sul com’era andata e perché. Ma non contava poi molto, anche se avevamo vissuto per quello. Non poteva esserci la necessaria distanza.
Ci siamo incontrati l’ultima volta pochissimi anni fa, nel sacrario della merce che tutti dobbiamo attraversare più volte alla settimana. Al supermercato, per caso, come tanti altri che non vedi da anni.
 Mi chiede “ti posso salutare?”. Con la solita aria a metà strada tra il dico sul serio e “te sto a coglionà”. Eravamo gente tosta, che aveva fatto ogni passo con convinzione. Entrambi “irriducibili”, con una differenza che in un certo momento era apparsa importante e qualche anno dopo non lo era più tanto.
 Ci siamo seduti a parlare, come due vecchi compagni di lotta e amici (non tutti sono stati la seconda cosa, ed è normale). Ma questo rimarrà tra noi.
Ciao, Gigi.

Dopo le pesanti condanne per devastazione e saccheggio confermate dalla Cassazione torniamo a parlare di amnistia

Le lotte sociali hanno sempre marciato su un crinale sottile che anticipa legalità future e dunque impatta quelle presenti. Per questa ragione le organizzazioni del movimento operaio, i movimenti sociali e i gruppi rivoluzionari hanno storicamente fatto ricorso alla rivendicazione di amnistie per tutelare le proprie battaglie, salvaguardare i propri militanti, le proprie componenti sociali. Garantire una lotta vuole dire serbare intatta la forza e la capacità di riprodurla in futuro.
Le amnistie politiche sono sempre state degli strumenti di governo del conflitto, un mezzo per sanare gli attriti tra costituzione legale e costituzione materiale, tra le fissità e i ritardi della prima e l’instabilità e il movimento della seconda. Le amnistie sanano la discordanza di tempi tra conservazione e cambiamento. Esse rappresentano dei passaggi decisivi nel processo d’aggiornamento della giuridicità


Un Libro per riflettere – Amedeo Santosuosso e Floriana Colao, Politici e Amnistia, Tecniche di rinuncia alla pena per i reati politici dall’Unità ad oggi, Bertani editore, Verona 1986

di Paolo Persichetti

 

Negli ultimi anni ripetuti cicli di lotte hanno ridato smalto all’azione collettiva. Questo nuovo clima d’effervescenza sociale non ha coinvolto soltanto tradizionali settori dell’attivismo politico più radicale, ma parti intere di popolo, pezzi di società. Le vaste dimensioni della rappresaglia giudiziaria stanno lì a dimostrarlo. Si è parlato di circa novemila persone sottoposte a procedimenti penali.
Scomponendo il dato ci accorgiamo che le figure sociali coinvolte riguardano lavoratori e sindacalisti degli stabilimenti Fiat di Melfi, Termini Imerese, Cassino, personale degli aeroporti, dipendenti del trasporto urbano, precari. Ci sono militanti antiguerra coinvolti nei blocchi ferroviari, le popolazioni meridionali di Scanzano e Acerra. I senzatetto, gli attivisti antiCpt e dei Centri sociali che hanno partecipato ad azioni contro l’esclusione, il carovita, il lavoro interinale, per il diritto alla casa. Militanti noglobal che hanno preso parte alle mobilitazioni di Napoli e Genova, gli attivisti No Tav, i manifestanti denuciati e condannati per le manifestazioni del 14 dicembre 2010 e del 15 ottobre 2011 a Roma.
Le lotte sociali hanno sempre marciato su un crinale sottile che anticipa legalità future e dunque impatta quelle presenti. Per questa ragione le organizzazioni del movimento operaio hanno storicamente fatto ricorso alle amnistie per tutelare le proprie battaglie, salvaguardare i propri militanti, le proprie componenti sociali. Garantire una lotta vuole dire serbare intatta la forza e la capacità di riprodurla in futuro.
Le amnistie politiche sono sempre state degli strumenti di governo del conflitto, un mezzo per sanare gli attriti tra costituzione legale e costituzione materiale, tra le fissità e i ritardi della prima e l’instabilità e il movimento della seconda. Le amnistie sanano la discordanza di tempi tra conservazione e cambiamento. Esse rappresentano dei passaggi decisivi nel processo d’aggiornamento della giuridicità.
È stato così per oltre un secolo, ma in Italia non accade da più d’un trentennio. Le ultime amnistie politiche risalgono al 1968 e al 1970, dopo più nulla perché alla fine degli anni 70 hanno prevalso scelte favorevoli all’autonomia del politico contro le insorgenze sociali, col risultato di dare vita ad un divorzio drammatico tra sinistra storica e movimenti, per questo sarebbe ora di chiudere quella disastrosa parentesi. Si tratta di salvaguardare il dissenso di massa che si è espresso in questi ultimi tempi e chiudere gli strascichi penali di stagioni ormai concluse che con il loro protrarsi ipotecano pesantemente il futuro.

L’amnistia del 1968 e del 1970
Le amnistie del 1968 e del 1970, spiegano Amedeo Santosuosso e Floriana Colao in un volume apparso a metà degli anni Ottanta, sanciscono la fine del dopoguerra. Per la prima volta, infatti, scompare ogni riferimento agli strascichi della guerra civile per far fronte unicamente ai problemi posti dal conflitto moderno. Politici e amnistia era il titolo del libro, dove per «politici» non s’intendono certo i condòmini del Palazzo, come la vulgata populista affermatasi più tardi potrebbe indurre a credere, ma quei «militanti di strada», protagonisti delle battaglie sociali più aspre che hanno fatto avanzare il Paese.
Il progressivo mutamento di senso che ha investito questo termine dimostra quanto forte sia stata la volontà di spoliticizzare il sociale. Senza dubbio una delle ragioni che hanno ostacolato la promulgazione di nuove misure amnistiali per fatti politici.
La definizione più ampia di amnistia si trova nel provvedimento del 1970, rivolto a quei delitti «commessi, anche con finalità politiche, a causa e in occasione di agitazioni o manifestazioni sindacali o studentesche, o di agitazioni o manifestazioni attinenti a problemi del lavoro, dell’occupazione, della casa e della sicurezza sociale». Le tipologie di reato investite vanno dallo sciopero del pubblico servizio, alla resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale, interruzione di servizio pubblico, istigazione a commettere reati e disobbedire alle leggi, boicottaggio, occupazione d’azienda, sabotaggio, violenza privata e danneggiamento.
Nell’amnistia del 1968 sono inclusi anche il blocco stradale e ferroviario, la devastazione, l’incendio, la detenzione d’armi da guerra. Illuminanti appaiono gli argomenti avanzati per giustificarne la necessità. Nel giugno 1968, il relatore, senatore Codignola, richiamava «il divario crescente fra alcune norme penali e di sicurezza tuttora in vigore, e la diversa coscienza che si è venuta maturando fra i giovani. I procedimenti giudiziari che ne sono seguiti ne costituiscono la logica conseguenza, ma riconfermano la necessità e l’urgenza di una radicale revisione del Codice penale, della legge di Pubblica sicurezza e di altre leggi, la cui ispirazione autoritaria risale al fascismo o comunque ad una concezione repressiva dello Stato».
Da rilevare come quella normativa, allora tanto biasimata, non solo è ancora in vigore, ma è stata ulteriormente irrigidita. Alla Camera, Giuliano Vassalli difendeva l’amnistia del 1970 sostenendo che tali dispositivi «sono adottati quando si tratti di por fine a procedimenti penali propri e caratteristici d’una determinata situazione storicamente superata e della quale non è pensabile una riproduzione a breve scadenza o a procedimenti penali instaurati per reati che sono il frutto particolare di eccezionali rivolgimenti politici, economici e sociali arrivati a positiva conclusione, della quale taluni eccessi sono il prezzo fatale, ed un prezzo del quale pertanto non appare giusto esigere il pagamento fino alle estreme conseguenze del processo e della condanna».

Perché l’amnistia oggi
Nel 2001 con l’introduzione del Mae (il mandato di arresto europeo che ha reso quasi automatiche le estradizioni all’interno dello spazio Shengen, abolendo l’immunità e le garanzie che un tempo tutelavano le infrazioni di natura poltica) e le direttive europee che hanno invitato i paesi membri ad estendere la nozione di terrorismo a condotte politiche e sociali ritenute un tempo normale espressione della conflittualità sociale e sindacale, oltre a designare come un possibile movente «terrorista» il dissenso politico contro i governi, si è sempre più affievolita la distinzione tra reati e atti illeciti tipici delle lotte sociali e dei movimenti di contestazione interni al sistema e reati di natura apertamente sovversiva e insurrezionale. I margini di tolleranza dei governi e gli spazi di agibilità democratica si sono drasticamente ridotti con effetti paradossali, dovuti alla disproporzione tra la forza immensa dei mezzi repressivi impiegati e le forme d’illegalità politica a bassa intensità tipiche del dissenso sociale diffuso, quasi a voler imporre una sorta di domesticazione cimiteriale d’ogni possibilità di critica che ha trovato sostegno in quella cultura della legalità che La Boètie non avrebbe esitato a designare come una una tragica prova di servitù volontaria.
In Italia il codice Rocco, arricchito della legislazione speciale antisovversione varata sul finire degli anni 70, si è rivelato un’eredità molto proficua con la sua dottrina del nemico interno. La presenza di questo potente arsenale giuridico repressivo ha permesso alla magistratura di avvalersi d’un ventaglio d’ipotesi d’accusa estremamente ampio e insidioso, come la molteplice presenza di reati di natura associativa:

– dall’originario 270 cp previsto dal guardasigilli del regime fascista Alfredo Rocco, al successivo 270 bis introdotto con la legislazione d’eccezione antissoversione, ai successivi 270 ter, quater, quinques e sexties, situati nel famigerato capitolo secondo dei delitti contro la personalità interna dello Stato;

– all’impiego del 419 cp (devastazione e saccheggio, con pene che variano da un minimo di 8 ad un massimo di 15 anni, che si è tornati ad impiegare dopo i fatti del G8 genovese per sanzionare tradizionali scontri di piazza, conflitti di strada che rientrano nell’ambito della gestione dell’ordine pubblico e non certo all’interno di condotte con finalità insurrezionali). Un reato recepito dalle corti di giustizia in 51 anni di storia repubblicano-costituzionale (dal 1948 al 1999) solo 10 volte. E ben 13 dal 2000 ad oggi, cioè più di un processo all’anno nonostante sia del tutto evidente che il decennio 2000 non può essere paragonato per intesità di violenza politica e presenza di culture politiche rivoluzionarie al trentennio precedente, o anche solo agli anni 70. A dimostrazione che il rinnovato ricorso a questo tipo di imputazione è frutto di una torzione autoritaria della cultura giuridica della magistratura e più in generale del sistema politico italiano;

– o ancora la riesumazione in alcune inchieste recenti del 304 cp, “Cospirazione politica mediante accordo”, norma travasata dal codice Zanardelli all’interno del codice Rocco, impiegata in origine per colpire il diritto di sciopero, tant’è che la corte costituzionale è dovuta intervenire con sentenza n. 123 del 28 dicembre 1962 dichiarando che «compete al giudice di merito disapplicare le norme ricordate artt. 330, 304, 305 cod. pen. in tutti quei casi rispetto ai quali l’accertamento degli elementi di fatto conduca a far ritenere che lo sciopero costituisca valido esercizio del diritto garantito dall’Articolo 40 Cost.».

Evocare il rapporto di forza sfavorevole per liquidare il problema rappresentato dall’amnistia, serve a poco, anzi in genere è la prova della codardia e dell’immensa dose di opportunismo che cova in chi ne fa ricorso. 
«
Spesso – scriveva Seneca a Lucilio – non è perché le cose sono difficili che non si osa, ma è perché non si osa che diventano difficili»
.
Il rapporto di forza sfavorevole è il presupposto di ogni ragionamento sull’amnistia, altrimenti le soluzioni chiamerebbero in causa la scienza ingegneristica delle demolizioni. La vera novità negativa è che se anche oggi ci fosse un rapporto di forza favorevole, l’amnistia non sarebbe percepita come un’ipotesi legittima. Dunque il problema sta nella testa, perché se da un lato il giustizialismo è dilagato dall’altro l’unica alternativa sembra il vittimismo martiriologico.

Ogni movimento futuro avrà davanti questo problema: riassorbire la legislazione d’emergenza nella quale si annidano le tipologie di reato più insidiose, abolire il codice Rocco, la pena dell’ergastolo, la legislazione premiale in ogni suo aspetto, decarcerizzare, sprigionare, aprire una vertenza per l’indulto e l’amnistia in favore dei reati politici, sociali e per sfollare le carceri.

Per approfondire
L’inchiesta di Cosenza contro Sud Ribelle
Tolleranza zero, il nuovo spazio giudiziario europeo
L’amnistia Togliatti
Una storia politica dell’amnistia

La fine dell’asilo politico
Il caso italiano: lo stato di eccezione giudiziario
Giorgio Agamben, Europe des libertes ou Europe des polices?

Dall’esilio con furore. Cronache dalla latitanza e altre storie di esuli e ribelli

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Foto Baruda

Link
Radio radicale: intervista a Paolo Persichetti sul caso Cesare Battisti e sulla politica italiana rispetto agli anni di piombo
Intervista a : http://www.radiondadurto.org
Il Brasile non si fa intimidire: “Da Lula decisione sovrana”
Franco Corleone: “Per essere credibile sul caso Battisti l’Italia deve abolire l’ergastolo”
Mozione bipartizan in parlamento: “Ridateci Battisti”. La lega: “Rapitelo”
Perché il Brasile non ha estradato Battisti. Intervista a Radio radicale
Scalzone da un consiglio ai parlamentari che si indignano per il no alla estradizione di Battisti: “Cospargetevi l’anima di vasellina”
Battisti: la decisione finale nelle mani di Lula. Fallisce il golpe giudiziario tentato dal capo del tribunale supremo Gilmar Mendes
Battisti, “Il no di Lula è una decisione giusta”
Battisti: condiserazioni di carattere umanitario dietro il rifiuto della estradizione
“Ridacci Battisti e riprenditi i trans”, finisce così il sit-in contro Lula

Lula orientato a non estradare Battisti, il Supremo tribunale fa ostruzionismo e Berlusconi rimanda la visita ufficiale in Brasile
E’ tempo di prendere congedo dall’emergenza antiterrrorista contro i rivoluzionari del Novecento
Il faut prendre congé de l’urgence antiterroriste contre le siècle des révolutions
Trentanni dopo ancora due estradizioni. La vicenda di Sonja Suder e Christian Gauger
Battisti è il mostro, impiccatelo
Battisti, la decisione finale resta nelle mani di Lula. Fallisce il golpe giudiziario tentato dal capo del tribunale supremo, Gilmar Mendes
Tarso Genro, “inaccettabili ingerenze da parte dell’Italia”
Caso Battisti, voto fermo al 4 a 4. Prossima udienza il 18 novembre
Caso Battisti, Toffoli non vota
Caso Battisti: parla Tarso Genro, “Anni 70 in Italia, giustizia d’eccezione non fascismo”

Caro Lula, in Italia di ergastolo si muore

Le consegne straordinarie degli esuli della lotta armata
Caso Battisti fabula do ergastolo

Governo italiano so obtem-extradicoes

Ora l’Italia s’inventa l’ergastolo virtuale pur di riavere Battisti
Cesare Battisti, un capro espiatorio

Brasile, rinviata la decisione sull’estradizione di Battisti
Il Brasile respinge la richiesta d’estradizione di Battisti, l’anomalia è tutta italiana
Scontro tra Italia e Brasile per l’asilo politico concesso a Battisti

Tarso Gendro: “L’Italia è chiusa ancora negli anni di piombo”
Crisi diplomatica tra Italia e Brasile per il caso Battisti richiamato l’ambasciatore Valensise
Stralci della decisione del ministro brasiliano della giustizia Tarso Genro
Testo integrale della lettera di Lula a Napolitano
Caso Battisti: una guerra di pollaio
Dove vuole arrivare la coppia Battisti-Vargas?
Risposta a Fred Vargas
Corriere della Sera: la coppia Battisti Vargas e la guerra di pollaio

Storia della dottrina Mitterrand
Dalla dottrina Mitterrand alla dottrina Pisanu
La fine dell’asilo politico
Vendetta giudiziaria o soluzione politica?
Il caso italiano: lo stato di eccezione giudiziario
Giorgio Agamben, Europe des libertes ou Europe des polices?
Francesco Cossiga, “Eravate dei nemici politici, non dei criminali”
Francesco Cossiga, “Vous étiez des ennemis politiques pas des criminels”
Tolleranza zero, il nuovo spazio giudiziario europeo
Il Nemico inconfessabile, sovversione e lotta armata nell’Italia degli anni 70
Il nemico inconfessabile, anni 70
Un kidnapping sarkozien


La Francia rinuncia all’estradizione di Marina Petrella

La Francia ha deciso di scarcerare Marina Petrella
Scalzone, “Quando si parla di confini dell’umanita vuol dire che se ne sta escludendo una parte”
Marina Petrella ricoverata in ospedale ma sempre agli arresti
La vera impunità è la remunerazione dei pentiti
Peggiorano le condizioni di salute di Marina Petrella
Lettera da Parigi della figlia di Marina Petrella
Marina Petrella sarà estradata, addio alla dottrina MitterrandD

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Sono nata in un carcere speciale agli inizi degli anni 80, adesso voglio capire/Esilio come colpa

Libri – Treni sorvegliati. Rifugiati italiani, vite sospese, Archivio Primo Moroni – Collettivo La Comune 2008

di Elisa Novelli

Caro Paolo,

da piccola volevo crescere in fretta per essere in grado di fare qualcosa nel momento del bisogno. Ho persino creduto, per un attimo, che un mio compito di francese, che metteva la data su una tua fotografia mi concedesse di intervenire per farti uscire di prigione, ma non ha funzionato… Forse ero ancora troppo piccola. Oggi non funziona per mia madre; perché avevo pensato che diventando grande avrei potuto esservi d’aiuto? Quando abbiamo abbassato la guardia? Come, nonostante i segnali che ci  coparrivavano da ogni parte, abbiamo potuto credere di poter fare figli, mettere su casa, insomma di poter vivere in fiduciosa tranquillità? Come è possibile che tu sia rinchiuso da oltre cinque anni, dopo averne trascorsi quasi quattro in precedenza, per degli avvenimenti che rimontano alla tua altra vita, quella di prima dell’esilio, e perché ci si accanisce a bollare quelli che sono degli esuli di fatto come terroristi, spiegami come si sia arrivati a vivere in un mondo che ha dimenticato il carattere inviolabile dell’asilo, che rimette in discussione la legittimità delle lotte sociali. E perché non sento dire dai nostri compagni che sono stati in carcere, che l’esilio è sempre stato considerato una punizione? Quando noi siamo partiti, dico noi perché io mi includo nella vostra storia, mi sono presa il mio posto fra i migranti, era per consegnarci alle autorità di un paese considerato quello dei diritti dell’uomo, con il desiderio, e voi tutti l’avete ben realizzato, di vivere in uno spazio libero, aldilà delle sbarre, di vederci crescere, noi, i piccoli, con i quali le barriere di ferro avevano impedito di tessere legami famigliari. Quindici, venti anni, se si aggiungono gli anni di detenzione in Italia, un lasso di tempo durante il quale l’individuo cambia, è il sacrosanto principio della seconda occasione, principio per il quale, a mio sentire, non si può stigmatizzare una persona per un atto commesso in un particolare momento della sua vita. L’essere umano non è solo questo. L’essere umano è la complessità del cambiamento. Quale legge, Paolo, autorizza il giudizio retroattivo riconosciuto dalla santa istituzione giuridica? Perché, e scusa le mie analisi da novizia, è ben di questo che si tratta: come dei dell’Olimpo, i nostri illustri politici e magistrati, spiano il lavoro di reinserimento dei brigatisti, sapendo che questo processo sarà bloccato senza appello nel momento in cui le autorità avranno bisogno di carne fresca da mandare al macello. Ma lasciamo fare… e poi negano e non assumono le responsabilità che hanno della disperazione di questi figli di Francia. Come non tenere conto, quando si giudica un uomo, dei suoi cambiamenti? Definire mia madre di 54 anni una terrorista in fuga, mentre tutti sanno che lavorava per la Francia, non è di un perfido cinismo? Un’ultima domanda, quando una guerra finisce, per quanto bassa sia stata la sua intensità, e i perdenti riconoscono la propria sconfitta, non è forse utile per sanare la frattura sociale ricorrere ad una amnistia? Che vuol dire una pena senza fine? È una cosa priva di senso, una pena è fatta per essere scontata, non per tormentare all’infinito uomini ed epoche. Sono nata in un carcere speciale agli inizi degli anni 80, non l’ho deciso io; sono nata in mezzo alle vostre idee, adesso voglio capire.

Paris, le 26 novembre 2007

L’esilio come colpa

di Paolo Persichetti

Cara Elisa,

Non è facile dare risposta alle tue domande. Quando sei nata le cronache parlarono di te. T’affacciavi al mondo da un carcere speciale e questo faceva notizia. Tempo dopo seppi che eri uscita. Poi, per fortuna, fu scarcerata anche tua madre. Quando alla fine degli anni 80 anch’io ero imprigionato, ho incrociato nei corridoi delle sale colloqui di Rebibbia un ragazzino che tutto solo si recava in visita dal padre. Mi colpì quel suo fare sicuro, da piccolo grande uomo, quel non avere alcun timore del luogo mentre i suoi coetanei s’aggrappavano alle gonne delle madri. Era Antonio Salerno, come te nato in prigione e scomparso tragicamente un paio di anni fa. Morto di un maledetto lavoro precario. Cinico sgarbo della vita dopo che i suoi genitori erano rimasti reclusi per decenni, colpevoli d’aver tentato di liberare la società dal lavoro salariato. Morto fantasma di genitori invisibili. cop2Più che in mezzo alle nostre idee sei nata sul registro di cassa che ne segnava il prezzo. Ne hai conosciuto il risvolto negativo: la repressione, la criminalizzazione, l’universo plumbeo del cemento e delle sbarre e poi la via dell’esilio. Il tuo giardino dei giochi è stato un cortile presidiato da sentinelle. Hai fatto i primi passi in un asilo di piombo. Il tintinnio delle chiavi, il risuonare continuo dei chiavistelli che aprono e chiudono cancelli, il rimbombo dei blindati e gli echi delle urla che arrivano dall’isolamento sono stati i primi rumori che ti hanno fatto scoprire il mondo. Sei cresciuta in mezzo a questo frastuono, in un posto che non lascia spazio a sogni, dove a fatica risuonano filastrocche e dove l’orco delle fiabe porta una divisa. Ma non sei fuggita, non hai rimosso, hai accettato questa esperienza con coraggio e una maturità che sorprende in una bambina. Tua madre ha cercato in tutti i modi di offrirti un futuro. Ti ha dato anche una sorella. Così ti sei aggregata alla compagnia di giro dei fuoriusciti. Piena di generosità sei voluta crescere in fretta «per essere utile nel momento del bisogno», come dici. Fin da piccola ti sei gravata dei problemi dei grandi che vedevi braccati, ed ora che anche tu sei adulta misuri tutta l’impotenza e scopri l’illusione verso una vita che credevi dovesse risparmiarti la prigione conosciuta nell’infanzia. Ora che si stanno riprendendo tua madre per gettarla ancora una volta, dopo 30 anni, nel pozzo senza fondo del fine pena mai, dove già tuo padre e tuo zio sono passati, ci chiedi conto, ci tiri per le vesti in attesa di un perché. Hai ragione a voler capire. Questo ti fa onore. Non hai paura di guardare in faccia la realtà, ma le parole che chiedi non sono leggere. Ne sento per intero il peso e la responsabilità. Perdonaci Elisa, se a te e ad altri non siamo riusciti a garantire un futuro diverso. Senza possibilità di scelta la tua vita è rimasta incagliata all’unico passato giudiziario e penale che non passa, momento imprescrittibile di una storia d’Italia che ha volentieri sotterrato e tuttora ingoia nell’oblio eccidi, massacri, ruberie. L’Italia ha dato forma ad un singolare paradosso: non ha conservato la memoria di quegli anni ma è stata incapace d’oblio. Alla memoria storica svuotata dei fatti sociali ha sostituito la memoria giudiziaria; all’oblio penale ha sovrapposto l’oblio dei fatti sociali. Per questo quel decennio di speranze e di lotte è divenuto l’icona del male contemporaneo, un simbolo negativo che cristallizza odii e risentimenti, sofferenze e malintesi.
La dottrina Mitterand era figlia di uno sguardo diverso portato sulle vicende italiane degli anni 70. Sospinti dalla logica dell’alternanza i moderatissimi socialisti d’Oltralpe coglievano quel che nella penisola non si voleva vedere: un lacerante conflitto sociale, una latente condizione di guerra civile. Nel tentativo di trovare forme d’uscita dalla spirale del confronto violento, le autorità francesi decisero di accogliere i militanti italiani riparati a Parigi. Allora gli strumenti giuridici consentivano all’autorità politica margini di decisione ancora ampi. Questa scelta d’asilo territoriale ha resistito incredibilmente per almeno due decenni, nonostante l’aggressione dei tempi, lo slittamento dei rapporti di forza, l’inarrestabile processo d’integrazione comunitaria (di cui paradossalmente i fuoriusciti sono stati un avamposto) e la creazione dello spazio giudiziario europeo. Ma alla fine la zattera dei rifugiati, riparo precario d’esistenze sospese, è rimasta senza approdo davanti al porto della sua Itaca immaginaria.
Nel dopoguerra bastarono appena cinque anni per vedere liberi gli autori di efferati crimini d’dio, quelli sì responsabili di massacri di massa, come il maresciallo Graziani. Oggi, invece, dopo oltre venti anni di rivoluzione conservatrice e di neoliberismo dilagante, arretramenti, sconfitte e il radicale sconvolgimento del sistema produttivo, si è dissolto il peso politico del movimento operaio di cui siamo figli, indebolendo il suo patrimonio storico d’idee, valori e culture della solidarietà e della fratellanza. L’idea d’asilo, come gli strumenti di correzione delle vendette giudiziarie contro gli oppressi che hanno osato ribellarsi, hanno perso sempre più legittimità di fronte all’etica del risentimento fomentata dal vittimismo del potere. L’ideologia penale ha sostituito i percorsi di liberazione umana e sociale. Poi c’è stato il 2001, le torri gemelle e lo stato di eccezione planetario. Un vento revanchista e reazionario ha reso senso comune persino ciò che un tempo sarebbe passato come un residuo dell’immondezzaio ideologico dei fascismi. Di fronte a ciò, le parole degli Stati sono divenute come le foglie morte che si lasciano trascinare dalla direzione del vento. Non più parole date ma parole vuote.
Un florilegio di dichiarazioni ha accompagnato l’arresto di tua madre, niente affatto fortuito come si è maldestramente tentato di far credere. Si è parlato della cattura di una pericolosa latitante… che lavorava da anni per i servizi sociali del comune di Argenteuil. Questo bisogno di camuffare ogni volta gli arresti dei rifugiati, questa paura della trasparenza è rivelatrice dei sepolcri imbiancati che attorniano gli interessi inconfessabili di queste operazioni. Che motivo c’era d’inventare tutte queste fandonie se, come hanno sostenuto alcuni senza temer vergogna, si è trattato soltanto di far valere il principio della certezza della pena, di quelle che almeno non sono andate prescritte nel frattempo? Evidentemente si percepisce un deficit di legittimità a distanza di tanti decenni. Per questo si aggiornano le richieste d’estradizione ricorrendo ad ogni tipo d’espediente: congelando la personalità dei militanti di un tempo, avvalorando l’idea che l’essere non sia più un divenire ma un semplice essere stato, cristallizzato e fossilizzato.
Che senso ha tutto questo? Infatti non ha senso, è solo basso commercio tra intellingences, scambio di favori tra tecnostrutture securitarie, accordo di famiglia tra magistrati dei pool antiterrorismo che devono perpetuarsi ed a cui la politica ha ormai delegato sovranità e strategie. In questo caso più che punire un passato di cui si ha ormai una vaga e confusa memoria, si vuole sanzionare l’esperienza dei fuoriusciti, il loro presente: l’anticipazione del possibile che hanno rappresentato, ciò che avrebbe potuto essere il futuro italiano se fosse stata varata un’amnistia per gli anni 70. Una smentita cocente per gli imprenditori dell’Emergenza, un esempio da cancellare ricorrendo ad una sorta d’aggiornamento della sanzione. Ciò che discende da scelte sovrane dello Stato francese è di fatto equiparato a una condotta criminale del singolo rifugiato, che una volta estradato si vede rimproverare la dimensione intellettuale e culturale, le relazioni sociali, familiari e lavorative costruite nel frattempo. L’esilio come colpa, dunque. Si tratta della palese ammissione che ad essere perseguita è sempre meno la condotta politica attribuita in passato ma l’identità stessa delle persone oggetto di queste sanzioni. Altrove, nel ceto politico di Destra come di Sinistra, c’è invece chi trova conveniente fare dei rifugiati l’ultimo resto del secolo breve su cui gettare l’anatema per meglio sbiancare le proprie carriere istituzionali da un passato imbarazzante.
È questo il sigillo che le democrazie attuali pongono sulla reiventata figura del nemico politico interno eletto a pericolo permanente e immutabile.
Cara Elisa, ora tua madre ha un grande bisogno di te. Stalle vicino.

Roma, 26 gennaio 2008