Stralci da Esilio e Castigo. Retroscena di una estradizione, La città del sole, 2005
Così nel mio parlar voglio esser aspro
Dante, Rime
I passati rivoluzionari faticano a diventare storia.
Adagiati nel limbo della rimozione periodicamente vedono schiudersi le porte dell’inferno che risucchia brandelli di vita, trascina esistenze sospese. Lasciti, residui d’epoche finite che rimangono ostaggio dell’uso politico della memoria.
Non un passato che torna ma un futuro che manca
Era una calda sera d’estate quella del 24 agosto 2002 e l’Italia aveva urgente bisogno di recuperare uno di quei giovani maledetti degli anni ribelli per offrirlo in pasto all’opinione pubblica. Una grossolana impostura, escogitata con l’intento di fornire l’immagine truccata di un brillante successo operativo dopo l’attentato mortale contro un collaboratore del governo. Marco Biagi era stato ucciso pochi mesi prima da un piccolo gruppo che aveva riesumato dal museo della storia una delle ultime sigle della lotta armata. Un paese distratto e annoiato, persino futile, conquistato dall’avidità dell’oblio, impaurito dalla possibilità di sapere, era stato scosso dal frastuono di quegli spari improvvisi. Irritato dal brusco risveglio, aveva rovistato furiosamente in un passato ormai sconosciuto. Cercava in spazi e tempi lontani i responsabili di quei colpi senza radici. Attribuiva al passato quella che era una surreale imitazione figlia del presente. Cercava nelle figure di ieri dei colpevoli per l’oggi.
Capitolo I
Il Macabro teatrino
Processo verbale n° 228/02
L’anno duemiladue
Ventiquattro agosto
Ore diciotto e trenta
Noi : Bernard DURIEUX
Capitano di polizia in funzione presso la
Divisione nazionale antiterrorismo della
Direzione Centrale della Polizia Giudiziaria
Nel corso delle investigazioni, relative all’esecuzione di un decreto di estradizione emesso il 7 settembre 1994 dal Ministro Guardasigilli, Ministro della Giustizia, nei confronti di Paolo PERSICHETTI;
In compagnia del commissario Philippe FRIZON, delcomandante di polizia Pascal BIZE e degli ispettori di polizia Pierrick GUILLAUME e Christophe JACQUEMIN dello stesso servizio;
Disponiamo, nell’orario indicato all’inizio del presente verbale, un dispositivo di sorveglianza nelle vicinanze dell’immobile situato al 9, place de la Coupole, a Charenton-Le-Pont (Val-de-Marne), con l’obiettivo di fermare il sopracitato Paolo PERSICHETTI;
Constatiamo alle venti e venticinque l’arrivo sopra una bicicletta di un uomo di razza bianca, piuttosto alto, capelli scuri, munito di un piccolo zainetto, vestito con un pantalone verde e una maglietta nera [1], individuo che identifichiamo successivamente nel noto Paolo PERSICHETTI […]
Quando l’uomo scende e comincia a penetrare nella hall d’entrata dell’immobile, procediamo al fermo, alle ore VENTI E VENTICINQUE, operazione che si svolge senza incidenti.
La successiva palpazione di sicurezza effettuata sulla persona del signor Paolo PERSICHETTI non conduce alla scoperta in suo possesso di nessun oggetto pericoloso per se stesso o per gli altri.
A nostra richiesta, il signor Paolo PERSICHETTI presenta una carta d’identità italiana rilasciata il 16 maggio 1987 a Roma, intestata a suo nome e munita della foto dell’interessato.
[…]
Si fa menzione che, conformemente alle istruzioni ricevute, il trasporto del signor Paolo PERSICHETTI sarà effettuato per via stradale dal capitano di polizia Bernard DURIEUX e dall’ispettore di polizia Pierrick GUILLAUME, e che egli sarà consegnato alle autorità giudiziarie italiane presso il posto di frontiera « Chamonix-Mont Blanc » a CHAMONIX (Haute-Savoie), e che la procura della Repubblica competente per territorio verrà avvisata.
* * * *
L’estradizione di un fuoriuscito, da undici anni residente in Francia, dopo essere stato rocambolescamente condannato in uno degli ultimi processi politici degli anni 80, aveva tutta l’aria di voler depistare l’attenzione generale dal desolante vuoto investigativo nel quale versavano le indagini. Un escamotage doppiamente redditizio poiché avrebbe offerto un momentaneo ripiego anche alle forze politiche di governo e d’opposizione, attanagliate entrambe dal fortissimo imbarazzo suscitato dalla pubblicazione di alcune lettere e-mail di Marco Biagi. In quei messaggi premonitori, il consulente del governo denunciava la sospensione delle misure di vigilanza e tutela della sua persona e indicava con nome e cognome colui che riteneva il maggiore responsabile del clima di minaccia nei suoi confronti. Parole che, nel giugno 2002, fecero deflagrare il milieu politico, gettando scompiglio nell’intero establishment istituzionale. Ferocissime furono le polemiche accompagnate da reciproche e sanguinose accuse.
Sinistra e centro-sinistra, riesumando immancabilmente le vecchie teorie del complotto, non esitarono ad indicare nel governo il mandante occulto della morte del proprio collaboratore. Come al solito, una sinistra vuota di concetti e prospettive mal soppesava le parole, travolta da una strumentalità polemica di corto respiro. Si aprì persino un’oscena competizione tra chi avrebbe avuto i diritti, titoli e meriti, per rivendicare l’icona del “martirio” di Marco Biagi. Il mercato della politica si arruffò senza ritegno per spartirsi le spoglie di quel cadavere ancora caldo. La Margherita ne espose l’immagine durante una sua manifestazione politica rendendo furiosi quelli che sul versante politico opposto rivendicavano l’uso del marchio “riformista”.
La destra, a sua volta, ispirata dalle stesse parole del professore ucciso, non mancò di ritenere la cgil corresponsabile dell’attentato, a causa della linea conflittuale avallata dal suo Segretario. Sergio Cofferati aveva definito «limaccioso» il libro bianco sulla riforma del mercato del lavoro realizzato dal giuslavorista, accusandolo di «collateralismo confindustriale». Una situazione corrosiva e devastante per un esponente politico che in quel particolare frangente veniva ad assumere un ruolo di primo piano: candidarsi come l’uomo nuovo e vincente dell’Ulivo, il federatore di un vasto fronte ultrapopulista che avrebbe dovuto saldare sinistra ds, Girotondi, giustizialisti vari, non global, «ceti medi riflessivi» e autodecretatisi «rappresentanti della società civile».
In quel clima rovente, da ultima spiaggia, dove erano ammessi colpi bassi d’ogni tipo, si verificò l’incredibile gaffe che travolse il ministro degli interni Scajola. Questi, in un colloquio informale con alcuni giornalisti durante un viaggio ufficiale a Cipro (29 giugno 2002), aveva definito Biagi un «rompicoglioni». La frase, divulgata dalla stampa, obbligò il ministro a rassegnare le dimissioni, mentre l’apertura di un’inchiesta giudiziaria sulla mancata scorta di polizia, metteva sotto schiaffo i vertici della polizia di prevenzione (ex ucigos) e della questura bolognese. Il discredito e lo smacco regnavano nelle stanze del Viminale già tramortito dalle vicende genovesi del G8.
[1] In realtà la maglietta era blu, come è facile constatare dalle stesse immagini televisive e fotografiche mostrate dopo la sua cattura. Un dettaglio tanto insignificante quanto premonitore, infatti le confusioni cromatiche avranno un peso decisivo nel proseguio della vicenda.
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