«Un contadino nella metropoli», esce una nuova edizione del libro di memorie di Prospero Gallinari

Anticipazione – Pubblichiamo la nuova introduzione al libro di memorie scritto da Prospero Gallinari, pubblicato dalle edizioni PGreco. Alla fine del volume sono presenti anche due documenti politici di bilancio storico scritti negli anni 90 che portano la sua firma insieme a quella di altri ex appartennenti alle Brigate rosse con cui Gallinari aveva condiviso impegno e discussione politica dentro le Br e poi negli anni che hanno seguito la chiusura di quella esperienza


Dieci anni fa, il 14 gennaio 2013, Prospero Gallinari moriva a Reggio Emilia. Colpito dall’ultimo e definitivo malore cardiaco, venne trovato nei pressi della sua abitazione, riverso al volante dell’automobile. Era agli arresti domiciliari per motivi di salute. Come ogni giorno, si apprestava a recarsi nella ditta dove aveva il permesso di lavorare svolgendo mansioni di operaio.
Ai suoi funerali presenziarono molte persone. Vecchi militanti delle Brigate Rosse, anziani esponenti del movimento rivoluzionario italiano, tanti emiliani che lo avevano conosciuto da giovane, e tanti giovani che avevano imparato a rispettarlo ascoltando le sue interviste, e leggendo il suo libro di ricordi intitolato Un contadino nella metropoli.
Sembrò e fu veramente un funerale di altri tempi. Una testimonianza di unione, e una occasione per legare insieme passato, presente e futuro, nel ricordo di un uomo la cui integrità era assolutamente incontestabile. La circostanza disturbò parecchio. Piovvero dichiarazioni di condanna e fioccarono persino denunce. Come si era potuto pensare di seppellire quel morto in quel modo? Ci sono cose, nel nostro paese, che non si devono fare. Scoperchiare l’infernale pentola della storia, come la chiamava Marx, può essere pericoloso.
Infatti la storia è un campo di battaglia. E lo è nel duplice senso di mostrarsi come terreno di lotta fra le classi tanto nel suo svolgimento, quanto nella sua ricostruzione postuma. Questo assunto, o se si vuole questa cruda verità, emerge nel modo più chiaro quando si parla degli anni Settanta italiani. A distanza di parecchi decenni, risulta evidente l’importanza politica e la vastità sociale del conflitto che vi si produsse fra il proletariato e la borghesia. Ma non per caso, dopo tutto questo tempo, le polemiche infuriano ancora senza esclusione di colpi, inscenando sempre lo stesso copione: il rifiuto, da parte della classe dominante, di ammettere che il proprio potere venne messo in discussione da una nuova generazione di comunisti, radicata nella società e intenzionata a dare senso concreto alla parola rivoluzione.
È senz’altro una coazione a ripetere. Una ossessione che talora (come nel caso della cosiddetta dietrologia) raggiunge i limiti del grottesco. Ma non dobbiamo stupirci. Corrisponde a un bisogno profondo della borghesia, concepire se stessa come classe universale e come ultima parola della storia. La miseria, le guerre e i fascismi che il suo sistema sociale ha prodotto e produce, non contano. La borghesia espone orgogliosa le sue costituzioni, indifferente alle palesi contraddizioni fra le parole e i fatti. Naturalmente, il gioco salta quando gli oppressi prendono coscienza della loro effettiva condizione, mettendo in discussione in modo razionale e organizzato il capitalismo. È successo molte volte e succederà ancora. Per questo è utile leggere Un contadino nella metropoli. Perché è la storia di un uomo che ha vissuto fino in fondo dentro la sua classe. Perché è un capitolo di storia di una classe che, sapendo annodare i propri fili, ha lanciato e sostenuto sfide temerarie, disposta a ricominciare sempre daccapo.

Qui ha senso dire qualcosa su Prospero Gallinari. Con lui, la natura era stata generosa. Gli aveva dato coraggio, pazienza, saggezza e volontà. In cambio, dopo i trent’anni, si era presa un po’ di salute. Ma gli infarti e le ischemie non avevano piegato l’emiliano della bassa. Conservava senza sforzo il suo istintivo buonumore. E la coerenza, in lui, mostrava qualcosa di semplice e concluso. Non era testarda ostinazione. Non era arrogante protervia. In Prospero Gallinari, la costanza dei modi e delle idee traeva il suo senso da una scelta fatta per sempre. Senza rimpianti. Senza leggerezze. Con il respiro lungo del contadino. E con la responsabilità asciutta del comunista.
Sono caratteristiche esemplari. Oggi è lecito sottolinearlo, davanti all’arco di una vita che si presenta incastonata nel largo mattonato della lotta di classe. Gallinari era nato in una famiglia povera e aveva iniziato molto presto a lavorare. Era stato educato alla fatica e alla soddisfazione del pane guadagnato con le proprie mani. Ma in questa casa, e nella sua Reggio degli anni Cinquanta, aveva anche appreso un orgoglio superiore. Quello del proletariato cosciente. Quello di una classe potenzialmente dirigente che, nel sistema togliattiano dell’Emilia Rossa, vedeva i primi frutti della battaglia anti-fascista, forgiando l’edificio della via italiana al socialismo.
Toccò in sorte a Gallinari, e a molti altri come lui, di dover ridiscutere tutto. Ci furono strappi, fratture, accuse e delusioni. Il Partito Comunista Italiano appariva attardato e titubante davanti alla rottura del 1968. Un intero mondo batteva alle porte del neocapitalismo europeo, chiedendo assai più dell’equità, chiedendo semplicemente la rivoluzione.
Fu davvero un taglio netto. Ed esso restò, insieme al bagaglio precedente, un patrimonio personale di Prospero, evidentissimo nel suo modo di essere. Si può detestare il burocrate senza predicare l’indisciplina. Si può contrastare l’ipocrisia senza cedere all’individualismo. La scuola del comunismo emiliano, con i suoi termometri ampi, non fu mai rinnegata da Gallo, che rifuggiva spontaneamente dai settarismi e dalle manie estremistiche della piccola borghesia. Ma la necessità delle rotture, del saper camminare anche in pochi, di andare controcorrente, rimase sempre vigile in lui, nutrendo una idea di avanguardia che aveva il gusto del destino accettato e compreso.
Non a caso, Prospero Gallinari portò tutta la sua determinazione nelle Brigate Rosse. In questa organizzazione riversò l’insieme delle sue convinzioni: il senso del partito, la mentalità guerrigliera, l’etica di una generazione che pensava in modo internazionale e non aveva paura di tagliare i ponti dietro sé. Le Brigate Rosse erano senz’altro, per lui, il duro strumento di una battaglia radicale. Ma costituivano anche una comunità di uomini e donne uniti da una scelta di vita, dove mettersi alla prova ogni giorno di nuovo. Cambiare la targa di una automobile rubata, partecipare al sequestro di Aldo Moro, stilare un documento politico, o pulire la cella di un carcere speciale, erano compiti che assolveva con la stessa anti-retorica, e spesso ironica, dedizione. Era in grado di imparare, e di ammetterlo senza alcuna difficoltà, dal compagno più inesperto di lui. Era in grado di aiutarlo con brusca delicatezza, indovinando il lato umano del problema.
Non stiamo esagerando. A Gallinari le esagerazioni non piacevano. Stiamo solo parlando dell’uomo, del militante, del brigatista. Alle Brigate Rosse egli diede interamente se stesso, con la naturalezza dei doveri elementari. Ne seguì per intero la parabola. Ricusò ogni compromesso. Scansò ogni facile presa di distanza.
Perché a lui, come a tanti altri rivoluzionari prima di lui, venne incontro la sconfitta. E proprio nella sconfitta Prospero ebbe virtù particolari, un atteggiamento che merita di essere ricordato. Non coltivò sdegnosi personalismi. Non si negò alla discussione con chi ignorava il particolare contesto degli anni Settanta. Il suo cruccio era la trasmissione autentica di un patrimonio di esperienze alle nuove generazioni. Per questo, alieno come risultava da ogni vittimismo, sollecitò fra i movimenti una battaglia a favore della liberazione dei prigionieri politici. E per questo, lontano come era da ogni protagonismo, spiegò ovunque gli fu possibile il senso di una vicenda che veniva calunniata a colpi di dietrologie, di deformazioni interessate, di chiassosi o più sottili schematismi.
Sì, Prospero Gallinari era un comunista che, volendo usare parole grosse, sapeva rispettare la superiorità immanente della storia. Ma sapeva anche che questo orizzonte non comporta un lieto fine assicurato, e tutta la sua vita si è spesa al servizio di una scommessa da impegnare ogni volta di nuovo, negli esperimenti sempre diversi dell’azione collettiva.

Parliamo infine del libro. Il lettore di Un contadino nella metropoli ha davanti a sé una successione ragionata di ricordi. Sono ricordi essenzialmente politici. Eppure non manca l’at- tenzione alle cose della vita, ai tanti significati dell’esistenza quotidiana. Non si tratta del semplice rimpianto del militante o del prigioniero per la privazione degli affetti privati, e dei colori e dei suoni del mondo. Si tratta del rapporto con la terra e con l’aria, della relazione con il susseguirsi delle stagioni, della misura ereditata dalla manualità collettiva del lavoro contadino. In Gallinari tutto questo era radicato nell’animo, e non si era affatto smarrito nel suo viaggio dentro la metropoli. Ne derivava una speciale schiettezza. Una schiettezza niente affatto ingenua che il lettore del libro incontrerà fra le pagine, dove l’uomo, il militante e il dirigente politico riescono a parlare senza orpelli e narcisismi, con una lingua netta e sincera, che rende il ricordo prezioso, consegnandolo alla storia.
Si parla infatti molto spesso, e anche con ragione, dei limiti e dei pericoli della memorialistica. Per le Brigate Rosse ce n’è stata tanta, forse troppa, anche perché l’interdetto scagliato dalla classe dominante sul dibattito storico-politico ha consegnato al racconto, al referto individuale, alla narrazione più o meno veritiera delle esperienze vissute, una funzione di supplenza non sempre positiva. Solo ora alcuni storici cominciano a mettersi in moto con le dosi minime di competenza. E in ogni caso si avverte la mancanza di uno sguardo generale, di uno sguardo complessivo capace di collocare la vicenda della lotta armata dentro l’ampio spazio delle lotte di classe italiane e europee degli anni Settanta, nonché dentro la vicenda più generale del comunismo storico, di cui le Brigate Rosse fanno parte a pieno titolo.
Ecco, forse questo è il contributo più importante che Un contadino nella metropoli fornisce sia al lettore curioso, sia a quello militante, sia infine allo studioso al lavoro sul materiale della storia. Le Brigate Rosse sono state una organizzazione rivoluzionaria e comunista. Sono nate nella classe operaia, con l’esplicito obiettivo di trovare una strada per la conquista del potere politico nelle nuove condizioni create dal capitalismo e dalla situazione mondiale del secondo dopoguerra. Hanno incontrato e provato a risolvere i problemi classici del marxismo rivoluzionario. Hanno dovuto inventare, ma lo hanno fatto dentro un solco più lungo e più ampio della loro esperienza. Hanno scritto e teorizzato, ma il loro pensiero si riallacciava a un dibattito internazionale che andava ben oltre i confini italiani, puntando a riattivare i temi del leninismo nel paese del Biennio rosso, della Resistenza antifascista, del Sessantotto studentesco e del Sessantanove operaio.
Non era un compito facile, e il libro di Prospero Gallinari offre molti spunti per comprendere sia i meriti sia i limiti delle Brigate Rosse. In ogni caso, il suo autore non cerca sconti. Non gioca a fare il duro. Nemmeno scarica colpe sull’epoca, sulle ideologie, sulla tenaglia del Novecento irretito dai doveri totalizzanti. Semplicemente, Gallinari restituisce l’orgoglio della forza e dell’unità, il dispiacere per le divisioni e le scissioni, le domande che una storia collettiva ha posto a se stessa, lasciandole in eredità alle generazioni successive.
Dopodiché non è lecito illudersi. Sentiremo ancora dire che Prospero è stato solamente un assassino, e non avremo risposte facili, perché certamente egli ha usato la violenza contro chi considerava nemico della sua gente. Leggeremo fino alla nausea che ha incarnato il prototipo del militante fanatico, e non potremo svicolare, perché senza dubbio egli aveva rinunciato alla comoda perfezione degli animi imparziali.
La verità è che in questo mondo fatto di oppressione e di dolore, Prospero Gallinari aveva preso in parola il comunismo fin da ragazzo, e ha lasciato almeno il morso dei suoi denti sulla mano che ci percuote da millenni. È un vanto del proletariato saper produrre individui simili, perché è su questi indispensabili, come li chiamava Brecht, che riposa la possibilità di oltrepassare un giorno i confini della società borghese.

Gennaio 2023

Le compagne e i compagni di Prospero

Se dietro le Br c’erano i servizi, perché Moretti sta ancora in galera?

Frank Cimini, Il Riformista 6 aprile 2021

Mario Moretti fu arrestato il 4 aprile del 1981. Quindi sono 40 anni precisi precisi che dorme in galera da molto tempo semilibero ma comunque detenuto notturno. L’anniversario di quelle manette è l’ennesima occasione che il festival della dietrologia non si lascia scappare. Basta sentire le parole che Gennaro Acquaviva all’epoca del sequestro Moro capo della segreteria di Bettino Craxi ha consegnato in questi giorni a Walter Veltroni che sul Corriere della Sera ci prova sempre a rievocare “i misteri”.
«Non so chi, non so come, ma sono certo che le Brigate Rosse sono state manovrate presentemente dal Kgb. L’infiltrazione sovietica nell’area della protesta violenta era evidente. Nel gruppo romano non lo so non credo, ma nelle Br in genere penso di sì. Bisognerebbe chiedere a Moretti».
Eccoci, un esponente del partito della trattativa insieme a un erede del partito della fermezza per ribadire quello di cui negli atti processuali non si trova traccia. Ma a Mario Moretti tutti o quasi continuano a chiedere la verità quella che lui ha sempre detto a cominciare con il libro intervista a Rossana Rossanda e Carla Mosca che gli chiedevano in che modo lui reagisse al sospetto di ambiguità e trasversalità.
«Ah, con molta serenità e molta tranquillità nel senso che io mi rendo conto che attraverso questa accusa si vuole colpire l’idea dell’autenticità delle Brigate Rosse. La tesi che siano state manovrate dall’esterno è una tesi cara a chi non può sopportare l’idea che in questo paese si siano svolti dei fatti, delle iniziative, si siano giocati dei progetti politici esterni ai giochi di palazzo. Queste illazioni non meritano alcuna considerazione» è la posizione di Moretti che finora nessuno è stato in grado di scalfire concretamente.
Anche se la dietrologia non vuole demordere. Ci sono carriere politiche e giornalistiche costruite sui falsi misteri del caso Moro. Sempre in questi giorni il figlio del capo della scorta di Moro, Domenico Ricci, intervistato da Adnkronos è tornato a intimare a Moretti di “dire la verità”.
Non resta che stare ai fatti. Nel caso Moretti avesse intrallazzato con servizi segreti e potenze straniere non dormirebbe ancora dopo 40 anni in una cella del carcere di Opera.
Il paese anche dopo così tanto tempo rifiuta di fare i conti con quello che fu un fenomeno squisitamente politico perché evidentemente ha paura della propria storia. Al punto da non voler prendere atto che Moretti condannato a sei ergastoli ha pagato per le sue responsabilità e dovrebbe dopo quarant’anni essere scarcerato. Avrebbe pieno diritto alla liberazione condizionata che lui non chiede perché non vuole evidentemente relazionarsi con chi in pratica con la dietrologia gli nega identità politica. Sentirsi rivolgere sempre lo stesso sospetto per uno che sta dentro dal 1981 è se possibile peggio dei sei ergastoli che gli hanno dato i giudici.
In libreria da pochi giorni c’è un saggio “Brigate Rosse: un diario politico” curato dalla ricercatrice Silvia De Bernardinis. Un rendiconto critico e autocritico della storia delle Br a opera di alcuni dirigenti e militanti. Ribadisce il saggio, che dietro le Br c’erano solo le Br.

Dénis Berger e quella Francia dal basso che ha dato riparo ai rifugiati italiani

Qualche tempo fa, credo fosse l’ottobre del 2011, alla fine di una conferenza sugli anni 70 che avevo seguito per conto del giornale dove lavoravo, mentre gran parte dei partecipanti e degli spettatori abbandonavano la sala o si attardavano in capannelli proseguendo animatamente la discussione, un piccato Giovanni Fasanella molto irritato per essere stato definito dietrologo «da quelli come Persichetti e Clementi», additandomi disse pubblicamente che avrei dovuto fornire spiegazioni su chi avesse protetto e finanziato la mia fuga e il mio esilio in Francia. Fasanella alludeva ad un qualche ruolo giocato da fantomatici servizi segreti o entità non meglio precisate. Insinuazioni che in questi anni non sono rimaste confinate alla lucrosa attività di un professionista della calunnia, ma hanno avuto anche un carattere performativo. Le elucubrazioni sulla «centrale francese santuario della lotta armata in Italia», raccolte da Fasanella nel libro scritto con Franceschini, Che cosa sono le Br, Bur Rizzoli 2004, sembravano il calco delle piste investigative avviate da un solerte quanto incapace procuratore della repubblica bolognese, Paolo Giovagnoli. Una decina di anni fa questo magistrato ha condotto diverse inchieste sugli esuli, inviando numerose rogatorie che hanno dato luogo ad alcuni arresti, finiti poi nel nulla, e nell’agosto 2002 alla mia “consegna straordinaria”, sotto il tunnel del Monte bianco. Attraverso un artefatto investigativo, gli inquirenti riuscirono nel corso di una testimonianza a far coincidere il colore della zainetto blu marine, che avevo con me al momento dell’arrivo forzato in Italia, con un altro color camoscio indicato da una teste che aveva intravisto un individuo sospetto sotto l’abitazione di un consulente del governo ucciso nel marzo del 2002. Ne scaturì il mio coinvolgimento nell’inchiesta fino all’archiviazione due anni e mezzo più tardi. Le calunnie di Fasanella poggiavano su un classico dispositivo mentale di tipo proiettivo che permette di attribuire agli altri quelle che sono le proprie aspirazioni, anche più inconfessabili: ciò che si avrebbe in gran desiderio di fare o accettare. E siccome l’autonomia e l’indipendenza non sono le caratteristiche peculiari di chi anima queste proiezioni, per costoro diventa più che legittimo ritenere che tutti ne siano privi sol perché essi ne sono sprovvisti. E bene, la storia di Denis Berger, «marxista eterodosso, comunista dissidente, universitario non accademico che aveva fatto parte di quel piccolo gruppo di militanti anticolonialisti che durante la guerra d’Algeria hanno salvato l’onore internazionalista della sinistra francese appoggiando attivamente la lotta del popolo algerino», è la migliore risposta a gente del genere.

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Denis Berger è morto il 6 maggio scorso. Ci ha lasciato dopo una lunga malattia. «Un carattere caloroso, dotato di un’ironia devastante, allergico ad ogni dogmatismo», così lo ha ricordato Michael Löwy, autore dell’articolo che segue, scritto per il Dizionario del Movimento operaio francese (le «Maitron»). Denis era un intellettuale concreto che sapeva agire mettendo a rischio la propria persona. L’ho conosciuto nel 1992. Ero riparato in Francia da un anno. Ci siamo incontrati per la prima volta nel dipartimento di scienze politiche dell’università di Paris 8, saint Denis-Vincennes, dove insegnava. Stavo tentando tra mille difficoltà di iscrivermi e riprendere gli studi. Non avevo documenti, il lavoro era scarso, i soldi pochi e il francese ancora stentato. Ero arrivato a lui tramite un altro professore, René Loureau. Non ci mise molto a capire che davanti non aveva uno dei soliti studenti. Denis è stato uno dei miei primi professori francesi. Era amato dagli allievi per i suoi corsi coinvolgenti. Non esitava a responsabilizzarti affidandoti relazioni e seminari. Veniva da una storia che era stata il crogiolo degli ultimi grandi pensatori francesi (da Henri Lefebvre a François Châtelet, passando per Felix Guattari, Claude Leffort ecc). Ma Denis non era solo questo. Nei miei anni d’esilio è stato un punto di riferimento, una figura rassicurante, protettiva, come un padre. Seguiva con premura i nostri percorsi, il mio e di altri ex militanti arrivati da altri Paesi, anch’essi rifugiati. Ci accompagnava, ci consigliava. Quando, nel novembre 1993, venni arrestato nei locali della prefettura di place d’Italie, dove ero stato convocato per ritirare il permesso di soggiorno, non esitò a coinvolgere i livelli istituzionali dell’università. Era il periodo delle elezioni d’ateneo e i compagni di facoltà s’inventarono una lista tutta per me. Riuscirono a farmi eleggere come rappresentante degli studenti nel consiglio di facoltà, accanto ai sindacatini. Un segno di solidarietà forte, di radicamento nella società francese che metteva in difficoltà la strategia del governo di destra del primo ministro Balladur, i giudici della Chambre e gli argomenti delle autorità italiane che avevano inviato la richiesta di estradizione. Denis era capace di gesti sorprendenti, come nel giorno in cui la corte pronunciò il suo parere favorevole all’estradizione. Il vecchio professore dalla chioma bianca memore del suo passato sorprese tutti saltando oltre le barriere per raggiungermi e abbracciarmi davanti a dei gendarmi rimasti imbambolati. Quel suo saper osare, e scegliere il momento giusto, lo capii solo più tardi, quando conobbi meglio la sua lunga storia politica, gli anni del réseau Spitzer, quello dei “porteurs de valises”. Come ricorda Michael Löwy, Denis Berger ha fatto parte di quella piccola truppa di militanti della sinistra francese che capirono l’importanza strategica della questione coloniale, di quanto fosse centrale schierarsi e agire per l’indipendenza dell’Algeria. Tra le imprese tentate allora – ci racconta sempre Löwy – il progetto di fuga dal carcere di Fresnes del 7 gennaio 1961. Con l’aiuto di Gerard Spitzer, anch’egli imprigionato, Denis organizzò la fuga di Mohamed Boudiaf e altri due suoi compagni di lotta, Doum e Bensalem. Alla fine però soltanto quest’ultimo riuscì a prendere il largo. Andò meglio nel febbraio 1961. Questa volta venne messa in piedi l’evasione di sei donne del  réseau Jeanson – due algerine e quattro francesi – dalla prigione della  Roquette (oggi smantellata e trasformata in un giardino pubblico). Le sei furono poi condotte clandestinamente in Belgio. Nel maggio 1962, invece, ci fu la preparazione del colpo grosso. Durante i negoziati d’Evian, gli algerini chiesero a Denis un aiuto per portare a termine l’evasione dei loro principali dirigenti, Ben Bella, Ait Ahmed e Mohamed Khidder, rinchiusi nel castello di Turquant vicino Saumur. Denis e i suoi compagni scovarono una galleria sotterranea che portava alle cantine della fortezza, ma una telefonata inopportuna di Ben Bella à Rabah Bitat (rinchiuso a Fresnes) mise la polizia sull’avviso e fece saltare l’intera operazione. Il resto della sua storia lo potete leggere nell’articolo quei sotto (in francese). Ecco chi era Denis Berger. Ecco il genere di persone che hanno aiutato i rifugiati italiani degli anni 70 riparati in Francia. Denis Berger ha fatto parte degli anni migliori della mia vita, quelli in cui mi sono formato definitivamente e sono maturato culturalmente. Anni dove le parole amicizia e solidarietà hanno trovato il loro significato più forte e pieno. A questa bella realtà sono stato strappato un giorno. Forte è il rammarico di non averlo riabbracciato per tempo, insieme agli altri scomparsi nel frattempo, Daniel Bensaïd, Jean-Marie Vincent, Roberto Silvi…. . Ciao Denis!

La biographie de Denis Berger

Par Michael Löwy 7 mai 2013

DENIS BERGER 1932 – 2013

Dénis BergerDenis BERGER, Paris (7ème arrondissement), 11 juin 1932. Dirigeant communiste oppositionnel, fondateur du journal La voie communiste, actif dans les réseau de soutien au FLN pendant la guerre d’Algérie. Enseignant au département de sciences politiques de l’Université de Paris 8 à partir de 1982. Denis Berger a exercé une influence souterraine importante sur l’extrême-gauche française des années 50 et 60, en particulier à travers le journal La voie communiste, dont il fut le principal animateur. Malgré la grande diversité de ses engagements politiques et organisationnels successifs et souvent éphémères, l’adhésion à un communisme de gauche, antistalinien, anticolonialiste et anti-impérialiste, donne le fil rouge de sa vie militante. Son activité militante commence en mars 1950, quant il adhère à la cellule étudiante du Parti Communiste Internationaliste (PCI), Section Française de la Quatrième Internationale. Sa première action importante sera la participation à la brigade de travail “14 Juillet” -organisée par le PCI en solidarité avec la Yougoslavie – qui va contribuer à construire une Cité Universitaire à Zagreb (été 1950). De retour à la cellule étudiante du PCI, il participe aux ventes du journal trotskyste “La Vérité” aux portes de la Sorbonne, et se trouve dans l’obligation de se défendre contre des attaques musclées de militants du PCF. Lors d’un meeting le 9 février 1953, il va se confronter personnellement, à coups de gourdins, avec Le Pen et ses hommes, qui interviennent aux cris de “Vive la réaction !”. Lors de la scission du PCI, il se solidarise avec le courant de Pablo et Frank, et accepte de mettre en pratique l’orientation “entriste” adoptée par la majorité du Secrétariat International de la Q.I. (mais seulement la minorité du PCI). Il adhère donc en 1953 au PCF, où il devient membre – et bientôt secrétaire – de la cellule “Saint Just”, composée d’étudiants d’histoire, où il côtoyé Alain Besançon, Claude Mazauric et Paul Boccara. Il reconnaît, devant ses camarades du PCF, avoir été un “trotsko-titiste”, et se trouve, pour cette raison, écarté du comité de section. Parallèlement, il devient un des responsables du “travail entriste” du PCI, et bientôt membre de son Comité Central et de son Bureau Politique (1955). Devenu instituteur à Saint Ouen en 1954, D.Berger passe à militer dans des cellules de banlieue du PCF. En 1956, suite au XXème congrès du PCUS et aux “événements” d’Hongrie, des courants dissidents apparaissent au sein du PCF. Felix Guattari, psychiatre ex-trotskyste, propose à des étudiants de la cellule de philo du Parti avec lesquels il est en contact -Lucien Sebag, Anne Giannini, et d’autres – la fondation d’un bulletin d’opposition interne : “Tribune de Discussion”. D.Berger rejoint ce groupe, qui va bientôt adhérer au PCI, et publier des prises de position radicales contre l’invasion soviétique en Hongrie. La “Tribune” entre peu après en contact avec un autre groupe de militants oppositionnels du PCF – Victor Leduc, Jean Pierre Vernant, Yves Cachin, Gerard Spitzer – qui a des opinions plus ambivalentes sur les événements hongrois, et qui avait crée son propre bulletin : “l’Etincelle”. Certains intellectuels oppositionnels – comme Henri Lefebvre et François Châtelet – collaborent aux deux bulletins, qui finiront après quelques discussions, par fusionner au printemps 1957, en produisant une publication conjointe sous le titre “Etincelle -Tribune de Discussion”. La dénonciation de Denis Berger et de ses amis comme trotskystes par l’ex-militante du PCI (devenue pro-soviétique) Michelle Mestre provoque le départ de Victor Leduc et de ses amis de “l’Etincelle” à la fin 1957. Quelques mois plus tard Gerard Spitzer, qui avait rejoint le bulletin “La Tribune de Discussion”, convainc le groupe à s’engager à fond dans la combat contre la guerre coloniale en Algérie. C’est à ce moment, début 1958, que Denis Berger décide, avec ses camarades, de lancer un journal, La Voie Communiste, qui se présente toujours comme une opposition interne du PCF, mais s’adresse en fait à un public plus large. Soutenu financièrement pendant une (très) courte période par J.P.Sartre, la publication aura comme principale ressource la clinique de Laborde, à Cour-Cheverny, où exerce Felix Guattari. Pendant ce temps, un débat s’ouvre au sein du PCI : tandis que D.Berger propose que le parti rejoigne un regroupement large avec des oppositionnels du PCF, limitant l’activité trotskyste à une revue théorique, Pierre Frank et la majorité – soutenus par les dirigeants internationaux, Michel Pablo et Ernest Mandel – insistent sur la construction du PCI comme noyau du parti révolutionnaire. La confrontation aboutit à la rupture et au départ fin 1958 de D.Berger et ses camarades – Lucien Sebag, Anne Giannini, Gabriel Cohen-Bendit, Felix Guattari. La Voie Communiste, qui s’est renforcé avec l’adhésion de Simon Blumenthal, Roger Rey et d’autres, décide de soutenir le FLN, et prend contact avec la Fédération de France du mouvement indépendantiste algérien. Arrêté le 5 décembre 1958 avec un groupe de militants français et algériens – dont Moussa Khebaïli, chef de la willaya Paris-périphérie – D.Berger passe dix jours dans les caves de la DST, mais – contrairement aux militants maghrébins – n’est pas torturé, et finit par être libéré par absence de preuves. Exclu du PCI fin 1958 et du PCF en 1960 – il avait en fait cessé de militer dans ce parti – D.Berger connaît aussi des difficultés internes dans La Voie Communiste, où il se trouve, pendant quelques temps, marginalisé. Il se consacre essentiellement, avec certains amis de la V.C. comme Roger Rey, à l’aide au FLN, en se spécialisant dans l’évasion de militants anticolonialistes. Ainsi, le 7 janvier 1961, ils préparent, avec l’aide de Gerard Spitzer, lui aussi emprisonné à Fresnes, la fuite de Mohamed Boudiaf et deux de ses compagnons – Doum et Bensalem – mais seulement ce dernier réussira à partir. L’opération la plus réussie a été l’évasion de six femmes du réseau Jeanson – deux algériennes et quatre françaises (dont Micheline Pouteau et Hélène Cuénat) – de la prison de la Roquette en février 1961, et leur sortie clandestine de la France (vers la Belgique). En mai 1962, pendant les négociations d’Evian, les algériens demandent à Denis Berger et Roger Rey d’aider à l’évasion de leurs principaux dirigeants, Ben Bella, Ait Ahmed et Mohamed Khidder, enfermés au château de Turquant près de Saumur. D.Berger et ses amis trouvent une galerie souterraine qui mène aux caves du château, mais un coup de téléphone malencontreux de Ben Bella à Rabah Bitat (emprisonné à Fresnes) met la police aux aguets et fait avorter la tentative. Au moment de l’Independence de l’Algérie D.Berger et ses amis de La Voie Communiste décident de soutenir Mohamed Boudiaf et son Parti de la Révolution Socialiste, plutôt que Ben Bella. Le groupe suit de près les événements en Algérie indépendante, mais s’intéresse aussi aux critiques chinoises à la politique soviétique, qui commencent à s’exprimer à cette époque. Cette question provoque des tensions internes, et en 1965 le groupe éclate, avec le départ de Felix Guattari et plusieurs autres. D.Berger – avec quelques proches – continue à publier un bulletin, bien plus modeste, intitulé “La Voie”. Pendant les années qui suivent, il s’investit surtout dans le Comité Vietnam National et dans le Tribunal Russel contre les crimes de guerre au Vietnam, deux organisations où il exerce des fonctions de secrétaire. Il participe aux séances du Tribunal Russel à Stockholm et Copenhagen, ainsi qu’à une mission d’enquête – composée entre autres par le dirigeant noir américain Stokely Carmichael et Mehmet Ali Aybar du Parti Ouvrier Turc – envoyée par celui-ci au Vietnam en été 1967. En mai 1968 il prend part aux événements sans jouer un rôle particulier. Après l’éphémère tentative de publier la revue Front (avec le soutien du FLN algérien) en 1969-70, D.Berger et ses amis de “La Voie” – dont sa compagne, Michelle Riot-Sarcey – décident, en 1971, d’adhérer au Parti Socialiste Unifié, où ils s’intègrent dans le courant marxiste-révolutionnaire animé par Jean-Marie Vincent et Jacques Kergoat. Lorsque en 1972 la plupart des militants de cette tendance décident d’adhérer à la Ligue Communiste Révolutionnaire, Denis Berger quitte lui-aussi le PSU, mais n’adhère à l’organisation trotskyste que trois ans plus tard (1975). Devenu chargé de cours à temps plein au département d’Economie Politique de l’Université de Paris 8 (Vincennes) en 1972, il milite à la cellule de la LCR dans cette université, en compagnie de Jean-Marie Vincent et d’Henri Weber. Il participe au comité de rédaction de la revue de la Ligue, Critique Communiste et contribue à la formation – avec Michel Lequenne – en 1977, d’un courant oppositionnel dans la LCR, la T-3 (Tendance Trois). Ses principaux désaccords avec la ligne de l’organisation concernent la stratégie de construction du parti, et la conception trotskyste classique sur la nature de l’URSS. Lorsque D.Berger, Michel Lequenne, J.M.Vincent et d’autres rédacteurs de Critique Communiste condamnent l’invasion soviétique en Afghanistan, ils se verront infliger un “blâme” par la direction de la Ligue. Lors du départ de plusieurs militants de la T-3 en 1985, il quitte de façon discrète la LCR, mais contrairement à la plupart de ces camarades, ne rejoint pas le parti Vert. A partir de cette date, D.Berger n’appartient plus à aucun organisation politique, mais continue à avoir des activités politiques et syndicales (il est militant du SGEN depuis 1972). Devenu assistant au département de Sciences Politiques de l’Université de Paris 8 en 1982, il passe son doctorat en 1988 avec une thèse intitulée “Les partis politiques : essai méthodologique. Le cas du PCF”, sous la direction de J.M.Vincent et est élu maître de conférences en 1989. Si dans le passé ses écrits prenaient surtout la forme d’articles de revues et journaux, il publie à partir de cette date deux ouvrages qui auront un certain retentissement dans l’opinion de gauche : Le spectre défait. Le fin du communisme ?, (1990) et, avec Henri Maler, Une certaine idée du communisme. Répliques à François Furet (1996). Il participe aussi à plusieurs ouvrages collectifs et est un des fondateurs (1990) de la revue Futur Antérieur . Récemment, renouant avec son passé de communiste oppositionnel, il participe à la rédaction du journal du courant communiste refondateur du PCF, Futurs. OEUVRES : Le spectre défait. Le fin du communisme ?, Paris, Editions Bernard Coutaz, 1990 ; avec Henri Maler, Une certaine idée du communisme. Répliques à François Furet , Paris, Editions du Felin, 1996. Participation aux ouvrages collectifs Permanence de la Révolution (Editions la Brèche, 1989), Femmes, Pouvoirs (Kimé, 1993), Démocratie et Représentation (Kimé, 1995), Marx après le marxisme (L’Harmattan, 1997) et Faire Mouvement (PUF, 1998). SOURCES : Hervé Hamon, Patrick Rotman, Les porteurs de valises. La résistance française à la guerre d’Algérie, Paris, Albin Michel, 1979 ; Ali Haroun La Septième Willaya, Paris, Seuil, 1986. Entretien avec D.Berger, novembre 1998.

I comunisti critici oscurati dal Pci

Scheda – L’età del comunismo sovietico: 1900-1945, vol. 1° di L’Altronovecento. Comunismo eretico e pensiero critico, a cura di Pier Paolo Poggio, Jaca Book aprile 2010

«Veniamo da lontano», diceva un famoso slogan del Pci negli anni 70. L’iconografia ufficiale costruita nel dopo guerra si esauriva lungo un asse lineare e senza scossoni gridato nei cortei: “Gramsci, Togliatti, Longo e Berlinguer”. Del povero Natta, tornato «a fare il francescano», nemmeno il ricordo. Su Occhetto, che sciolse il partito, è caduto l’anatema.
Il Pci ha sempre oscurato una parte della sua storia. Rientrato in Italia, Angelo Tasca, estromesso dal partito nel 1929, che insieme a Gramsci, Togliatti e Terracini aveva fondato l’Ordine nuovo, provò a contestare questa «storiografia aulica». Numerosi gli eretici espulsi, a cominciare dal primo segretario, quell’Amedeo Bordiga che osò apostrofare Stalin in persona. Oltre a Bordiga e Tasca, in L’età del comunismo sovietico: 1900-1945, primo dei cinque volumi dell’opera, L’Altronovecento. Comunismo eretico e pensiero critico, edito dalla Jaca Book, si raccontano le vicende dei comunisti Ante Ciliga e Bruno Rizzi, del socialista Andrea Caffi e dell’anarchico Camillo Berneri.

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Il futuro dei comunismi eretici
Muro di Berlino, i guardiani delle macerie
Un futuro anticapitalista è fuori dalla storia del Pci
Il secolo che viene



Tienanmen 1989, socialismo di mercato contro comunismo

L’uomo e il carrarmato

Oreste Scalzone
l’Altro
5 giugno 2009

Un uomo, solo, camicia bianca su calzoni neri, ripreso di spalle. Dritto, fragile e possente, armato di niente, niente di concreto ma molto di più, come transumano si erige contro una colonna di carrarmati. Non sappiamo chi sia, come la pensi e cosa voglia. Rispetto all’essenziale, questo è relativamente un dettaglio – la scena lo trascende. Un esemplare di specie umana, specie di esseri parlanti e perciostesso “pericolosa”. Nel fondo del fondo comune, di specie, potremmo dire paroletari. Un uomo, astratto-eguale e al contempo singolare, unico, è il segno forte di chissà quante migliaia. Uno, tiennamen1centomila, nessuno. Lui può essere tutto, e tutt’altro. Questo, nella nostra percezione indélébile, viene dopo, specificazione ulteriore. Un carrarmato è cosa complicatissima. Si può adattare ad esso la definizione marxiana della merce, plesso di relazioni invisibili eppur materialmente costituenti il suo ontos. Carrarmato ha un fondo eguale ad altro, ogni altro carrarmato, come merce con ogn’altra, in ultima analisi. Implica, traduce, incarna reca in sé – condizione d’esistenza, essere, qualità, natura e funzione – una complessità énorme di relazioni, traduce rapporto sociale, un’intera sistemica. Abbiamo visto che innanzitutto è una merce. Come un flacone di penicillina che può salvare. Cambia il valore d’uso, ma sul piano del Valore, ovverossia valore-di-scambio, questa è la primordiale qualità. In quanto merce, sottende, implica denaro, accumulazione, lavoro, mercato del lavoro (della forza-lavoro), estrazione di plusvalore, profitto. Eppoi, un carrarmato ha altri caratteri essenziali sul piano di altre economie politiche. È mezzo di distruzione, di riproduzione allargata di essa. È dispositivo e funzione dello Stato. Un padrone, uno statista, un colonialista, un monarca, un tiranno, un gerarca, un rappresentante, un “democratòcrate”, sono tutti compatibili con la forma-carrarmato. Un comunista, nel senso etimologico del termine, coniato e/o ripescato all’altezza dei tempi del diluvio rivoluzionario – come diceva Marx – dilagato in Europa attorno al 1848, un comunista, nel senso che questa parola aveva nell’Associazione internazionale dei lavoratori, quella che i suoi becchini avevano poi etichettato come Prima internazionale ; un comunista, nel senso che il termine aveva all’epoca della Comune di Parigi, «la forma finalmente scoperta che mostra come il proletariato non possa che liberarsi da sé » – cioé un comunardo, un comun’autonomo (autonomia e comunanza essendo consustanziali, reciprocamente costitutivi), non potrebbe che essere incompatibile con la forma-carrarmato. La forma-carrarmato è infatti intrinsecamente statale. E comunismo statale è perfetta contraddizione in termini, come comunismo capitalistico, padronale, nazionale, ideologico, governante, governativo, politico, identitario – cioè proprietario –, razzistico, moralista – penale. Comunismo critico è agli antipodi di comunismo cratico. A meno del verificarsi di una situazione per cui un’insurrezione si trovasse ad aver requisito carrarmati per rivolgerli contro le forze armate dell’oppressione, come i cannoni presi dalla Guardia repubblicana all’Armée nei giorni della Comune, i carrarmati, come gli aerei o le portaerei… non possono essere – come non può mai esserlo un Libertador, soggetto individuale o corporazione, casta, gerarchia che pretende autonomizzarti in tuo nome e per tuo conto – un mezzo, una forma, un’arma liberatrice. Se la semantica non fosse stata violentata, se i fatti e le cose, la loro interpretazione, la loro costruzione, non fossero stati distorti da malinteso e concatenamenti di vere e proprie alienazioni, contraffatti, resi mutanti mutageni mostruosi, questo non potrebbe che essere il nòcciolo primordiale, semplice e chiaro. Si discute tanto di mezzi e fini, di violenza, di terrorismo… Non avremo mai abbastanza disprezzo – stavolta sì– per tutti quegli ipocriti o, peggio, sfrontati che mostrano di considerare mostruosa una sassaiola, impensabile ogni rivolta e qualsivoglia spunto di violenza se non come, addirittura, provocazione, frutto di manipolazione, mossa da marionettisti e pupari, ma ritengono più che compatibile comunismo e violenza statale.
Un thank è un thank è un thank… Non può esserci un carrarmato “Compagno”. Se questo accade, se una colonna di carrarmati – contro uno solo o contro una folla di operai scioperanti in tumulto, come a Berlino ’53, come a Budapest ’56, come a Tienanmen nell’’89 – si avanza inalberando la bandiera rossa, lo stesso colore di quella de la Sociale che, accanto a quelle nere degli anarchici – nere come i grembiuli dei tessitori Canuts delle rivolte degli anni ’30 dell’Ottocento alla Croix rousse di Lione – è stata un vessillo degli insorti comunardi, vuol dire che è avvenuta una sorta di catastrofica e mostruosa mutazione di ogni parametro e termine della questione. Che il termine comunismo è stato sottoposto ad una serie di stupri semantici a catena. Se una vertigine identitaria, cioè la peggior forma della patrimonialità, della proprietarietà, fa pensare a tanti rivoltosi, a tanti antagonisti, che il colore e i simboli facciano la differenza e contino più della natura, della natura dei rapporti sociali, inter-umani che fatti e cose rivelano, questo è segno che c’è qualcosa di profondamente insensato e malato sotto tutto questo, che dura da più di un secolo, e che rischia di esser mortale.
Ha scritto su queste colonne Piero Sansonetti che «noi sessantottini avevamo fatto della Cina un’icona, e avevamo visto nel maoismo non un’orrenda variante dello stalinismo e del comunismo di Stato oppressivo, ma al contrario una forma di rinnovamento del cupo socialismo sovietico, un modo per restituire potere al popolo il potere espropriato dalla nomenclatura di partito […] Avevamo visto nel maoismo, e nella Cina, una forma libertaria di comunismo. I carrarmati di Deng hanno sotterrato definitivamente questa speranza».
Vorrei segnalare a Piero, e a chi legge, alcune obiezioni cominciando col dire che il Sessantotto non è certo stato tutto dominato dall’ideologia maoista o da altre varianti consimili di un’idea comunque statalista, post-giacobina e lassalliana più che, certo non solo anarchica, ma anche marxiana. Dovrei ricordare tutta una cartografia dei comunismi “altri”, che non sono piccole élites, ma – per esempio negli anni ‘20 – hanno condotto una durissima guerra su due fronti, due fronti della controrivoluzione, quello statal-padronale diretto, classico, e quello del socialismo reale staliniano, conseguenza estrema di quello che qualcuno ha chiamato il “kautsko-bolscevismo”. Il discorso diverrebbe, qui e ora, lunghissimo. Si può dire piuttosto che i Viet-cong, sì, sono stati un mito sessantottesco largamente condiviso. Ma, chi avrebbe potuto aver una pre-scienza, allora, per capire come sarebbe andata a finire? Non conoscevamo le pagine straordinarie dell’operaio rivoluzionario Ngo Van, Vietnam 1920-45, rivoluzione e contro-rivoluzione sotto la dominazione coloniale. Mi limito dunque a dire che, per tanti come me, il comunismo come non ha una data e luogo di nascita per questo non può avere un certificato di morte. Comunismo non è un’invenzione, o un regime da instaurare. Come istanza, come figura della potenza nel senso spinoziano, cioè dell’etica, esso è sempre vissuto nelle pieghe del reale, venendo a tratti allo scoperto. Vale quello che vale per la facoltà della parola, l’amore, la rivolta. Forse che possono avere una territorializzazione, una forma di Stato, un luogo e certificazione di nascita e dunque di morte? Quello che è morto (e voglio dire: sempre troppo tardi!) è una radicale contraffazione – derivante da malinteso, da omologia – del comunismo come movimento, movimento della critica radicale, teorico/pratica. Nel mio piccolo, vorrei ricordare il poster che nell’89 – dopo la caduta del Muro e prima di Tienanmen – chiedemmo a Mario Schifano di illustrare (e lo fece, con una bellissima faccia di Marx che era confusa con la cartografia di un globo terracqueo). Lo slogan stampigliato sopra era: Marx 1989, finalmente libero! Certo che la previsione era sognante e quella riapertura che ci sembrava di intravedere e speravamo non si è prodotta. Ma come arrivare a dire che la partita sia chiusa? Non è forse idea da “fine della Storia” alla Fukujama? Il comunismo non l’ha inventato nessuno, è una virtualità, che c’è, come la potenza di vita. Non è un articolo di fede, una giaculatoria. Ma, forse, il comunismo potrà riemergere solo quando, e se, il suo “doppio” mostruosamente contraffatto avrà finito di esser dimenticato per sempre.

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Muro di Berlino, i guardiani delle macerie
Un futuro anticapitalista è fuori dalla storia del Pci
Il secolo che viene

Ancora ergastolo per Vincenzo Guagliardo

Il tribunale di sorveglianza di Roma respinge la nuova richiesta di liberazione condizionale. «Una decisione che sembra scritta in altri secoli, da un giudice dell’Inquisizione», afferma l’avvocato Francesco Romeo

Pubblichiamo qui il testo ripristinato nella sua stesura integrale dell’articolo apparso in versione censurata sulle pagine di Liberazione del 15 aprile. Per questa ragione l’autore dell’articolo ha ritirato la firma. I passagi tagliati sono quelli segnalati in grassetto

Liberazione, 15 aprile 2009

I giudici del tribunale di sorveglianza di Roma hanno nuovamente respinto la concessione della liberazione condizionale a Vincenzo Guagliardo, 33 anni di carcere oggi e prima una vita da operaio, anzi da migrante di ritorno. Nato in Tunisia nel 1948 da padre italiano, entra a lavorare in Fiat poco prima che esploda il “biennio rosso” del 1968-69 ma è subito licenziato per il suo attivismo sindacale. Approda quindi alla Magneti Marelli dove sarà uno dei quadri operai di fabbrica protagonisti di una delle più importanti stagioni di lotta. Esponente del nucleo storico delle Brigate rosse partecipa nel gennaio 1979 all’azione contro Guido Rossa, il militante del Pci ucciso perché aveva denunciato un altro operaio dell’Italsider di Cornigliano che distribuiva opuscoli delle Br. Per questo e altri episodi sconta l’ergastolo.
Eppure questa volta, anche se in modo sofferto, il pubblico ministero non si era opposto alla richiesta. Nel settembre scorso, i magistrati pur riconoscendo la positività del «percorso trattamentale» compiuto avevano contestato a Guagliardo «la scelta consapevole di non prendere contatti con i familiari delle vittime reputando il silenzio la forma di mediazione più consona alla tragicità della quale si è macchiato». Decisione che suscitò la viva reazione di Sabina Rossa, figlia del sindacalista ucciso e oggi parlamentare del Pd, che in un libro aveva narrato proprio l’incontro avuto nel 2005 con Guagliardo e sua moglie, Nadia Ponti, anche lei con alcuni ergastoli sulle spalle per la passata militanza nelle Br. La Rossa chiese pubblicamente la loro liberazione. Contrariamente a quanto sostenuto dai magistrati nella loro ordinanza, infatti, i due non si erano per nulla sottratti alla sua richiesta d’incontro, ma non avevano mai ufficializzato l’episodio nel fascicolo del tribunale. Un atteggiamento dettato dal rifiuto di qualsiasi ricompensa e perché il faccia a faccia non apparisse «merce strumentale a interessi individuali, simulazione e perciò ulteriore offesa».
Tuttavia la vicenda era nota. Il libro era stato recensito ovunque e la parlamentare del Pd aveva raccontato l’episodio in diverse trasmissioni televisive di grande ascolto. Solo il collegio del tribunale ne era rimasto all’oscuro. Circostanza che solleva non pochi interrogativi sulla preparazione di molti magistrati, sul loro essere presenti al mondo che li circonda. Sembra quasi che alcuni di loro interpretino la professione sulla base della dottrina tolemaica delle sfere celesti. Autoinvestitisi centro dell’universo e dello scibile, la realtà pare esistere solo se passa sulle loro scrivanie, la vita che scorre altrove non esiste.
Per evitare ulteriori equivoci, Sabina Rossa si recò di persona dal magistrato di sorveglianza per dare la propria testimonianza. Da alcuni anni i tribunali ritengono la ricerca di contatto tra condannati e parti lese la prova dell’avvenuto ravvedimento richiesto dalla legge. Un’interpretazione giurisprudenziale rimessa in discussione anche da recenti pronunciamenti della cassazione e contestata da molti familiari delle vittime. Mario Calabresi ne ha scritto nel suo libro, Spingendo la notte più in là, «Abbiamo sempre provato fastidio quando ci veniva chiesto di dare o meno il via libera a una scarcerazione o una grazia, perché rifiutiamo questa idea medievale che i parenti di una vittima decidano della sorte di chi è ritenuto colpevole». Per evitare l’uso insincero e «strumentale da parte dei condannati», nonché «una pesante incombenza della quale le vittime non hanno certamente bisogno e che spesso va a riaprire ferite non rimarginate», la stessa Sabina Rossa ha presentato una proposta di legge che adegua al dettato dell’articolo 27 della costituzione i criteri di accesso alla condizionale, abolendo ogni riferimento all’imponderabile verifica della sfera interiore del detenuto contenuta nella richiesta di ravvedimento.
La vicenda di Vincenzo Gagliardo ha assunto così il carattere paradigmatico dello stallo in cui versa il doppio nodo irrisolto della liberazione degli ultratrentennali prigionieri politici e dell’eliminazione dell’ergastolo.
Questa volta i giudici non potendo più richiamare «l’assenza di reale attenzione verso le vittime», obiettata in precedenza, hanno ulteriormente innalzato l’asticella dei criteri di verifica di quella che definiscono «concreta resipiscenza». I «contatti con le persone offese», scrivono, «assumono valenza determinante» solo se «accompagnati dall’esternazione sincera e disinteressata». Per tale ragione «non costituisce di certo elemento di novità l’espressione di massima apertura», mostrato dalla Sabina Rossa, «trattandosi di manifestazione isolata non rappresentativa delle persone offese».
In fondo questa sentenza ha il pregio di parlare chiaro, squarciando il velo d’ipocrisia costruito sul dolore delle vittime. Ai giudici interessa soltanto l’uso politico che se ne può ricavare. Con infinita immodestia si ergono a terapeuti del dolore altrui senza mancare di sprezzare chi si è mosso per ridurre il loro potere arbitrario, come Sabina Rossa. Il tema del perdono, o meglio della mediazione riparatrice o riconciliatrice, attiene alla sfera privata non a quella dello Stato. Al contrario i giudici seguono un asse filosofico del tutto opposto che è quello dello Stato etico: spoliticizzare il pubblico e politicizzare il privato. La sinistra con chi sta?

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La battaglia di Sabina Rossa per l’uomo che sparò al padre (Corriere della sera)

Sabina rossa e gli ex-terroristi siano liberi senza il sì di noi vittime (Corriere della sera
Sabina Rossa, “Cari-brigatisti confrontiamoci alla pari”
Sabinarossa,”Scarcerate l’uomo che ha sparato a mio padre”

La battaglia di Sabina Rossa per l’uomo che sparò al padre

Nuovo no alla scarcerazione dell’ ex br Guagliardo per l’ omicidio dell’ operaio del Pci. La figlia deputato del Pd: è un’ ingiustizia

Giovanni Bianconi
Corriere della sera, 12 aprile 2009

ROMA – Aveva chiesto di poter uscire definitivamente dal carcere, dopo oltre trent’ anni di detenzione, come è stato concesso a quasi tutti gli altri ex terroristi condannati all’ ergastolo per le decine di omicidi commessi durante la stagione «di piombo». Lui, Vincenzo Guagliardo, sparò a Guido Rossa, l’ operaio iscritto al Pci e alla Cgil assassinato dalle Brigate rosse nel gennaio 1979. Il pubblico ministero era d’ accordo: per la legge l’ ex brigatista, già in regime di semilibertà, ha diritto a non rientrare in cella la sera. Ma il tribunale di sorveglianza ha detto no, come nello scorso settembre. E la vittima diretta di Guagliardo – Sabina Rossa, oggi deputato del Partito democratico – commenta: «E’ una vergogna, una vera ingiustizia. Lo dico con tutto il rispetto per i giudici, ma mi sembra che quest’ uomo sia ormai diventato il capro espiatorio del residuato insoluto delle leggi speciali». E’ una storia molto particolare, quella dell’ assassino di Guido Rossa, fra le tante di ex terroristi ergastolani ai quali, secondo una recente giurisprudenza, viene concessa la liberazione per i crimini di trent’ anni fa dopo qualche forma di contatto tra loro e i parenti delle persone uccise, come segno tangibile di contrizione e di «consapevole revisione critica delle pregresse scelte devianti»; anche solo attraverso delle lettere a cui spesso non arrivano nemmeno risposte, ma è quello che i giudici chiedono per misurare il «sicuro ravvedimento» richiesto dal codice per rimettere fuori i condannati a vita. Guagliardo, che da molti lustri ha abbandonato la lotta armata, non ha mai voluto scrivere niente perché riteneva di non avere il diritto di rivolgersi alle vittime per ottenere un beneficio in cambio; considerando, al contrario, il silenzio «la forma di mediazione più consona alla tragicità di cui mi sono macchiato». Ma quando Sabina Rossa, nel 2005, andò a cercarlo per chiedere spiegazioni e ragioni dell’ omicidio di suo padre, lui accettò l’ incontro e ci parlò a lungo, come la donna ha raccontato in un libro. L’ ex br non lo disse però ai giudici, affinché quel faccia a faccia non apparisse «merce strumentale ad interessi individuali, simulazione, e perciò ulteriore offesa» alle persone già colpite. Così arrivò il primo no alla liberazione, dopo il quale Sabina Rossa ha voluto rivolgersi direttamente al presidente del tribunale di sorveglianza per testimoniare «il ravvedimento dell’ uomo che ha sparato a mio padre; metterlo fuori, oggi, sarebbe un gesto di civiltà». Dopo questa uscita pubblica Guagliardo ha riproposto la sua istanza, chiarendo ai giudici di essere disponibile a incontrare qualunque altro familiare di persone uccise: «Solo se lo desiderano, se non è un nostro imporci a loro. Trovo infatti legittimo che una vittima non voglia né perdonare né dialogare con chi le ha procurato un dolore dalle conseguenze irreversibili». Nell’ udienza della scorsa settimana il pubblico ministero s’ è dichiarato favorevole alla liberazione condizionale dell’ ex brigatista, ma i giudici hanno ugualmente rigettato la richiesta. Perché, hanno scritto nell’ ordinanza, chiedere che siano le vittime a sollecitare un eventuale contatto significa dare loro «carichi interiori assolutamente incomprensibili o intollerabili»; e l’ atteggiamento di Sabina Rossa è «una manifestazione isolata e certamente non rappresentativa delle posizioni delle altre e numerose persone offese». La reazione della figlia del sindacalista ammazzato dalle Br – che da deputato ha presentato un disegno di legge per modificare la norma sulla condizionale, in modo da svincolarla dal rapporto tra assassini e persone colpite – è tanto dura quanto inusuale: «Sono indignata come cittadina e come vittima. Ci sono brigatisti con molti più delitti a carico liberi da anni, senza che nessuno gli abbia chiesto nulla. C’ è troppa discrezionalità. Io credo nella giustizia, ma anche nel cambiamento degli uomini. Spero che la mia proposta di legge sia esaminata al più presto». L’ avvocato Francesco Romeo, difensore di Guagliardo insieme alla collega Caterina Calia, parla di «decisione che sembra scritta in altri secoli, da un giudice dell’ Inquisizione» e sta già preparando il ricorso alla Corte di cassazione.

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Ancora ergastolo per Vincenzo Guagliardo
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L’inutile eredità del Pci: consociativismo e compromesso storico

Una eredità che non serve

Paolo Persichetti
Liberazione
18 febbraio 2009 (versione integrale)

Serve ancora il comunismo? O meglio serve ancora l’eredità del Pci al rilancio di una prospettiva anticapitalista e comunista? Nei giorni scorsi (per esattezza il 3 febbraio 2009) sulle pagine di Liberazione si è aperta una discussione del genere. Un dibattito che segnala il profondo arretramento culturale che sta attraversando questa formazione politica. Nella seconda metà degli anni 80 si discusse molto attorno alla nozione di consociativismo, introdotta da alcuni storici per riassumere la condotta politica che aveva contraddistinto e presupposto l’azione del Pci a partire dal dopoguerra. n1421273877_48513_3439

Sulla valenza esplicativa del concetto convergevano buona parte degli studiosi. Divergenze invece esistevano sulla scansione temporale nella quale la pratica consociativa avrebbe trovato spazio. Per alcuni la consociazione aveva caratterizzato la politica italiana fin dall’immediato dopoguerra. I fautori di questa tesi leggevano all’interno di questo paradigma l’originario patto costituzionale e il sostanziale duopolio con il quale Dc e Pci si erano suddivisi l’influenza sull’Italia, in un contesto geopolitico sovradeterminato dalla guerra fredda e dalla suddivisione in blocchi del mondo.
Per altri questa lettura era eccessiva. A loro avviso non tutte le fasi della politica italiana potevano leggersi attraverso questo accordo di fondo. Gli anni 50, in particolare, restano un momento molto conflittuale che non riesce a trovare spiegazione all’interno del paradigma consociativo che invece a partire dagli anni 60 torna gradualmente ad inverarsi, per raggiungere il suo apice nella seconda parte degli anni 70 con il compromesso storico e proseguire anche negli anni del pentapartito.

palcoNon è possibile riassumere in queste poche righe l’intera discussione storiografica. Certo è che sul piano ideologico, il consociativismo può essere letto come una concezione che ha influenzato in modo abbastanza uniforme buona parte della cultura politica del Pci (da Togliatti a Berlinguer), anche quando le fasi storiche non lo rendevano praticabile.

In ogni caso questa discussione vecchia di 20 anni portò a concludere che molta parte della crisi e del declino del Pci risiedeva proprio nei limiti della sua cultura consociativa che l’aveva portato a non comprendere e confliggere prima con il sommovimento sociale degli anni 70, percepito con fastido, come una turbativa ai propri progetti di autonomia del politico, poi a non avere più gli strumenti per fare fronte all’offensiva neoliberale deglli anni 80 e allo sfaldamento dell’era dei blocchi.

Va detto che quella cultura politica non è mai definitivamente tramontata, ma anzi è proseguita e ha trovato un suo inveramento finale nella nascita del Partito democratico, vera essenza della cultura consociativa che aveva tenuto insieme, attraverso un patto tacito di reciproca spartizione del paese, forze di matrice genericamente popolare (ma la Dc non era certo solo questo…), Democrazia cristiana e Partito comunista italiano.

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Università di Roma, 17 marzo 1977. Il movimento caccia Lama e il servizio d’ordine del Pci dal piazzale della Minerva

Una delle caratteristiche che hanno reso singolare la vicenda politica di Rifondazione comunista è stata quella specie di rivoluzione semantica che dalla sua nascita ha visto il predicato in posizione di preminenza sul soggetto. Seppur con alterne vicende, tra frenate e subitanee accelerazioni, Rifondare era un’evidenza indiscutibile di fronte alla quale, dopo la sartre77 Bolognina, anche i più restii convenivano, almeno a parole. Da quel 12 dicembre 1991 sono passati 18 anni, età in cui si diventa maggiorenni. Ma l’ingresso nell’età adulta è arrivato proprio quando la forza politica di Rifondazione è scesa al suo minimo storico. Una crisi che rischia di metterne in discussione la stessa sopravvivenza: l’uscita dal parlamento prima, un congresso devastante poi, quindi l’ennesima lacerante scissione, la crisi di Liberazione, la riforma elettorale con soglia del 4% che rischia di relegare il suo peso politico nel limbo della marginalità e dell’insignificanza, pongono interrogativi enormi. Dov’è approdata allora quella rifondazione che nelle sue premesse conteneva ambiziose intenzioni teoriche, culturali e politiche?
Per anni si sono succeduti congressi che annunciavano grandi svolte che si è visto poi senza respiro strategico e consistenza teorica, come l’ultima – in ordine di tempo – sulla nonviolenza. Spesso viziate da contenziosi interni (e guru occulti), tentativo di liquidare (giustamente ma in modo inappropriato) zavorre ideologiche che hanno sempre messo piombo sulle ali del movimento operaio. Inevaso è rimasto il nodo dello «statalismo», da cui discendono implicazioni teoriche e politiche che hanno minato le esperienze del comunismo lungo tutto il 900. Troppo profondo, troppo difficile affrontare un tasto del genere. Tuttavia, almeno negli enunciati, il predicato continuava a prevalere sul soggetto. Cercare la via della rifondazione del comunismo restava la ragione sociale del Prc. Ora non più. La rifondazione non serve, il comunismo – quello buono – c’è già. Perché rifondarlo se basta ripescarlo nelle soffitte del secolo appena chiuso? Il comunismo altro non è che la storia del Pci. Sì, il Pci, quello di Togliatti, Longo e Berlinguer (del povero Natta non si ricorda più nessuno). Questo si legge nello scambio di articoli pubblicati su queste pagine nell’edizione del 3 febbraio sotto la domanda: il comunismo serve ancora? Quale comunismo? Viene immediatamente da obiettare. E sì, perché nelle risposte di Giuseppe Chiarante, Alberto Burgio e Adalberto Minucci all’intervento di Franco Russo, ciò che più colpisce è la sovrapposizione assiomatica tra comunismo e Pci. In nessun momento Russo dice che bisogna liberarsi del comunismo. Sostiene invece che la critica anticapitalista più innovativa ed efficace che ha preso corpo in Italia dagli anni 60 in poi è nata fuori dal Pci e che questo partito nel migliore dei casi l’ha rincorsa, cercando di contenerla e normalizzarla. Il più delle volte, in realtà, l’ha osteggiata, combattuta come nemica, ritenendola un ostacolo alla propria definitiva consacrazione istituzionale. Insomma è della eredità del Pci che occorre fare a meno.
A questa tesi i suoi tre contraddittori rispondono – seppur con argomenti e stile diversi – che non c’è stato e non può esserci altro comunismo e anticapitalismo all’infuori della storia del Pci. I tre ripropongono un’anacronistica concezione proprietaria del comunismo che nelle parole di Chiarante è animata da nostalgie catto-comuniste; in quelle di Burgio da pulsioni neocarriste e in Minucci da una clamorosa boutade, per cui il Pci sarebbe stato la formazione politica «più vicina alla concezione teorica del comunismo proprio di Marx». Così, come niente fosse, viene omessa la matrice culturale del gruppo dirigente del Pci, l’hegelo-marxismo d’impronta crociana, l’influenza di Gentile, la covata bottaiana che sfornò tanti redenti, il peso dell’azionismo. Se non ci fosse stata la Bolognina, ci viene suggerito, oggi non saremmo ridotti in queste condizioni. Classico schema di ragionamento autoconsolatorio che confonde l’effetto con la causa. Esemplare, in proposito è Burgio quando afferma che la fine dell’Urss e la liquidazione del Pci non hanno fatto fare all’Italia e al mondo intero nessun balzo in avanti. Quasi a voler suggerire che lo sfondamento neoliberale, la vittoria della rivoluzione conservatrice, il trionfo delle destre e del populismo sono stati la diretta conseguenza della loro scomparsa, invece che una prova della loro inadeguatezza. L’Urss e il Pci sono implosi, non hanno retto lo scontro perché minati al proprio interno, al pari (va detto per chiarezza) delle altre culture comuniste, e in senso più ampio neomarxiste, che anch’esse non hanno retto il confronto col salto di paradigma provocato dalla fine della società fordista. Alcune, quella operaista in particolare,  hanno saputo leggere e anticipare meglio di altre quanto stava accadendo e quali sfide nuove si aprivano, ma nessuna componente (parlamentare o extraparlamentare) è riuscita a costruire una risposta politica efficace. A questo punto l’atteggiamento migliore, sul piano storico e politico, sarebbe quello di tirare bilanci critici, rompere recinti, cercare ancora e approfondire la strada di un nuovo anticapitalismo nella sua fase postfordista. Invece riemergono istinti identitari, nostalgie autoincantatorie, per giunta rivolte a percorsi politici che hanno grosse responsabilità nella sconfitta, se non altro in misura del loro peso, come la stagione catto-comunista. Un’ideologia inclusiva, un progetto che prevedeva la massima integrazione della società nello Stato, a differenza del marxismo sorretto dal valore positivo del conflitto tra capitale e lavoro e da una profonda critica verso le forme statuali. Ciò spiega le ragioni del grande successo della cultura catto-comunista nel decennio della crisi economica di fine secolo, gli anni 70, quando essa parve molto utile a fornire quel supporto ideologico necessario a giustificare la nuova cultura delle compatibilità economiche e del moderatismo politico, la famosa «austerità», che la classe operaia – in quanto «classe dirigente nazionale» – doveva assumere su di sé come esempio per il paese e lo stesso padronato. Il catto-comunismo in quegli anni rappresentò anche la cultura politica che un Pci in crisi teorica tentò di opporre alla sociologia americana, veicolata dai gruppi ideologici legati alla modernizzazione capitalista che puntarono politicamente sul craxismo. In risposta, lo storicismo idealista e il cattocomunismo trovarono una fusione comune in una sorta d’eticismo brezneviano. L’etica divenne la barricata ideologica residuale che pervase la stagione politica di Berlinguer, tutta improntata sulla «diversità comunista». Una tesi che disegnava l’alterità morale assoluta dell’uomo di sinistra rispetto al resto della società. Il capitalismo, la corruzione, i disfunzionamenti dell’amministrazione potevano trovare soluzione grazie alla tempra morale di quell’uomo nuovo che era l’amministratore comunista, finché lo scandalo delle tangenti della metropolitana milanese non riportò tutti alla cruda realtà. Ma intanto quell’eticismo favorì un atteggiamento culturale conformista e intollerante che aprì la strada alla supplenza giudiziaria della politica, chiudendo la porta alla possibilità di comprendere le radicali istanze di cambiamento e le culture innovative che i movimenti degli anni 70 sollevavano.
Davvero di questa cultura politica non abbiamo alcun bisogno.

Link
Muro di Berlino, i guardiani delle macerie
Un futuro anticapitalista è fuori dalla storia del Pci
Il secolo che viene

Anni 70, una storia senza preconcetti e manicheismi

Recensione – Il nemico inconfessabile. Sovversione sociale, lotta armata e stato di emergenza in Italia dagli anni Settanta ad oggi, Odradek 1999

Giuliano Boraso

Solo a leggere i nomi dei due autori di questi piccolo libro, saranno in molti a storcere il naso: da una parte Oreste Scalzone, testa calda e pensante del ’68, cofondatore di Potere operaio, poi dirigente dei Co.Co.Ri., arrestato in seguito alla celebre retata del 7 aprile ’79 e successivamente espatriato in Francia in qualità di esule politico, tra i principali sostenitori di una proposta di amnistia che chiuda i conti con il passato. Dall’altra Paolo Persichetti, ex membro delle Br-Udcc, arrestato nel ’97 e condannato a 22 anni e mezzo di carcere per l’omicidio Giorgieri, anch’egli riparato in Francia ed estradato in Italia il 25 agosto 2002 nell’ambito delle indagini sui delitti D’Antona e Biagi (a cui risulterà essere del tutto estraneo). Insomma, non proprio due personaggi accomodanti, niente a che vedere con quei opinion leader di casa nostra capaci di rassicurare il lettore con interpretazioni politically correct dei molteplici aspetti e delle molteplici facce del terrorismo nostrano.
Al contrario, questo piccolo libro è molto utile proprio perché offre delle letture totalmente differenti, diremo quasi agli antipodi con il pensiero unico purtroppo così in voga nella nostra contemporaneità; poco più di duecento pagine (con tanto di bibliografia sragionata) per  comprendere alcuni aspetti chiave della stagione di piombo visti dall’ottica privilegiata del protagonista che non si limita a ricordare, né ad ammettere eventuali colpe e responsabilità, ma che in un certo senso rilancia sul piatto delle puntate, sollevando nuova polvere e aprendo armadi che in molti vorrebbero tenere ben sigillati.
Pagine scritte da due uomini contro, incapaci – fortunatamente – di chinare il capo come vorrebbe una cultura, la nostra, retta dalla logica che sia solo il vincitore a scrivere la storia, lasciando al vinto il ruolo del semplice sparing partner; e a chi, pur vinto, rifiuta questo ruolo non resta che rilanciare, proponendo dei percorsi alternativi, capaci ad esempio di sollevare interrogativi sul paradigma dell’emergenza che ha governato la produzione legislativa degli anni Settanta e Ottanta, producendo guasti irreparabili nel vivere civile; oppure interrogando, e interrogandosi, sui grandi temi del pentitismo, dell’amnistia, delle responsabilità di tutti, personali e collettive, soggettive e oggettive, per quanto accadde in quegli anni furibondi, senza nessun manicheismo, senza preconcetti di sorta, opportunamente lasciati a chi è convinto di possedere verità assolute da propagandare.
Consigliamo questo libro a chi ha ancora voglia di capire e tempo per farlo, a chi non è ancora totalmente lobotomizzato dal pensiero unico, a colui al quale piace essere stuzzicato nella sua intelligenza, a volte anche provocato, ma mai allineato, né tantomeno rassicurato. Questo lettore ideale troverà in queste pagine tanti spunti di riflessione e materiale a sufficienza per riempirsi la testa di domande, con in più altri utilissimi consigli di lettura e approfondimento.
Saranno pure dei cattivi maestri, come si diceva un tempo, e pure un po’ antipatici; però, forse ancora più oggi che ieri, continuiamo a preferirli a quelli buoni ma addomesticati.

libri@brigaterosse.org

La rivoluzione non è affare di partito

Dietro l’ansia identitaria una concezione proprietria del comunismo

Oreste Scalzone

Liberazione domenica 11 gennaio 2009

Ve la vedete la faccia di Marx di fronte alla frase con cui il Segretario generale dell’Unione degli scrittori della Ddr commentò i moti operai del 53 a Berlino-Est: «La classe operaia di Berlino ha tradito la fiducia che il marx1 Partito gli aveva riposto: ora dovrà lavorare duro per riguadagnarsela!» (e che Brecht aveva parafrasato col celebre «Il Comitato centrale ha deciso: poiché il popolo non è d’accordo, bisogna nominare un nuovo popolo»)?
Ve la vedete la faccia di Marx di fronte all’ “economia socialista di mercato”, agli attuali livelli salariali della Cina popolare (per non parlare degli Ogm, della pena di morte e così via)?
Ve la vedete la faccia di Marx al sentir dire, da chi si professa comunista, che «La legalità è il potere dei senza potere»? Ve la vedete la faccia di Marx, al sentir parlare di “identità comunista” ? Il «movimento reale che… aufheben (distrugge, oltrepassa, abolisce, deborda, esorbita) lo stato di cose presente» ridotto a identità, a patrimonio, cioè a qualcosa di proprietario. Identità, nelle sue due fondamentali accezioni – quella di identicità, e quella di distinzione, di identificazione per differenza – è opposto a comune. Nel primo significato, “identità” richiama la serialità, come nella produzione di serie, nell’astratta egalizzazione dei soggetti, come nel caso del cittadino, dell’elettore; nel secondo, rinvia all’astrazione dell’individuo, distinto, differenziato dagli altri e contrassegnato in modo corrispondente, come col numero di serie. Comunismo, comunanza, comunità, messa-in-comune, sono altra cosa rispetto ad entrambi i termini. Comunismo dovrebbe designare il «denominator comune», gli elementi comuni, fra singolarità concrete.
Ve la vedete la faccia di Marx, al sentir dire che la liberazione del proletariato, cioè della specie degli «esseri parlanti» può esser realizzata dall’alto, a mezzo di governo, cioè nelle relazioni di statalità, nel quadro e ad opera di una qualsivoglia forma di Stato?
Ve la vedete la faccia di Marx, a sentirsi dire che il comunismo è morto, è mezzo morto, è nato, sta di casa… e roba simile? Ve la vedete, compagne e compagni, la faccia di Marx, scoprire che una serie di «fronti di lotta» – contro fascismi, colonialismi, imperialismi, dominazioni e oppressioni d’ogni tipo, antiche e moderne, locali e globali, a logiche misogine, omòfobe, etnocentriste, a dispotismi dai più diversi caratteri – divengono alternativi alla lotta per oltrepassare, abolire, fuoriuscire dal sistema integrato capitalistico-statale che è la tendenza dominante dalla modernità in qua?
Ve la vedete la faccia di Marx, di fronte a compagni che – avendo assolutizzato questi temi e ambiti di lotta, fino a considerarli non già estensioni e corollari del «comunismo», oppure terreni primordiali che si condividono anche con altri – ne hanno invece fatto una ragione sociale appannaggio di una “identità comunista” (trasformata in vera e propria ideologia, cultura di sostituzione teorica e pratica della critica radicale, della sovversione). Per non parlare del diffondersi di spiegazioni perfettamente paranoiche dei processi sociali (le teorie del complotto, le non-congetture sofistiche, dunque mai suscettibili di confutazione; l’adesione a forme di razionalizzazione pubblica di deliri identitari, vittimari, di figure e varianti, della «passione triste» del risentimento, razionalizzazione, dicevamo, in termini di alienazione giustizierista, concime per il montante populismo penale degli Stati.
[…] Forse, come afferma Jacques Elul, la forma dell’azione rivoluzionaria oggi è quella di movimenti, “asintotici”, in qualche modo oltre le grandi Rivoluzioni, per così dire “classiche”. In un certo senso, l’espressione «il fine è nulla, il movimento è tutto», era inaccettabile perché il suo coniatore per movimento intendeva più o meno le cooperative; però, posta in tutt’altro contesto di senso, essa può ben interpretare la frase marxiana su ciò che “chiamiamo comunismo”, e restituirci il senso di una scommessa sempre riaperta e sempre in corso. Certo però che, di fronte a queste sfide enormi, i piccoli legittimismi identitari suonano davvero derisori.
Tornando al nostro “mondo piccolo”: la fine di un laboratorio aperto, qual è stato in questi anni Liberazione di Piero Sansonetti, è una ragione seppur piccola di disperare un po’più. «La rivoluzione – scriveva Otto Ruhle – non è, non può essere affare di Partito».

Potete trovare il testo integrale su http://orestescalzone.over-blog.com