Vincenzo Ruggiero, l’anticriminologia come sapere

La morte di Vincenzo Ruggiero, «anticriminologo» come amava definirsi, lascia un vuoto importante. La collaborazione col bollettino Senza galere e la rivista Controinformazione l’avevano spinto a lasciare l’Italia e approdare a Londra, per tenersi alla larga dalle inchieste giudiziarie che a metà degli anni 70 colpirono anche gli organi legali di informazione e dibattito, ritenuti dai magistrati «strutture di cerniera» tra le formazioni armate e il resto del movimento rivoluzionario di quegli anni. 
A Londra era approdato alla Middlesex University come professore di sociologia. Con Ermanno Gallo, anche lui tra i redattori incarcerati di Controinformazione, aveva dato vita negli anni 80 a un fertile sodalizio intellettuale, con volumi come Gli ostelli dello sciamano, alle radice della tossicomania, edizioni senza galere 1980, Il carcere in Europa, Bertani 1983 e ancora Il carcere immateriale. La detenzione come fabbrica di handicap, uscito nel 1989 per le edizioni Sonda.


L’avevo conosciuto a Parigi verso la fine degli anni 90 a casa di Roberto Silvi, anche lui esiliato e ormai malato, suo compagno nell’impresa di Senza galere. Quando poteva Vincenzo faceva tappa volentieri a casa di Roberto per ritrovare il suo amico e rivedere gli altri compagni dell’esilio. Era ormai un professore affermato e dell’esilio di quei militanti fuggiti alla repressione dell’emergenza giudiziaria degli anni 70 scrisse con parole da studioso, “Condannati alla normalità”.
Autore di pubblicazioni importanti nelle quali esercitava una critica spietata del pensiero criminologico, ritenuto una disciplina «ormai esausta» e per questo alla disperata ricerca di nuovi temi per rilanciarsi, come la «vittimologia», Il delitto, la legge, la pena. La contro-idea abolizionista, edizioni gruppo Abele 2011. Ha scritto pagine decisive sull’economia come crimine, non sui crimini economici come la vulgata corrente etichetta l’economia illegale, ma sull’economia legale, l’etica degli affari, «le condotte di routine dei mercati che sono suscettibili di ogni tipo di irruzione illegittima». Un filone di pensiero fecondo che produsse numerosi lavori: Economie sporche, Bollati Boringhieri 1996; Dei delitti dei deboli e dei potenti. Esercizi di anticriminologia, Bollati Boringhieri 1999; I crimini dell’economia. Una lettura criminologica del pensiero economico, Feltrinelli 2013; Perché i potenti delinquono, Feltrinelli 2015. Lavori nei quali Ruggiero ribalta completamente lo sguardo sul pensiero economico, dimostrando come ciascuna delle grandi scuole economiche giustifica, se non addirittura incoraggi, i delitti dei potenti che sono il risultato dell’iniziativa economica.
Ricordo con nostalgia le conversazioni avute con lui. Gli avevo chiesto di essere uno dei miei relatori per il dottorato sui «momenti costituenti», grandi assenti nelle teorie politico-giuridiche. Volevo indagare i momenti di rottura e fondazione nei sistemi politici, pensati quasi sempre nella loro condizione di normalità. Una normalità che rifugge l’inizio. Poi quella tesi non c’è più stata, progetto di studi bruscamente interrotto dalla «riconsegna straordinaria» alle autorità italiane.
Uscito dal carcere non ho più avuto modo di incontrarlo, sono riuscito però una volta a chiedergli un articolo per uno speciale, «Cemerto e castigo», uscito su di Liberazione, quotidiano dove lavoravo durante la semilibertà, L’abolizionismo penale è possibile ora e qui.
Uno dei suoi libri che ho apprezzato di più, forse perché letto in una cella del Mammagialla, è stato Crimini dell’immaginazione. Devianza e letteratura, il Saggiatore 2003, dove Ruggiero proponeva una rilettura socio-criminologica dei grandi classici dimostrando che non c’era miglior realtà della finzione: attraverso Baudelaire e London raccontava l’emergere dei mercati illeciti e del consumo delle droghe, in Moby Dick si scoprivano i crimini dell’economia, con Twain la corruzione nella città, in Hugo e Mirabeau la realtà del carcere, in Manzoni la modernità della sofferenza legale, i processi inquisitori…
Un’altro suo lavoro importante è stato La violenza politica, uscito per Laterza nel 2006 e Movimenti nella città, Bollati 2000, che propone una visione urbanistica del conflitto: la città come risultato dell’azione collettiva.
Anche se Vincenzo Ruggiero non c’è più, ci restano i suoi libri, per pensare, agire, costruire. Leggeteli!

I mal di pancia dell’ex procuratore Giancarlo Caselli

Per l’ex procuratore capo di Torino Giancarlo Caselli, oggi in pensione, la decisione della corte di Cassazione francese, che ha confermato il rigetto delle domande di estradizione pronunciato in precedenza dalla corte di Appello di Parigi dei dieci rifugiati italiani, ex militanti delle formazioni della sinistra armata degli anni 70, sarebbe solo un gesto di «arrogante intolleranza», figlio della irresistibile tentazione francese di «insegnare a tutti gli altri (gli italiani in particolare modo) come si sta al mondo».
I contenuti giuridici della decisione – sempre secondo l’ex pm – oscillerebbero tra «il paradossale e l’incredibile». In particolare Caselli non sembra digerire l’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti umani, richiamato dai giudici parigini per tutelare i diritti acquisiti nel corso della pluridecennale permanenza sul suolo francese dei dieci esuli italiani, sulla scorta di decisioni giudiziarie, politiche e amministrative, pronunciate nel tempo dalla autorità del posto. Tutto ciò – a detta dell’ex procuratore – non avrebbe alcun valore. Per il diritto interno francese tutte le pene sono prescritte dopo un periodo massimo di venti anni, ciò vale anche per l’ergastolo, che nel nostro ordinamento è diventato invece imprescrittibile, al pari di un crimine contro l’umanità. Nell’ordinamento italiano, il periodo massimo oltre il quale scatta la prescrizione delle pene temporali è pari a trent’anni. Regola che l’autorità giudiziaria ha aggirato in tutti i modi mettendo in campo una serie di sotterfugi e artifici vergognosi pur di impedire che la prescrizione venisse riconosciuta a due dei dieci ex militanti richiesti. In un caso si è addirittura ricorsi ad una fraudolenta dichiarazione di pericolosità sociale, a quaranta anni dai fatti-reato, nei confronti di una persona ormai ultrasettantenne e che nel frattempo ha mantenuto una condotta penalmente irreprensibile sul suolo francese, pur di scongiurare l’applicazione della prescrizione.
Nella dottrina classica del diritto, il decorso del tempo faceva venire meno l’interesse punitivo dello Stato nei confronti del reo. Questo assunto traeva il suo fondamento penalistico dalla convinzione che fuori dal contesto sociale che lo aveva generato, il reato attenuava se non perdeva la sua portata lesiva dell’ordine sociale e politico infranto, perdeva la carica di allarme sociale in esso contenuta e il reo vedeva inevitabilmente modificarsi la sua personalità a distanza di trenta anni dai fatti. A questa concezione Caselli antepone la «punizione infinita», per altro strettamente limitata ai reati di natura politica e di contestazione sociale, secondo una visione etica dello Stato molto vicina ai presupposti culturali dell’attuale maggioranza di governo, a cui senza dubbio può dare molte lezioni.
Ai giudici francesi non è sfuggito questo atteggiamento generale della autorità politiche e giudiziarie italiane, nonché della grande stampa, tanto da aver ritenuto che il via libera alle estradizioni, a fronte dei ripetuti propositi meramente vendicativi enunciati e praticati da parte italiana, avrebbe comportato per gli estradandi un trattamento sproporzionato e iniquo, una violazione insanabile della vita familiare e privata acquista da molti decenni in Francia, infrangendo il percorso di recupero sociale realizzato.
A rendere ancora più furibondo Caselli è stato poi il richiamo al giusto processo, sancito dall’articolo 6 della Cedu. Norma finalizzata a garantire che la persona a rischio di estradizione non sia esposta, nello Stato richiedente, a un flagrante diniego di giustizia che può derivare, in particolare, dall’impossibilità di ottenere una nuova pronuncia giudiziaria sul merito dell’accusa nonostante la condanna sia stata pronunciata in sua assenza. Diverse richieste di estradizione riguardavano, infatti, persone processate e condannate in contumacia. Chi ha seguito tutte le udienze davanti alla corte di appello di Parigi sa bene che i giudici hanno ripetutamente chiesto chiarimenti e garanzie alla parte italiana affinché una volta riconsegnate, le persone condannate in contumacia potessero avere garantito il diritto a un nuovo processo. Per tutta risposta le autorità italiane hanno balbettato, tergiversato a lungo perché incapaci di fornire delle garanzie inesistenti nel nostro ordinamento processuale. Atteggiamento che ha definitivamente convinto la corte francese a rifiutare le domande di estradizione.
Per Caselli tutto ciò sarebbe solo una prova della supponenza d’Oltralpe e non una manifesta deficienza italiana, una incapacità a comprendere che la cultura della eccezione giudiziaria che ha dominato la fase repressiva della lotta armata non è sovrapponibile alle altre culture giuridiche europee a cui sfugge questa eterna riproposizione di logiche d’eccezione originate da contesti non più attuali, conclusi da oltre trent’anni.
Alla ricerca disperata di argomenti per puntellare le proprie tesi, Caselli ricorre ad un esempio surreale, il processo di Torino al nucleo storico delle Brigate rosse, definito un modello del rispetto dei diritti degli imputati. Oggi sappiamo che fu la federazione del Pci torinese a reclutare i giudici popolari di quel processo, come ha raccontato Giuliano Ferrara che quella operazione gestì in prima persona. Sono noti anche i rapporti stretti che Caselli teneva con la federazione torinese del partito comunista, in nome di quella concezione schierata e combattente del ruolo della magistratura che contrasta con la pretesa di dare lezioni morali al mondo, soprattutto se poi è la sua ex procura, in linea con le autorità di governo francesi (cosa c’entra la magistratura di Parigi che per altro nel dossier estradizioni non si è piegata ai diktat dell’Eliseo), a perseguire con uno zelo facinoroso quegli attivisti che sostengono i migranti alla frontiera tra i due paesi.

Illegittima la richiesta di estradizione di Luigi Bergamin

I bolliti dell’antiterrorismo e la pena prescritta. Ci hanno provato come al solito, la pena stava per prescriversi allora in tutta fretta la procura di Milano ha avuto la geniale di idea di chiedere l’applicazione di una nuova pena, una pena accessoria coniata ai tempi del fascismo e rimasta intatta successivamente. Che cosa è una pena accessoria? Una pena che si commina in assenza di reato. Si tratta di una misura afflittiva tipologica, ovvero applicata sulla base di un giudizio prognostico sulla personalità del reo, una volta che questi ha terminato di scontare la propria condanna. Può essere una pena infinita, detta anche «ergastolo bianco», poiché rinnovabile di volta in volta sulla base di valutazioni sulla indole della persona. Insomma è una pena comminata non per quello che si è fatto ma per l’idea che magistratura e polizia hanno della persona. Torniamo a Bergamin e all’operazione “Ombre rosse”: la procura dopo aver abusivamente chiesto l’applicazione della delinquenza abituale, comma che avrebbe impedito il riconoscimento della prescrizione della pena ma che la corte d’appello ha censurato nel merito, ha ottenuto dal magistrato di sorveglianza l’erogazione di una nuova pena di 2 anni di casa lavoro. Che cosa è una casa lavoro? Una prigione dove l’internato sottoposto ad un normale regime detentivo durante il giorno deve (dovrebbe) la vorare. Insomma dei lavori forzati. Nel caso di Bergamin tuttavia il magistrato di sorveglianza si è dilungato in una particolareggiata descrizione del trattamento restrittivo che gli dovrà essere riservato, una sorta di 41 bis. Su questa decisione pende ora un ricorso che verrà discusso nei prossimi giorni e che alla luce del pronunciamento della corte d’appello ha poche chances di essere confermato. Nel caso ciò avvenisse i giudici francesi della Chambre d’accusation, dove pende la richiesta di estradizione, dovranno pronunciarsi sulla legittimità di una condanna del genere sopravenuta dopo trent’anni dal passato in giudicato. Sarà molto difficile!

Vogliono cancellare l’esilio perché è stato la prova di un’alternativa possibile alla pena, alla sanzione e alla repressione

Paolo Persichetti, Adnkronos 28 aprile 2021

“Questo Paese appena cinque anni dopo la guerra ha dato amnistia e indulto a membri delle bande di fascisti che torturavano. E vogliamo parlare dell’armadio della vergogna? Sembra che solo i reati degli anni ’70 siano imprescrittibili, perché i protagonisti di quegli anni sono i vinti della storia”. A parlare all’Adnkronos è Paolo Persichetti, negli anni ’80 nelle Brigate Rosse-Unione dei Comunisti, primo (e unico, al momento) ex terrorista estradato in Italia dalla Francia, che, commentando gli arresti di oggi, sottolinea: “La messa in discussione dello Stato, il crimine rivoluzionario, è quello che non perdonano, anche se quella rivoluzione è fallita e tutti lo sanno, dunque non c’è nemmeno un pericolo di ‘memoria’”.

“L”esilio’ – dice Persichetti, parlando di una esperienza che ha vissuto in prima persona – non dico che è una forma di pena ma è certamente un percorso di difficoltà, di sofferenza: vivi senza permessi, senza lavoro, non è che sei lì a fare la bella vita, anche se poi magari la propaganda ti dipinge a mangiare ostriche e champagne. In Francia non ho mai avuto assistenza medica, non avevo i soldi per fare nulla, quando vivi sans papier è così”. E tuttavia, racconta l’ex terrorista parlando dei fuoriusciti, “quelle persone anche restando lì sono riuscite a dare un valore aggiunto alla loro vita. Roberta Cappelli, ad esempio, lavora da tanti anni come educatrice in una scuola per bimbi disabili: era un architetto, si è riconvertita, ha acquisito nuove competenze ed è diventata una riabilitatrice, una figura fondamentale per tante mamme con figli in difficoltà. Marina Petrella, invece, ha un’associazione che fa un lavoro sociale enorme, si occupa di anziani e persone in difficoltà, fa attività di sostegno sul territorio”.
“Che senso ha ora distruggere tutto ciò? La pena deve avere una funzione socializzante, riabilitativa. E in qualche modo l”esilio’ ha avuto lo stesso effetto – sottolinea Persichetti, oggi ricercatore storico -: è stata la prova di un’alternativa possibile alla pena, alla sanzione e alla repressione, e una prova vincente. Il problema è che questo dimostra l’inutilità del sistema sanzione e del sistema giustizia come lo concepiamo. Ecco allora che dopo 40 anni lo Stato riafferma un potere su persone di 65 anni e più, che minimo dovranno fare 10 anni di carcere per avere benefici. Che senso ha? Il rapporto tra il tempo e la giustizia non può essere infinito”.

Tortura, quell’orrore quotidiano che l’Italia non riconosce come reato

Parla Massimo Germani, medico e terapeuta del centro di cure per i disturbi da stress post-traumatico del san Giovanni di Roma. Coordinatore nazionale del Nirast, una rete nata nel 2007 e che raccoglie 10 centri ospedalieri universitari diffusi nel territorio e specializzati per i richiedenti asilo che hanno ricevuto torture e traumi estremi

 

Paolo Persichetti
Liberazione
25 giugno 2011

Dalla perizia del medico legale Mario Marigo, 3 febbraio 1982 Padova. Tracce di tortura compiuta con elettrodi sui genitali di Cesare Di Lenardo, militante dell Brigate rosse in carcere da 29 anni

Tortura con elettrodi, carcere di Abu Ghraib, Iraq 2004

Parlare di tortura non è facile. L’orrore che suscita crea in genere uno sdegno unanime di cui però è meglio diffidare poiché spesso cela solo ipocrisia. Pensiamo al fatto che metà della popolazione mondiale, circa tre miliardi e mezzo di persone, vive in Paesi che praticano la tortura. I paradossi non finiscono qui: nella sua carta dei diritti fondamentali l’Europa afferma che «nessuno può essere sottoposto a tortura, né a pene o trattamenti inumani o degradanti». Per questo all’interno dei suoi confini si offre riparo alle persone fuggite da violenze e torture. Al tempo stesso il vecchio continente è stato anche il laboratorio della tortura contemporanea, quella applicata e diffusa dopo la seconda guerra mondiale. La storia è abbastanza nota e nasce in Francia, anzi in Indocina, dove le truppe coloniali francesi applicarono queste tecniche contro i guerriglieri comunisti. La tortura era un corollario di quella che gli stati maggiori francesi definivano «dottrina della guerra rivoluzionaria». La definizione verrà poi corretta dagli statunitensi. La counterinsurgency americana altro non è infatti che la rielaborazione delle tesi che i generali francesi avevano ulteriormente perfezionato in Algeria. Alla base di tutto c’è un manuale scritto dal generale Paul Aussaresses, il macellaio di Algeri. Il suo testo segue un percorso ben preciso: traversa l’Oceano e finisce a Fort Bragg, nella famigerata “Scuola delle Americhe” che forma negli anni 60 gli ufficiali dei corpi antiguerriglia Usa e i quadri militari delle dittature sudamericane. L’abecedario del bravo torturatore, tradotto e riversato nei manuali dell’esercito statunitense, ritorna poi in Europa attraverso la Nato e serve a formare tutte le polizie d’Occidente. Metodi come l’annegamento simulato (conosciuto a Guantanamo come waterboarding), o l’uso degli elettrodi sui genitali verranno, diffusamente impiegati in Italia anche da Ucigos e Nocs nel biennio 1982-83 contro i militanti della lotta armata. Non deve stupire dunque se questo Paese ancora oggi non riconosce il reato di tortura nel proprio codice penale, e se queste pratiche sono riemerse per governare l’ordine pubblico nella caserma di Bolzaneto durante le contestazioni al summit del G8 genovese del 2001.
Domenica 26 giugno verrà celebrata la giornata internazionale contro la tortura. Diverse iniziative sono state promosse per sensibilizzare l’opinione pubblica attorno alla questione: dalla denuncia dell’ergastolo ostativo che condanna alla pena capitale fino alla morte la gran parte degli attuali 1500 ergastolani italiani, all’occupazione organizzata dal Cir (Consiglio italiano per i rifugiati) di alcune piazze di Roma con statue umane raffiguranti le vittime di Abu Ghraib. Lunedi invece andranno in scena al teatro Ambra Jovineli un gruppo di 12 rifugiati, tutti reduci da torture pesanti. Si tratta di un «laboratorio riabilitativo», ci spiega Massimo Germani, psichiatra e psicanalista, direttore del centro per le patologie post-traumatiche da stress (conosciuto nella letteratura clinica con la sigla Dpts, disturbo post-traumatico da stress) presso l’ospedale san Giovanni di Roma. Germani è anche Coordinatore nazionale del Nirast, una rete nata nel 2007 e che raccoglie 10 centri ospedalieri universitari diffusi nel territorio e specializzati per i richiedenti asilo che hanno ricevuto torture e traumi estremi ed a cui vengono fornite cure specialistiche organiche e psicoterapeutiche. Si tratta di centri all’avanguardia che intervengono sulle conseguenze dei traumi di natura interpersonale.
Quando abusi e violenze avvengono in luoghi chiusi, come carcere e famiglia o altre condizioni costrittive, ed hanno natura continuativa e ripetuta, danno luogo a traumi estremi, «non solo nell’immediato», nella carne, sottolinea il dottor Germani, ma «per la gravità duratura nel tempo delle conseguenze a livello della psiche. Subentra infatti una profonda disfunzione di quella che chiamiamo la psiche di base: la memoria, l’identità personale». Il vissuto postraumatico da luogo ad «episodi dissociativi della personalità, come passare davanti allo specchio e non riconoscersi, oppure a spaesamenti, depersonalizzazione e derealizzazione». La persona – prosegue sempre Germani – diventa una specie di fantasma, «una parte del suo essere è dissociato dall’altro. C’è una dimensione che vive un quotidiano apparentemente normale, mentre l’altra resta inglobata nell’esperienza traumatica». La tortura incrina le fondamenta della persona, è una umiliazione estrema che sgretola l’io, fa venir meno la fiducia in sé e nell’altro. Per questo «i percorsi di riabilitazione psicosociale puntano alla riattivazione del gruppo per ritrovare la fiducia negli altri e in se stessi. Più della parola, che può riattivare il trauma, è utile la relazione».
In un report appena stilato si apprende che oltre 3000 richiedenti asilo hanno subito forme di tortura grave o abusi, il 25% donne e il 75 uomini, in prevalenza Eritrei, Somali, Afgani, Kurdi sotto regime Turco, e poi Centroafricani del Congo, della Costa d’Avorio, della Nigeria. Parecchi quelli che arrivano dalla Libia dopo aver attraversato il deserto. Durante il viaggio spesso vengono fatti oggetto di altri abusi e torture, specie le donne, trattenute e sottoposte a pedaggi sessuali e stupri sistematici da bande di predoni che controllano l’accesso nelle regioni di confine. Non finisce qui, perché poi c’è la traversata del Mediterraneo, con altre tragedie, naufragi. Veri e propri viaggi del massacro e della morte. Chi riesce a scamparla porta con sé la memoria di chi è annegato, di bimbi scivolati in mare. Questi rifugiati dopo la lunga e penosa, ed anche qui non esente da ulteriori violenze, trafila nei Cie (centri di identificazione e accoglienza) e poi nei Cara (centri di assistenza per richiedenti asilo), entrano nel circuito dell’assistenza e del trattamento terapeutico. Si tratta di un percorso – spiega sempre Germani – che «richiede tempi lunghi, che per avere successo deve avvalersi sempre di sostegni sociali, di una qualità di vita dignitosa e un supporto legale che faccia avere loro giustizia, il riconoscimento dello status. Essere creduti fa parte del trattamento. Il medico da solo non basta. Occorre ridare dignità, giustizia, una vita con relazioni sociali, una casa, un lavoro. Senza il consiglio italiano, i legali e l’assistente sociale non si va da nessuna parte».

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Sono nata in un carcere speciale agli inizi degli anni 80, adesso voglio capire/Esilio come colpa

Libri – Treni sorvegliati. Rifugiati italiani, vite sospese, Archivio Primo Moroni – Collettivo La Comune 2008

di Elisa Novelli

Caro Paolo,

da piccola volevo crescere in fretta per essere in grado di fare qualcosa nel momento del bisogno. Ho persino creduto, per un attimo, che un mio compito di francese, che metteva la data su una tua fotografia mi concedesse di intervenire per farti uscire di prigione, ma non ha funzionato… Forse ero ancora troppo piccola. Oggi non funziona per mia madre; perché avevo pensato che diventando grande avrei potuto esservi d’aiuto? Quando abbiamo abbassato la guardia? Come, nonostante i segnali che ci  coparrivavano da ogni parte, abbiamo potuto credere di poter fare figli, mettere su casa, insomma di poter vivere in fiduciosa tranquillità? Come è possibile che tu sia rinchiuso da oltre cinque anni, dopo averne trascorsi quasi quattro in precedenza, per degli avvenimenti che rimontano alla tua altra vita, quella di prima dell’esilio, e perché ci si accanisce a bollare quelli che sono degli esuli di fatto come terroristi, spiegami come si sia arrivati a vivere in un mondo che ha dimenticato il carattere inviolabile dell’asilo, che rimette in discussione la legittimità delle lotte sociali. E perché non sento dire dai nostri compagni che sono stati in carcere, che l’esilio è sempre stato considerato una punizione? Quando noi siamo partiti, dico noi perché io mi includo nella vostra storia, mi sono presa il mio posto fra i migranti, era per consegnarci alle autorità di un paese considerato quello dei diritti dell’uomo, con il desiderio, e voi tutti l’avete ben realizzato, di vivere in uno spazio libero, aldilà delle sbarre, di vederci crescere, noi, i piccoli, con i quali le barriere di ferro avevano impedito di tessere legami famigliari. Quindici, venti anni, se si aggiungono gli anni di detenzione in Italia, un lasso di tempo durante il quale l’individuo cambia, è il sacrosanto principio della seconda occasione, principio per il quale, a mio sentire, non si può stigmatizzare una persona per un atto commesso in un particolare momento della sua vita. L’essere umano non è solo questo. L’essere umano è la complessità del cambiamento. Quale legge, Paolo, autorizza il giudizio retroattivo riconosciuto dalla santa istituzione giuridica? Perché, e scusa le mie analisi da novizia, è ben di questo che si tratta: come dei dell’Olimpo, i nostri illustri politici e magistrati, spiano il lavoro di reinserimento dei brigatisti, sapendo che questo processo sarà bloccato senza appello nel momento in cui le autorità avranno bisogno di carne fresca da mandare al macello. Ma lasciamo fare… e poi negano e non assumono le responsabilità che hanno della disperazione di questi figli di Francia. Come non tenere conto, quando si giudica un uomo, dei suoi cambiamenti? Definire mia madre di 54 anni una terrorista in fuga, mentre tutti sanno che lavorava per la Francia, non è di un perfido cinismo? Un’ultima domanda, quando una guerra finisce, per quanto bassa sia stata la sua intensità, e i perdenti riconoscono la propria sconfitta, non è forse utile per sanare la frattura sociale ricorrere ad una amnistia? Che vuol dire una pena senza fine? È una cosa priva di senso, una pena è fatta per essere scontata, non per tormentare all’infinito uomini ed epoche. Sono nata in un carcere speciale agli inizi degli anni 80, non l’ho deciso io; sono nata in mezzo alle vostre idee, adesso voglio capire.

Paris, le 26 novembre 2007

L’esilio come colpa

di Paolo Persichetti

Cara Elisa,

Non è facile dare risposta alle tue domande. Quando sei nata le cronache parlarono di te. T’affacciavi al mondo da un carcere speciale e questo faceva notizia. Tempo dopo seppi che eri uscita. Poi, per fortuna, fu scarcerata anche tua madre. Quando alla fine degli anni 80 anch’io ero imprigionato, ho incrociato nei corridoi delle sale colloqui di Rebibbia un ragazzino che tutto solo si recava in visita dal padre. Mi colpì quel suo fare sicuro, da piccolo grande uomo, quel non avere alcun timore del luogo mentre i suoi coetanei s’aggrappavano alle gonne delle madri. Era Antonio Salerno, come te nato in prigione e scomparso tragicamente un paio di anni fa. Morto di un maledetto lavoro precario. Cinico sgarbo della vita dopo che i suoi genitori erano rimasti reclusi per decenni, colpevoli d’aver tentato di liberare la società dal lavoro salariato. Morto fantasma di genitori invisibili. cop2Più che in mezzo alle nostre idee sei nata sul registro di cassa che ne segnava il prezzo. Ne hai conosciuto il risvolto negativo: la repressione, la criminalizzazione, l’universo plumbeo del cemento e delle sbarre e poi la via dell’esilio. Il tuo giardino dei giochi è stato un cortile presidiato da sentinelle. Hai fatto i primi passi in un asilo di piombo. Il tintinnio delle chiavi, il risuonare continuo dei chiavistelli che aprono e chiudono cancelli, il rimbombo dei blindati e gli echi delle urla che arrivano dall’isolamento sono stati i primi rumori che ti hanno fatto scoprire il mondo. Sei cresciuta in mezzo a questo frastuono, in un posto che non lascia spazio a sogni, dove a fatica risuonano filastrocche e dove l’orco delle fiabe porta una divisa. Ma non sei fuggita, non hai rimosso, hai accettato questa esperienza con coraggio e una maturità che sorprende in una bambina. Tua madre ha cercato in tutti i modi di offrirti un futuro. Ti ha dato anche una sorella. Così ti sei aggregata alla compagnia di giro dei fuoriusciti. Piena di generosità sei voluta crescere in fretta «per essere utile nel momento del bisogno», come dici. Fin da piccola ti sei gravata dei problemi dei grandi che vedevi braccati, ed ora che anche tu sei adulta misuri tutta l’impotenza e scopri l’illusione verso una vita che credevi dovesse risparmiarti la prigione conosciuta nell’infanzia. Ora che si stanno riprendendo tua madre per gettarla ancora una volta, dopo 30 anni, nel pozzo senza fondo del fine pena mai, dove già tuo padre e tuo zio sono passati, ci chiedi conto, ci tiri per le vesti in attesa di un perché. Hai ragione a voler capire. Questo ti fa onore. Non hai paura di guardare in faccia la realtà, ma le parole che chiedi non sono leggere. Ne sento per intero il peso e la responsabilità. Perdonaci Elisa, se a te e ad altri non siamo riusciti a garantire un futuro diverso. Senza possibilità di scelta la tua vita è rimasta incagliata all’unico passato giudiziario e penale che non passa, momento imprescrittibile di una storia d’Italia che ha volentieri sotterrato e tuttora ingoia nell’oblio eccidi, massacri, ruberie. L’Italia ha dato forma ad un singolare paradosso: non ha conservato la memoria di quegli anni ma è stata incapace d’oblio. Alla memoria storica svuotata dei fatti sociali ha sostituito la memoria giudiziaria; all’oblio penale ha sovrapposto l’oblio dei fatti sociali. Per questo quel decennio di speranze e di lotte è divenuto l’icona del male contemporaneo, un simbolo negativo che cristallizza odii e risentimenti, sofferenze e malintesi.
La dottrina Mitterand era figlia di uno sguardo diverso portato sulle vicende italiane degli anni 70. Sospinti dalla logica dell’alternanza i moderatissimi socialisti d’Oltralpe coglievano quel che nella penisola non si voleva vedere: un lacerante conflitto sociale, una latente condizione di guerra civile. Nel tentativo di trovare forme d’uscita dalla spirale del confronto violento, le autorità francesi decisero di accogliere i militanti italiani riparati a Parigi. Allora gli strumenti giuridici consentivano all’autorità politica margini di decisione ancora ampi. Questa scelta d’asilo territoriale ha resistito incredibilmente per almeno due decenni, nonostante l’aggressione dei tempi, lo slittamento dei rapporti di forza, l’inarrestabile processo d’integrazione comunitaria (di cui paradossalmente i fuoriusciti sono stati un avamposto) e la creazione dello spazio giudiziario europeo. Ma alla fine la zattera dei rifugiati, riparo precario d’esistenze sospese, è rimasta senza approdo davanti al porto della sua Itaca immaginaria.
Nel dopoguerra bastarono appena cinque anni per vedere liberi gli autori di efferati crimini d’dio, quelli sì responsabili di massacri di massa, come il maresciallo Graziani. Oggi, invece, dopo oltre venti anni di rivoluzione conservatrice e di neoliberismo dilagante, arretramenti, sconfitte e il radicale sconvolgimento del sistema produttivo, si è dissolto il peso politico del movimento operaio di cui siamo figli, indebolendo il suo patrimonio storico d’idee, valori e culture della solidarietà e della fratellanza. L’idea d’asilo, come gli strumenti di correzione delle vendette giudiziarie contro gli oppressi che hanno osato ribellarsi, hanno perso sempre più legittimità di fronte all’etica del risentimento fomentata dal vittimismo del potere. L’ideologia penale ha sostituito i percorsi di liberazione umana e sociale. Poi c’è stato il 2001, le torri gemelle e lo stato di eccezione planetario. Un vento revanchista e reazionario ha reso senso comune persino ciò che un tempo sarebbe passato come un residuo dell’immondezzaio ideologico dei fascismi. Di fronte a ciò, le parole degli Stati sono divenute come le foglie morte che si lasciano trascinare dalla direzione del vento. Non più parole date ma parole vuote.
Un florilegio di dichiarazioni ha accompagnato l’arresto di tua madre, niente affatto fortuito come si è maldestramente tentato di far credere. Si è parlato della cattura di una pericolosa latitante… che lavorava da anni per i servizi sociali del comune di Argenteuil. Questo bisogno di camuffare ogni volta gli arresti dei rifugiati, questa paura della trasparenza è rivelatrice dei sepolcri imbiancati che attorniano gli interessi inconfessabili di queste operazioni. Che motivo c’era d’inventare tutte queste fandonie se, come hanno sostenuto alcuni senza temer vergogna, si è trattato soltanto di far valere il principio della certezza della pena, di quelle che almeno non sono andate prescritte nel frattempo? Evidentemente si percepisce un deficit di legittimità a distanza di tanti decenni. Per questo si aggiornano le richieste d’estradizione ricorrendo ad ogni tipo d’espediente: congelando la personalità dei militanti di un tempo, avvalorando l’idea che l’essere non sia più un divenire ma un semplice essere stato, cristallizzato e fossilizzato.
Che senso ha tutto questo? Infatti non ha senso, è solo basso commercio tra intellingences, scambio di favori tra tecnostrutture securitarie, accordo di famiglia tra magistrati dei pool antiterrorismo che devono perpetuarsi ed a cui la politica ha ormai delegato sovranità e strategie. In questo caso più che punire un passato di cui si ha ormai una vaga e confusa memoria, si vuole sanzionare l’esperienza dei fuoriusciti, il loro presente: l’anticipazione del possibile che hanno rappresentato, ciò che avrebbe potuto essere il futuro italiano se fosse stata varata un’amnistia per gli anni 70. Una smentita cocente per gli imprenditori dell’Emergenza, un esempio da cancellare ricorrendo ad una sorta d’aggiornamento della sanzione. Ciò che discende da scelte sovrane dello Stato francese è di fatto equiparato a una condotta criminale del singolo rifugiato, che una volta estradato si vede rimproverare la dimensione intellettuale e culturale, le relazioni sociali, familiari e lavorative costruite nel frattempo. L’esilio come colpa, dunque. Si tratta della palese ammissione che ad essere perseguita è sempre meno la condotta politica attribuita in passato ma l’identità stessa delle persone oggetto di queste sanzioni. Altrove, nel ceto politico di Destra come di Sinistra, c’è invece chi trova conveniente fare dei rifugiati l’ultimo resto del secolo breve su cui gettare l’anatema per meglio sbiancare le proprie carriere istituzionali da un passato imbarazzante.
È questo il sigillo che le democrazie attuali pongono sulla reiventata figura del nemico politico interno eletto a pericolo permanente e immutabile.
Cara Elisa, ora tua madre ha un grande bisogno di te. Stalle vicino.

Roma, 26 gennaio 2008

Trentanni dopo: ancora due estradizioni. La vicenda di Sonja Suder e Christian Gauger

Quando la memoria si fa vendetta

19.11.09

autor dementio memoriae
Ancora due estradizioni. Fatta a pezzi la dottrina Mitterrand, la Francia non si vergogna più di tradire la parola data, di rinnegare l’ospitalità concessa. Stavolta sono due ex-militanti tedeschi degli anni ’70 a subire la vendetta di Stato. La loro storia ripropone le assurdità di quella di Paolo Persichetti, Cesare Battisti e Marina Petrella. Come i militanti italiani, anche Sonja Suder (oggi 76 anni) e Christian Gauger (68) si erano rifugiati in Francia, dopo aver militato nelle Revolutionäre Zellen (RZ), organizzazione autonoma di cui s’è parlato nel post sulla strage di Bologna.

Sonja e Christian arrivano in Francia nel 1978 e vivono a Lille, una cittadina di provincia, dove campano da ‘brocante’ con pochi soldi, recuperando, riparando e rivendendo oggetti al mercato delle pulci. Nel 2000, vengono arrestati su mandato estradizionale della Repubblica Federale Tedesca, che rimprovera loro la partecipazione a tre azioni incruente: nell’agosto 1977 le esplosioni contro la ditta MAN di Norimberga e la ditta KSB di Frankenthal, e nel maggio 1978 l’incendio al castello di Heidelberg. Gli attacchi furono rivendicati dalle Revolutionäre Zellen (RZ), che accusavano le due imprese di produrre compressori e pompe per il nucleare, esportandole tra l’altro verso il Sud Africa, dove vigeva l’apartheid razzista (siamo al tempo del massacro del ghetto di Soweto, con Nelson Mandela incarcerato come terrorista), ed il sindaco di Heidelberg della politica di distruzione di quartieri cittadini per farne delle zone destinate ai ricchi. [‘Gentrificazione’, dall’inglese gentry, nobile, è il neologismo che oggi si usa per indicare questi processi di modificazione classista del territorio urbano.]

Ulteriore accusa contro Sonja, era di aver contribuito al reclutamento nelle RZ di Hans-Joachim Klein e all’organizzazione logistica dell’attacco alla sede dell’OPEP a Vienna nel 1975. Tre mesi dopo quel primo arresto sono messi in libertà provvisoria su cauzione ed in seguito la corte parigina emette un ‘avviso sfavorevole’ all’estradizione. La possibilità di perseguire i due viene negata alla Germania poiché i reati sono, secondo il diritto francese, prescritti per i molti anni passati dagli avvenimenti.

Sonja e Christian, il cui rifugio in Francia sembra solidamente garantito da una sentenza definitiva, riprendono così una vita ‘normale’ da esiliati, per la prima volta alla luce del sole. Per la prima volta dopo 22 anni, possono allacciare rapporti sociali apertamente, senza nascondersi, ed entrare in contatto anche con altri esiliati, tra cui gli italiani, che offrono loro appoggio solidale.
Per Christian la ritrovata condizione di legalità è inoltre particolarmente importante, poiché gli permette di accedere alle cure mediche di cui ha urgente bisogno, per i gravi problemi cardiaci di cui soffre. Ciò che invece sta proprio in quegli anni cominciando a cambiare, è la politica di asilo del governo. Dall’elezione del socialista François Mitterrand alla Presidenza della Repubblica, nel 1981, la Francia aveva preferito non estradare gli ex-militanti rifugiatisi sul suo territorio.
Il principio seguito era quello dell’ospitalità verso chi, esiliandosi apertamente e quindi rispettando le leggi del paese che li accoglie,avesse rinunciato alla lotta armata. Quali che fossero le sentenze nelle procedure d’estradizione verso l’Italia, e cioè anche in caso di “parere favorevole all’estradizione”, la Francia non rimpatriava i rifugiati politici di fatto. Indifferenti a tentativi e proteste delle autorità italiane, tutti i governi francesi continuarono a seguire questo principio, che aveva del resto un aspetto utilitario di un certo rilievo, almeno nei primi anni: evitare la clandestinità sul proprio territorio di centinaia di ex-militanti, ed evitare così di spingerli di nuovo all’illegalità.

Dopo i famosi attentati dell’11 settembre negli Stati Uniti, tutto cambia: ora il principio si chiama ‘tolleranza zero’. Il 25 agosto 2002 viene eseguita nel giro di poche ore l’estradizione di Paolo Persichetti, che da 8 anni era stato lasciato lavorare e studiare alla luce del sole.
Seguirà Cesare Battisti, anche lui ‘legalizzato’ con un permesso di soggiorno, dopo aver subito, 13 anni prima, un processo estradizionale risoltosi con un “parere sfavorevole”, che è ri-arrestato nel 2004 e ri-processato fino ad ottenere un “parere favorevole” (per gli stessi reati del precedente “parere sfavorevole”).

Nel 2007 è di nuovo la volta di Sonja e Christian. Vanno in farmacia a prendere delle medicine e vengono catturati: “un agguato puro, come nel caso di Paolo”, commentano. E come nel caso di Cesare, di nuovo un processo estradizionale per le stesse accuse, fino ad ottenere un “parere favorevole”, che arriva nel febbraio 2009. Questa volta, per cappottare la prima sentenza, i giudici dicono che i termini di prescrizione applicabili sono quelli tedeschi.
E subito, nel luglio 2009, il Primo ministro François Fillon firma il decreto d’estradizione, che viene comunicato a fine ottobre.

Accuse senza atti
Sonja e Christian, difesi dall’avvocato Irène Terrel, hanno ancora un ricorso aperto al Consiglio di Stato. Il loro pessimismo è purtroppo legittimo.

“Se ci estradano, finiamo in prigione a Hessen. Gli avvocati tenteranno ovviamente di tirarci fuori, ma chissà quando tempo occorrerà per il processo. Sarà messo in cantiere quando saremo nel paese. Anche gli atti non li si riceve prima, e così non si può neppure preparare una strategia difensiva.”

Ciò che si sa, è che il loro coinvolgimento nei procedimenti penali contro le RZ (sui gruppi Revolutionäre Zellen e Rote Zora si è detto nel post sul caso Thomas Kram), è dovuto alle dichiarazioni del 1978 di un altro militante, Hermann Feiling.

Hermann Feiling, all’epoca studente di 26 anni, venne colpito dall’esplosione di una bomba che era destinata al consolato argentino di Monaco per protesta contro la feroce repressione scatenata dalla dittatura militare. Quel 23 giugno 1978, l’esplosivo, che avrebbe al più rotto qualche mattone del muro consolare, lo ridusse in fin di vita.

Il suo ‘interrogatorio’ cominciò meno di 24 ore dopo le operazioni chirurgiche d’urgenza che dovette subire. Le autorità volevano approfittare della situazione per “penetrare nelle Cellule Rivoluzionarie” -come dichiarò il Procuratore federale Kurt Rebmann in una conferenza stampa il 4 luglio- di cui conoscevano poco o niente. Ti è esplosa una bomba sulle ginocchia: hai perso le gambe (amputazioni sopra la coscia), e gli occhi (estrazione dei bulbi oculari). Sei rintronato, letteralmente (epilessia post-traumatica), e i tuoi sensi sono alterati (lesioni cerebrali alla funzione della memoria). Un essere umano in queste condizioni ha bisogno di aiuto, di cure, di protezione.
Negargliele per intero, esercitando un potere assoluto sulle sue condizioni, è un trattamento inumano. Nel buio in cui hai paura di essere abbandonato, qualcuno ti fa capire di volerti aiutare, di essere dalla tua parte.

Sei circondato solo da investigatori, procuratori, guardiani e personale medico, ma hai sentito un nome che credi sia del tuo avvocato, e quelli sono tutto il ‘tuo’ ambiente sociale che ti ‘sostiene’, l’unico contatto che ti racconta il mondo che non vedi più. Hai un male cane, ti riempiono di medicine (Dipidolor, a base di morfina, Valium a siringate) che ti rendono ancora più strano, ma ti alleviano il dolore, e loro ti parlano, ti chiedono. Così è stato ‘sentito’ Heiling, a cominciare dalla clinica universitaria in cui venne ricoverato d’urgenza, isolato per quattro mesi da ogni contatto con familiari, amici e difensori; questa misura di ‘Kontaktsperre’, usata nei regimi di reclusione più duri per i ‘terroristi’, non era neppure basata su un ordine di arresto, e addirittura ‘Der Spiegel’, il settimanale del gruppo Springer nemico giurato dei terroristi, se ne mostrò sorpreso.

L’articolo che lo Spiegel pubblicò a commento del processo, nel novembre 1980, si chiedeva: Un uomo senza gambe né occhi sul banco degli accusati. Combattere i terroristi a qualsiasi prezzo? Nella sua dichiarazione al processo, Hermann Feiling ebbe a dire:

La mia condizione di pericolo di vita, il traumatismo dopo l’accecamento, il mio assoluto disorientamento, la mia totale impotenza capitarono al momento giusto per investigatori, dopo anni di frustrazioni. Le 1330 pagine di verbali, che proverrebbero da me, sono il frutto di quella situazione. Lì ci sono anche persone del mio fantastico mondo dei sogni di allora che vengono chiamate in causa in relazione alle RZ, o vengono accusate persone che io non ho mai conosciuto.

Un paio di luminari della contro-guerriglia media attesteranno che Hermann era in perfette condizioni per rispondere coscientemente agli interrogatori, magari non da subito, ma quasi. (vedi le perizie del Prof. Mentzos e del Prof. Jacob).

Dell’uso della malattia come strumento di indagine, di cui s’è parlato recentemente in Italia (per il suicidio di Diana Blefari Melazzi) c’è un altro episodio che sembra ricalcare quello di Hermann Feiling.

Nel 2002, in Grecia, il pittore di icone Savvas Xiros ebbe pure lui un incidente con una bomba, che gli costò tra l’altro le mani. E pure lì la polizia brancolava nel buio da anni e saltò sull’occasione.
L’organizzazione clandestina cui davano la caccia si chiamava 17 Novembre, e nessuno dei suoi membri era stato mai identificato.
Con le ‘interviste’ ad un uomo in brandelli riuscirono a prenderne i militanti e ad irrorarli di ergastoli. Giustificarono poi i metodi da ‘Guantanamo greca’ dicendo che Savvas non era in stato di arresto, e tutti quegli incappucciati che lo circondavano erano li ‘per proteggerlo’.

Le ragioni dell’accusa
Le narrazioni di Hermann Feiling sono dunque il primo pilastro dell’accusa, che vorrebbe fare a Sonja e Christian un ennesimo ‘ultimo processo alle RZ’. Ennesimo, perché già il processo conclusosi il 19 febbraio 2009 a Stammheim era stato chiamato così dalla stampa (vedi Il processo a Thomas K., anche per alcuni tratti storici e politici delle RZ).
Il secondo pilastro dell’accusa è costituito dalle dichiarazioni di un pentito, Hans-Joachim Klein, che ha raccontato che Sonja lo avrebbe messo in contatto, nel 1975, con il Fronte Popolare di Liberazione della Palestina ‘External Operations’(PFLP-EO) per organizzare l’attacco alla sede dell’OPEP di Vienna.
Klein fece da ‘testimone della corona’ (Kronzeuge, delatore premiato) in quel processo e ne ottenne in cambio la libertà (fece 3 degli 8 anni di condanna, anziché tre ergastoli). Il tribunale di Francoforte assolse però Rudolph Schindler, altro ex-militante delle RZ accusato degli stessi fatti rimproverati ancora oggi a Sonja, perché ritenne Hans-Joachim Klein completamente inattendibile.
Anche questo secondo ‘pilastro’ è di sabbia, tanto che ci si chiede che senso abbia mantenere un mandato di cattura internazionale, perché spingere tanto una procedura d’estradizione, per accuse così fragili e dopo 34 anni dai fatti?
“Mancanza di pentimento e di disponibilità a cooperare vanno punite, altrimenti non non si faranno più accordi e nemmeno paura. Quando dei militanti della sinstra se la cavano, è una piccola, ma fondamentale trasgressione della ragion di Stato.”
Così commenta Analyse&Kritik (‘Non perdonare nulla, non dimenticare nulla’ Nr. 538/17.4.2009), e che ci sia voglia di esemplarità in è l’unica spiegazione sensata di questo caso.
La vedono anche Sonja e Christian: “… si crede, con un processo come questo, di poter dimostrare alla nascente resistenza che nessuno se la cava.”

La memoria giudiziaria
Da parte sua, il Ministero pubblico di Francoforte si nasconde dietro il dito della legalità: “Noi dobbiamo perseguire fino alla prescrizione”, dice la sua portavoce Doris Möller-Scheu “e da noi l’omicidio non va in prescrizione.” Omicidio? Allude alle vittime dell’attacco all’OPEP, cui Sonja non ha partecipato, non ve ne sono altre possibili perché la violenza praticata dalle RZ escludeva il ricorso all’assassinio politico.
Ciò che è in realtà successo, è che la seconda richiesta di estradizione si è basata soprattutto su una nuova, grande disponibilità francese a collaborare nella repressione a tolleranza zero, ed ha approfittato di un nuovo accordo bilaterale che consente di tenere conto dei termini di prescrizione non del paese richiesto, come è stato sino ad ora in tutte le Convenzioni d’estradizione, ma del paese richiedente. E in Germania i termini di prescrizione per reati con uso di esplosivo sono stati aumentati a 40 anni, mentre in Francia, come si è visto, tutti i reati di cui sono accusati Sonja e Christian sono ormai prescritti. Con l’istituto della prescrizione lo Stato sancisce un termine temporale oltre il quale esso rinuncia a perseguire e punire un reato. Il trascorrere del tempo assume dunque il ruolo di recidere definitivamente il legame tra reato e pena.
Tra le ragioni che fondano la memoria giudiziaria come limitata nel tempo -e inevitabilmente seguita dall’oblio giudiziario- spiccano due orientamenti: uno è di prospettiva garantista, che vede la prescrizione come una forma di tutela del cittadino dall’ingerenza dello Stato (senza necessariamente esplicitare un diritto soggettivo alla prescrizione); un altro è di ordine utilitaristico, che vede nel lungo trascorrere del tempo la perdita dell’interesse dello Stato a punire, stante che non può più invocare la necessità di integrare l’ordine pubblico turbato dal reato.
Sul piano che il diritto chiama di ‘prevenzione speciale’, si considera che il tempo, incidendo anche sulla natura psichica della persona, la trasformi, sicché la pena che arrivi tardi, quando il legame tra autore e fatto è ormai dissolto, colpirà un individuo ormai diverso, sul quale non avrà alcun effetto rieducativo.
Una punizione tardiva rispetto al reato, priva d’una ragione di essere, non può che apparire una vendetta. Salvo che la concezione della pena come controllo sociale non necessiti di un ‘esempio’, del monito ‘puniremo sempre e comunque ogni atto di ribellione sociale’: una scelta integralmente politica che non ha più nulla a che vedere con considerazioni giuridiche. La prescrizione, che costituisce una rinuncia preventiva al potere repressivo dello Stato, non esiste nei paesi anglosassoni ordinati secondo la ‘common law’. La loro memoria giudiziaria è in questo senso assoluta e senza fine. L’oblio lì interviene prima, poiché essi conoscono la discrezionalità dell’azione penale, che pure permette la rinuncia preventiva alla repressione.
Gli USA hanno così chiesto ed ottenuto l’arresto estradizionale, in Svizzera, del regista franco-polacco Roman Polanski, per il reato di rapporti sessuali illeciti con una minorenne.
Per l’ordinamento svizzero, il reato è largamente prescritto, ma la Confederazione si è pecorescamente sottomessa ad un accordo bilaterale con gli Stati Uniti che fa prevalere la legge statunitense, e dovrà estradarlo.

Che c’entra, è presto detto
Il Presidente francese Nicolas Sarkozy, che deve autorizzare la consegna di Sonja e Christian, ha pubblicamente protestato contro l’arresto estradizionale di Polanski, scandalizzandosi del fatto che il giudizio venga dopo 32 anni, quando ormai l’interessato ne ha 76.
Ne ha parlato in un’intervista a Le Figaro il 15.10.09, poi Le Monde del 27.10.09 ha messo in relazione la su affermazione con il caso di Sonja Suder e Christian Gauger.
L’articolo di Le Monde sul caso ripete però un luogo comune che non corrisponde alla realtà storica, poiché dice che le Cellule Rivoluzionarie erano “un’organizzazione vicina alla Rote Armee Fraktion”, mentre in realtà le due formazioni non avevano legami, né organizzativi né politici. Ma erano senz’altro assai poco conosciute fuori dalla Germania.
In un riquadro, Le Monde segnalava ancora che era in preparazione una lettera a Sarkozy. Ora è stata fatta e gli è stata inviata. Eccola.

Lettera aperta indirizzata al Presidente della Repubblica da alcune persone senza qualità né titoli particolari

Signor Presidente della Repubblica,
Lei ha affermato, a proposito dell’affare Polanski: “Pronunciarsi trentadue anni dopo i fatti, ora che l’interessato ha settantasei anni, non è buona amministrazione della giustizia” (Le Figaro del 16.10.2009). In questo enunciato Lei non ha espresso una semplice opinione, ma ha invece richiamato un principio fondamentale del diritto, evocando la necessità imperativa di limiti temporali all’esercizio della giustizia penale, principio affermato ‘in dottrina, norma e giurisprudenza’. Senza il quale, una giustizia che si pretendesse ‘infinita’ diverrebbe una teologia della vendetta.
Sul caso che è all’origine della Sua essenziale messa a punto, è stato scritto, Signor Presidente: “esiste un solo argomento a favore di Polanski, ma decisivo: il tempo…”.
Già il diritto romano considerava che il trascorrere dei decenni estingue progressivamente la turbativa provocata dall’atto originario, “e ciò traduce, in tutte le culture, un più alto principio di civiltà”. Se ci si attiene a questo principio, nessun privilegio quindi, per chicchessia, soltanto ‘una difesa logica, generale, uguale per tutti’.
Converrà, Signor Presidente che evocarlo in un caso per derogarne in seguito l’applicazione in un altro caso sarebbe peggio ancora che ignorarlo.
Orbene, nel momento stesso in cui Lei rilasciava questa dichiarazione, due cittadini tedeschi, Sonja Suder e Christian Gauger, rispettivamente di settantasei e sessantotto anni di età, si vedevano notificare un decreto di estradizione in forza di accuse risalenti a più di trent’anni e riguardanti fatti a carattere politico, sopravvenuti nel contesto dei movimenti sociali radicali degli anni settanta in Germania.
ScrivendoLe, signor Presidente, ci siamo fatti divieto di far valere come argomenti i nostri affetti e i nostri specifici giudizi di valore sui contesti storici e sociali e a fortiori sulle persone: ci siamo imposti di attenerci qui alla sola lettera del diritto.
Con questa decisione che spetta esclusivamente all’esecutivo, lo Stato di cui Lei è il primo magistrato, potrebbe a termine consegnare alla giustizia tedesca due persone in vista di un processo che si svolgerebbe ben al di là dei ‘termini ragionevoli’ richiesti per un ‘processo equo’.
L’estradizione di Sonja Suder e Christian Gauger significherebbe comunque consegnarli a una lunga detenzione preventiva, dal momento che in forza delle disposizioni in vigore in Germania, rimangono pur sempre degli imputati in attesa di giudizio. Ci sembra inoltre importante ricordare che quest’uomo e questa donna hanno già sofferto di questa ‘giustizia che non rinuncia mai’.
Nel 2001 infatti, la Sezione istruttoria della Corte d’Appello di Parigi li ha dichiarati non estradabili poiché la Germania imputava loro fatti prescritti in diritto francese. Ciononostante, questa stessa sezione li ha giudicati estradabili per gli stessi fatti, sulla base della Convenzione di Dublino, appena introdotta, secondo la quale i dispositivi di prescrizione che governano l’estradizione sono ormai quelli del paese richiedente. Orbene, l’applicazione di questa convenzione al caso di Sonja Suder e Christian Gauger calpesta due principi essenziali dei diritto: ‘l’autorità della cosa giudicata’ e il carattere non retroattivo dei testi repressivi allorché essi aggravano la situazione degli imputati.
Non possiamo credere, signor Presidente, che Lei non applicherà a queste due persone il criterio che ha pubblicamente difeso. Tanto più che esse rientrano pienamente nella ‘clausola umanitaria’ prevista dai testi internazionali. Non fosse che per questi due motivi, s’impone l’annullamento dei decreti di estradizione nei confronti di Sonja Suder e Christian Gauger.
Ci sembra inoltre signor Presidente che da questo principio di ‘civiltà giuridica’ che la Francia rivendica, derivi inoltre la decisione di non procedere a nessuna estradizione per fatti risalenti a più di un quarto di secolo.
Ecco quello che volevamo dirLe signor Presidente, noi che siamo oggi inquieti per le minacce che pesano sulla vita di Sonia Suder e Christian Gauger.
La ringraziamo dell’attenzione che vorrà riservare al nostro appello.

Parigi, 5 novembre 2009

Jean-Michel Arberet
Emmannuelle Bastid
Jean-Pierre Bastid
Claire Blain-Cramer
Gilles Berard
François Chouquet
Guido Cuccolo
Claudio Di Giambattista
Aitor Fernández-Pacheco
Claudio Ielmini
Mouloud Kaced
Janie Lacoste
Ezio La Penna
Lucia Martini-Scalzone
Elda Necchi
Isabelle Parion
Claudine Romeo
Luigi Rosati-Elongui
May Sanchez
Oreste Scalzone
Gianni Stefan
Hanlor Tardieu

L’indirizzo email per sottoscrivere la lettera è: contact[at]stopextraditions.info

Il sito per Sonja e Christian: http://sonjachristian.info.


Link
Il faut prendre congé de l’urgence antiterroriste contre le siècle des révolutions
Dall’esilio con furore: cronache dalla latitanza e altre storie di esuli e ribelli
E’ tempo di prendere congedo dall’emergenza contro i rivoluzionari del Novecento

Ora l’Italia s’inventa l’ergastolo virtuale pur di riavere Battisti

Rinviata la decisione del Supremo tribunale federale brasiliano sull’estradizione. Il procuratore Cesar Peluso favorevole a patto che l’Italia rinunci all’ergastolo commutando la condanna a una pena non superiore a 30 anni

Valentina Perniciaro
L’altro
11 settembre 2009

Dopo otto mesi di stallo il “caso Battisti” è approdato nelle aule del Supremo tribunale federale brasiliano, equivalente alla nostre Corte Costituzionale. Su richiesta del governo italiano, nove magistrati dovranno pronunciarsi per decidere se sospendere o meno l’asilo politico concesso a gennaio a Cesare Battisti, ex militante dei Proletari Armati per il Comunismo condannato in contumacia all’ergastolo per quattro omicidi, dal ministro della giustizia brasiliano Tarso Gendro. Il dibattimento non ha portato alla sentenza come ci si aspettava, ma ad una richiesta di sospensione che dia il tempo di esaminare ulteriormente le carte. A data da destinarsi, quindi. battisti01gCesare Battisti non era presente in aula, al contrario del rappresentante del ministero di Grazia e Giustizia Italo Ormanni e dell’ambasciatore italiano in Brasile. Dovessimo prender per buone le parole e l’enfasi della stampa italiana, immagineremmo già Cesare Battisti su un volo per l’Italia, con solide manette ai polsi. Urlano tutti giulivi, starnazzano ad un’estradizione praticamente ottenuta quando la realtà è chiaramente diversa e rivela una partita aperta, ancora tutta da giocare. Degli undici membri originari del Supremo tribunale federale saranno solamente nove quelli a votare: Meneses Direito è infatti scomparso da pochi giorni mentre Cesar de Melo ha deciso di astenersi su questo specifico caso. Dei nove magistrati sono stati otto ad essersi già pronunciati .Quattro a favore della richiesta italiana tra cui il giudice relatore Cezar Peluso, ed altri quattro hanno difeso la concessione dello status di rifugiato politico. Marco Aurelio de Mello, l’ultimo a dichiararsi pro-asilo politico ha fatto richiesta di sospendere il processo. Quello che la stampa italiana tende a non sottolineare e quasi ad occultare completamente è che anche i giudici che hanno votato per l’estradizione, hanno posto delle clausole che non saranno molto facili da gestire per il governo italiano. L’Italia fino a questo momento ha recitato la parte dello spettatore rumoroso ed arrogante; senza dover muovere alcun passo è stata a guardare con polemiche dai toni medievali e dagli atteggiamenti spesso razzisti a cui ormai stanno tentando di abituarci. Ma se l’Italia dovesse vincere questa prima battaglia si troverebbe comunque non poco in difficoltà per riuscire a sottostare alle leggi internazionali. Cezar Peluso, giudice relatore, quello che con più enfasi ha dichiarato di esser favorevole a veder tornare Battisti in Italia ha però posto come requisito minimo che l’ergastolo venga commutato ad una pena non superiore ai trent’anni, visto che in Brasile è stato abolito.
499445fa87604_zoomIeri il ministro degli Esteri Franco Frattini è riuscito a dichiarare: “Spero che la decisione tenga conto del fatto che l’Europa è la culla dei diritti fondamentali e che se accadesse che un cittadino europeo fosse ritenuto rifugiato fuori dall’Europa significherebbe smentire che l’Europa ha una Carta dei diritti fondamentali e che ovviamente nessuno qui può essere torturato, perseguitato, né trattato indegnamente.”  Forse non è stato mai informato delle condizioni che vivono i detenuti in Italia, schiacciati da un sovraffollamento unico in Europa e dalle discriminazioni razziali ormai sancite con il nuovo pacchetto sicurezza, testo di legge che dovrebbe almeno farci stare silenziosi su come “trattiamo degnamente” le persone. C’è una differenza di fondo tra il Brasile e questo nostro starnazzante paese: nel rovesciare la dittatura, loro, hanno rivoluzionato anche il sistema penale, abolendo la pena di morte e l’ergastolo perché non rispettosi dei diritti umani fondamentali. E’ incostituzionale una condanna che porti scritto sopra “Fine Pena Mai”, è inconcepibile la ghigliottina legalizzata che nella nostra società appare così normale. Ma d’altronde siamo un paese che, nel rovesciare la propria dittatura, non ha sentito l’esigenza di cambiare anche il proprio codice penale: i nostri giudici sentenziano tuttora con il Codice Rocco tra le mani, non c’è altro da dire. Commutare l’ergastolo di Battisti con una pena inferiore ai trent’anni. Come faranno? Se riuscissero ad ottenere la sua estradizione si riaprirebbero le richieste anche per tutti gli altri militanti della lotta armata italiana rifugiati per la maggior parte in Francia, di cui molti ergastolani. Tolgono l’ergastolo a tutti? E chi, e non sono pochissimi, tra gli ex militanti delle Brigate Rosse sta ancora scontando la pena dopo 32 anni di carcerazione? Anche i loro di ergastoli cancelliamo o continueremo a non concedergli nemmeno la condizionale? Ministri e deputati, giudici e magistrati,  giornalisti e parolai che già cantano vittoria in attesa di brindare attorno al nuovo corpo in catene che rientra in patria, inizino a pensare come gestire questo cavillo non da poco posto dai colleghi sudamericani.

Link

Le consegne straordinarie degli esuli della lotta armata

Caro Lula, in Italia di ergastolo si muore

Caso Battisti fabula do ergastolo
Governo italiano so obtem-extradicoes
Estradizione Cesare Battisti, la menzogna dell’ergastolo virtuale

Cesare Battisti, un capro espiatorio
Brasile, rinviata la decisione sull’estradizione di Battisti
Brasile: niente asilo politico per Cesare Battisti
Il Brasile respinge la richiesta d’estradizione di Battisti, l’anomalia è tutta italiana
Scontro tra Italia e Brasile per l’asilo politico concesso a Battisti

Tarso Gendro: “L’Italia è chiusa ancora negli anni di piombo”
Crisi diplomatica tra Italia e Brasile per il caso Battisti richiamato l’ambasciatore Valensise
Stralci della decisione del ministro brasiliano della giustizia Tarso Genro
Testo integrale della lettera di Lula a Napolitano
Caso Battisti: una guerra di pollaio
Dove vuole arrivare la coppia Battisti-Vargas?
Risposta a Fred Vargas
Corriere della Sera: la coppia Battisti Vargas e la guerra di pollaio

Storia della dottrina Mitterrand
Dalla dottrina Mitterrand alla dottrina Pisanu
La fine dell’asilo politico
Vendetta giudiziaria o soluzione politica?
Il caso italiano: lo stato di eccezione giudiziario
Giorgio Agamben, Europe des libertes ou Europe des polices?
Francesco Cossiga, “Eravate dei nemici politici, non dei criminali”
Francesco Cossiga, “Vous étiez des ennemis politiques pas des criminels”
Tolleranza zero, il nuovo spazio giudiziario europeo
Il Nemico inconfessabile, sovversione e lotta armata nell’Italia degli anni 70
Il nemico inconfessabile, anni 70
Un kidnapping sarkozien

La Francia rinuncia all’estradizione di Marina Petrella

La Francia ha deciso di scarcerare Marina Petrella
Scalzone, “Quando si parla di confini dell’umanita vuol dire che se ne sta escludendo una parte”
Marina Petrella ricoverata in ospedale ma sempre agli arresti
La vera impunità è la remunerazione dei pentiti
Peggiorano le condizioni di salute di Marina Petrella
Lettera da Parigi della figlia di Marina Petrella
Marina Petrella sarà estradata, addio alla dottrina Mitterrand

Brasile, rinviata la decisione sull’estradizione di Battisti

Il relatore del Tribunale supremo del Brasile si pronuncia per l’annulamento dell’asilo politico concesso a Battisti e ne chiede l’estradizione a patto che l’Italia commuti l’ergastolo ad una pena non superiore a 30 anni. Il Brasile infatti non riconosce la pena dell’ergastolo abolita dal proprio codice penale dopo l’uscita dalla dittatura fascista

Una richiesta che mette in seria difficoltà l’Italia. Il ministro degli esteri Frattini e quello della Difesa La Russa, che vantavano i meriti del nostro sistema giudiziario immacolato (salvo quando si occupa di Berlusconi), sono in difficoltà. L’Italia infatti non è disposta ad accogliere una richiesta del genere che inevitabilmente, in ragione del principio di eguaglianza del trattamento, aprirebbe un contenzioso sull’abolizione di questa pena, per altro già prevista nel dettato costituzionale

Insomma l’Italia è sempre più in un vicolo cieco

Paolo Persichetti
Liberazione 11 settembre 2009

Nonostante l’euforia con la quale molti quotidiani italiani, Repubblica in testa, hanno dato per certa l’imminente estradizione di Cesare Battisti, dopo l’udienza tenutasi mercoledì scorso davanti al tribunale supremo brasiliano (l’equivalente della nostra corte costituzionale), la complessa partita politico-giudiziaria che si sta giocando attorno alla vicenda è ancora tutta aperta. ALeqM5igDSk4Oj0Y4UD4b8FwQtlVQjYD1A
Dopo 11 ore di discussione la corte si è aggiornata rinviando ogni decisione a data da destinarsi. Il presidente Gilmar Mendes ha accolto la richiesta di sospensione avanzata del giudice Marco Aurélio Mello. Oltre al merito, infatti, sono state affrontate numerose opzioni procedurali. Nel corso del primo giro di votazioni la corte si è spaccata: il relatore Cezar Peluso e altri tre giudici hanno votato per l’annullamento dell’asilo politico riconosciuto dal ministro della giustizia Tarso Gendro. A loro avviso la scelta di concederlo sarebbe stata infondata perché i reati ascritti a Battisti (condannato a due ergastoli per la sua militanza nella lotta armata nei lontani anni 70) non sarebbero politici ma di «dritto comune». Tuttavia, poiché il Brasile dopo la dittatura militar-fascista ha abolito l’ergastolo dal suo codice penale, il relatore ha legato l’eventuale via libera per l’estradizione all’accoglimento da parte italiana di una clausola che prevede la commutazione dell’ergastolo ad una pena non superiore ai 30 anni.
Joaquim Barbosa e altri due giudici hanno invece difeso la concessione dello status di rifugiato, replicando che sarebbe stato assurdo smentire la politicità dei reati attribuiti a Battisti perché riconosciuta dalla stessa giustizia italiana attraverso l’applicazione di specifiche aggravanti di pena. Ai tre, che hanno anche censurato l’arroganza del governo italiano e le dichiarazioni razziste di alcuni ministri nei confronti del Brasile, trattato alla stregua di una repubblica delle banane, si è aggiunta la posizione più sfumata di Mello.
Quattro contro quattro insomma. Mancavano due membri del collegio, il giudice Menezes Direito deceduto da pochi giorni, ferocemente convinto dell’estradizione di Battisti. In attesa che riacquistasse le forze il presidente del tribunale aveva appositamente rinviato per mesi la discussione del caso, con la segreta speranza di potersi avvalere del suo voto. L’altro magistrato, Celso de Melo, si è pilatescamente tirato fuori dalla contesa. Ago della bilancia potrebbe essere il Presidente Mendes che mercoledì ha preferito non votare, sempre che non si decida di escludere dal voto il relatore, come proposto da alcuni. Mendes, uomo della destra e gran rivale di Lula, è uno dei capofila del partito dell’estradizione, molto sensibile alle pressioni del governo italiano. Terminata la pausa di riflessione, se non ci saranno nel frattempo cambiamenti, l’aritmetica farà il suo corso sfavorevole a Battisti. Se permanesse invece una situazione di parità, dovrebbe prevalere il principio del favor rei.
499e6d2fc191c_zoomQuello che stampa, mondo politico ed esponenti della vittimocrazia italiana omettono di raccontare, è che l’eventuale annullamento dell’asilo politico avrà come unico effetto immediato la riapertura della procedura d’estradizione, sospesa proprio in virtù della copertura fornita dallo status di rifugiato. Insomma non vedremo affatto Battisti manette ai polsi arrivare in Italia, per la delusione del ministro Frattini e del suo collega La Russa, che un po’ di diritto penale comparato e qualche convenzione internazionale potrebbero pure studiarli. In ogni caso la decisione finale – sempre che la magistratura non dichiari irricevibile la richiesta d’estradizione (va ricordato che il mancato riconoscimento dell’asilo politico non inficia minimamente la possibilità di rifiutare una domanda d’estradizione) – spetta in ultima istanza a Lula.
Non è chiaro cosa farà il presidente brasiliano, negli ultimi tempi sembra che per ragioni di politica interna e d’opportunità internazionale abbia ammorbidito la sua posizione e si sia fatto più ricettivo rispetto alle posizioni italiane, nonostante la loro fastidiosa invasività. La stessa scrittrice Fred Vargas, nume tutelare di Battisti, si è fatta portavoce nelle ultime ore di questi timori legati al mutare degli equilibri interni al governo brasiliano, alla necessità per Lula di avvalersi del sostegno elettorale di un ministro rivale di Gendro. Certo la scrittrice poteva pensarci prima. È lei una delle responsabili della disastrosa linea difensiva sempre portata avanti. Per l’Italia, comunque vada, la vicenda Battisti sarà una grosso problema. Con la sua ostinata insistenza si è cacciata in un vicolo cieco. Figuraccia internazionale se il Brasile dovesse alla fine negare l’estradizione, confermando il giudizio pessimo che già in sede internazionale viene espresso nei confronti del suo sistema penale e penitenziario. Sono ben sette i paesi al mondo che nel corso degli ultimi decenni hanno rifiutato l’estradizione di militanti politici degli anni 70. Tra questi, oltre alla Francia della dottrina Mitterrand, c’è stata anche la Gran Bretagna. In caso contrario, l’Italia dovrebbe mettere mano alla pena dell’ergastolo per Battisti adeguandosi a quei parametri internazionali di civiltà giuridica che da noi fanno difetto. A quel punto si porrebbe il problema degli oltre 1400 ergastolani d’Italia, e degli altri detenuti politici in carcere da oltre 30 anni. La disponibilità espressa a suo tempo dal ministro Mastella venne travolta dalla reazione della lobby vittimocratica. A differenza del Brasile, il nostro sistema politico non ha avuto la nitidezza di liberarsi delle eredità della dittatura fascista, di cui conserviamo ancora un codice penale addirittura irrigidito dalle leggi dell’emergenza.

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Il Patto dei Bravi

Tratto da Esilio e Castigo. Retroscena di una estradizione, La citta del sole, 2005


Capitolo II

Il Patto dei Bravi

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È in quel torbido contesto di grave crisi politica e di forte pregiudizio istituzionale che prese forma l’idea di un coup de théatre risolutore. Un gioco di prestigio, un effetto illusionistico, un trompe l’oeil che potesse risollevare le sorti delle istituzioni (e di alcune poltrone), saldando dietro una ritrovata unità emergenziale maggioranza e opposizione, ridando nel contempo lustro e smalto agli investigatori e alla magistratura. Occorreva insomma, subito un colpevole. Un responsabile di sostituzione cui far indossare gli abiti del reo. Un vero capro espiatorio attorno al quale celebrare la catarsi della ritrovata unità nazionale e del trionfo delle istituzioni, il festino di una baldanzosa e tronfia maggioranza che potesse finalmente levare i calici al cielo. Come poi avvenne in una delle dimore estive del premier in Costa Smeralda tra una barzelletta del Cavaliere e una sonata d’Apicella. L’episodio viene così raccontato in una cronaca apparsa sulla Repubblica del 26 agosto 2002:

«La notizia arriva sabato sera a cena, nella villa del premier, e c’è tanta soddisfazione che parte anche un accenno di applauso al tavolo in cui accanto a Berlusconi siedono il ministro Pisanu, il ministro Stanca, con relative consorti, fra il portavoce Bonaiuti, la moglie e la mamma del Cavaliere. Il capo della polizia telefona al titolare del Viminale, e Pisanu dà in diretta l’annuncio: arrestato il brigatista Persichetti, latitante per l’omicidio Giorgieri. La cena a Villa Certosa, che poi si trasformerà in un vertice sulla sicurezza quando Pisanu e Berlusconi si appartano, diventa così un’occasione per festeggiare il successo delle forze di polizia. Soddisfazione che si allarga poi alla pattuglia di una decina di fedelissimi che, attorno alle 23, si presentano a Punta Lada per unirsi alla compagnia: il capo dei deputati europei di Forza Italia Tajani, il vicecapogruppo alla Camera Cicchitto, il responsabile giustizia Gargani, il sottosegretario Viceconte. Per chiudere in bellezza spunta anche la chitarra di Mariano Apicella, musica e canzoni fino a mezzanotte e mezza. Ministro degli Interni escluso: “sono stonato e non ho mai cantato nella mia vita, salvo quando il parroco del mio paese mi scelse per il coro ma solo perché ero arrivato primo al corso di catechismo”».

Il tornaconto sarebbe stato cospicuo per molti: il governo che, vantando uno strepitoso successo, poteva far dimenticare le parole “dal senno uscite” di un suo ministro; i vertici del Viminale che avrebbero potuto così scaricare la loro inettitudine professionale (la burocratica banalità del male?) su un colpevole prefabbricato; la magistratura che sarebbe finalmente tornata all’onore delle cronache potendo imbastire i suoi consueti e deliranti teoremi inquisitori (la «centrale francese»); l’opposizione che avrebbe liberato da una posizione compromettente uno dei suoi uomini più in vista e più ambiziosi.

Una vera soluzione bipartisan, o forse sarebbe più opportuno dire ecumenica, essendo la liturgia rispettata alla lettera grazie alla presenza dell’agnello sacrificale. Fu così che nella fresca alba alpina del 25 agosto 2002 Paolo Persichetti venne scambiato nel tunnel del Monte Bianco. Metafora di un accordo sotterraneo, siglato al di fuori d’ogni trasparenza, nelle stanze buie del potere e per questo concluso nel ventre della terra, lontano dalla luce del sole, distante dal chiarore del giorno, dopo una folle corsa nella notte. Bisognava fare presto, il più presto possibile, prima che la Francia potesse svegliarsi. Mandanti ed esecutori di quel ratto avevano troppe cose da farsi perdonare. Agire in modo furtivo, creare una situazione immodificabile, mettere tutti di fronte al fatto compiuto, erigere un muro che impedisse ogni marcia indietro, era il requisito indispensabile per condurre a termine quell’azione fraudolenta. Un patto tra bravi veniva presentato come un accordo di giustizia, l’anticipazione sinistra di quel che sarà la quotidiana routine dello spazio giudiziario europeo: un mare aperto alle incursioni corsare di pirati e filibustieri di Stato. Per giorni interi le redazioni dei media colmarono l’annoiato vuoto agostano di notizie, trasformando l’episodio in un evento mediatico sottoposto a un proluvio di titoli d’apertura e di commenti. Tromboni e trombette declamarono affrettati giudizi e incaute sentenze, confortati da veline e indiscrezioni diramate con un’accorta regìa. Nulla si è mai sostanziato delle mille chiacchiere, invenzioni, illazioni, brusii e rumori che il cicaleccio inquisitorio aveva sapientemente diffuso per giustificare le sue mosse.

Ma facciamo un passo indietro. Le carte giudiziarie fino ad ora rese note dicono che l’interesse degli inquirenti nei confronti di Persichetti si concentra nel luglio 2002. Il suo rientro in Italia è solo pretestuosamente legato all’esecuzione del decreto d’estradizione riattivato dopo otto anni. All’indomani della sua consegna alle autorità italiane, il ministro degli Interni francese, Nicolas Sarkozy, dichiara (Le Monde del 28 agosto) che «dopo l’assassinio di Marco Biagi il governo italiano ha chiesto ai paesi europei di essere particolarmente vigilanti nei confronti dei vecchi membri delle Brigate rosse». Le autorità francesi hanno acconsentito alla consegna di Persichetti credendo di agevolare le indagini sull’attentato Biagi che secondo la procura di Bologna convergevano sulla sua persona. Prova ne è la richiesta di intercettazione telefonica e di individuazione del 25 luglio, nella quale si afferma che esistono «sufficienti elementi indiziari per ipotizzare che Persichetti Paolo e Oreste Scalzone siano attualmente inseriti nel sodalizio eversivo che ha rivendicato l’omicidio del prof. Biagi»[1], e la successiva richiesta di rogatoria del 23 agosto, precedente di un giorno all’arresto. Altra circostanza determinante è la presenza al momento del fermo di una funzionaria della digos aggregata al “gruppo di lavoro su Marco Biagi”[2]. Paradossalmente, non essendo stata constata alcuna irregolarità al momento della cattura ed essendo solare la sua vita francese, l’unica possibilità che restava per proseguire l’indagine era il ripescaggio del vecchio decreto d’estradizione firmato da Edouard Balladur nel settembre 1994[3].

Un provvedimento fino allora mai eseguito anche per l’intervento diretto del presidente della Repubblica francese François Mitterand, che nel gennaio 1995 richiamò l’attenzione del guardasigilli Pierre Méhaignerie sull’inusuale durata della detenzione di Persichetti in una procedura d’estradizione (14 mesi passati nella maison d’arrêt della Santé)[4], ribadendo indirettamente quanto affermato in un discorso tenuto di fronte alla Lega dei Diritti dell’Uomo, il 20 aprile 1985: «Ho detto al governo italiano che[…] questi italiani erano al riparo da ogni sanzione per via d’estradizione»[5]. Ed è qui che emerge la prima clamorosa irregolarità di tutta la vicenda: la violazione dell’articolo 14 della convenzione europea sulle estradizioni, meglio conosciuto come “principio di specialità”. Secondo questa norma, «la persona estradata non può essere perseguita, giudicata, arrestata per un qualsiasi fatto anteriore alla sua consegna, diverso da quello che ha dato luogo all’estradizione»[6]. Per poter sottoporre Persichetti ad una indagine sull’attentato Biagi e dunque fargli subire quell’infinita serie di atti procedurali invasivi della sfera personale, come i ripetuti sequestri, i relativi accertamenti, gli interrogatori, l’iscrizione nel registro degli indagati con l’inevitabile corollario di inasprimenti penitenziari, l’autorità giudiziaria italiana avrebbe dovuto emettere contro di lui un nuovo mandato d’arresto internazionale, sostanziandolo con cospicui elementi di prova, e sulla base del quale poter chiedere un’estensione dell’estradizione. La Francia a questo punto, però, avrebbe dovuto valutarne il fondamento. Tutto ciò, ovviamente, non è mai avvenuto anche perché le norme internazionali sono diventate carta straccia; perché la magistratura italiana non ha mai avuto in mano il benché minimo indizio da presentare ad una giurisdizione straniera.

La Francia conosceva le reali intenzioni degli italiani ma sarebbe stato imbarazzante esigere una nuova richiesta di estradizione di fronte a un dossier vuoto. Una volta investita, la magistratura d’oltralpe avrebbe potuto esprimere parere negativo, mettendo in difficoltà il governo di destra appena installato. E così l’estradizione per un residuo pena vecchio di quindici anni è servita da copertura ad un tacito accordo tra Stati che ricorda molto da vicino l’omertà dei patti mafiosi.


[1] La richiesta d’intercettazione e analisi del traffico telefonico pregresso viene giustificata nei termini seguenti, in un rapporto della DIGOS di Bologna, Cat.A4/02/DIGOS/3^sez., del martedì 23 luglio 2002: «Nell’ambito delle indagini di cui all’oggetto, questo ufficio ha focalizzato l’attenzione investigativa sui brigatisti latitanti che hanno trovato rifugio in Francia. Gli approfondimenti investigativi esperiti hanno consentito di individuare, oltre ai noti DI MARZIO Maurizio e SCALZONE Oreste, per i quali è già stata richiesta l’autorizzazione all’intercettazione del traffico telefonico diretto dall’Italia alle rispettive utenze francesi, anche il brigatista PERSICHETTI Paolo, in oggetto generalizzato, attualmente latitante[…]. Il PERSICHETTI, appartenente alle BR-UdCC, condannato per l’omicidio GIORGIERI, è soggetto storicamente legato a SCALZONE grazie al quale è riuscito a rifugiarsi in Francia. Come già segnalato nelle precedenti note, dai servizi tecnici attualmente in atto è emerso che il sopramenzionato Oreste SCALZONE è risultato essere in contatto con l’utenza intestata a un noto pregiudicato bolognese [trattasi di un suo vecchio amico, ex militante di Potere operaio, finito in carcere negli anni 70. N.d.A.].

La circostanza segnalata sembra rivestire particolare interesse investigativo, considerato che sembra ragionevole ipotizzare che l’evento criminoso oggetto di indagine possa essere stato consumato solo con l’ausilio di persone gravitanti nell’ambiente eversivo bolognese, che verosimilmente devono aver fornito l’appoggio al gruppo di fuoco[…].

Nell’ambito di tale attività investigativa si è appreso che PERSICHETTI Paolo ha la disponibilità di un’utenza cellulare francese[…], tramite la quale probabilmente mantiene i contatti con le persone a lui collegate e residenti in Italia. Premesso quanto sopra:

– ritenuto che vi siano sufficienti elementi indiziari per ipotizzare che PERSICHETTI Paolo e SCALZONE Oreste siano attualmente inseriti nel sodalizio eversivo che ha rivendicato l’omicidio del prof. BIAGI;

– Atteso che con il traffico pregresso dell’utenza cellulare in uso al PERSICHETTI si potrà verificare se lo stesso abbia mai fatto ritorno in Italia e quali contatti abbia comunque avuto in occasione dell’omicidio del Prof. Marco BIAGI[…]».

L’autorità giudiziaria dispone il decreto d’intercettazione il successivo giovedì 25 luglio 2002. L’intercettazione prende avvio venerdì 26 luglio.

Il 24 luglio una seconda nota Digos precisa meglio i termini della questione: «Di seguito alla richiesta d’intercettazione di cui all’oggetto, si comunica che l’ufficiale di collegamento della DCPP (Direzione centrale della polizia di prevenzione) a Parigi ha segnalato che il governo francese ha mutato l’orientamento riguardo alla posizione del brigatista latitante PERSICHETTI Paolo, colpito da ordine d’esecuzione pena[…]. Provvedimento per cui era già stata concessa l’estradizione, tuttavia mai eseguita a causa di direttive del Ministero di Grazia e Giustizia che di fatto ne impedivano la materiale esecuzione. Alcuni giorni orsono, tuttavia, lo stesso ministero francese ha ufficialmente fatto conoscere che non si opporrà all’esecuzione del provvedimento restrittivo, e alla successiva consegna all’Autorità Giudiziaria italiana, del predetto PERSICHETTI, qualora questi venga localizzato e catturato in territorio francese».

In un rapporto del 9 gennaio 2003, a firma del commissario capo della Divisione nazionale antiterrorismo della polizia francese, Fréderic Veaux, indirizzato al giudice istruttore Jean-Louis Bruguiere, subdelegato per la rogatoria internazionale del 23 agosto e 26 settembre 2002, inviata dalla procura di Bologna, viene ulteriormente chiarita quest’ultima circostanza. Si spiega, infatti, che il decreto d’estradizione emesso dalle autorità francesi il 7 settembre 1994 è stato: «reso applicabile dalla decisione del ministro della Giustizia, guardasigilli, il 18 luglio 2002». Dunque, cinque giorni prima del decreto d’intercettazione disposto dalla procura di Bologna. Ora un tale provvedimento, di natura complessa, non può che aver richiesto un intenso lavorio di preparazione e contatti ad alto livello, tra le due autorità e i rispettivi uffici tecnici di collegamento.  Un’attività che deve aver preso del tempo, forse delle settimane. Insomma Persichetti era sulla linea di mira degli inquirenti da molto prima, a dimostrazione del fatto che il suo coinvolgimento nelle indagini non è stato la conseguenza di risultanze investigative ma di un manifesto pregiudizio accusatorio.

[2] Di fronte ai tre anni d’impasse che avevano caratterizzato l’inchiesta D’Antona, l’uccisione di Biagi spinge i vertici del ministero dell’Interno a mutare strategia. Le indagini non vengono più affidate alla digos competente per territorio, ma viene costituita una speciale squadra investigativa mista, denominata «gruppo di lavoro su Marco Biagi», composta da personale delle digos di Bologna e Milano, a cui vengono aggiunti uomini delle squadre mobili provenienti anche da altre città, sotto la direzione di un funzionario ritenuto un uomo di fiducia del capo della polizia.

[3] Impegno confermato, il 4 marzo 1998, dal primo ministro Lionel Jospin in questi termini: «Il mio governo non ha l’intenzione di modificare l’atteggiamento tenuto dalla Francia fino ad ora. Per questo non ha dato e non darà seguito ad alcuna domanda d’estradizione dei fuoriusciti italiani che sono venuti nel nostro paese[…] a seguito di atti di natura violenta d’ispirazione politica repressi nel loro paese».

[4] In una lettera del 17 gennaio 1995, inviata a l’abbé Pierre che gli aveva segnalato la vicenda, François Mitterand si esprimeva in questo modo: «Lei ha voluto attirare la mia attenzione sulla situazione del Signor Paolo Persichetti. Convengo, con lei, che la durata della sua incarcerazione raggiungerà molto presto un anno e mezzo, allorché essa non può essere assimilata ad una detenzione provvisoria, trattandosi di una procedura d’estradizione in corso d’esame. Ho dunque chiesto al Guardasigilli di seguire con particolare attenzione questa situazione, affinché si dia luogo ad una stretta applicazione delle regole nazionali e internazionali che vigono sulla materia». Nel sistema giudiziario francese le procure della Repubblica dipendono gerarchicamente dal ministero della giustizia. Per questo motivo l’avocat général, ovvero il pubblico ministero d’aula presente nel corso delle numerose udienze della chambre d’accusation che si occupò della procedura d’estradizione, assunse un atteggiamento rigidissimo, sulla base di specifiche indicazioni scritte, inviate dalla Chancellerie del ministero della Giustizia, che traducevano la nuova linea politica del governo Balladur: accettazione completa della richiesta d’estradizione italiana, incluso per la prima volta anche il reato associativo; opposizione sistematica alla rimessa in libertà, nonostante l’imputato soddisfacesse di gran lunga tutte le garanzie richieste, come un lavoro e un’abitazione. In un tale contesto l’intervento di Mitterand fu un elemento di compensazione e d’equilibrio nei confronti delle pressioni politiche sfavorevoli a Persichetti. Lo zelo e l’identificazione con la politica oltranzista dell’esecutivo conservatore era tale che l’avocat général reagì in modo furibondo all’annuncio della missiva del presidente della Repubblica

[5] Impegno confermato, il 4 marzo 1998, dal primo ministro Lionel Jospin in questi termini: «Il mio governo non ha l’intenzione di modificare l’atteggiamento tenuto dalla Francia fino ad ora. Per questo non ha dato e non darà seguito ad alcuna domanda d’estradizione dei fuoriusciti italiani che sono venuti nel nostro paese[…] a seguito di atti di natura violenta d’ispirazione politica repressi nel loro paese».

[6] La norma della convenzione non preclude solo la possibilità di pregiudicare la libertà personale, ma anche ogni altra eventuale intenzione di «perseguire e giudicare», in assenza di una esplicita e specifica estensione dell’estradizione alle nuove imputazioni. L’impossibilità di perseguire e giudicare implica il divieto di adempiere ad atti istruttori, siano essi preliminari o successivi, dunque anche la semplice iscrizione nel registro degli indagati, i relativi decreti di perquisizione e di sequestro, anche se realizzati attraverso l’ausilio di rogatorie internazionali, le ricognizioni, gli interrogatori sotto qualsiasi forma. La norma internazionale prevale su quella nazionale, e ciò a maggior ragione all’interno di quello “spazio giudiziario europeo” che ha come ambizione di giungere ad una omogeneizzazione delle norme e delle prassi giudiziarie. Esigenza che, a quanto pare, vale solo se contra reo. Nel codice di procedura penale italiano, infatti, l’interpretazione del principio di specialità, appare in netto contrasto con quanto prescrive il testo della convenzione europea sulle estradizioni, del 13 dicembre 1957. L’articolo 699 legittima la possibilità di condurre indagini, e dunque di poter realizzare una vasta gamma di atti coercitivi e invasivi sulla persona. Secondo la norma italiana, infatti, ad essere vietata è unicamente «la restrizione della libertà personale o l’assoggettamento ad altre misure restrittive».

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