La retata parigina, intervista a Enzo Traverso

Manifestazione parigina del 1 maggio 2021

Zapruder, storie in movimento, 7 maggio 2021

Intervista a cura di Andrea Brazzoduro

Viste le reazioni scomposte che hanno accompagnato l’indegna retata parigina del 28 aprile 2021 abbiamo chiesto a Enzo Traverso – tra i massimi storici del mondo contemporanea – di ragionare insieme sulla «stagione della conflittualità» tra storia, memoria, politica e giustizia. Tra questi termini il grande convitato di pietra è infatti la storia, cioè il lavoro di comprensione degli eventi del passato. In che senso l’arresto di un pugno di uomini e donne dai capelli bianchi aiuterebbe l’Italia a «fare i conti con la Storia» – se non proprio col Novecento – come hanno scritto alcuni? Da una parte questi ex militanti politici sono trattati come criminali comuni secondo i dettami di un’ideologia presentista tra le più becere e ignoranti. Dall’altra è convocata (impropriamente) tutta la panoplia dei memory studies per imporre una narrazione del trauma, fondata sul paradigma vittimario. In base a che cosa si dice che nella società italiana ci sarebbe una ferita aperta rispetto agli anni Settanta? Come in Francia per l’occupazione dell’Algeria, sembra piuttosto che si tratti di esplicito uso politico della storia, che niente ha a che fare con i processi sociali reali di elaborazione della memoria.
Intorno a questi temi, a partire dalla ‘retata parigina’, abbiamo intervistato Enzo Traverso per tentare di andare oltre il monologo collettivo che imperversa nel dibattito pubblico.
(Ringraziamo Arianna Lodeserto e raspou.team per le immagini della Comune)

Donne e uomini coi capelli grigi, tra i 60 e i 78 anni, tradotti in manette, all’alba, nelle camere di sicurezza dell’antiterrorismo. «Ombre rosse» è il nome scelto per la retata con cui, il 28 aprile 2021, sono stati arrestati 7 ex militanti della sinistra rivoluzionaria rifugiati in Francia da anni e accusati dalla giustizia italiana di una serie di delitti che vanno dall’associazione sovversiva all’omicidio commessi, secondo l’accusa, tra il 1972 e il 1982. Si tratta di «chiudere con il Novecento», come scrive «la Repubblica»?
Il Novecento è chiuso dal lontano 1989, quando cadde il muro di Berlino e finì la guerra fredda. Da allora il mondo è cambiato e con lui l’Italia, che non è più quella di trentadue anni fa. Sotto molti aspetti è ben peggiore: quelle che i media definiscono abitualmente la “seconda” e la “terza” repubblica ci fanno rimpiangere la prima, creata da uomini e donne che avevano combattuto il fascismo e creato un paese nuovo. L’eredità del Novecento rimane tuttavia soverchiante e molti mali strutturali continuano ad affliggere il nostro paese. Basti pensare alla mafia, alla questione meridionale, al razzismo, alla corruzione. Alcuni si sono aggravati, se pensiamo alla disoccupazione giovanile e al razzismo postcoloniale, molto più forte da quando il paese è diventato terra di immigrazione. Durante la seconda metà del Novecento, l’Italia era entrata a far parte del mondo occidentale più ricco; da trent’anni a questa parte se ne sta allontanando: conosce un costante declino demografico ma non vuole integrare gli immigrati, non concedendo la cittadinanza neppure a quelli di seconda generazione; le sue élite invecchiano, ma i giovani rimangono esclusi, e la penisola conosce una diaspora intellettuale impressionante, simile a quella dei paesi del Sud; le élite economiche si sono enormemente arricchite senza produrre sviluppo. Di queste élite, «Repubblica» è uno degli specchi più fedeli, poiché ormai è l’amministratore delegato della Fiat che annuncia pubblicamente la nomina dei direttori di questo quotidiano. “Chiudere con il Novecento” significa affrontare questo nodo di problemi. Per «Repubblica» pare invece che significhi l’estradizione di Marina Petrella, Giorgio Pietrostefani e qualche altro rifugiato.

Nel panorama della politica istituzionale così come nella stampa italiana le reazioni sono state senza sorprese unanimi: «Il dovere di fare i conti con la storia» (Ezio Mauro) «dopo ferite particolarmente dolorose» (Marta Cartabia), ecc. Ti occupi ormai da molti anni del rapporto tra storia, memoria, giustizia e politica (utilissimo il tuo Il passato: istruzioni per l’uso. Storia, memoria, politica, pubblicato in italiano da Ombre corte nel 2006). Cosa pensi di questo linguaggio e questo uso della memoria? C’è davvero una ferita da rimarginare?
Per chi appartiene alla mia generazione e ha vissuto quegli anni, non c’è dubbio che si tratti di ferite dolorose che non si sono ancora rimarginate. Gli esuli arrestati in Francia sono i primi a riconoscerlo. Il problema è come fare i conti con la storia. Mario Calabresi, figlio del commissario assassinato nel 1972, ha dichiarato che la notizia dell’arresto di Giorgio Pietrostefani non ha suscitato in lui nessun sentimento di sollievo, soddisfazione, riparazione o giustizia, soltanto pena e imbarazzo. In Italia, i media e la cultura ufficiale — quelli che Althusser chiamava gli “apparati ideologici di Stato” — non hanno saputo e soprattutto non hanno voluto elaborare la memoria degli anni di piombo. Hanno soltanto accompagnato ondate successive di leggi speciali e arresti, dipingendo come mostri i “nemici dello Stato”. I pentiti hanno ovviamente svolto il loro ruolo in questo dispositivo. Gli ex terroristi, insieme a pochi storici, tra i quali vorrei ricordare Giovanni De Luna, sono probabilmente tra i pochi che hanno dato un vero contributo alla conoscenza, alla comprensione e alla costruzione di una memoria critica di quegli anni. Gli ex brigatisti hanno ammesso i loro delitti, talvolta i loro crimini, hanno riflettuto sui loro errori, hanno cercato di capire e spiegare le ragioni delle loro scelte. L’intervista di Rossana Rossanda e Carla Mosca a Mario Moretti (1994) è molto più utile, sotto questo aspetto, di tutti gli articoli pubblicati da «Repubblica» e «Il Corriere della Sera» durante mezzo secolo. Non ho letto l’articolo di Ezio Mauro, ma chi possiede un minimo di onestà intellettuale dovrebbe riconoscere che “il dovere di fare i conti col passato” significa ben altra cosa di una repressione a scoppio ritardato, a oltre due generazioni di distanza dai fatti avvenuti.
In questi giorni si commemora l’anniversario della Comune di Parigi. La mia impressione è che i media e il mondo politico, in Italia, continuino, a cinquant’anni di distanza, a esorcizzare il terrorismo come la cultura francese fece nei confronti della Comune negli anni settanta dell’Ottocento. La Comune non era una rivoluzione né il prodotto di una crisi sociale e politica, era un’epidemia, la propagazione di un virus contagioso che bisognava sconfiggere con i metodi più drastici. I comunardi non avevano un progetto politico, erano “licantropi”, bestie feroci, pazzi assetati di sangue, nemici della civiltà, piromani eccitati dall’alcol. La repressione fu brutale, ma dieci anni dopo la Terza Repubblica decretò un’amnistia e i comunardi rientrarono dall’esilio e dalla deportazione. La Comune venne addirittura rivendicata come un’esperienza fondatrice della Repubblica. Mi sembra che in Italia il terrorismo e la violenza politica degli anni settanta continuino a essere visti con lo stesso sguardo miope e vendicativo di cinquant’anni fa. I terroristi sono mostri che devono pagare il loro debito con la giustizia. Se questo è il messaggio che si vuole trasmettere a chi non ha vissuto quegli anni, si tratta a mio avviso del modo peggiore di assolvere al “dovere di fare i conti col passato”.

Un altro capitolo di quel tuo saggio su storia, memoria, politica è dedicato al rapporto tra «verità e giustizia». La ‘giuridicizzazione del passato’ (Henry Rousso) è un fenomeno inversamente proporzionale al collasso dell’orizzonte d’attesa, alla canzonetta sulla ‘fine delle ideologie’ che è l’architrave teorico su cui si fonda il ‘realismo capitalista’ di cui parla Mark Fisher. È questa la chiave con cui leggere la retata parigina?
Pensare di poter rispondere oggi, sul piano giuridico, all’assassinio di Aldo Moro e della sua scorta e a quello del commissario Calabresi, mettendo in carcere gli ultimi esuli, è espressione innanzi tutto della cecità e dell’incomprensione di cui ho appena parlato. Ma questa cecità e questa incomprensione non sono ovviamente frutto di ingenuità, sono state perseguite per decenni. È anacronistico pensare di poter rispondere nel 2021, sul piano giudiziario, a fatti avvenuti negli anni settanta. Se si accetta il principio della loro imprescrittibilità, assimilando di conseguenza questi fatti a crimini contro l’umanità, si entra in un groviglio di contraddizioni indistricabili. Pietrostefani e Petrella = Eichmann? Nel 1946, Palmiro Togliatti, ministro di grazia e giustizia del primo governo repubblicano, promulgò un’amnistia nei confronti di chi si era macchiato dei peggiori crimini fascisti durante la guerra civile. Come giustificare l’accanimento persecutorio, a decenni di distanza, nei confronti dei protagonisti degli anni di piombo che si sono rifugiati in Francia?
Dai tempi antichi — pensiamo alle guerre del Peloponneso — l’amnistia ha sempre concluso le guerre civili e le crisi politiche segnate dalla violenza. La legge di amnistia promulgata da Togliatti nel 1946 si inscriveva in una tendenza generale e aveva equivalenti in tutta Europa. Collaborazionisti ed ex fascisti riempivano prefetture, questure e uffici governativi di tutto il continente fino agli anni settanta. In Italia, ha sottolineato Paul Ginsborg (1989), all’inizio degli anni sessanta, la totalità dei prefetti erano stati alti funzionari del regime fascista. In Spagna, durante la transizione alla democrazia, l’amnistia riguardò sia gli esuli antifascisti sia i responsabili del regime franchista. 
La fine del Novecento ha visto nascere, in Sudafrica, uno sguardo nuovo, diverso, per cercare di “fare i conti col passato” e rimarginarne le ferite. Dopo la fine dell’Apartheid, questo paese ha creato commissioni di verità e giustizia che escludevano inchieste giudiziarie e condanne penali in cambio dell’accertamento della verità. L’esempio sudafricano è stato seguito da molti paesi, soprattutto in America latina, dal Perù alla Colombia. Si tratta ovviamente di esperienze storiche non sovrapponibili, ma il principio rimane fruttuoso per uscire da una crisi e “fare i conti col passato”. In Italia, questo principio non è mai stato discusso. Il paradosso italiano è che i soli ad aver raccontato la loro esperienza sono gli ex brigatisti, non i loro nemici. Lo Stato non ha fatto nulla o quasi per chiarire le trame golpiste, le infiltrazioni neofasciste, le “deviazioni” dei servizi segreti, la messa in atto della “strategia della tensione”, le violenze neofasciste che beneficiavano di coperture in seno agli apparati statali e che hanno fatto molte più vittime del terrorismo di sinistra. Nessuno ha mai chiesto allo Stato di spiegare le centinaia di morti (militanti, giovani, studenti, operai) uccisi in quegli anni dalle forze di polizia. Chi rivendica “il dovere di fare i conti col passato” dovrebbe porsi queste domande.
Questa “patologia” italiana ha tuttavia una spiegazione. Lo Stato è inflessibile contro i suoi nemici, molto accomodante o compiacente nei confronti delle violenze messe in atto dai propri agenti e rappresentanti. Le trame golpiste e la collusione degli apparati dello Stato con i gruppi neofascisti che mettono le bombe nei treni vanno nascoste; la persecuzione dei terroristi di sinistra rafforza invece la solidità delle istituzioni. Questo non vale soltanto per l’Italia. Molti studi hanno messo in luce come, nella Repubblica federale tedesca, le condanne inflitte ai membri della Raf superino di gran lunga quelle emesse tra il 1949 e il 1979 nei confronti degli ex nazisti. Quando parliamo di “memoria” semplifichiamo sempre: la memoria è complessa, eterogenea, divisa. C’è la memoria degli ex terroristi e delle loro vittime (e la “post-memoria” dei loro figli); c’è la memoria collettiva dei movimenti sociali, ormai sopita o estinta; c’è la memoria culturale che plasma la sfera pubblica; e c’è anche la memoria delle istituzioni, la memoria dello Stato, che in tutta questa vicenda è probabilmente la più reticente. Ciò spiega anche perché chi si è rifugiato in Francia, alcuni decenni fa, non si voleva consegnare a una giustizia che non nascondeva la sua volontà persecutoria ma offriva ben poche garanzie di imparzialità. Una giustizia che non appariva credibile, come ha dimostrato Carlo Ginzburg in un famoso saggio sul processo Sofri (1991). Basti pensare al ruolo svolto dai pentiti in tanti processi. Non credo si possa dire semplicemente che i rifugiati si sono “sottratti alla giustizia”.  

Nelle ultime righe dell’introduzione di un altro tuo saggio fondamentale (2007) rievochi brevemente la tua esperienza di ‘militante rivoluzionario’ del secondo Novecento quando il mondo vi sembrava attraversato da una nuova ‘guerra civile’. Nella narrazione intonata in coro alla notizia degli arresti, non manca l’altra parte, il contesto? Contro chi e perché combattevano questi uomini e queste donne?
Sì, manca il contesto: si sta discutendo di vicende che risalgono a più di quarant’anni fa, ossia due generazioni, ma che non sono ancora “storicizzate”. Esse non sono depositate in un passato di cui si conosca il profilo e al quale, soprattutto, si riesca ad attribuire un senso. I rifugiati hanno ricostruito, fra molte difficoltà, la loro esistenza; hanno riflettuto sulla loro esperienza; continuano a fare i conti con la loro coscienza. Le vittime e le loro famiglie sono rimaste con il loro dolore. Ma la storicizzazione — l’elaborazione del passato per farlo entrare nella storia — significa appunto andare oltre i sentimenti. È questa la condizione perché questi stessi sentimenti possano trovare accoglienza in uno spazio collettivo, dentro una coscienza storica, dentro la consapevolezza che un ciclo è finito. La mia impressione è che in Italia la giustizia sia stata un ostacolo a questa elaborazione del lutto, a un processo di ricostruzione del passato che permetta finalmente di possederne una coscienza storica.
La violenza politica degli anni settanta era parte di una stagione politica che si è conclusa con una sconfitta della sinistra, del movimento operaio, dei movimenti alternativi. Questa sconfitta non è mai stata elaborata. Questo passato è stato rimosso. Ad alcuni decenni di distanza, il congresso con il quale il Pci decise di cambiare nome non appare come la sua “Bad Godesberg” ma piuttosto come una cerimonia di esorcismo. Potremmo parlare, in termini psicoanalitici, di “rimozione”. Gli anni di piombo sono stati inghiottiti da questa rimozione e sono entrati nelle cronache (e in archivi incompleti o inesplorati), non nella nostra coscienza storica.
Non voglio schivare la domanda personale, per quanto del tutto secondaria. Ricordo bene gli anni settanta, che sono gli anni della mia giovinezza. Ho partecipato alla mia prima manifestazione nel 1973, quando avevo sedici anni. Non ho mai avuto la tentazione del terrorismo e ho sempre criticato la scelta della lotta armata, non per ragioni di principio ma perché mi sembrava strategicamente e tatticamente sbagliata. A partire dal 1979, buona parte della mia attività politica consisteva nel partecipare ad assemblee e manifestazioni contro la repressione. Non mi piaceva lo slogan “né con le Br né con lo Stato” perché stabiliva un’equazione tra due entità incommensurabili che non potevano essere combattute con gli stessi metodi. Retrospettivamente, credo sia evidente non soltanto che la scelta della lotta armata fu nefasta e suicida, ma anche che contribuì largamente ad affossare i movimenti di protesta e a congelare una conflittualità politica diffusa. Le Br erano nate in una stagione di lotte come uno spezzone del movimento operaio, un gruppo che si considerava un’“avanguardia” e praticava l’“azione esemplare” o la “propaganda del fatto” per radicalizzare lo scontro sociale. Tendenze simili erano già apparse da almeno un secolo in diversi paesi, soprattutto in seno all’anarchismo. Uno storico come Mike Davis ne ha fornito un repertorio impressionante (2007). In Italia queste pratiche sono passate al setaccio della memoria della Resistenza e della cultura comunista, ed è per questo che le Brigate rosse non facevano esplodere bombe ma selezionavano i loro bersagli. A poco a poco, per sfuggire alla repressione poliziesca, quindi per ragioni pratiche che furono teorizzate soltanto a posteriori, le Br si trasformarono in un’organizzazione clandestina, separata dai movimenti, che conduceva da sola la sua guerra contro lo Stato. È così rimasta risucchiata da una spirale il cui esito non poteva essere che il suo annientamento da parte dello Stato. Una parte della sinistra radicale si illuse di poter “cavalcare” o “usare” il terrorismo: le Br scardinavano lo Stato, bisognava tenersi pronti alle sollevazioni che ne sarebbero seguite. Questi calcoli erano sbagliati e il prezzo di questi errori è stato molto alto. Ma questa è saggezza retrospettiva. Io ero trotskista, ossia facevo parte di un movimento che criticava la lotta armata. A differenza di altri paesi, il trotskismo era minoritario in Italia, dove rimaneva intellettualmente insignificante rispetto alla creatività teorica dell’operaismo e politicamente marginale rispetto a movimenti che sperimentavano pratiche nuove, come Lotta continua. Il trotskismo possedeva tuttavia una coscienza storica più profonda che metteva in guardia contro alcuni rischi, come una sorta di vaccino. Ma dire questo non significa vantare dei meriti. In quegli anni, l’adesione a un gruppo politico non era soltanto il frutto di una scelta ideologica, dipendeva da mille circostanze, spesso non immediatamente ideologiche (le emozioni e le forme della socializzazione svolgono un ruolo molto importante nella politica) e talvolta puramente casuali. Non ho difficoltà ad ammettere che, in circostanze diverse ma perfettamente possibili, mi sarei ritrovato non soltanto con un casco durante una manifestazione ma anche con una pistola nella borsa. Perciò non posso sentirmi estraneo a questa vicenda e credo che, facendo prova di un minimo di onestà intellettuale, lo stesso debbano dire alcune decine di migliaia di persone che appartengono alla mia generazione.

Hai vissuto per molti anni in Francia prima di emigrare di nuovo, questa volta negli Stati uniti. La retata del 28 aprile ha più a che fare con le prossime elezioni presidenziali francesi oppure si inscrive in logiche interne alla politica italiana?
Credo che i rifugiati italiani in Francia siano oggetto di un mercanteggio politico assai meschino. Draghi vuole legittimarsi come statista e provare che in poche settimane è riuscito a ottenere ciò che i governi italiani chiedevano da anni. In vista di una sua futura elezione alla presidenza della Repubblica, la mossa è astuta. Macron vuole fornire un’ulteriore conferma della svolta autoritaria che lo induce oggi, in vista di una possibile rielezione, a mostrarsi più repressivo della destra e perfino dell’estrema destra. Nessuna indulgenza nei confronti dei “terroristi”, anche quelli che hanno cessato di esserlo da oltre quarant’anni, che non si sono mai nascosti, che rispettano le leggi della Francia, il paese in cui vivono legalmente da decenni, dove hanno messo le loro radici, e dove avevano ricevuto ospitalità. Nessuno, neppure Marine Le Pen, gli chiedeva di estradare i rifugiati italiani. Probabilmente pensava, con questa misura, di rendere più credibile la sua lotta contro l’“islamo-gauchisme”. Come la stragrande maggioranza dei politici che ci governano, Macron si preoccupa dei sondaggi d’opinione, non certo di “fare i conti col passato”. Per vincere le elezioni, sarebbe disposto a qualunque “politica della memoria”.

Bibliografia
Davis, M.
(2007) Breve storia dell’autobomba: dal 1920 all’Iraq di oggi. Un secolo di esplosioni, Einaudi, Torino [I ed. London 2007]Fisher, M.
(2018) Realismo capitalista, Nero Editions, Roma [I ed. Ropley 2009]
Ginsborg, P.
(1989) Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi. Società e politica 1943-1988, Einaudi, Torino
Ginzburg, C.
(1991) Il giudice e lo storico: considerazioni a margine del processo Sofri, Einaudi, Torino
Moretti, M., Mosca, C., Rossanda, R.
(1994) Brigate rosse una storia italiana, Anabasi, Milano
Rousso H.
(1998) La hantise du passé. Entretien avec Philippe Petit, Textuel, Paris
Traverso, E.
(2006) Il passato: istruzioni per l’uso: storia, memoria e politica, Ombre corte, Verona [I. ed. Paris 2005]
(2007) A ferro e fuoco. La guerra civile europea 1914-1945, il Mulino, Bologna

Dopo la Zambrano, l’esilio raccontato come colpa

L’intervista – È in sala Dopo la guerra di Annarita Zambrano, in cui si racconta la vicenda di un ex brigatista rifugiato in Francia, interpretato da Giuseppe Battiston, costretto a fuggire perché sospettato dell’omicidio Biagi, avvenuto nel 2002. Ne abbiamo parlato con Paolo Persichetti, ex brigatista, giornalista e storico, cui il personaggio di Battiston è parzialmente ispirato

, Quinlan.it, 5 maggio 2018

Prima di parlare di Dopo la guerra di Annarita Zambrano, ti chiederei di raccontarci la tua storia, la tua vicenda all’interno delle Brigate Rosse.
Ho fatto parte di una delle ultime formazioni provenienti dalla storia delle Brigate rosse per un periodo abbastanza breve, poco meno di un anno, dall’estate 1986 al maggio 1987, quando fui arrestato e l’organizzazione smantellata.

Eri in clandestinità?
No, in altri tempi si sarebbe detto che ero un «irregolare».

Negli anni ’80 le Br perdono la loro unità e si suddividono in vari gruppi: tu a quale appartenevi?
Dopo il 1983 erano rimaste in piedi, nonostante l’uso dispiegato delle torture, una parte delle Brigate rosse – Partito comunista combattente, raccolte essenzialmente attorno a ciò che restava della colonna romana che in alcune periferie della capitale poteva ancora contare su un discreto numero di simpatizzanti. Un paio di anni dopo si aprì una discussione tra chi chiedeva di innovare la strategia brigatista, alla luce delle sconfitte e della mutata situazione sociale, e chi non voleva abbandonare l’ortodossia originaria, ormai però priva del contesto che l’aveva generata. Il dibattito portò all’ennesima divisione. Io ritenevo fondate le ragioni dei sostenitori del rinnovamento che avevano assunto la denominazione Br-Unione dei comunisti combattenti e quindi nell’86 ne entro a far parte. In realtà, come i fatti ci dimostrarono velocemente, entrambe le posizioni non avevano futuro. Era troppo tardi per innovare quella esperienza o per pensare di conservarla intatta, bisognava chiuderla prima con intelligenza.

Che azioni hanno compiuto le Br – Unione dei comunisti combattenti?
Si tentò di rilanciare il lavoro di massa, i rapporti con situazioni di lotta. Ci furono un paio di volantinaggi all’interno di grandi manifestazioni nazionali realizzati da un’area limitrofa e simpatizzante di compagni. Inizialmente l’intenzione era anche quella di abbassare il livello dello scontro armato, perché quel tipo di repertorio d’azione non era più condiviso come un tempo. Poi le cose sfuggirono di mano, e durante il ferimento del consigliere economico della Presidenza del Consiglio, Antonio Da Empoli, che materialmente aveva lavorato alle leggi di bilancio che colpivano redditi e condizioni di vita dei lavoratori, morì una compagna, Wilma Monaco. Quell’episodio segnò il destino futuro del gruppo. Un’altra circostanza sicuramente nefasta fu la competizione con l’altra branca dell’organizzazione, che aveva conservato la denominazione originaria. Successivamente ci fu l’attentato mortale al generale dell’aeronautica Licio Giorgieri, responsabile del Costarmaereo, ritenuto un esponente di quello che veniva definito il “complesso militar-industriale”. L’Italia aveva aderito al programma di «scudo stellare» avviato dall’amministrazione Reagan che rilanciava la corsa agli armamenti. Un progetto che aveva mobilitato l’opposizione di milioni di persone, scese in strada nei mesi precedenti.

Aula bunker Rebibbia, 1989 – Montesi

Quando vieni arrestato?
Il 29 maggio 1987. Mi attribuiscono subito un ruolo di organizzatore nonostante fossi lì da pochi mesi e poco dopo arriva anche l’accusa di coinvolgimento nell’azione Giorgieri. Accusa che crolla alla fine del processo in corte d’Assise dove viene ridimensionato anche il mio ruolo associativo nel gruppo. Dei 5 anni di condanna che mi vengono inflitti ne avevo già scontati la metà. Per effetto della derubricazione del reato vengo scarcerato, avendo oltrepassato i termini della detenzione cautelare. Era il 14 dicembre del 1989.

È quello più o meno lo stesso periodo in cui alcuni leader storici delle Br, come Renato Curcio, Mario Moretti e Barbara Balzerani, dichiarano finita la stagione della lotta armata?
Sì, il mio arresto, il processo e la scarcerazione traversano quei tre anni. E il grosso dei prigionieri politici dichiarò conclusa la stagione della lotta armata. Era un passo che sembrava preludere anche alla chiusura della stagione delle leggi di emergenza e a una eventuale amnistia-indulto che sanasse gli eccessi della legislazione speciale. Da alcuni settori del mondo politico arrivavano segnali in tal senso, persino uno come Ugo Pecchioli, l’uomo che aveva guidato l’azione di contrasto del Partito Comunista alla lotta armata, scrisse in uno dei suoi ultimi articoli che era giunto il tempo dell’amnistia. Tra i prigionieri c’era chi carezzava l’idea di cogliere l’esempio dei Tupamaros in Uruguay, che avevano concluso la lotta armata ed erano entrati nell’agone politico. E poi, anni dopo, avrebbero avuto addirittura un loro ex militante, Pepe Mujica, eletto presidente. Ma l’avvento di Mani pulite e la discesa in politica di Berlusconi modificarono drasticamente la situazione. Tutto venne seppellito sotto le ceneri della Prima Repubblica.

Roma, presidio davanti alla Cassazione, marzo 1991 – Montesi

Roma, festa della Fgci alla Mole Adriana, dibattito sull’uscita dall’emergenza, estate 1991 – Montesi

Ma prima, quando esci dal carcere alla fine dell’89, cosa accade?
Un grande casino. Fatta eccezione per i mesi del processo trascorsi a Rebibbia, avevo passato gran parte di quei due anni e mezzo in solitudine, in particolare nel carcere di Foggia. La conseguenza era stata una sorta di leggera agorafobia, invece mi ritrovo nel bel mezzo di un grosso movimento nazionale d’occupazione delle università che prese il nome di Pantera. In carcere avevo ripreso a studiare e soprattutto a dare esami. Negli anni precedenti al carcere l’impegno politico e il cantiere in cui lavoravo mi avevano assorbito completamente. L’esperienza della Pantera diventa anche la prima occasione per sperimentare quel passaggio alla «lotta politica, aperta e di massa» di cui si parlava nei documenti che avevano dichiarato chiuso il ciclo della lotta armata. Era anche un tentativo di allargare le basi sociali della lotta per l’amnistia, far conoscere la realtà delle carceri speciali, la condizione e il numero dei prigionieri politici presenti in Italia. Contro questi ragazzi però si abbatté subito un tentativo di criminalizzazione molto pesante. Si chiese loro di prendere le distanze da un passato che nemmeno conoscevano. Minacce che provocarono al contrario curiosità, voglia di sapere, attenzione verso quel passato rimosso ed esorcizzato. Scatta così la campagna contro i «brigatisti infiltrati nelle università». A parte il fatto che io come altri eravamo studenti iscritti in quelle facoltà, quella campagna ribaltò il più tradizionale dei cliché costruiti contro di noi: non erano più le Brigate rosse a venire infiltrate ma erano gli ex brigatisti che si infiltravano. Questo episodio diventa l’antefatto del processo d’appello che capovolge il verdetto di primo grado: passo infatti dai due anni e mezzo che mi restavano da fare a ventidue anni e mezzo di reclusione, anche se sono l’unico dei condannati a pene pesanti a non essere subito incarcerato. Partecipo a iniziative pubbliche sugli anni ’70 e l’amnistia, iniziamo la campagna per la liberazione di Prospero Gallinari e Salvatore Ricciardi, due detenuti delle Br incarcerati nonostante gravi patologie cardiache, poi scatta la famosa estate di Cossiga, quella del picconatore, in cui il presidente della Repubblica lancia la proposta di un’amnistia per chi aveva fatto la lotta armata, proponendo addirittura un provvedimento di grazia per Renato Curcio. E Cossiga era quello che aveva più diritto di parlare, visto che quando era ministro dell’Interno aveva varato le leggi speciali scrivendo di suo pugno alcuni articoli. Come a dire: «Io li ho combattuti, io ho inserito i surplus di pena, inventato i pentiti e i dissociati, le carceri speciali, e ora sempre io dico che quella stagione è finita». Il dibattito intorno al tema però non prese mai il via, anche perché Cossiga venne preso per matto. Era l’estate del ’91. Capisco che non ci sono margini politici per restare, per dire: «Ok, c’è la condanna, ma se si apre un percorso di soluzione politica, resto in Italia». A settembre il governo Andreotti col sostegno del Pci mette definitivamente la pietra tombale su ogni apertura. Ne discuto con Rossana Rossanda nel suo ufficio, a Il manifesto. Lei mi appoggia, anzi sollecita da «vecchia comunista» la mia partenza. «Mettiti in salvo, poi si vedrà!». Decido finalmente di andarmene in Francia. Era il 21 settembre del 1991. È la svolta. Inizia il percorso da rifugiato, senza nostalgie e rimpianti verso un Paese che cambiava rapidamente travolto dal morbo giustizialista. Altra vita, altra storia.

Parigi, autunno 1992 – Staccioli

Resti in Francia fino al 2002?
Sì, per undici anni. E già questo rientra nel film. Fino all’agosto del 2002.

Già, perché per l’appunto Dopo la guerra mette in scena la vicenda di questo ex brigatista, interpretato da Battiston, che vive in Francia da tanti anni e che si è costruito una vita – si dice – da intellettuale. Vita che viene sconvolta al momento dell’omicidio Biagi, di cui viene accusato ingiustamente.
Il film della Zambrano inizia con il fatto compiuto. L’estradizione improvvisa di un compagno del personaggio interpretato da Battiston, Adriano, che non si vede mai in scena e viene solo evocato, e che sembra tra l’altro rimandare proprio alla mia estradizione, accusato dell’omicidio a Bologna di Biagi, che nel film ha il nome di Rossini. Tra l’altro, casualmente, Rossini è lo stesso nome del protagonista della famosa canzone di Paolo Pietrangeli, una storia che nulla c’entra con quella del professor Marco Biagi. Anzi Rossini sarebbe stato il classico lavoratore precarizzato dalle leggi suggerite proprio da Biagi. Come se non bastasse, il gruppo che nel film rivendica l’uccisione del giuslavorista, consulente del governo, prende il nome di Nuclei rivoluzionari armati. Una sigla non certo vicina alla lotta armata di sinistra ma che evoca piuttosto quella dei neofascisti dei Nar, condannati in sede processuale per la strage alla stazione di Bologna. Mi chiedo: quanto questi errori storici siano del tutto involontari, frutto solo dell’insipienza culturale della regista e dei suoi collaboratori? D’altronde se come giornata della memoria si è scelto il 9 maggio, giorno della morte di Peppino Impastato e di Aldo Moro, anziché il 12 dicembre, ricorrenza della strage di Piazza Fontana, mettendo nello stesso calderone le vittime della mafia, delle stragi neofasciste e di Stato e quelle della lotta armata per il comunismo, con la precisa volontà di confondere fenomeni radicalmente opposti e contrari, il risultato non può essere che questo frullato d’ignoranza.

La tua riconsegna all’Italia nel 2002 mette fine alla cosiddetta dottrina Mitterrand, che aveva offerto riparo a tanti ex esponenti della lotta armata.
Non si può dire che abbia messo fine, intanto perché la mia non è una estradizione ma una “consegna straordinaria” che provoca una lacerazione profonda nella politica di rifugio messa in campo da Mitterrand, e poi – in secondo luogo – perché ne viola le regole. La successiva vicenda Battisti, che si trasforma presto in un affaire tutto francese, si conclude con la sua fuga in Brasile, che ha tolto dall’imbarazzo gli stessi francesi. Ma anche il decreto di estradizione di Marina Petrella, parliamo del 2008, venne poi annullato grazie all’intervento di Sarkozy, che alla fine si è schierato sulla linea mitterrandiana. Un atto che a me è sempre stato negato.

Puoi spiegare il senso della dottrina Mitterrand?
La definizione di dottrina Mitterrand si è imposta per semplificazione lessicale. In realtà una dottrina è qualcosa di giuridico, di codificato. Quella di Mitterrand invece è una politica che si attua nel tempo, si aggiusta, si aggiorna, si adatta e va a costruirsi per passaggi successivi. Tutto parte con la campagna elettorale del 1981: nel momento in cui le strategie riformiste non sono più in grado di misurarsi con riforme di struttura, per la presenza dei vincoli esterni e l’adesione a modelli economici liberali, l’unica opzione che evochi l’alternanza politica diventa il varo di una serie di provvedimenti carichi di forti significati simbolici. Insomma un riformismo a costo zero che evoca un immaginario ripreso dalla tradizione culturale della sinistra di un tempo, non quella giustizialista, forcaiola e legalista di oggi, ma al contrario: l’abolizione della pena di morte, il ripristino dell’idea della Francia terra d’asilo e d’accoglienza. Temi ripresi dalla Rivoluzione francese ma anche dal ruolo di ex potenza coloniale che ha sempre raccolto nel suo territorio élite dissidenti.

E la Francia si propone tuttora come terra d’accoglienza, anche in campo cinematografico, di registi perseguitati in patria…
È la classica politica di chi è abituato a proiettare oltre i confini nazionali la propria influenza: tenersi in casa le élite dissidenti di altri paesi perché non sai mai come gira la storia, e un giorno quegli esiliati potranno diventare i governanti del domani. Avendoli ospitati in casa tua hai creato dei legami culturali, di conoscenza, che ti permetteranno di avere rapporti privilegiati in un momento successivo. È una politica di controllo, di dominio, che guarda sempre lontano… Mitterrand si rivolgeva ad esempio ai baschi dell’ETA, anche perché lo scontro armato con l’autorità spagnola sconfinava nel versante francese; e all’Italia, anche perché nel ’77 si era creato un rapporto molto forte tra le élite intellettuali ultra-radicali francesi e l’Autonomia italiana. Dunque cominciò a esserci un fenomeno di fuoriusciti che approdavano a Parigi, anche perché il Diritto francese non conosceva ancora la legislazione d’emergenza che l’Italia si era imposta per combattere la sovversione sociale e la lotta armata. L’ordinamento penale d’Oltralpe tutelava ancora il reato politico tanto che le corti di giustizia si trovavano in imbarazzo davanti alle richieste italiane. La procedura di estradizione funziona così: prima c’è il vaglio tecnico-giuridico della magistratura, se questa ritiene giuridicamente fondata la richiesta, allora l’ultima parola passa al campo politico. Quando arriva Mitterrand si danno subito indicazioni in favore degli inquisiti e condannati per i reati associativi [associazione sovversiva o banda armata, n.d.r.]. Solo su una cosa c’era la certezza dell’estradizione, il rapimento Moro. Poi, nell’85, i giudici francesi negano per la prima volta l’estradizione anche per un reato di sangue, di cui era accusato un militante Br della colonna Walter Alasia. A quel punto la sfera politica integra la decisione della giustizia e la cosiddetta dottrina Mitterrand estende ulteriormente il suo ventaglio protettivo.

E dunque tu ne hai usufruito solo in parte?
All’inizio sembra filare tutto liscio. Seguo il protocollo consolidato da tempo che mi indicano gli avvocati. Ottengo anche un breve permesso di soggiorno. Studio la lingua e trovo subito lavoro, una cosa impensabile in Italia, vista la storia che avevo. Dopo qualche tempo affitto a mio nome anche un piccolo monolocale. Decido di riprendere l’università e mi iscrivo a Paris 8. Nel 1993 cambia il clima politico, arriva la seconda coabitazione, vale a dire che Mitterrand era presidente della Repubblica e la destra governava. E dunque, visto che il governo di destra cercava dei punti di contrasto con il presidente di sinistra, si decide di attaccarlo anche su questa ‘dottrina’. Perciò io divento un caso politico, tutto francese, usato come strumento per mettere Mitterrand in difficoltà. Mi arrestano in Prefettura, dove ero stato convocato per il rinnovo del permesso di soggiorno. Segue la procedura di estradizione. I giudici rifiutano nove domande di rimessa in libertà, resto in carcere un anno e mezzo, nel frattempo danno avviso favorevole anche per il reato associativo, cosa che non era mai accaduta prima di allora. Mitterrand era malato, era esploso il caso del suo cancro, non appariva più in pubblico. Istruito dai baschi dell’Eta faccio lo sciopero della fame, che durerà 19 giorni nelle celle d’isolamento dei seminterrati della prigione della Santé. Poi Mitterrand invia una lettera al Ministro della Giustizia, nella quale scrive: «Persichetti non ha mai commesso nessun reato in Francia, lavorava, aveva regolari documenti, la detenzione preventiva a cui è sottoposto sta esorbitando ogni limite». Nel giro di nemmeno una settimana vengo scarcerato. Ma, subito, arriva la reazione del governo con la convocazione del Consiglio di Stato che conferma il decreto d’estradizione. È il febbraio del ’95 e per la prima volta nella mia vita divento latitante, entro in clandestinità, con l’aiuto fraterno di Oreste Scalzone, che mi è sempre stato accanto. Il paradosso è che non ero stato latitante quando facevo la lotta armata e lo divento 8 anni dopo, quando tutto è ampiamente finito.

Una dimensione completamente assente dal film che la Zambrano mette in scena. La latitanza del personaggio di Battiston viene trattata in maniera molto superficiale: lui si rifugia in campagna con la figlia, in una zona imprecisata della Francia, e sostanzialmente la sua clandestinità non è mai a repentaglio. Per assurdo, potrebbe restare anche tutto il tempo in campagna, visto che nessuno lo va a cercare.
La mia storia è molto diversa e soprattutto ha attraversato tutte le sfumature che dal nero arrivano al grigio. Dall’iniziale autoreclusione al soggiorno in un campo scuola di archeologia. La situazione politica cambia nuovamente nel maggio ’95, quando Chirac diventa presidente della Repubblica. Pur essendo di destra, è legato all’esperienza del gollismo tradizionale e dice: «Non metto in discussione la parola data dalla Repubblica». La conseguenza è questa: non mi estradano, ma non mettono mano al decreto di estradizione. Il nero si schiarisce un po’: nessuno mi cerca, ma è meglio se non mi faccio trovare. Per dire, se mi sento male e vado in ospedale, rischio di essere estradato. Così lentamente scopro un mondo parallelo, quello della solidarietà: medici e infermieri militanti che assistono i sans papiers, li curano, svolgono anche accertamenti ed esami clinici complessi. E poi tante persone che mi ospitano, mi aiutano, fanno da prestanome. Va a finire che quelli diventano anni di grande studio: mi rifugiavo nelle biblioteche, dove nessuno ti viene a cercare. E ricordo che la protezione dei libri mi dava una grande pace interiore.

La Zambrano, nel suo film, sia pur in maniera indiretta, e nelle dichiarazioni che lo accompagnano, mette sotto accusa l’atteggiamento francese, in particolare per l’appunto per quel che riguarda la dottrina Mitterand.
Non mi sembra che i suoi siano grandi argomenti: dice che la dottrina Mitterrand ha violato la sovranità dell’Italia. Ma ogni stato ha autorità sul suo territorio. Il riconoscimento reciproco delle decisioni di giustizia ancora non c’era. E poi, la Zambrano forse non sa che l’Italia in passato aveva fatto la stessa cosa. Negli anni ‘60, al tempo della guerra d’Algeria, era stato ospitato Jean-Jacques Susini, un dirigente dell’Oas [Organization d’Armée secrète, n.d.r.], che aveva persino partecipato al fallito attentato a De Gaulle. Susini è vissuto cinque anni sotto copertura della questura di Roma, e i francesi lo sapevano. Su un altro versante, più positivo, l’Italia offrì asilo anche ad alcuni militanti del Fronte di Liberazione Nazionale algerino. Tra questi anche tre donne evase dalla prigione parigina della Roquette. La politica mitterrandiana ha fatto da camera di decompressione, una strategia per nulla sgradita alle autorità politiche italiane almeno fino alla fine degli anni ’80. E si è parlato di asilo politico in maniera inappropriata. In realtà i francesi hanno creato una zona di tolleranza, e basta. Pensa dover far tornare nelle carceri italiane centinaia di persone accusate di reati politici. Poteva diventare una situazione esplosiva.

Ma non si potrebbe dire che, in seguito ai casi algerini, la Francia volesse vendicarsi?
Si potrebbe pensare che i francesi abbiano detto: «Ora vi ripaghiamo con la vostra stessa moneta». Ma non è così, perché chi ha gettato le basi della dottrina Mitterrand era un magistrato di cultura garantista, Jean-Louis Joinet, fondatore del Syndicat de la magistrature, formatosi sul pensiero di Foucault. Il suo obiettivo era cercare di risolvere tutti i conflitti armati che ancora persistevano in Europa: l’Ira, l’Eta, gli Armeni e l’Italia. E Mitterrand era un avvocato di formazione, era stato ministro delle Colonie. La sua carriera politica era iniziata negli anni della guerra civile con l’Algeria. Joinet sostiene che da quella esperienza il presidente francese aveva tratto una lezione: l’importante nella lotta al terrorismo era trovare percorsi politici di fuoriuscita. Un modo per governare le contraddizioni e superare il conflitto. E poi c’è da dire anche questo: i francesi si ritrovavano questa massa di italiani in fuga e non potevano farli vivere in clandestinità. Perché non li puoi arrestare tutti, e quelli che sono latitanti si trovano costretti a vivere nell’illegalità per sopravvivere. Un rischio troppo grande.

Questura di Torino, 25 agosto 2002 – Ansa

In che situazione ti trovavi quando nel 2002 vieni accusato dell’omicidio di Biagi?
Nel 1997, quando al governo era salito il socialista Jospin, ero tornato all’università. In due anni sono riuscito a recuperare e terminare il ciclo, poi entro in scuola dottorale e vinco un assegno di ricerca sulla “Democrazia giudiziaria” e inizio tenere dei corsi. Ma mi trovavo ancora in una situazione paradossale, perché quando entravo nell’università ero Paolo Persichetti, quando ne uscivo diventavo un’altra persona, con un’altra identità. Utilizzavo mille filtri, continue precauzioni. Avevo una esistenza pubblica: su l’Humanité uscivano miei articoli sulla situazione politica italiana, sul berlusconismo, sui girotondi, pubblicavo un libro insieme a Oreste Scalzone, ma la mia dimensione personale restava prudente. Nel frattempo in Italia si torna a sparare, su entrambi i fronti: muore Massimo D’Antona, muore Carlo Giuliani e poi nel marzo 2002 Marco Biagi. La procura di Bologna si inventa la pista francese, riprendendo una vecchia vulgata dietrologica che attribuiva alla scuola di lingue Hyperion [fondata a Parigi nel ’77 da tre esponenti dell’estrema sinistra italiana, Duccio Berio, Vanni Mulinaris e Corrado Simioni, n.d.r.] il ruolo di supervisore occulto delle Br. Vertici di polizia e magistrati decidono che i nuovi attentati sono stati concepiti a Parigi, ritenuta il «santuario della lotta armata». È una scelta politica, un modo per regolare i conti con la dottrina Mitterrand, accusata di essere stata uno strumento di destabilizzazione della democrazia italiana, e per far fuori il partito dell’amnistia animato da Scalzone. La sera del 24 agosto vengo bloccato nell’androne di un palazzo dalla polizia francese e caricato in macchina. Inizia una folle corsa nella notte. All’alba del 25 vengo scambiato sotto il tunnel del Monte Bianco. In Italia mi attende una parata mediatica. Una donna che lavorava a Mediaset sostiene di avermi visto più volte con uno zainetto color camoscio sulle spalle sotto l’abitazione di Marco Biagi. Al momento della cattura avevo con me uno zainetto di colore blu. Lo fanno vedere alla donna che lo riconosce come identico. Scopro così di non essere tornato in Italia per la vecchia condanna, per altro in parte prescritta. Ma ero stato consegnato aggirando le regole dei trattati estradizionali, visto che nessuno aveva chiesto per me l’estradizione per l’omicidio Biagi. Alla fine il mio avvocato dimostra la pretestuosità delle accuse: nelle ore in cui sarei stato avvistato sotto casa di Biagi tenevo lezione in facoltà a Parigi. I miei studenti consegnarono persino gli appunti di quelle lezioni. La verifica sarebbe stata molto facile fin dall’inizio, ma poi non sarebbe stato più possibile convincere i francesi del mio coinvolgimento nell’attentato.

Parigi, settembre 2002, corteo contro l’estradizione di Paolo Persichetti

Dopo aver visto Dopo la guerra di Annarita Zambrano, puoi dire che – in particolare l’incipit – è ispirato parzialmente a te, oppure no? O a Cesare Battisti?
Mah, io nel film dovrei essere Adriano, l’amico e compagno di militanza di Battiston che è stato appena estradato e che viene solo citato. Un fugace fantasma, il pretesto che innesca tutto ma poi finisce lì. Non se ne parla più. Però nel film anche Battiston/Marco è accusato dell’attentato, solo che a differenza del protagonista io mi sono dovuto difendere in carcere. E sarebbe stato interessante descrivere anche questo aspetto. La regista ha sovrapposto due vicende diverse per generazione e percorso politico, la mia e quella di Battisti: un bel pateracchio. Tra l’altro in quell’incipit c’è anche una ulteriore semplificazione perché le contestazioni contro l’articolo 18 sono soprattutto sindacali e di fabbrica e non avvengono all’università.

Sì, credo che la Zambrano abbia voluto assecondare la vulgata secondo la quale, se tiri un cartoccetto per protestare e per manifestare il tuo dissenso, allora sei già colpevole, e in qualche modo è la premessa per imbracciare un’arma.
Può darsi, comunque è un falso storico. Va detto, tra l’altro, che la lotta armata è nata all’interno di situazioni, di reti, di percorsi di lotta reale nei posti di lavoro, nelle periferie urbane. Un contesto che ancora non è stato raccontato dal cinema italiano.

Parigi, 21 marzo 2002 – Solari

Comunque, da lì arriviamo subito al personaggio interpretato da Battiston, Marco, che dovrebbe incarnare la figura dell’irriducibile, quello che non si è pentito e non si è dissociato. Ma la Zambrano giudica con eccessiva severità il suo personaggio, non solo politica ma proprio umana, visto che è connotato solo da caratteristiche negative: si ubriaca e la figlia lo porta a dormire, quindi è infantile; al momento della fuga prende dei vestiti vecchi della figlia e quindi è disattento ed egoista, e così via.
La rappresentazione negativa del personaggio interpretato da Battiston è rivendicato dalla Zambrano che dice anche di aver voluto evitare facili identificazioni romantiche con il cattivo da parte dello spettatore e per questo sostiene di aver scelto un attore dalla fisicità ingombrante e, a suo modo di vedere, repulsiva. Non fa un bel complimento a Battiston, che invece è molto bravo. Ora, il centro del film ruota attorno al contrasto rappresentato da un padre egoista, insensibile, autocentrato, che occupa per intero la scena, anche fisicamente data la sua imponenza. Un padre che invade inopportunamente, che non vuol lasciar crescere la figlia nel suo mondo ma trascinarla nel vortice della sua vita disperata e maledetta. Qualcosa che non è un eccesso d’amore ma brutale possessività, come se la ragazza non esistesse, non avesse una sua vita interiore, dei desideri, una possibilità di scegliere lì dove lui non ha alcuna scelta. Sul piano strettamente fattuale, storico-cronachistico, non esistono precedenti su cui la sceneggiatura possa aver fondato questa scelta narrativa. Si tratta di una costruzione fantasiosa. Io non avevo figli e Cesare Battisti fugge senza le due figlie, che restano in Francia. Tutto si può dire fuorché non le abbia tutelate. Altri fuoriusciti, posti davanti a un dilemma simile hanno preferito restare accanto ai loro figli col rischio di essere estradati. La scelta narrativa dunque rappresenta un posizionamento voluto, che negativizza il protagonista. Se si utilizza la stampella della cronaca, come fa la regista, facendo capire immediatamente al pubblico che si parla di tizio e di caio, e poi ce se ne allontana subito stuprando quei personaggi, affibbiandogli fisicità, caratteri, atteggiamenti che non gli appartengono, che tipo di lavoro si sta realizzando? Alla regista è mancata la curiosità di conoscere dal vero queste storie. E, da ricercatore, dico che prima devi conoscere e poi devi giudicare perché altrimenti si fa politica e non cinema. Poi, a ben vedere, l’operazione è a mio avviso ancora più subdola perché penso che la finzione segua un percorso autobiografico: nel film la Zambrano sta essenzialmente parlando di sé, del suo problema con la figura paterna, che a suo parere andrebbe abbattuta, addirittura «insieme a Dio e lo Stato» – come ha spiegato con le sue parole. Ogni volta che nel film c’è un padre, che sia l’ex militante o il cognato magistrato, c’è un rapporto conflittuale, un rifiuto, in cui la regista va a identificarsi.

È vero, entrambi i padri del film, Battiston/Marco e Riccardo, il magistrato, marito di sua sorella Anna, vengono descritti come figure negative.
Il paradosso di tutto questo è che se vuoi abbattere il padre, poi non ha senso che tra i due padri vai a scegliere solo quello che per storia politica si avvicina di più all’esperienza della critica al patriarcato. Abbatti proprio lui e salvi il giudice, che è per definizione il patriarcato. E poi non vai a scomodare gli anni Settanta se devi regolare i conti con tuo padre, anche lui per altro magistrato. La Zambrano affronta un conflitto padre-figlia che trascende le epoche e dove il contesto storico è talmente povero, senza spessore, che è facilmente intercambiabile. Quel padre poteva essere chiunque, un mafioso o un imprenditore di Tangentopoli, un piddino o un cinquestelle. Non cambiava niente.

Nel film il magistrato opera bene nel ruolo che si è scelto nella società, visto che fa da giudice a un processo sull’amianto, mentre il brigatista opera male, anzi ha operato male in un passato imprecisato. Entrambi però per l’appunto sono personaggi negativi nel privato. Perché Battiston/Marco non capisce i problemi di sua figlia, mentre il magistrato Riccardo si comporta in maniera un po’ viscida con la moglie Anna, è omertoso con la loro figlia, e soprattutto non sopporta la madre di lei e di Battiston/Marco. E non la vuole in casa, perché il personaggio della madre vuole ancora bene al figlio, anche se è diventato un criminale.
Sì, Riccardo rimuove la figura del fratello della moglie davanti a sua figlia. E lì c’è quella leggera presa di coscienza di Anna che, ad un certo momento, dopo che ha letto l’intervista del fratello, decide di riaffrontare le cose e ne parla alla bambina. E poi c’è la figura della madre, che è quella che ha fatto fuggire il figlio, che lo ha protetto e lo protegge ancora, anche perché davanti all’autorità giudiziaria è un muro, non collabora. Lei è quella che non rinnega nessuno e che non rimuove nulla. Infatti mi sembra il personaggio più riuscito del film. Racchiude in sé la storia di quelle centinaia di madri coraggio che hanno viaggiato per le carceri d’Italia per raggiungere i loro figli, o che li hanno sostenuti in mille modi durante la loro latitanza.

Sì, son d’accordo. Però lo fa in senso materno, perché lei – proprio perché madre – accoglie anche il figlio sbagliato, li accoglie tutti, perché è una madre. Forse c’è quindi un discorso – sottotraccia, magari – sulla contrapposizione classica tra la società maschile, storica, e quella femminile, astorica. Quella maschile è conflittuale e quella femminile, invece, è accogliente. Una femminilità che è tesa alla cultura – la madre fa lezioni di pianoforte, Anna insegna Dante al liceo – e alla gestione di un privato senza conflitti. C’è l’uomo che fa la guerra e la donna che la rifiuta. E il film infatti si intitola Dopo la guerra, una condizione postuma gestita da donne, che sono le sopravvissute.
Può darsi, però, intanto la guerra richiamata nel titolo a mio avviso non fa veramente riferimento al conflitto sociale armato degli anni ’70, ma a una normale guerra di famiglia, una sorta di “guerra dei Roses”, un conflitto che avrebbe potuto essere trasposto in qualsiasi contesto. E poi la storia della lotta armata smentisce totalmente questa chiave di lettura. Probabilmente la Zambrano si è ispirata a quel tipo di paradigma, ma è totalmente fuorviante, sia nei fatti storici sia nell’etimologia delle parole. Guerra è una parola femminile, lotta è una parola femminile, politica è una parola femminile. E poi le organizzazioni armate, tutte comprese, hanno avuto una percentuale di presenza femminile che si aggira tra il 30% e il 35%, tre volte superiore agli altri gruppi della sinistra rivoluzionaria, per non parlare di quelli istituzionali. Le donne avevano ruoli dirigenti. Nelle Br la dirigente che è durata più a lungo di tutti è stata una donna, Barbara Balzerani. Io sono stato arruolato da una donna. Questo è il dato storico di quegli anni.

E sì, forse, il modo in cui Annarita Zambrano descrive le donne nel film è sostanzialmente molto tradizionale, tutto rivolto al privato, a un rapporto tra madri e figlie. In particolare, la figlia di Battiston è un’adolescente che non vuole sapere assolutamente nulla di suo padre.
Sì, è vero. La figlia in qualche modo lo rinnega…

Direi addirittura che gli è indifferente, che forse è peggio. Rinnegarlo sarebbe stato qualcosa di più drammatico e dunque più cinematografico.
Però magari il padre l’ha tenuta in questa inconsapevolezza per proteggerla. Ci si può domandare perché lei non voglia aiutare suo padre, ma ci si può anche dare la spiegazione che il padre l’abbia tenuta all’oscuro per proteggerla. Non l’ha sufficientemente responsabilizzata di fronte a quella che era la sua condizione di figlia di un latitante.

In realtà nel film non vediamo né che lei lo rifiuta né che lui la tiene all’oscuro del suo passato. L’unica cosa che vediamo è che il padre tira fuori il Corriere della Sera, dove c’è una foto di lui da giovane e dove viene indicato come sospettato dell’omicidio. E lei capisce subito, perché evidentemente lei sa, non c’è bisogno di spiegazioni. È una scena anche riuscita, quella, sia pur troppo elusiva.
Vuol dire poco. Il fatto che sappia non ci dice ancora quanto sia stata resa consapevole delle possibili brusche conseguenze. Il precedente rapporto padre-figlia il film non ce lo racconta, diciamo che ci lascia intuire l’esistenza di un rimosso. Ma anche qui, la scelta narrativa che vede Battiston padre vedovo, e dunque sua figlia orfana della madre, serve a estremizzare la negativizzazzione del personaggio. Con la madre in vita sarebbe sfumato l’egoismo del protagonista.

Sì, e aggiungerei anche che il coté sociale, e dunque anche quello del personaggio di Battiston, è quello di una famiglia alto-borghese. Come a dire che il figlio viziato si è dato alla lotta armata.
Un cliché. Tutto il film ruota attorno al dramma claustrofobico di un interno borghese. Non ci sono strade, piazze, non c’è la società, salvo quando Viola, la figlia di Battiston, si fa trascinare in una festa dal ragazzo di cui è invaghita. Ma la scena è messa per contrasto: la voglia di vivere della fanciulla opposta alla cupezza dell’esiliato.

Certo, ci sono dei casi, ma sono pochi… il figlio del critico cinematografico Morando Morandini, o il figlio del politico Carlo Donat-Cattin.
Non si può comunque chiudere gli occhi e non guardare i dati sociologici e statistici. Le componenti che vanno a riempire le file dei militanti della lotta armata provenivano per lo più dal mondo del lavoro, del precariato. E poi l’Adriano del film, cioè io, non è nato a Parioli o Prati, ma a Primavalle. I miei nonni erano braccianti abruzzesi, poveri e analfabeti. Mia madre è arrivata alla terza elementare e mio padre, che era una persona molto intelligente, si è istruito in una sezione del Pci, quella di Ponte Milvio che contribuì ad aprire nel 1945. Vengo da un mondo agli antipodi da quello borghese.

Però, è anche vero che non possiamo accusare la Zambrano di aver deciso di voler rappresentare un personaggio che viene da un mondo della buona borghesia. Non la possiamo accusare in partenza di questo. Il punto di debolezza di questa scelta è che, se lei parte da questo dato, non si capisce per quale motivo lui sia diventato un militante della lotta armata. Non si capiscono le motivazioni della sua scelta politica, se non per l’accenno alla morte del fratello per mano della polizia.
Sì, c’è questa scena dell’intervista in clandestinità fatta al personaggio di Battiston. Momento topico del film che serve a spiegare le sue motivazioni. Nonostante lo sforzo di rendere gli argomenti nella loro integralità e genuinità, facendo comprendere anche la sua coerenza e il disprezzo per le scelte premiali di fronte alla legge, come quelle del pentimento e della dissociazione, traspare una povertà argomentativa. La lotta armata appare una scelta dettata dalla disperazione di una generazione senza futuro, provocata dalla morte violenta del fratello oppure vissuta come unica alternativa alla morte per eroina, come tanti in quegli anni. Argomento che riprende un vecchio cliché narrativo complottista che spiega il riflusso delle lotte sociali della fine degli anni ’70 con il dilagare pilotato dall’alto dell’eroina tra i giovani. Circostanza che impoverisce terribilmente le ragioni di Battiston/Marco, rendendolo ridicolo. Non è così. Non è andata così. Prima Linea, ad esempio, il mondo di Sesto San Giovanni è tutta gente che fuoriesce dalla cintura industriale, sono operai e figli di operai che rifiutano quella società dello sfruttamento.

Nella scena dell’intervista che hai citato, viene infatti identificata la scelta estrema della lotta armata come frutto di un’emarginazione personale e non come presa di coscienza di uno sfruttamento in atto a livello sociale. Sei emarginato, perché hai problemi relazionali, e allora fai la lotta armata. È come parlare di una sorta di malattia.
Per la Zambrano la lotta armata è un’alternativa alla tossicodipendenza. Una sorta di metadone. La spiegazione si pone su un terreno di scelte esistenziali, quando in realtà furono scelte politiche, culturali, di generazione e di contesto, di conflitto, che nascevano dentro dei precisi percorsi politici. È una banalizzazione, poi so bene che, visto il contesto attuale, la gente dirà del film: è intollerabile, è inaccettabile che si parli in questo modo di quel periodo. Vedrai che in Italia questo film verrà tacciato di essere di estrema sinistra quando invece è intriso di moralismo.

Rebibbia, marzo 2013 – Baruda

Cosa pensi della conclusione del film?
Rappresenta l’apice della rimozione. La scelta di chiudere con la morte del protagonista mentre tenta di recuperare i passaporti gettati dalla figlia, è una scena grottesca e surreale, suggerita forse proprio dalla tragica fine di Marco Donat-Cattin, il figlio del politico. Ma anche qui ci troviamo davanti all’ennesimo scempio: Donat-Cattin muore per generosità, travolto mentre cercava di prestare soccorso a delle persone ferite in un incidente stradale. Non solo, ma rientrato in Italia si era pentito, collaborando con la giustizia. Insomma molto distante dal personaggio incarnato da Battiston. Questa morte è una trovata per evitare ogni scelta. Se lo si lasciava fuggire, si teneva aperta una contraddizione e si legittimava la fuga, facendo vincere i cattivi, come succede in certo cinema americano. Un esito politicamente scorretto. Se invece si sceglieva la cattura e poi l’estradizione, mostrando quindi il trionfo dello stato borghese, si sarebbe dovuto accennare a quello che sarebbe accaduto una volta estradato e quindi sottolineare il fatto che non c’entrasse nulla con la morte di Biagi, mettendo inevitabilmente in cattiva luce una magistratura che truccava le carte. E sarebbe stato un problema, perché lo si privava di una colpa di cui era subito stato ammantato dall’opinione pubblica, come si vede in varie scene del film. Poi ci sarebbe stato il carcere speciale, una esecuzione penale che giungeva molti decenni dopo i fatti e che per giustificarsi aveva bisogno di nuove ragioni: per esempio l’esser stato rifugiato, una condizione che avrebbe fatto dell’esilio una colpa, la prova di un ravvedimento mancato, dimostrando come la detenzione non fosse più una punizione rivolta a reati lontani ma a ciò che il protagonista era diventato, alla sua vita successiva priva di reati ma commendevole per una visione etica dello Stato. Meglio morto allora. È la rimozione che vince ancora. Rimozione e senso oppressivo di colpa sono i messaggi lanciati dal film. Sentimenti personali della regista che trasferisce sui suoi personaggi.

Hai citato il cinema americano. E una cosa che insegna il grande cinema americano è la descrizione di un cattivo affascinante, un cattivo che sbaglia ma ha le sue ragioni, ha delle precise motivazioni per sbagliare. Qui invece il cattivo è privo di qualsiasi connotazione positiva che lo renda un minimo umano, o che dia conto del fatto che ha sofferto. C’è chi dice, ad esempio, che il cattivo è un buono che diventa cattivo. Non c’è nulla di tutto questo in Battiston, e la conseguenza qual è? Che il suo personaggio non è credibile, non prende vita.
A mio avviso attraverso il personaggio di Battiston la Zambrano trasmette un messaggio molto chiaro e in linea con la vulgata corrente: la dimensione mediocre se non infima di chi ha intrapreso la via della lotta armata, l’inconsistenza culturale, l’assenza di dimensione etica, il cinismo, la disumanità, la vigliaccheria di quella generazione di insorti. Per lei il fatto di sottrarsi alla cattura è un elemento di vigliaccheria non di resistenza. Invece per fare il fuggiasco non bisogna avere paura dell’ignoto, ci vuole intelligenza, creatività, curiosità, esser pronti a mettersi in discussione e reinventarsi. Poi se vieni arrestato, la paghi. Se non hai questo coraggio, ti costituisci. Perché, chiaramente, costituirsi dà dei vantaggi. È il mondo al rovescio.

Abbiamo parlato di questo film anche perché è uno dei pochi, ma non l’unico, che cerca di affrontare il discorso della lotta armata. Va detto però, a mio avviso, che finora nel cinema italiano quella stagione non la si è mai affrontata in maniera oggettiva, scevra cioè da pregiudizi. Pensa a Buongiorno, notte di Bellocchio, in cui i brigatisti parlano come dei ciclostilati e non hanno quasi caratteristiche umane – se non il personaggio di Maya Sansa, che però, per l’appunto, serve a far da tramite con lo spettatore ed è lo strumento per instillare il dubbio. O pensa a La prima linea, tutto impostato sul presente di Scamarcio/Sergio Segio che continua a ripetere di sentirsi in colpa. Ricordo con meno dispiacere La seconda volta dove, pur impostato tutto sulla colpa – che non è che sia necessariamente un male – almeno il personaggio dell’ex militante Valeria Bruni Tedeschi era un vero personaggio, con delle stratificazioni caratteriali. Anche tu vedi questa mancanza nel nostro cinema? E te lo chiedo non solo perché hai avuto una parte in quell’epoca, ma anche perché tu sei anche giornalista e storico – hai pubblicato lo scorso anno un primo volume sulla storia delle Brigate Rosse, solo per fare un esempio – e, dunque, ti sarai necessariamente interrogato sul discorso della rappresentazione di quegli anni. Su come raccontare quella stagione.
La situazione del cinema non è diversa da quella della storiografia. Sono due forme di rappresentazione che risentono della situazione complessiva della società. Siamo a 50 anni dall’inizio degli anni ’70, quest’anno ricorre il quarantennale del sequestro Moro, nonostante questa distanza prevale ancora un approccio interamente etico-politico con accenti addirittura più rigidi rispetto alla timida curiosità con sui si provò a guardare alla fine degli anni ’80. La società che diede vita a quegli eventi non esiste più, sono scomparse le cittadelle industriali roccaforti della classe operaia, è cambiato il volto delle periferie, le ragioni di quella rivolta smarriscono sotto anatemi morali o virano con facilità nel chiaroscuro di ricostruzioni spionistico-complottiste. Sembra l’epoca del male assoluto che può essere affrontata solo espiando e provando senso di colpa verso le vittime di una sola parte. Quando per Liberazione ho dovuto seguire il processo «Eternit» sulle vittime delle produzioni d’amianto, ho scoperto che negli anni ’70 l’amianto ha causato la morte di 3 mila persone, tra le maestranze e le popolazioni vicine, più altre che stanno incubando la malattia. Nel film infatti c’è persino un accenno a questa vicenda. Nel complesso le vittime della lotta armata di sinistra sono state 128. Eppure, ancora oggi, per indicare quel decennio si continua a parlare di anni di piombo. E non di anni anni d’amianto.

Per saperme di più
L’esilio

 

 

Caso Battisti: risposta a Fred Vargas

Il Corriere della sera di oggi 31 dicembre 2010 in un articolo di Giovani Bianconi, che prende avvio in prima pagina e poi gira in terza, cita alcuni passaggi di questo testo scritto nell’ottobre 2004, ripreso e sviluppato in uno dei capitoli (le pagine finali del capitolo otto) del libro Esilio e Castigo. Retroscena di una estradizione, La città del sole edizioni. Per completezza d’informazione lo riproponiamo
integralmente in apertura del blog

A scanso d’equivoci
Paolo Persichetti
Carcere di Mammagialla, Viterbo ottobre 2004

Alcune precisazioni sui presupposti politici che hanno contraddistinto le linee difensive condotte dai fuoriusciti italiani davanti alle Chambres d’accusations nel corso degli ultimi vent’anni

Con un lungo articolo apparso su Le Monde del 15 novembre 2004, l’archeologa e scrittrice di romanzi gialli di successo, Fred Vergas, ha esposto tutti i dubbi e le inconsistenze probatorie che hanno caratterizzato le sentenze di condanna da parte della giustizia d’emergenza italiana nei confronti di Cesare Battisti. Verdetti largamente fondati sulle tardive dichiarazioni del superpentito Pietro Mutti (realizzate quando Battisti era già evaso e in fuga in Messico). È a tutti apparso evidente che un così dettagliato ed efficace intervento sarebbe stato molto opportuno nella scorsa primavera, quando di fronte alla Chambre veniva giocata la partita decisiva. Allora nessuno impedì a Battisti di scendere nel merito dei fatti che gli venivano imputati per difendersi anche tecnicamente dalle accuse più gravi. La scelta di non comunicare con la stampa italiana e di farlo in modo alquanto inappropriato con quella francese, è unicamente farina del suo sacco. Al «diritto di… spiegarsi», come affermato nella sua ultima intervista rilasciata alle Iene su Italia uno, ha abbondantemente rinunciato lui stesso in un momento in cui era rincorso da tutti i media, contribuendo non poco alla propria demonizzazione. Una discutibile ma in ogni caso legittima e libera scelta. Proprio per questo sorprende l’attuale atteggiamento del suo entourage ed in modo particolare la parte finale dell’arringa di madame Vergas del 15 novembre, nella quale si lascia intendere che la difesa di merito non sarebbe stata intrapresa prima perché avrebbe potuto «nuocere alla protezione collettiva accordata senza distinzione degli atti commessi», alla «piccola comunità dei rifugiati italiani, protetta da oltre vent’anni dalla parola della Francia», oltre alle ulteriori dichiarazioni riportate su Le Monde del 23 novembre 2004. Piuttosto che adoperarsi per riparare la situazione, sembra che alcuni dei maggiori sostenitori di Battisti cerchino un capro espiatorio su cui scaricare l’errore di linea difensiva. Viene così attribuita alla comunità dei fuoriusciti una oggettiva funzione di condizionamento, un ruolo quasi censorio, che avrebbe vincolato la strategia difensiva al rispetto di una fantomatica «responsabilità collettiva», all’obbligo della difesa politica di principio previa scomunica. persichetti017a0dinu

Quanto è stato più volte riportato da autorevoli quotidiani, che hanno fatto anche menzione di supposti «malumori» di fronte al «nuovo corso» della difesa Battisti, notizie successivamente riprese dalla stessa stampa italiana, impone un necessario chiarimento pubblico riguardo alla politica difensiva adottata nel corso di oltre venti anni dai fuoriusciti di fronte alle chambres d’accusations, al fine di sgombrare il campo da malintesi, equivoci, inesattezze e caricature grottesche.

1. Già nella scorsa primavera, alcuni scrittori sia pur nelle loro generose intenzioni hanno dato vita ad una disastrosa campagna stampa infarcita d’errori, pressapochismi storico-politici e argomenti dilettanteschi sugli anni Settanta e sull’Italia recente, compromettendo notevolmente gli esiti della vicenda Battisti e più in generale fragilizzando lo stesso sostegno di cui hanno sempre usufruito i fuoriusciti italiani. Molti di questi interventi hanno infatti offerto pretesti insperati ai sostenitori delle ragioni dello Stato e della magistratura italiana che, per la prima volta da venti anni a questa parte, sono riusciti a guadagnare terreno benché avessero dalla loro solo argomenti mistificatori della realtà storica e delle vicissitudini giudiziarie di quegli anni. Un contesto sfuggito di mano alla tradizionale linea politica tenuta dai fuoriusciti e improntata ad una rigorosa critica della giustizia d’emergenza ed ai suoi metodi che hanno stravolto il processo penale, capovolto l’onere della prova, eretto la parola remunerata dei pentiti a fondamento delle accuse.

2. Per oltre venti anni, i fuoriusciti hanno sempre rivendicato il principio del rispetto della dottrina Mitterand «per tutti e per ciascuno», senza esclusioni o differenziazioni legate al tipo di reato o d’appartenenza organizzativa contestata. In questo modo si è inteso difendere l’unico criterio oggettivo eguale per tutti. Un minimo comun denominatore politico capace di tradurre su un terreno giuridico la comune appartenenza ad una medesima vicenda storica, al di là delle singole passate differenze di militanza, di cultura politica e d’ideologia. Una posizione che nulla ha a che vedere con formule confuse sul piano politico e assolutamente inconsistenti su quello giuridico, come la cosiddetta «responsabilità collettiva». Principio che per altro Battisti stesso è sempre stato il primo a non rispettare. Innumerevoli sono state, infatti, le occasioni nelle quali egli ha espresso giudizi denigratori – come ribadito anche nella sua ultima intervista dell’estate scorsa – nei confronti di formazioni politiche armate degli anni Settanta diverse dal suo vecchio gruppo d’appartenenza.

3. La nozione di «responsabilità collettiva» può avere pertinenza all’interno di una riflessione etico-politica che investa la ricostruzione storica generale dei movimenti sociali e dei gruppi rivoluzionari che hanno agito negli anni Settanta e Ottanta, oppure per definire la natura etica del legame associativo che ha operato all’interno di ogni singola formazione. Difficilmente una tale nozione può avere valore operativo sul terreno dello scontro giudiziario. La posta in gioco del processo penale è dimostrare la responsabilità personale. Responsabilità di cui la giustizia d’emergenza italiana è addirittura arrivata a fornire interpretazioni largamente estensive, attraverso forme ellittiche di complicità come il concorso morale o psicologico. Appare chiaro, allora, come di fronte ad un’esigenza d’efficacia sia vitale saper tradurre sul piano strettamente giuridico, lì dove se ne presenti la necessità o la possibilità, anche una difesa del corpo singolo, in carne ed ossa, della persona indicata con nome e cognome nella domanda d’estradizione, altrimenti la confusione tra campi che seppur legati restano distinti da codici propri, come la battaglia storico-politica e quella tecnico-giuridica, conduce ad inevitabili catastrofi difensive.

4. Nelle oltre ottanta procedure di estradizione affrontate di fronte alla Chambres, i fuoriusciti ed i loro legali non hanno mai rinunciato, quando se ne presentavano le condizioni, ad introdurre anche la difesa di merito, ritenuta un valore aggiunto nelle argomentazioni difensive. Numerosi – ed anche clamorosi in taluni casi – sono stati gli episodi in tal senso. A nessuno sfugge, infatti, l’enorme valenza politica generale e le numerose ricadute positive sul piano collettivo che possono suscitare la possibilità di smascherare i pentiti, svelare i metodi della giustizia d’emergenza, smontare i teoremi dell’accusa, fornendo l’immagine cruda e reale della giustizia italiana. Indurre a credere, come purtroppo è stato scritto recentemente, che tutto ciò sarebbe stato interpretato dalla comunità dei fuoriusciti come una maniera di «liquidare a poco prezzo il proprio passato» è un atteggiamento irresponsabile, che ha come unico effetto quello di minare l’unità di un gruppo sottoposto ad un durissimo attacco, creando artificiali malintesi e ingiustificate tensioni, oltre a designare i fuoriusciti di fronte all’opinione pubblica come una combriccola di cinici inquisitori.

5. Inoltre, va ricordato che la procedura d’estradizione non è un’anticipazione o un ulteriore grado del processo, legittimato a valutare il merito delle prove a carico o a discarico della persona richiesta dall’autorità statale straniera. Le Chambres d’accusations sono abilitate unicamente a pronunciarsi sulla ricevibilità giuridica delle richieste, analizzandole sotto il profilo della conformità con le norme internazionali e nazionali: convenzione sui diritti umani, convenzione sulle estradizioni, diritto penale e di procedura interno. Per questa ragione le difese hanno sempre dovuto agire dispiegando una strategia fatta di stadi successivi: in primis rispetto dei diritti umani; ostatività dell’estradizione di fronte ad infrazioni di natura politica; assenza di contrasto con i principi di specialità e doppia incriminazione; assenza di contumacia; prescrizione dell’infrazione ecc. In secondo luogo, e sempre se la corte lo consente, la difesa solleva in aula, altrimenti fuori dall’aula, le questioni di merito, come la non colpevolezza. In ultima istanza subentrava la tutela politica prevista dalla dottrina Mitterand.

6. È fuori discussione che la soluzione generale e definitiva al problema dei prigionieri e dei rifugiati possa venire solo dal varo di un’amnistia. Misura che lo Stato italiano ha sempre rifiutato poiché ha trovato nei fuoriusciti un serbatoio di comodi capri espiatori e responsabili di sostituzione. È altrettanto evidente che sollevare di fronte alle Chambres questo argomento ha ben poca efficacia e pertinenza.

7. Benché l’uso del termine «innocenza» risulti improprio per definire la tradizionale difesa tecnica volta a contestare gli addebiti specifici, è evidente che il ricorso ad una tale terminologia da parte dell’attuale difesa di Battisti è più che altro dovuto ad una concessione all’enfasi retorica ed alla semplificazione mediatica. Espedienti che sicuramente non riescono a compensare le innumerevoli falsità e mistificazioni diffuse nei mesi scorsi dai media fautori della sua estradizione. Ciò che invece desta seri dubbi è il tono scelto per giustificare pubblicamente la decisione di passare alla difesa di merito. Quasi che con questa scelta si volesse marcare una differenza individuale con le tradizionali condotte difensive dei fuoriusciti. Un atteggiamento, tanto più sorprendente quanto, in realtà, questa discontinuità non è con la comunità ma con le precedenti convinzioni di Battisti stesso. Stupisce dunque il bisogno di sottolineare una distanza col resto della comunità, come se la diversità fosse d’improvviso divenuta un valore aggiunto. Le cronache degli ultimi anni ci hanno lungamente documentato sulla sorte avuta da strategie difensive costruite sulla enucleazione esasperata del caso individuale rispetto a quello che è stato il sistema dell’emergenza, la catena di montaggio dell’eccezione che ha investito tutti i rifugiati e i prigionieri.

In conclusione, è auspicabile che tutti coloro che hanno una parte in questa vicenda mantengano un atteggiamento più attento e responsabile, improntato all’onesta intellettuale ed al rispetto di chi da decenni si batte contro le estradizioni. Occorre prestare maggiore cura alle affermazioni che vengono immesse nello spazio pubblico, con particolare riguardo all’interesse generale, al destino comune che lega tutti i fuoriusciti.